affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

09 luglio, 2015

Scala : fra un buh e l’altro…

 

Di questo Otello (solo un dettaglio insignificante: è quello di Rossini!) dopo le prime due recite non si sente dire un gran bene: la prima contestatissima (ma potrebbe essere il ritorno di una tradizione scaligera che recentemente aveva un poco latitato) e la seconda così-così, almeno a leggere recensioni e commenti. Insomma, ci sarebbe da preoccuparsi per chi, come il sottoscritto, si appresta ad assistervi fra qualche giorno. (Però io sono convinto, e spero proprio di non sbagliarmi nemmeno stavolta, che l‘arte di Rossini stia al di sopra di ogni possibile tradimento; così continuo ad immaginare di vedere – no, come minimo di ascoltare - prossimamente un Otello per lo meno non denunciabile per truffa, ecco.)

Nel frattempo parliamo un po’ di imprestiti: strumento di abituale impiego per Rossini (ma non solo per lui) allorquando si trattava di produrre musica a tambur battente e mancava il tempo per inventarne di nuova. Così si scopiazzava, o si prendeva proprio di peso, musica già pronta e la si impiegava per fini anche diversi e persino opposti a quelli per i quali era stata composta. Il numero di auto-imprestiti rossiniani è davvero enorme e Otello non fa eccezione, presentando nel corpo dell’opera tre casi specifici, che richiamerò sommariamente alla fine.

Ma vorrei invece porre l’attenzione su quelli che riguardano le 9 Sinfonie/Ouverture di opere presentate nei poco più di 3 anni compresi fra il dicembre 1813 (Aureliano) e il gennaio 1817 (Cenerentola): poiché in esse troviamo attinenze dirette (Turco e Sigismondo) o indirette (puramente temporali) con Otello. Subito prima del Turco (dal quale germoglierà Sigismondo e da qui Otello) Rossini aveva presentato appunto l’Aureliano, la cui Sinfonia (che richiama temi dell’opera) fu poi re-impiegata tal quale in Elisabetta e Barbiere (che si collocano temporalmente fra Sigismondo ed Otello). Sempre in questo lasso di tempo Rossini compone Torvaldo, che alimenterà parzialmente la Sinfonia della Gazzetta (secondo tema, in LA maggiore nell’esposizione e RE nella ripresa, trasposto a SIb e MIb nella Gazzetta); la quale Sinfonia verrà poi impiegata tal quale per la successiva Cenerentola.

Lo schema che segue intende mostrare in forma grafica questi imprestiti (i colori e le frecce - continue o spezzate - rappresentano impieghi parziali o totali):


Come si può notare, 6 Sinfonie su 9 sono frutto di copiature integrali o di parziali imprestiti da altre: una vera e propria moltiplicazione di pani e pesci! 

Veniamo adesso all’Otello e alla genesi della relativa Sinfonia (si veda lo schema riportato più sotto). Tutto nasce dal Turco e in particolare dalla sua Introduzione in RE maggiore e in tempo Adagio la quale - con il suo tema (TI) - verrà riproposta, con due varianti sostanziali (il tempo accelerato ad Andante e l’assolo in FA-RE del corno trasferito all’oboe e arricchito nella cadenza) nel Sigismondo e da qui trasportata pari-pari nell’Otello.

La struttura delle tre Sinfonie è sempre la stessa: un tempo in forma-sonata privo di sviluppo. Quindi, dopo l’Introduzione (Adagio o Andante) abbiamo, sempre in Allegro o Allegro vivace, l’Esposizione di due temi (il primo nella tonica RE, il secondo nella dominante LA) entrambi seguiti dai rispettivi crescendo, il primo dei quali si conclude con una serie di quarte ribattute, che ritroviamo nelle tre Sinfonie. La Ripresa ripresenta entrambi i temi nella stessa tonalità (in ossequio ai canoni della forma-sonata). Una Coda, variamente basata sul tema TI dell’Introduzione, chiude i tre brani.

Le differenze principali fra questi riguardano i contenuti. Nel Turco vengono esposti e poi ripresi due temi, dei quali il primo (TT1) è originale, mentre il secondo altro non è se non il TI (Introduzione) arricchito da svolazzi di flauti e oboi e da un bellissimo intervento della tromba. Anche il secondo crescendo si basa su TI. La Ripresa si struttura diversamente (è abbreviata) dall’esposizione, in quanto ripresenta TT1, ma senza il suo crescendo (CT1) né quindi le quarte ribattute: si passa direttamente al tema TI e al relativo crescendo (CT2).

Il Sigismondo comporta una radicale rivisitazione (salvo l’Introduzione) dei contenuti tematici del Turco. Infatti vengono esposti (e poi ripresi) due nuovi temi (TS1 e TS2, quest’ultimo mutuato da TI) con i relativi crescendo (CS1, in cui appare TI, e CS2). Dopo una diversa transizione (che rispetto al Turco non ha gli stessi chiari riferimenti alla coda dell’Introduzione) la Ripresa, a parte la tonalità uniforme, rispecchia assai fedelmente la struttura dell’Esposizione.

L’Otello mutua in pieno la struttura e in gran parte i contenuti del Sigismondo. A parte scostamenti nella strumentazione (qui ignorati per semplicità di analisi) la differenza fondamentale è rappresentata dal secondo tema (TO) che sostituisce il TS2, mantenendone però il successivo crescendo (CS2); inoltre il primo crescendo (CS1) non presenta gli incisi TI. Difficile legare la sostituzione del secondo tema del Sigismondo con uno nuovo per Otello a specifiche esigenze estetiche legate alla nuova opera, dal momento che anche questo motivo (come gli altri) non vi comparirà più: forse l’averlo già proposto nel finale del prim’atto dell’Elisabetta, oppure chissà, forse Rossini si ritrovò a Napoli con qualche ora di… imprevista libertà, e così impiegò il tempo per inventare un nuovo tema, tanto per rompere la monotonia.

