affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

18 novembre, 2013

Venezia ospita una indo-africana (1)


Siamo quasi al giro di boa fra il 2013, bi-centenario wagneriano (per la nascita) e il 2014, 150° dalla dipartita di Giacomo Meyerbeer. Un curioso passaggio di testimone, fra due compositori (anzi, fra due uomini) sideralmente lontani da qualunque punto di vista li si guardi (una cosa in comune però ce l’avevano… lo scopriremo al momento opportuno). Non parliamone poi, se ne guardiamo uno (il Meyerbeer) dal punto di osservazione dell’altro! Che lo considerava minus quam m… solo perché ebreo (e tedesco, orrore!) capace di far fortuna nientemeno che a Parigi.

Certo, a distanza ormai di… secoli, pare che la storia, o quantomeno la moda, abbia emesso la sua (definitiva?) sentenza sui due: dando ragione al più antipatico (smile!)    

Sia come sia, più o meno ad un anno di distanza dall’inflazionato Tristan, La Fenice metterà in scena nei prossimi giorni un’opera del Meyerbeer di rara (ormai) rappresentazione: si tratta della sua ultima, L’Africaine. La prima sarà trasmessa da Radio3 sabato 23 c.m. alle ore 18.

Si tratta di un’opera che l’Autore non potè mai vedere nè ascoltare, essendo lui venuto a mancare (2 maggio, 1864) poco dopo averne messo su carta le ultime note, anzi precisamente il giorno dopo aver ricevuto la prima copia dello spartito. Opera quindi compiuta soltanto sulla carta, per l’appunto, chè pochi dubbi esistono che Meyerbeer, come sua e non solo sua consuetudine, vi avrebbe apportato modifiche (anche pesanti) e minuziose messe-a-punto, solo avesse potuto seguirne tutte le prove e le prime rappresentazioni all’Opéra. Opera che potè vedere la luce delle ribalte – e per la verità avere un grande successo, sorte toccata ad altre celebri sorelle, Carmen in primis - soltanto grazie ad interventi (necessari e/o cervellotici) di altri, come vedremo più avanti.

Il compositore tedesco-trapiantato-a-Parigi-con-nome-italianizzato ci aveva messo quasi 30 anni prima di arrivare alla conclusione dell’impresa. I primi contatti (e… contratti, e… contrasti) con il librettista-principe del suo tempo (Eugène Scribe) risalgono addirittura al 1837 e nel 1843 Meyerbeer completava la prima stesura del lavoro.

Di essa si occupa questa prima puntata del nostro… viaggio intorno all’Africa: per conoscere le origini di quest’opera che alla fine vide la luce solo dopo pesanti rimaneggiamenti del testo (da parte di Scribe, che peraltro morì nel 1861, costringendo Meyerbeer ad affidare le ultime modifiche al libretto a Charlotte Birch-Pfeiffer) e della musica. Nelle due successive puntate vedremo come il soggetto si svilupperà nelle mani di Meyerbeer(-Scribe) e finalmente vedrà la luce in quelle di tale François-Joseph Fétis.
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Il soggetto originale di Scribe,  nei canonici 5 atti dei Grand-Opéra, trattava già (come la successiva revisione) del rapporto fra civiltà e culture diverse (quella europea e quella africana nel nostro caso) calato nella sfera delle relazioni inter-personali (amori, odi, invidie, punizioni, sacrifici) e metteva in risalto la nobiltà d’animo della protagonista africana, quasi a contrastare ideologicamente le convinzioni diffuse in Europa (allora, ma non è che oggi le cose siano poi troppo cambiate…) sull’inferiorità delle razze aliene. Però vi erano del tutto assenti – al contrario di ciò che accadrà per la versione successiva - riferimenti specifici a personaggi famosi o a note vicende storiche, o alle problematiche politiche legate al colonialismo europeo. La vicenda era ambientata nella Spagna di fine ‘500 – inizio ‘600, precisamente ai tempi di Filippo III, e nell’Africa nera.

Il deuteragonista maschile è un fantomatico navigatore a nome Fernand, forse - ma molto vagamente - ispirato a quel Hernando de Soto che a quell’epoca (in realtà decenni prima) aveva compiuto innumerevoli navigazioni verso l’America, il Mexico in particolare. In realtà Fernand è un semplice ufficiale, innamorato (ricambiato) di Inès, figlia del vicerè di Siviglia che però l’ha promessa sposa ad un conte (Salvator). Ciò ci viene spiegato sinteticamente nella prima scena dell’opera, dove Fernand canta una serenata col mandolino sotto il balcone di Inés, che gli lancia un biglietto mentre, non visto, Salvator li spia da lontano.