Come detto, la tre Code si basano su TI, ma sono di diversa ampiezza (decrescente dal Turco all’Otello).

Chi vuole approfondire con i suoni può seguire le tre Sinfonie su youtube, con i minutaggi riportati in tabella: Turco, Sigismondo, Otello.


Per chiudere, solo un cenno ai tre auto-imprestiti che compaiono nel corpo dell’opera: il primo riguarda il duetto Desdemona-Emilia (Quanto son fieri i palpiti) dell’atto I, derivato da Se libertà t’è cara da Aureliano (atto II, duetto Aureliano-Zenobia); il secondo riguarda la cabaletta L’ira d’avverso fato (Otello-Jago, atto II) che deriva da quella del Duca Ordow (Ah, qual voce) nel second’atto di Torvaldo; infine (atto III, duetto Desdemona-Otello, Non arrestare il colpo) Rossini richiama due volte e poi sviluppa il famoso tema della Calunnia dal Barbiere (questo imprestito fu però successivamente sconfessato dallo stesso Autore, a seguito della popolarità acquisita dal Barbiere, che era invece ancora sconosciuto nella Napoli del 1816).

04 luglio, 2015

Un Moro qualunque alla Scala

 

Franza o Spagna, purchè… (Pereira prego, completi pure lei). Tradotto nella fattispecie: di Verdi o di Rossini, sempre un Otello è, o no, che ‘vve frega? Quindi perché inalberarsi se, invece del primo annunciato, si dà il secondo ripiegato? Dopotutto siamo alla Scala oh, mica nel più importante teatro del mondo!

Ma certamente a qualcuno (il sottoscritto non escluso) avrà fatto immenso piacere che la Scala – quasi senza volerlo - abbia riproposto un Otello… retrocesso: sì, certo, retrocesso perché sconfitto (per KO, nemmeno ai punti!) da quello del Giuseppe da Roncole (favorito peraltro da uno sfacciato fattore-campo che si chiamava Arrigo Boito!) ma pur sempre un’opera di livello assoluto, che meriterebbe di stare in A1 (o A2, vero, Scala?) a vita.

Si suole indicare come lato debole dell’opera il libretto del Marchese Francesco Berio di Salsa (in origine Salza). Si parlò ai tempi (Byron, Stendhal) e si parla ancor oggi di un Otello illegittimo, un Otello napoletano, quindi un Otello… taroccato (Salvini, da quel buon illetterato che è, potrebbe imbastirci su una teoria secessionista).

Ma in realtà le cose non stanno proprio così. Intanto perché il librettista, lungi dall’essere un ingenuo ignorante, aveva nella sua biblioteca una messe di pubblicazioni in diverse lingue delle opere di Shakespeare, che quindi doveva conoscere assai bene. Poi perché tra fine ‘700 e inizio ‘800 l’accoglienza di Otello (e del suo autore in generale) fuori da Albione era stata tutt’altro che entusiastica, tanto da consigliare pesanti adattamenti al testo. In Francia Jean-François Ducis aveva presentato una sua versione (che influenzerà non poco il libretto berio-rossiniano) dove Jago veniva retrocesso da personificazione del male a semplice cattivone di passaggio; dove persino la pelle di Otello veniva rischiarata (Michael Jackson ante-litteram) da nera a olivastra; dove il fazzoletto di Desdemona era sostituito da un biglietto galante e dove l’uccisione della donna avveniva con una sbrigativa pugnalata e non con un lungo e insopportabile soffocamento. Non solo, il finale tragico (anche questo particolare verrà accolto episodicamente da Berio-Rossini) venne addirittura reso trasformabile a piacere (dell’occasionale pubblico) in un lieto-fine con soddisfazione di tutti.

Altra fonte di ispirazione per il librettista fu l’Otello di Giovanni Carlo Cosenza, rappresentato a Napoli pochi anni prima dell’opera rossiniana: in esso, oltre alle modifiche di Ducis, si trovano tracce evidenti di ciò che apparirà nel libretto di Berio, come l’ambientazione nella sola Venezia e - in particolare nel terz’atto - la tempesta, la canzone del gondoliere, il nome della protagonista del salice (Isaura e non Barbara) oltre al lieto-fine (presentato poi a Roma nel 1820).

Insomma, le apparenti stranezze del libretto vanno doverosamente inquadrate nel contesto storico e non liquidate sommariamente come frutto di incultura. Dopodichè spetterà comunque alla mano (o alla penna, o alle note, fate voi) di quel Re-Mida che rispondeva al nome di Rossini di costruire su un siffatto testo un eccelso dramma musicale. 

Da stasera le recite scaligere, con un cast in buona parte costituito (Kunde-Peretyatko-Florez) da quello della produzione del ROF-2007.  

___
A chi non ci fosse già arrivato per proprio conto, suggerisco di visitare il sito di una mia giovane e brillante conterranea, per leggervi un mirabile saggio sull’Otello rossiniano.
  

30 giugno, 2015

Non c’è limite al peggio


C’è modo e modo per far cazzate. Uno è quello di inventarle per primi. L’altro è quello di copiarle (in peggio) da chi le ha inventate per primo.

Ecco: è tutta qui la differenza fra Graham Vick e Damiano Michieletto.

28 giugno, 2015

Vivaldi tuttora profeta in patria

 

Ieri pomeriggio la rivoluzionaria Venezia-di-centro-destra (stra-smile!) ha ospitato (seconda recita) un altro tipo di trionfo, quello della vivaldiana Juditha.

Questi spettacoli della Fenice si inquadrano, insieme a molti altri eventi culturali, nella manifestazione Lo Spirito della Musica di Venezia 2015 (15/6-26/7) che ha come sottotitolo: Venezia porta d’Oriente: dialogo fra culture. Dialogo? Accipicchia, quello che succede in questi giorni alle porte di casa nostra pare molto peggio di ciò che si viveva ai tempi della Juditha. Però una cosa è certa: non risulta che i levantini (sultani o califfi che fossero) abbiano mai prodotto (per celebrare vittorie o sconfitte contro l’occidente) opere d’arte paragonabili a questa di Vivaldi.

E così abbiamo sistemato la coscienza: perciò tanto vale cominciare dal… sodo. Ecco qua come il Prete rosso – nel recitativo accompagnato che apre con Impii, indigni Tyranni - evoca l’attimo fatidico della decollazione di Oloferne, dopo che Giuditta ha proclamato: Nel tuo nome, o Dio, tronco la testa. (Oggi va di moda sostenere che non si può ammazzare in nome di Dio… quando a farlo sono loro e non noi.) È un furioso quanto fulminante SOL minore degli archi, che precipita per due ottave piene e in cui trova posto addirittura - ed appropriatamente, date le circostanze - il Dies-Irae!


Restiamo alla musica, cominciando con… la Sinfonia! È noto che nessun brano del genere si è mai trovato (ammesso che Vivaldi ne avesse composto uno) per la Juditha, che apre invece con il bellicoso coro degli oloferniani, in RE maggiore. Ecco, Alessandro De Marchi, seguendo le orme di altri prima di lui (ma soprattutto se sue proprie !) ha deciso di aggiungere in testa all’Oratorio una specie di Sinfonia. Ora, nella produzione di Vivaldi brani di tal genere abbondano, ma hanno tipicamente una struttura in tre movimenti (Allegro-Largo-Allegro) e ciò fa subito insorgere il problema di un evidente pleonasmo fra l’ultima parte della Sinfonia e il coro iniziale dell’Oratorio, pure in Allegro. Come ha risolto la cosa il Direttore? Riproponendo ciò che già ha immortalato in disco: ha preso il Concerto RV 562 (che è pure in RE maggiore) ma escludendo l’Allegro finale, in modo da ottenere, anteponendolo all’incipit dell’Oratorio, una specie di Sinfonia. Operazione legittima? Beh, certo non vietata da alcuna Legge, ma abbastanza gratuita e di efficacia francamente discutibile, oltretutto non essendo escluso che Vivaldi avesse avuto proprio l’intenzione di aprire l’Oratorio con il Coro, rinunciando alla Sinfonia.

Per il resto, De Marchi ha diretto con l’autorevolezza che gli deriva dalla sua lunga esperienza in questo repertorio. Personalmente giudico fin troppo sostenuti i suoi tempi, che hanno finito per aggravare i problemi legati alla congenita staticità dell’opera e al suono particolare degli strumenti, legato al diapason a 415. Comunque benissimo i Professori della Fenice, con gli strumenti d’epoca (salmoè in testa) in grande evidenza.     

La protagonista Juditha è Manuela Custer, veterana del ruolo che conosce evidentemente come le proprie tasche. E non ha tradito la sua fama con un’interpretazione intensa; l’unico appunto che personalmente le muovo riguarda il volume della sua voce, che non è dei più robusti e che ne penalizza l’ottava bassa. Potente invece la voce di Teresa Iervolino, un Holofernes tanto duro guerriero come sdolcinato amante. Vagaus è impersonato da Paola Gardina, un soprano dalla voce piuttosto corposa (lei è di fatto un mezzo…) e quindi adatta al ruolo: ha interpretato in modo efficace le sue cinque arie e in particolare l’ultima, davvero indemoniata, che richiede grandissima agilità. Discreta anche la prestazione di Francesca Ascioti nel ruolo di Ozia. Però chi, per me, ha svettato su tutte è Giulia Semenzato, una più che convincente Abra, che ha anche impreziosito con acuti da soprano (la tessitura è da mezzo…) la sua prestazione. Benissimo anche il coro di Claudio Marino Moretti.
___
Vengo ora alla parte più… ostica (per chi ne è responsabile) dello spettacolo: l’allestimento registico. A differenza delle cantate (che hanno sì un soggetto, ma non hanno una storia da raccontare) gli oratori, oltre che un soggetto presentano anche una storia, una trama, e ciò spiega perché possano legittimamente aspirare ad essere allestiti in forma scenica. Per dire: come si potrebbe inscenare Ein Deutsches Requiem? In nessun modo, certamente. Mentre invece il Messiah, per dire, si presta benissimo alla rappresentazione poiché racconta una storia (e che storia, mezzo Antico testamento!)  

Orbene, la Juditha ha una storia francamente così circoscritta (l’impresa personale della vedova betuliana) e un’azione così povera (come testimonia la stringatezza dei recitativi, che dovrebbero proprio servire ad alimentarla) da rappresentare il limite inferiore della possibilità di messa in scena. Va quindi ascritto a merito dell’equipe di Elena Barbalich l’aver saputo proporre uno spettacolo intelligente e coinvolgente.