Nel seguito del primo atto si vede arrivare una nave corsara che trasporta in Spagna schiavi africani. Fra essi sono Yoriko e Sélica, che piangono la loro condizione, implorando il dio d’Ismaele perché venga loro in soccorso. Invece è Fernand che, impegnando tutti i suoi scarsi averi, acquista dal mercante di schiavi (Pedrillo) i due africani, prima Yoriko e poi, vedendola piangere, Sélica: in realtà non lo fa per sfruttarli, ma per compassione della loro schiavitù e con l’idea di farli sentire, a casa sua, come nella loro terra d’origine.

Nel secondo atto incontriamo Sélica, poi Yoriko, in una casa di Fernand nascosta nella foresta. Yoriko racconta alla donna di aver appreso che il loro padrone li ha portati lì poiché sta cercando di sfuggire alla cattura da parte del vicerè, che lo accusa di complottare contro di lui. Yoriko ha giurato di denunciare Fernand (che lui odia, perché spagnolo e cristiano!) mentre Sélica – colpita dalla bontà del padrone - vorrebbe impedirglielo. Scopriamo che Sélica è una principessa e che Yoriko è segretamente innamorato di lei e geloso di Fernand. Entrambi rimpiangono la loro terra e la perduta libertà.

Arriva Fernand disperato: alle insistenze di Sélica, confessa che Inès lo ha tradito, così lui cerca invano l’oblio nell’alcol, mentre fuori imperversa un uragano. Qualcuno bussa alla porta: è Inès (guarda un po’!) che sta tornando verso la città e chiede rifugio dal maltempo. Alla vista di Fernand, la donna esprime tutto il suo rancore verso l’uomo che amava, ma che ora disprezza perché convinta che lui le abbia preferito una schiava. E lui, per dimostrarle che lei si sbaglia, le regala Sélica! Fernand e Inès riconoscono allora i rispettivi e reciproci errori di giudizio e fraintendimenti, mentre Sélica, a sua volta innamoratasi di Fernand, non si dà pace.

Inès è a sua volta disperata poiché ha promesso di sposare Salvator l’indomani; e chi ti arriva, proprio adesso? Salvator in persona, con Yoriko ed altri schiavi. La tempesta è passata e lui è venuto a riprendere Inès per accompagnarla dal futuro suocero, il vicerè. Vuol ricompensare il padrone di casa per l’ospitalità data alla sua promessa sposa… e scopre che si tratta di Fernand! Il quale lo sfida a duello per quella stessa notte, nel bosco. Salvator accetta la sfida e se ne va con Inès.

Fernand resta solo con Sélica e le comunica che l’indomani lei raggiungerà la sua nuova padrona; poi si addormenta sognando Inès. Sélica canta tutto il suo amore per Fernand e la sua disperazione per doverlo lasciare per andare a vivere con la donna che lui ama. Torna Yoriko, armato di pugnale e intenzionato ad uccidere Fernand nel sonno. Sélica gli si oppone, per impedirgli il misfatto. Fernand ancora sogna invocando Inès, mentre Sélica ne soffre e così Yoriko ha la prova che lei è innamorata di Fernand: ragione in più per freddarlo nel dormiveglia.

Allora Sélica risveglia Fernand, proprio mentre arriva l’Alcalde, con seguito di soldati, per arrestarlo per alto tradimento e complicità in un complotto! Sélica accusa Yoriko di essere spia e traditore e lui nega, ribattendo che Fernand è suo rivale e che si merita quella fine, in quanto cristiano.

Fernand, che ha per quella notte l’appuntamento con Salvator per il duello, chiede all’Alcalde di concedergli, sulla parola, un giorno di libertà, ma riceve una secca risposta negativa e si dispera, avendo compreso che il suo rivale si sottrae alla sfida. Sélica lo implora di desistere, mentre Yoriko si rallegra constatando che i suoi nemici si combattono fra loro. L’Alcalde e i suoi soldati conducono via Fernand.