Massimo Checchetto ha ideato delle scene… vuote (!) Bella fatica, direte voi… no, perché erano sì vuote (o quasi) ma per essere occupate ora dai cori, ora da elementari suppellettili (vedi il tavolone da ultima cena del second’atto) ma soprattutto dalle luci di Fabio Barettin, che riproducevano di volta in volta delle grate, degli apparati bellici, supportando atmosfere di festa o di dolore. Il piano dell’orchestra era alzato al livello sala (come in occasione di concerti) e il palco era a sua volta rialzato di nemmeno un paio di metri; due scale assai larghe e di moderata pendenza consentivano ai cantanti di scendere fino a contatto con il pubblico. I costumi di Tommaso Lagattola erano di epoca indefinita, tranne quelli del secondo atto, che parevano ispirati da quadri rinascimentali e barocchi.

Elena Barbalich ha curato i movimenti di singoli e masse con grande equilibrio e sensibilità, trovando una giusta via di mezzo fra eccessiva ieraticità (tipo Wilson, per intenderci) ed eccessi di verismo. Insomma: una regìa, la sua, degna di encomio.

E il pubblico (non proprio oceanico e smagritosi ulteriormente all’intervallo) ha comunque mostrato di apprezzare assai questa proposta: frequenti applausi a scena aperta dopo le arie principali e calorosissima accoglienza finale. Viva Venezia, viva Vivaldi!      
  

24 giugno, 2015

Dopo Brugnaro, anche Giuditta si prepara a trionfare in laguna

 

Domani la Fenice ospita la prima della vivaldiana Juditha. Trionfatrice sullo sbifido Oloferne (il capo dell’ISIS di quei tempi) impiegando precisamente la stessa sbrigativa quanto infallibile tecnica mozza-collo dei di lui simpatici nipotini di oggi. Della serie: chi di spada ferisce… o anche: chi la fa l’aspetti… o anche: se sei dalla parte dei nostri, allora sei un eroe (o eroina) altrimenti sei un criminale.

Politica? Eh sì, perché la Juditha fu in realtà un manifesto politico/propagandistico, auspicante/celebrante una prima vittoria (dopo una serie di disfatte) di Venezia (appoggiata dal Papa e dal Sacro Romano Impero) sugli Ottomani, nell’estate del 1716 a Corfù. Non a caso l’ultimo verso dell’Oratorio recita Adria vivat, et regnet in pace. E che c’entra mai Adria con la vicenda di Giuditta e Oloferne, ambientata in Palestina, alle porte di Betulia, città ebraica (dalle parti dell’odierna Jenin, nella West-Bank) assediata dagli Assiri di Nabucodonosor? Ce lo spiega lo stesso librettista Giacomo Cassetti, che aggiunse in coda al testo musicato da Vivaldi un Carmen allegoricum in cui chiarisce gli apparentamenti dei cinque ruoli (più il luogo) dell’Oratorio: Giuditta è Adria (cioè Venezia); la sua compagna Abra è la Fede cristiana; Betulia è la Chiesa e Ozia ne è il Pontefice; Oloferne è il Sultano e Vagao il suo Generale.

Quindi Giuditta rappresenta Venezia che sconfigge il nemico venuto dall’oriente e con ciò salva anche la Chiesa di Roma dalla minaccia islamica. E questo riferimento religioso ben si addice alla figura del reverendo Antonio Vivaldi, insegnante di violino, viola all’inglese e maestro di coro dell’Istituto veneziano (La Pietà) che mise a disposizione tutte le risorse (umane, prima ancora che materiali) per la rappresentazione dell’Oratorio.  

Oratorio che finì per quasi 200 anni nel dimenticatoio e venne riesumato solo 90 anni fa a Torino, dove la Biblioteca Nazionale aveva acquisito i manoscritti vivaldiani della collezione Foà. Da allora si sono susseguite diverse edizioni, la prima del 1940 (riveduta nel 1949) a cura di Vito Frazzi, poi quella benemerita (1970) di Alberto Zedda (stampata presso Ricordi). In questi ultimi anni (2008) abbiamo avuto ben due nuove edizioni che hanno come curatori dei musicologi anglosassoni, o yankee. La prima è di Ricordi ed è stata curata dal britannico Michael Talbot; l’altra è quella americana, curata principalmente da Eleanor Selfridge-Field e prodotta dalla CCARH, che è stata impiegata da Andrea Marcon in questa esecuzione ad Amsterdam con la Venice Baroque, dove la protagonista è la stessa che ascolteremo in questo allestimento veneziano. Per la verità la locandina della Fenice indica l’impiego di un’altra edizione, quella della Carus-Verlag, Stuttgart: dovrebbe quindi trattarsi di quella curata (nell’ormai lontano 1979) da Günter Graulich, fondatore della Carus, con il ruolo di Abra affidato ad un soprano a dispetto della sua estensione da mezzo (ma nel rispetto del manoscritto originale).

L’Oratorio è in lingua latina (magari un filino… artefatta) come imponevano le consuetudini di Venezia (città davvero internazionale) del tempo ed è interpretato da sole voci femminili (4 mezzosoprani – contralti per Talbot - e un soprano, o 3-2 come qui a Venezia, più il classico coro S-A-T-B, ma tutto di gentil sesso). In origine erano solo ed esclusivamente donne anche le strumentiste dell’orchestra, tutte ospiti dell’Antico Spedale della Pietà e dotate degli strumenti più diversi ed anche (per noi moderni) piuttosto strani, come i flauti dritti contralti, lo chalumeau (salmoè in venexiano) la viola d’amore e le viole da gamba (all’inglese) oltre alle tiorbe e al violone, violoncello e organo per l’accompagnamento. Ma ci sono anche un mandolino e due claren (clarinetti in SIb) oltre ad oboi, timpani, trombe e a violini e viola. Uno specialista, Alessandro De Marchi, cura la concertazione di queste recite veneziane.