Nel terzo atto siamo sul vascello di Salvator in rotta verso il Mexico e un coro di ragazze ne accompagna lo scivolare leggero nella brezza mattutina. A bordo troviamo subito Inès, evidentemente al seguito del marito, ma piuttosto malinconica per la lontananza dal padre e dalla patria.

Un colpo di cannone segnala l’ora del risveglio e i marinai corrono a svolgere i propri compiti, cantando in coro. Al rintocco della campanella di bordo, essi intonano la preghiera a SanDomenico, nemico degli eretici, perché porti protezione e sicurezza. Viene distribuita la razione per il pranzo e un marinaio fa l’elogio del vino, accompagnato dal coro dei compagni, che si esaltano per la traversata atlantica che li dovrà portare fino alle coste messicane. Inès continua invece a rimpiangere il padre e la terra dove ha lasciato il cuore, ormai votata a morire in terre lontane… Rifiuta anche la cioccolata che le porge Sélica, che evidentemente si trova lì al suo seguito, con altre donne.

Compaiono Salvator e Yoriko, il quale si lamenta di essere ancora suo schiavo, mentre il conte gli aveva promesso libertà. Salvator gli rimprovera di non aver mantenuto l’impegno (di uccidere Fernand) ma poi alle sue rimostranze lo nomina esecutore di tutte le pene che verranno comminate a bordo. E Yoriko non vede l’ora di essere il giustiziere di cristiani, suscitando il disprezzo dei marinai.

Salvator scende da Inès e cerca di consolarla: sono passati otto giorni dall’addio al padre, e lei ancora è triste e vuol rimanere sola. Arriva l’ufficiale di manovra che avverte Salvator che il vascello durante la notte è finito fuori rotta (sta veleggiando verso est…) Salvator vorrebbe punire all’istante chi stava al timone (un moro… dice l’ufficiale, un tipo abile che altre volte ci ha salvato dagli scogli) ma poi decide solo di tenerlo d’occhio.

Adesso Salvator scorge all’orizzonte un’altra nave che si avvicina. Yoriko nel frattempo si è reso conto che il vascello è in vista di luoghi a lui conosciuti (che fosse lui il moro al timone la notte precedente?) e comincia a rallegrarsene, cantando una strana canzone, in cui evoca Belzebù e il Corsaro nero, mentre i marinai si rimettono a pregare SanDomenico.

Un colpo di cannone annuncia l’arrivo dell’altra nave, pure spagnola, dalla quale una voce chiede se quello sia il vascello del Conte Salvator: alla risposta affermativa il comandante sale a bordo: è Fernand! All’esterrefatto Salvator egli annuncia di aver attraversato il mare per fargli pagare il suo tradimento. Gli ricorda come fu il vicerè ad impedirgli di vendicarsi, imprigionandolo; quello stesso vicerè che gli aveva promesso la figlia Inès che un traditore poi gli aveva strappato. Ma proprio il vicerè alla fine ha compreso l’infamia e ha armato la mano di Fernand perché vendetta sia compiuta.

Fernando e Salvator cantano i rispettivi stati d’animo: il primo non aspetta che di combattere, il secondo pretende di imporre il suo volere, come capitano del vascello. Al rifiuto di Salvator di scontrarsi a duello con le spade, Fernand proclama che allora gli basteranno le mani per farsi giustizia. Yoriko e i marinai intervengono e bloccano Fernand. Salvator ordina che sia legato all’albero maestro e fucilato. Fernand lo disprezza per la sua vigliaccheria, mentre Inès e Sélica – sorprese di trovarsi di fronte l’uomo amato - si disperano, chiedendo invano a Salvator di ritardare almeno l’esecuzione.

Al rifiuto del Conte, Sélica strappa il pugnale ad un marinaio e lo punta su Inès, minacciando di ucciderla per rappresaglia contro la fucilazione di Fernand. Salvator, schernito da Yoriko, deve cedere e rinunciare a punire Fernand, rinchiudendolo nella stiva, ma intende invece punire Sélica per aver osato alzare la mano contro la sua padrona. Così ordina a Yoriko (che al mattino aveva nominato esecutore delle pene) di frustare a sangue le spalle di Sélica.

Yoriko si dispera: come potrebbe far del male alla sua principessa? Salvator minaccia anche lui e al povero Yoriko non resta che appellarsi al suo dio d‘Ismaele, invocandone sull’empio cristiano la folgore che lo riduca in cenere. Salvator minaccia lui: potrà evitare la folgore solo se obbedirà, infliggendo a Sélica la sua punizione. La principessa viene spogliata e un bambù viene messo in mano a Yoriko perché la percuota con quello. Yoriko infrange il bambù e proclama di voler morire, piuttosto che offendere la sua principessa.

Salvator ordina ai marinai di colpire i due schiavi, all’istante. Ma è attirato da suoni che Yoriko riconosce essere quelli di suoi conterranei che hanno abbordato il vascello, evidentemente finito sulle coste africane. Un’esplosione, e gli africani sono a bordo! Inneggiano alla gloria dei figli del Sahara, mentre donne e bambini spagnoli terrorizzati pregano la vergine Maria…

Il capo degli africani, Olkar, riconosce esultante Yoriko, che poi gli mostra Sélica, la figlia del loro re. La principessa è ancora in preda al terrore, ma Yoriko la rassicura: il trono l’attende nella loro terra e i suoi sudditi sono lì per onorarla.

Nell’atto quarto siamo in quella che si scopre essere la terra d’origine di Sélica e Yoriko. Il gran sacerdote Zanguebar, sacerdoti e popolo sono prosternati davanti all’idolo, mentre i prigionieri spagnoli sono tenuti incatenati. Sacerdoti e popolo si preparano al sacrificio: verseranno il sangue degli stranieri sui loro altari. Arriva anche Yoriko, riccamente vestito, alla guida di un corteggio; pretende di tenersi Salvator come schiavo (evidentemente per spiegargli con esempi pratici la legge del contrappasso, smile!) ma Zanguebar lo delude: i sacerdoti di Zamor hanno condannato anche Salvator, che dovrà essere sacrificato ai piedi dell’altare. Ma un’eccezione vien fatta per Inès: lei vivrà e sarà schiava di Sélica, quindi viene condotta nella reggia, mentre Salvator e gli altri spagnoli vengono affidati ai ministri del sacrificio.   

Zanguebar si prepara ora a consacrare Sélica come regina davanti al popolo adorante: essa avanza, issata sopra un baldacchino, e seguita da una processione festante che le augura di trovare uno sposo degno di lei. Sélica si insedia sul trono, indirizzando ai ministri di Zamor e al popolo il suo giuramento: osservare le leggi. Omaggiata da Yoriko e Zanguebar, Sélica aggiunge però che il suo dovere regale è la clemenza, e chiede che i nemici sconfitti vengano risparmiati. Ma Zanguebar annuncia che sono ormai stati tutti sacrificati, e non già per spirito di vendetta, ma proprio per rispetto della legge!

Sélica ha uno scatto improvviso: sacrificati proprio tutti? Olkar ammette che uno, dagli spagnoli stessi incatenato sul fondo della stiva, è stato risparmiato. Ma Zanguebar si affretta a chiarire che anche lui dovrà seguire la sorte degli altri. Sélica confessa a Yoriko di voler salvare quello spagnolo (è certa trattarsi di Fernand) ma Yoriko le ricorda il giuramento da lei fatto poco prima! Sélica non sa che fare, ha perso tutto, e allora Yoriko le rivela il suo amore per lei, sperando di averne qualcosa in cambio, ricordandole tutto ciò che lui ha fatto per restituirle la corona. Ma Sélica desiderava la vita, non il regno!

Fernand viene portato davanti a Sélica, che implora Zanguebar di salvarlo. Il gran sacerdote è inflessibile e rifiuta, e allora Sélica gioca il tutto-per-tutto: e se non fosse uno straniero? Dopo aver implorato Fernand di assecondarla, promettendogli la libertà, chiede ai sacerdoti di Zamor: e se lui fosse un fratello nostro? Se il destino l’avesse congiunto con sangue africano? Sì, la vostra regina ridotta in schiavitù e votata alla disgrazia è stata salvata da costui, cui ha concesso la sua mano e il suo cuore. Fernand e Yoriko sono esterrefatti, mentre Sélica dichiara solennemente: Fernand è mio sposo!