L’Oratorio ha la struttura classica, dove si alternano recitativi e arie (più i cori) e dove la arie hanno invariabilmente la forma A-B-A, quindi con il da-capo. Essendo la struttura simile a quella delle opere del tempo, non è infrequente che se ne proponga (come qui a Venezia) una rappresentazione in forma scenica e non semplicemente concertante (come accadde alle recite originali alla Pietà, dove addirittura le cantanti erano poste dietro grate che le rendevano quasi invisibili al pubblico). Ecco come la regista Elena Barbalich spiega il suo approccio per la messinscena.

Come al solito informazioni e dotte analisi sulla Juditha sono già disponibili sul prezioso programma di sala del Teatro.

22 giugno, 2015

Debussy in visita a Firenze (3)

 

Ieri all’OF seconda recita del Pelléas dei due Danieli. Nota davvero stonata i larghissimi vuoti in sala, testimonianza fin troppo lampante, oltre che desolante, del degrado della cultura musicale del pubblico italiano, a dispetto delle risorse pubbliche impiegate per costruire strutture che diventano le classiche cattedrali nel deserto, il deserto delle sale…  

Spettacolo complessivamente di buon livello, soprattutto sul fronte dei suoni (che poi è ciò che conta di più).

Daniele Gatti è alla sua prima esperienza con Pelléas (non certo con Debussy): per essere un esordio, diciamo che è stato… promettente, ecco. Ha tenuto mediamente tempi abbastanza serrati (tipo Abbado o Karajan) che privilegiano il lato più onirico che non quello drammatico (paura e crudeltà, come ebbe a sentenziare Boulez) dell’opera. Ma il Pelléas ha tali e tante sfaccettature che un Direttore vi potrà sempre trovare qualcosa di nuovo da mettere in luce: se ci tornerà sopra, non ho dubbi che anche Gatti (come accadde proprio a Boulez, per dire) ripenserà in qualche modo l’interpretazione, quanto meno in molti dettagli. L’orchestra del Maggio mi è parsa a sua volta all’altezza del compito, avendo prodotto sempre un suono pulito e trasparente, cosa certo da accreditare anche alla consuetudine di Gatti con le opere strumentali di Debussy (il quale sprezzava il magma sonoro wagneriano, dove secondo lui un violino non si distingue più da un corno). E che fra Gatti e l’Orchestra si sia instaurato un feeling particolare lo dimostra il calore dell’accoglienza che i Professori hanno riservato al Maestro all’uscita finale, in un tripudio di archetti agitati in aria al suo indirizzo!    

Gatti ha scelto un cast tutto italiano: scelta legittima, anche se forse un po’… provocatoria, o bizzarra, come la si voglia giudicare. Ma prima di parlare delle voci, bisognerebbe ricordare come le tessiture dei protagonisti siano influenzate non solo dalle rispettive caratteristiche antropologiche (giovane, vecchio, mite, ombroso) ma anche e soprattutto dall’idiosincrasia di Debussy (in questo davvero seguace di Wagner) per gli stereotipi dell’opera tradizionale, con conseguente abbandono non solo di ogni forma chiusa, ma anche di ogni forma di affettazione, così tipica del melodramma classico, dove i personaggi mai e poi mai (né nei recitativi né tanto meno nei numeri) cantano come si parla normalmente. Per Debussy valeva la massima prima le parole, poi la musica, e la musica doveva servire il testo del dramma, non viceversa: insomma, l’antico recitar cantando di bardiana memoria. Una delle tante conseguenze di questo approccio è la relativa intercambiabilità (tenore-baritono e soprano-mezzosoprano) delle voci dei due protagonisti del titolo. 

Il personaggio di Pelléas – notato da Debussy in chiave di SOL, cioè di tenore - ha una tessitura che va dal DO sotto il rigo al LA sopra, nemmeno due ottave: certo una tessitura ardua, sugli acuti, per un baritono, ma che ha frequenti (e difficoltose, per un tenore leggero) escursioni in zona grave (penso ad esempio alla scena della grotta dell’atto II, dove si tocca eccezionalmente un SOLb sopra il rigo, ma dove per il resto la declamazione si muove tutta sull’ottava bassa). Non a caso alla prima del 1902 fu interpretato da Jean Périer, che era un bari-tenore (o baryton-Martin come usano definirlo i francesi) e Debussy stesso scrisse appositamente degli ossia sullo spartito in occasione di recite affidate a tenori, ma discusse addirittura la proposta di affidare la parte ad un mezzosoprano (alla prima del dramma di Maeterlinck Pelléas era impersonato da un’attrice, Marie Aubry). Ebbene, Paolo Fanale, tenore dalla voce brunita e robusta, si è dimostrato una scelta assai azzeccata per il ruolo, che ha diverse sfaccettature, dall’efebico all’eroico. Purtroppo proprio alla fine (la scena d’amore del quart’atto) mi è parso che la sua voce abbia perso un po’ di smalto e incisività, con la conseguenza che le bordate sonore scagliate da Gatti dalla buca lo abbiano travolto e coperto.