(Qui nel manoscritto segue un ensemble a 6 voci musicato, ma senza testo…) Ora Sélica sussurra a Yoriko che se lui non confermerà ciò che lei ha affermato, lei si darà la morte. Poi gli chiede di testimoniare davanti a tutti che lei e Fernand sono sposi. E a Yoriko non resta che assecondare, pur controvoglia, il volere della donna che lui ama sopra ogni cosa. Grande gioia collettiva, e Fernand è salvo! Zanguebar è il primo a compiacersi dell’unione fra i due e dà inizio alla cerimonia nuziale, che consacri il matrimonio anche nella terra di Sélica. La quale rassicura Fernand: quel vincolo matrimoniale impegna soltanto lei, lui non deve sentirsene condizionato.

Un coro augura ogni bene e felicità agli sposi, che vanno verso la reggia, seguiti da giovani fanciulle recanti fiori per la camera nuziale. Ora Sélica e Fernand restano soli: lui la ringrazia per averlo salvato, lei risponde che ha fatto il suo dovere verso il suo padrone, lui ribatte che ora è lui suo schiavo. Lei disprezza i metodi sanguinari dei suoi sacerdoti, che hanno sacrificato tutti i suoi conterranei; lui la ringrazia per averlo presentato come suo sposo. Lei ribatte che quel legame impegna solo lei, non lui, che ora potrà tornare in patria ed essere felice, mentre lei resterà sola con il suo dolore.

Il finale d’atto è interamente occupato da un duetto fra Sélica e Fernand: io abbandonarti? dopo tutto il bene che mi hai fatto? Ma tu già una volta mi hai venduta! e alla mia rivale, così brillante e bella, mentre io maledicevo i miei tratti africani, il mio colore, per voi cristiani oggetto di disprezzo insultante, mentre anche il nostro cuore può conoscere orgoglio e fierezza e vi può circolare un fuoco divorante…

Fernand resta profondamente colpito dalle parole di Sélica e le dichiara ardentemente il suo amore. Sélica lo mette in guardia: se sarò la tua sposa, allora sarò gelosa persino dei tuoi ricordi: dovrai cacciare dai tuoi pensieri anche colei che non è più e che in vita ti fu così cara; ne avrai la forza? Fernand le giura di dimenticare il passato e i due si dichiarano eterno amore, in un travolgente finale d’atto.
   
Il quinto atto si apre con Sélica che sta dormendo. Un coro femminile ordina alle schiave di rispettare il suo sonno e di preparare per il suo risveglio cibo, frutta (arance, banane) e bevande.

Ecco ora Fernand: ha dato la sua promessa a Sélica, ma le sue labbra continuano a mormorare il nome di Inès! E proprio Inès arriva, portando mazzi di fiori. Alla vista di Fernand si rallegra che i suoi desideri siano stati esauditi e che lui sia stato risparmiato, proprio mentre suo marito veniva invece sacrificato. Fernand risponde che Salvator si è meritato quel giusto castigo, poi benedice il destino che ora non potrà più separarlo da Inès. Ma subito si pente di ciò che ha detto: ammette che una promessa lo tiene legato a lei e si sente colpevole; così le chiede di andarsene lontano da lui, che ha promesso fedeltà ad un’altra, ad un angelo di virtù e tenerezza, ad una donna che ora è padrona del suo cuore, che tuttavia batte sempre per Inès.

Inès fa per andarsene, ma Fernand la trattiene. Insomma, lui è in preda ad una specie di schizofrenia: dichiara di amare Inès sopra ogni cosa, ma il suo senso di colpa nei confronti di Sélica gli impone di chiederle di abbandonarlo, e quando lei sta per farlo, si dispera per essere lasciato solo con il suo dolore. Giura davanti a dio che è solo lei, Inès, che lui adora e che per lei è pronto a morire!

Sélica ha sentito le ultime parole di Fernand e va su tutte le furie: dato che lui ha rotto la promessa fattale, lei adesso si spoglia del ruolo di moglie e riprende quello di regina, una regina oltraggiata che ora si farà giudice per vendicare l’offesa. Inès implora perdono, ma Sélica la zittisce e chiede a Fernand di lasciarle sole.

Nel successivo duetto, Sélica domanda ad Inès per quale perfido motivo Fernand si trovasse presso di lei. Inès risponde che solo il caso lo aveva voluto. Ma Sélica incalza: cosa ti diceva, pieno di emozione? Inès risponde: che voi eravate uniti per sempre e che a te andava tutta la sua esistenza e la sua riconoscenza. Ma lui continua ad amarti! No, perdonagli, o regina: il suo onore gli impone di abbandonarmi. No, lui ti ama ancora! Allora, se questa è la sua colpa, la tua collera cada solo su di me: è giusta e legittima, ed io mi inginocchio davanti a te implorando la fine, dato che non ha senso vivere nel dolore e senza felicità; quindi colpiscimi… ah, ma tu piangi?