Quanto a Mélisande, la tessitura è ancora più corta di quella di Pelléas, andando dal DO sotto il rigo al LAb sopra (tanto per esemplificare, all’acuto è solo un tono pieno sopra quella di Geneviève): e infatti anche qui la parte può essere sostenuta da soprani (quale fu la prima interprete, Mary Garden) ma altrettanto bene da un mezzosoprano, come qui Firenze dove troviamo Monica Bacelli. Che mi è parsa ben calata nel ruolo, proponendoci una Mélisande dalla cangiante personalità, celestiale ma allo stesso tempo anche ombrosa e scabrosa. La sua voce non è delle più… pure e qualche acuto è stato un po’ maltrattato, ma in complesso si merita un’ampia sufficienza.

Su Golaud non ci son dubbi che debba essere un baritono, ma un baritono di voce abbastanza chiara, poiché il personaggio sarà pure sbifido, ma non è certo uno Scarpia. Ecco, Roberto Frontali se l’è cavata assai bene, proponendoci un personaggio divorato dai dubbi, ma mai sopra le righe: convincenti soprattutto le due scene-madre con Mélisande (quarto e quinto atto).

Roberto Scandiuzzi ha ben meritato, nel difficile ruolo di Arkël: sempre autorevole e mai macchiettistico come a volte viene presentato questo personaggio.

Geneviève è l’inossidabile Sonia Ganassi: una parte limitata (al solo primo atto) quasi esclusivamente declamata recto-tono, che lei ha però sostenuto con  appropriata sensibilità.

Il personaggio del piccolo Yniold è affidato ad un soprano (devo dire che personalmente gradirei di più, anche dal punto di vista attoriale, una voce bianca, pur riconoscendo che per un fanciullo la parte è davvero ostica…): qui ad impersonarlo è Silvia Frigato, che ha effettivamente un fisico da fanciullo. Il canto però mi è parso eccessivamente forzato, proprio a simulare una voce bianca, con risultati francamente non eccelsi. 

Andrea Mastroni si è ben disimpegnato, sdoppiandosi nei ruoli del pastore e del medico.

Il coro (A-T-B) ha qui una parte limitatissima verso la fine del prim’atto (mutuata dal Tristan e poi… miscroscopizzata) che la compagine di Lorenzo Fratini ha svolto con diligenza.

In complesso questo cast autarchico (e… sciovinista alla rovescia) non ha affatto demeritato e anche la pronuncia (bisognerebbe però verificare con un francofono autentico) mi è parsa sufficientemente credibile.
___ 
La messinscena do Daniele Abbado mi è parsa invece eccessivamente fredda: della Natura, che pure è presente, e come, nel testo di Maeterlinck, qui proprio non v’è traccia. Per carità, nessuno pretende i boschi finti e lo stormire di foglie di cartavelina, ma nemmeno convince l’argomento secondo cui basta la musica di Debussy ad evocare la Natura: perché se la musica evoca fiori e prati ma ciò che si vede è un’impalcatura di tubi-Innocenti, il rischio che si corre è che pure la musica ne venga penalizzata. La scenografia di Giovanni Carluccio prevede, alla base, due grandi semi-ellissi (a volte raddoppiate) che possono apparire in combinazioni diverse: una sola, concava verso l’alto, che fa da unico ambiente in alcune scene; oppure due contrapposte e separate (contenenti all’interno strutture orizzontali in cui si muovono i personaggi); oppure ancora congiunte, a formare una specie di occhio o il bordo di un pozzo (la fontana dei ciechi). Oltre a queste abbiamo una passerella (scena 3 dell’atto I e scena 1 dell’atto IV) e poi dei ponteggi con scale, impiegati in particolare nelle prime tre scene dell’atto III. La scena finale è invece totalmente spoglia e bianca, il letto di Mélisande è un tavolaccio posto quasi in verticale (il che di sicuro aiuta l’interprete a cantare in posizione quasi eretta).

Abbado ha poi inventato (anzi… copiato da altri) qualche gratuito particolare, come ad esempio il fendente che Golaud si auto-infligge con la spada dopo aver infilzato il fratellastro: ciò si desume solo dalla parte del testo di Maeterlinck che Debussy ha soppresso (!) e la cosa avviene oltretutto in tempi successivi alla chiusura dell’atto IV, dove Golaud si dovrebbe limitare a seguire Mélisande che scappa via inorridita. Pure gratuita, anche se consente all’interprete di rifarsi viva dopo la fine del primo atto, è la presenza di Geneviève nella scena finale, a recare la neonata al capezzale della mamma. Il testo ci parla per l’ultima volta, e indirettamente, di Geneviève nell’atto IV, quando Pelléas riferisce a Mélisande della gioia della madre per la guarigione del padre. Ma cosa sia stato di lei dopo il fattaccio intercorso fra i suoi due figli non ci è dato sapere: potrebbe pure esser morta di crepacuore!

Quanto ai movimenti dei personaggi e alla recitazione, si sa che la staticità del testo offre al regista pochissimi spunti per sbizzarrire la propria fantasia: Abbado non è andato al di là di un onesto lavoro di scavo psicologico. Da questo punto di vista mi son sembrati ben centrati i personaggi di Golaud e dei due vecchi (Arkël e Geneviève). Pelléas è personaggio indecifrabile di per sé, e Abbado come tale ce lo mostra, senza prendere decisamente posizione (a mio avviso) né per un giovane debole e complessato, né per un amante fiero e deciso a tutto.

Quanto a Mélisande, mi pare che il regista ne abbia voluto enfatizzare il lato schizofrenico: alludo in particolare alla scena dove lei mente spudoratamente a Golaud (a proposito dell’anello) dove ci viene mostrata una donna in atteggiamento propriamente carognesco.

Insomma, un allestimento dignitoso, ecco. Il pubblico selezionato ha comunque mostrato di apprezzare assai, a giudicare dal calore dell’accoglienza riservata indistintamente a tutti i protagonisti.

___
Allego per l’occasione un’interessante monografia su Debussy, a cura di François Lesure, con particolari riferimenti al Pelléas, apparsa su Musica&Dossier nel maggio 1989. 

17 giugno, 2015

Debussy in visita a Firenze (2)

 

Dopo aver preso in considerazione il testo del dramma di Maeterlinck così come adattato da Debussy per la sua opera, proviamo a farci un’idea di quest’ultima, che il Maggio fiorentino ospiterà a partire da domani.


Debussy, primi anni ’90 del secolo XIX, aveva alcuni possibili modelli cui ispirarsi per un’opera teatrale: Wagner in-primis, di cui lui (prima di distaccarsene al seguito di Nietzsche) era stato ammiratore tanto incondizionato da fare innumerevoli pellegrinaggi a Bayreuth, per il Ring, Tristan e Parsifal; all’opposto (quanto a notorietà acquisita, oltre che ad approccio al dramma musicale) Musorgski, di cui aveva ammirato le spericolate innovazioni del Boris; o magari, perché no, Mascagni, che in quegli anni era venuto alla ribalta con Cavalleria, un soggetto che, al di là delle incrostazioni simboliste, lì del tutto assenti, era però nella sostanza un parente del Pelléas, basta sostituire questi con Turiddu, Golaud con Alfio, Mélisande con Lola e Geneviéve con Lucia (smile!)

Certo un tipo con la puzza al naso come Debussy mica poteva abbassarsi al livello di un Mascagni qualunque… mentre non potè evitare di tener buona almeno in parte la lezione di Wagner e di far proprie alcune soluzioni dell’ubriacone russo. E così, anche se si offendeva a morte a sentirli definire come Leitmotive, pure lui si servì, e come, di motivi conduttori (Maurice Emmanuel ne ha catalogati non meno di 13) anche se li impiegò in modo e in quantità non paragonabili a quelli di Wagner.

Poi: si era a fine ‘800, e sempre più si metteva in discussione la tonalità: e anche chi ci si dichiarava fedele (un Mahler, tanto per dire…) faceva poi di tutto per insidiarne il predominio, scarnificandola di continuo e aprendo la strada a chi (meno riverente della tradizione) ne predicava e praticava il seppellimento (Schönberg in primis).

Debussy, che da colto sciovinista non si voleva mescolare ai rozzi crucchi, si differenziò da costoro rimanendo formalmente ancorato alla tonalità (tutte le sue partiture recano i classici accidenti in chiave) ma surrogandola con il frequente ricorso a scale esotiche: tanto per dire, nelle prime sole sei (!) battute del brevissimo Preludio del Pelléas ne vengono impiegate due, che poi giocheranno un ruolo di primo piano, anche se non esclusivo, in tutta l’opera: la scala pentatonica (DO-RE-MI-SOL-LA) e la scala a toni interi (DO-RE-MI-FA#-SOL#-SIb). Entrambe le scale mancano della sensibile (il SI nella tonalità di DO) e non comprendono semitoni (quindi impediscono ogni disegno cromatico). Ora, bisogna sapere che l’orientamento alla sensibile è stato il motore di tutta la musica occidentale da prima di Bach fino ad… Allevi! E quindi, levare di mezzo quella nota, alle nostre orecchie fa lo stesso effetto che farebbe alle nostre papille gustative il bandire il sale dai nostri manicaretti. Insomma, la musica senza sensibile, per noi (e sottolineo: noi) diventa inSIpida (smile!) Per questo, almeno di primo acchito, il Pelléas non coinvolge ed entusiasma come una Cavalleria! Peccato perché invece è opera che ha tutto il diritto di essere apprezzata, proprio come va apprezzato qualcosa di unico nel suo genere (nemmeno il suo autore riuscì più a ripetere nulla di simile).

Si diceva dei motivi conduttori: due di essi – fondamentali – compaiono subito all’inizio del Preludio:


Le prime 4 battute presentano un primo tema costruito ed armonizzato con la scala pentatonica, caratteristica di certa musica orientaleggiante, arcaicizzante e naif, che rappresenta tradizionalmente l’innocenza, il mondo celeste, la pace della natura (qui abbiamo il bosco, ma l’atmosfera ricorda anche quella immobile del preludio del Rheingold) mentre il secondo (nel seguito associato alla personalità di Golaud) è costruito ed armonizzato con la scala a toni interi, che ha un che di istintivamente repellente, innaturale (vi mancano la quinta e la quarta giuste) e diabolico (come attesta il tritono RE-LAb nei bassi).

Ecco, nel Pelléas ritroveremo spesso motivi e atmosfere creati con queste due scale, a rappresentare rispettivamente momenti (o personalità, o stati d’animo, o ambienti naturali) caratterizzati da serenità, poesia, cielo, sole, luce e soprattutto amore; oppure da violenza, oscurità, barbarie, cattivi sentimenti. E anche l’impiego degli strumenti dell’orchestra e dei relativi colori sarà conseguente: chiarezza e trasparenza nel primo caso (archi, strumentini, arpe); colori cupi e opachi nel secondo. A queste due scale particolari Debussy affianca poi modi gregoriani e scale più tradizionali, come la maggiore, la minore e il cromatismo, laddove lo richiedono le atmosfere da ricreare.