Qui le due donne si lasciano andare alla disperazione e al tormento per il destino di cui sono vittime. Alla fine Inès chiede a Sélica di uccidere sia lei che Fernand, ma la regina replica: io? sua amica e sorella, che per renderlo felice gli aveva donato la vita? Ma… se per la sua felicità io mi sacrificassi ancora? Inès: no, non potrei accettarlo, solo la morte ci può riunire.

Sélica sta maturando la sua decisione estrema: salvare Inès e Fernand e poi morire! Le due donne chiudono il loro duetto invocando la fine delle loro pene.

Sélica ordina a Yoriko di portare i due spagnoli alla loro nave, caricandola di tesori. Affida a Yoriko due tavolette da consegnare a Fernand subito prima della partenza. Yoriko benedice questo giorno che segna la fine dei suoi tormenti. Sélica lo invita – una volta partiti per sempre Fernand e Inès – a raggiungerlo sulla punta del promontorio che domina il mare. Yoriko, inorridito, le rammenta che in quel luogo si estende l’immensa ombra dell’albero della mancinella (che peraltro non cresce in Africa, ma solo alle Antille…) l’albero della morte, e l’implora di non recarsi sotto quelle fronde, dove chi respira il profumo di quei fiori viene trasportato in un mondo celeste, in un’estasi che si trasforma in delirio e porta alla fine. Sélica risponde che conosce bene le proprietà di quell’albero e se ne terrà lontana, ma vuole andare comunque su quel promontorio da dove si vede il mare.

La scena cambia ed ora siamo sul promontorio: Sélica contempla il mare, infinito come il suo dolore; i flutti che si agitano e si rompono come il suo cuore. Poi si avanza verso l’albero della mancinella, ammirandone gli enormi rami che recano il fogliame: ecco, io vengo qui per trovare calma dopo la tempesta, il sonno e l’oblio dei miei mali, poiché la tua ombra eterna è l’ombra della tomba.

Sélica ora ha calmato il suo odio e canta il suo perdono e il suo addio per l’amato Fernand: ti ho dato il mio cuore e i miei desideri, ora desidero la tua felicità con la tua amata; hai bisogno della mia vita ed io te la sto donando, amore mio! Adesso coglie i fiori rossi dell’albero per farne il suo bouquet nuziale, portandoli al petto ed aspirandone il profumo, che porta una felicità fatale, che fa vivere per un momento e poi, come l’amore, reca la morte. Ecco, sente che il delirio la sta cogliendo.

Canta della dolce estasi che la pervade e che non può ingannarla, dei cieli che vede sopra di sé, della musica celeste che la ispira, dell’amore che la circonda. Ora, fra le nuvole, ecco che le appare il suo amore, il suo Fernand! Supremo delirio, suprema delizia! Lui torna, e con lui tornano i bei giorni! Io mi sono sacrificata, gli chiede, e tu, tu mi ami? E ripete la domanda, cui sempre risponde il silenzio, ma lei sente Fernand che dichiara il suo amore eterno! Suprema gioia, ebbrezza seducente! Fernand mi prende fra le sue braccia, sento il suo cuore battere sul mio…

Si inginocchia, le forze l’abbandonano, si sente morire e, ormai in preda agli effetti del veleno, saluta Fernand. Poi si ode un colpo di cannone e lei si riprende, come colta da una visione, e ancora canta dell’estasi che non può ingannarla, dei cieli che vede sopra di sé… Coglie altri fiori dall’albero, ne aspira il profumo e si addormenta.

Qui un balletto accompagna il suo sogno, dove Sélica ancora vede Fernand accanto a lei e al termine del quale si rende conto di essere ancora viva, lì, sulla terra. Arriva Yoriko trionfante: gli stranieri sono partiti, finalmente, ecco la loro nave che si allontana! Ma Sélica ormai sta morendo, chiede di rivedere il cielo. Si ode un coro etereo che accompagna il suo trapasso. Yoriko cerca di farla rientrare in sé, ma la sua mano è ormai gelida, è la morte. No - sono le ultime parole esalate da Sélica - è la felicità!

Il popolo ammonisce: non avvicinatevi, questi rami danno la morte! Ma Yoriko rimane lì, per condividere il trapasso con la sua regina, per restare per sempre accanto alla sua amata Sélica. L’opera si chiude con i due cori, quello del popolo che paventa la morte, e quello etereo che inneggia all’amore. 
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Questa versione non vide mai le scene perché il compositore medesimo finì per condividere le critiche al libretto che gli venivano da più parti (fra cui la direzione del teatro…) Di essa peraltro è emerso abbastanza recentemente il manoscritto originale, sulla cui prima pagina (oltre al titolo l’Affricaine) si può leggere la data precisa della conclusione della composizione in Particell (il 6 novembre 1843):


Dal manoscritto si può estrapolare il seguente schema dei numeri musicali e dei recitativi (sempre accompagnati):

ACTE I
Scéne I - Fernand, Ines, Salvator
Chœur du peuple - Stretta du Final Chœur, Yoriko, Sélica, Pedrillo, Fernand

ACTE II
Entr’acte, Récitatif et Duo – Sélica, Yoriko
Récitatif - Couplets - Fernand
Récitatif – Fernand, Sélica
Trio – Inès, Sélica, Fernand
Récitatif – Inès, Salvator, Fernand, Sélica
Romance – Sélica
Récitatif – Yoriko
Duo et Trio final – Sélica, Yoriko, Fernand, Alcade

ACTE III
Entr’acte et choeur de femmes – Inès, Chœur
Chœur des Matelots - Chœur
Prière – Inès, Sélica, Chœur
Chanson du Matelot (Chanson à boire) – Matelot, Chœur des Matelots, Inès
Récitatif – Salvator, Yoriko, Le Contremaitre
Couplets – Yoriko, Chœur des Matelots
Récitatif – Un Matelot, Voix du dehors, Chœur, Fernand
Duo – Fernand, Salvator
Chœur des Matelots et Morceau d’EnsembleChœur, Salvator, Fernand, Inès, Sélica
Final – Salvator, Inès, Sélica, Fernand, Yoriko, Olkar, Chœur
Chœur d’Affricaines Chœur, Yoriko, Sélica

ACTE IV
Entr’acte et Chœur – Zanguebar, Chœur d’Affricaines
Récitatif – Zanguebar, Yoriko
Arioso – Zanguebar
Chœur dansé - Chœur
Scéne – Sélica, Yoriko, Zanguebar, Olkar
Scéne IV – Fernand, Sélica, Zanguebar, Chœur, Yoriko
Morceau d’Ensemble – Sélica, Fernand, Yoriko, Chœur, Olkar, Zanguebar
Récitatif – Zanguebar, Fernand, Sélica, Chœur
Scène V Chœur des Noces (dansé)Chœur de Femmes
Récitatif (Asyle solitaire) – Sélica, Fernand
Duo – Sélica, Fernand

ACTE V
Entr’acte et Chœur de Femmes - Chœur de Femmes
Scène, Récitatif et Air – Fernand, Inès
Air - Fernand
Récitatif – Sélica, Fernand, Inès
Duo – Sélica, Inès
Récitatif – Sélica, Yoriko
Finale:
Scène: Récitatif - Sélica
Cavatine et Récitatif – Sélica
Air - Sélica
Scéne finale – Sélica, Yoriko, Chœur du Peuple, Chœur aerien.
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Oggi qualche musicologo in cerca di notorietà potrebbe studiare quel manoscritto e ricavarci qualcosa di eseguibile, magari di rappresentabile, un po’ come si è fatto in passato – per dire – con il primo Boris

Prossimamente vedremo come questa versione verrà pesantemente manipolata (dal librettista, su insistenze del compositore) nei quasi 20 anni successivi alla sua stesura originaria. Parecchie idee musicali di questa verranno comunque riprese ed utilizzate nella successiva versione dell’opera.

(1. continua)
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Allego uno studio su Meyerbeer a firma di Carlo Cavalletti, Alessandro Mormile e Giorgio Gualerzi apparso su Musica&Dossier del Novembre 1991.

13 novembre, 2013

Orchestraverdi – Concerto n°9

 

Resta sul podio Zhang Xian per proporre, nel ventennale della fondazione de laVerdi, l’identico programma del primo concerto che la neonata orchestra tenne al Conservatorio quel sabato 13 novembre del 1993, sotto la bacchetta del suo mitico co-fondatore Vladimir Delman.