Altro aspetto peculiare della scrittura di Debussy (e lo si osserva in queste primissime battute) è la giustapposizione di temi costruiti con scale diverse, e quindi lontani e addirittura in conflitto fra loro: e ciò è propriamente la traduzione in musica della tecnica di Maeterlinck consistente nell’affiancare o sovrapporre nella sua prosa elementi (materiali e soprattutto psicologici) fra loro contrastanti, facce opposte e confliggenti di una realtà inafferrabile. (Su scala più macroscopica, è ciò che Wagner fece con Parsifal, dove si fronteggiano il diatonismo del Gral e il cromatismo di Klingsor.)   

Un chiaro esempio di natura bifronte è costituito dal tema di Arkël, esposto nella prima scena, quando Golaud si identifica come suo nipote: motivo che sembra nascere da quello nobile della Natura (scala pentatonica nelle prime tre note) perché il vecchio Re incarna il bel tempo antico; tuttavia l’impennata finale (che rappresenta il suo anelito verso il bene) parte con un tritono e si muove poi sulla scala a toni interi, come a gettare un’ombra su tanto ottimismo:
Anche il tema di Mélisande, che pure compare già dal Preludio, è costruito con questa tecnica di giustapposizione di elementi contrastanti, essendo formato da due sezioni, di cui la prima (prevalente nel prosieguo dell’opera, peraltro) più serena ed elegiaca e la seconda più aspra ed agitata, a rappresentare la duplice personalità della donna:
Quanto a Pelléas, il suo tema viene esposto nella seconda scena, al momento per lui di presentarsi con la lettera di Marcellus:

È un tema meno scolpito rispetto a quelli di Golaud e Mélisande, quasi a tratteggiare una personalità evanescente e incerta (si notino le sincopi nelle viole).

Anche il piccolo Yniold ha un suo tema, esposto per primo dall’oboe (su una scala di DO# minore) al termine dell’Interludio fra la terza e la quarta scena dell’atto III:


Va osservato che i temi associati ai personaggi sono quasi esclusivamente relegati in orchestra: servono quindi ad evocarne la presenza o il ricordo, più che ad incarnarne le esternazioni. 

Oltre a quelli elencati troviamo ovviamente i motivi che evocano luoghi od oggetti, o sensazioni; in ordine di apparizione: l’acqua, l’anello, la malattia, i rumori della grotta, la povertà, i capelli, la caduta da cavallo, la minaccia i Golaud, il sospetto, le lacrime, il gregge, la trappola, l’ombra, la dichiarazione d’amore, il risveglio, la neonata, il calar del sole.  

Come detto, non tutta l’opera è ostinatamente ancorata alle scale prive di sensibile e semitoni, come dimostra ad esempio questo motivo che ascoltiamo dalla bocca di Re Arkël nella sua prima esternazione, costruito sulla scala pentatonica, ma incorporante un FA che la impreziosisce; ecco come lo raddoppia il clarinetto:
Non per nulla c’è chi l’ha vista come un omaggio al vecchio buon Gounod… e a proposito di Arkël, il Re viene gratificato (atto I, scena II e atto IV, scena II) di due autentiche arie, da far invidia all’opera italiana. 

Poi tutto l’armamentario del cromatismo viene impiegato nelle scene-madri dell’opera, come nella violenta tirata che Golaud fa alla moglie, nella seconda scena del quart’atto, o nell’ultima scena dello stesso atto (incontro amoroso di Pelléas e Mélisande) dove troviamo una pagina come questa, degna di… Massenet o Puccini:

___
A proposito invece di… reminiscenze, soprattutto wagneriane, l’Interludio fra le due prime scene inizia con una specie di Waldweben, ma contemporaneamente presenta anche una rassomiglianza impressionante con l’accompagnamento al racconto di Pimen, nel primo atto del Boris; (poi Mahler se ne ricorderà nel secondo canto del Lied von der Erde…)


L’Interludio culmina poi in una citazione tanto chiara quanto appropriata alla circostanza (il faticoso cammino di Golaud e Mélisande per uscire dalla foresta) del cambiamento di scena del prim’atto di Parsifal:


Un altro Interludio, quello che porta alla terza scena del second’atto (quella della grotta dove si reca Mélisande con Pelléas) è aperto da una figurazione degli archi che ricorda chiaramente l’incipit del terzo Preludio del Tristan, con la snervante dissonanza (SI-LA in Debussy e SOL-FA in Wagner) che li caratterizza:


Nella seconda scena dell’atto IV (incontro fra il Re e Mélisande) nel mezzo di quella che è un’autentica e strepitosa aria di Arkël (tipo Re-Marke, per intenderci) subito prima di Viens ici; pourquoi restes-tu là sans répondre et sans lever les yeux?, la viola suona, un tono sotto, il leggendario tema che apre il Tristan!


Invece richiama ancora Parsifal la chiusa dell’atto IV, con la caduta di seconda maggiore (SOL-FA) che ricorda quella (DO#-SI) che conclude l’atto di Klingsor.
___

Per chi volesse approfondire nei dettagli l’esplorazione di quest’opera tanto interessante quanto ostica, è disponibile in rete la storica analisi (1907) fattane da Lawrence Gilman. Magari da accompagnare con il video di una altrettanto (ormai) storica produzione del 1992 di Peter Stein, diretta da uno dei maestri che più ha studiato e sviscerato (fin dal 1969) il Pelléas: il venerabile Pierre Boulez, qui con la WNO.

Vedremo come se la caveranno i due Danieli a Firenze, dove purtroppo la proposta pare venga (finora almeno) apprezzata da pochi intimi, a giudicare dal mucchio di biglietti ancora disponibili in internet per tutte e 4 le rappresentazioni.