Questa sera, prima del concerto, i massimi responsabili gestionali (presidente Cervetti e dg Corbani) e lo storico Konzertmeister Luca Santaniello hanno rievocato i giorni e le vicende di quella pionieristica e anche parecchio pazza impresa. Che però ha dato i frutti che oggi sono sotto gli occhi di tutti.

Entrando in sala si nota subito la mancanza del… podio. In compenso la sedia di Santaniello è sostituita da un seggiolone da contrabbassista. Sì perché in Ciajkovski sarà lui a guidare con l’archetto e i cenni del capo il pacchetto degli… archi, alcuni dei quali, come Luca, protagonisti di quel primo concerto di 20 anni fa.

E suonano divinamente anche senza Maestro (nell’Elegia confesso che mi son venute le lacrime agli occhi). Però qualcuno lassù a guardarli e guidarli c’era: proprio il leggendario Vladimir, la cui inconfondibile effige campeggiava sui due schermi posti sopra le loro teste.

Successo straordinario: direi che sono musicisti che nulla hanno da invidiare ai colleghi delle orchestre più blasonate del pianeta. Così ci deliziano ancora con la sezione finale del Walzer.

Poi torna il podio per accogliere Zhang Xian che ancora una volta ci propone la sua visione della Fantastique. Senza mezze misure, con la manopola del contrasto girata sul massimo. E senza far mancare nessuno degli effetti speciali (tipo l’oboe di Emiliano Greci posto stereofonicamente dietro le quinte) o il contrappunto dei… timpani (sempre nella scena campestre).

Un bicchiere di spumante per tutti ha chiuso i festeggiamenti. Dopo la replica di domani si dovrà però sudare assai: è in agguato il padre prodigo Chailly con la sinfonia dei mille!

11 novembre, 2013

Servitù fiorentina


Pur tra mille travagli e incertezze che turbano l’esistenza del Maggio – e con un paio di settimane di ritardo rispetto alla programmazione originale - La serva padrona torna a Firenze. Ieri, nella piccola bomboniera del Teatro Goldoni (affollata ma non proprio esaurita) è andata in scena la quarta delle sette recite.

Nel 1733 (epoca in cui Bach componeva Kyrie e Gloria della Messa in SI minore!) il 23enne Pergolesi (morirà, ahilui, solo tre anni più tardi) compose due intermezzi, per un totale di circa 45-50 minuti, da impiegarsi per intrattenere il pubblico nei due intervalli della sua opera seria Il prigionier superbo. Destino volle che l’opera seria venisse del tutto e presto dimenticata, mentre i due intermezzi (La serva padrona, appunto) diventassero un autentico best-seller per tutto il settecento ed oltre!

Musica brillante e coinvolgente, pur nella relativa schematicità delle forme, con arie e duetti tipicamente in forma tripartita, su tonalità contigue (tonica, dominante, relativa minore, o simili) che però contiene germi di ciò che verrà alla luce nei decenni successivi: per dire, l’aria introduttiva di Ubaldo non può non rimandare a quella di Leporello, così come nel Largo di Serpina si trova una vaga premonizione del gluckiano Che farò senza Euridice

La vicenda trattata qui (un’intraprendente servetta che riesce a farsi sposare dall’anziano padrone, complice un maggiordomo… muto) era un po’ uno stereotipo nel’700, ma si potrebbe ambientarla tranquillamente anche ai giorni nostri: il regista potrebbe proporci, per dire, i rapporti fra un tale Silvio e una certa Francesca… come Vespone ci vedrei benissimo un tale Adriano; e si potrebbe aggiungere, per movimentare ulteriormente l’atmosfera, un altro personaggio non-cantante, quale un simpatico quadrupede a nome Dudù.

In ogni caso la regìa di Curro Carreras (del 2011, ripresa ora da Silvia Paoli) pur presentando uno scenario proprio settecentesco rende perfettamente tutta la freschezza e la comicità dell’operina, grazie anche, se non soprattutto, alla bravura dell’interprete del terzo personaggio (Vespone, muto): Alessandro Riccio, autentico trionfatore del pomeriggio. Funzionali le scene (a moduli rotanti che aprono la vista sui diversi ambienti domestici) e i costumi di Raffaele Del Savio, che ha elaborato lavori di un corso di scenografia del Maggio.

Sul piano musicale assai convincenti i due (unici) protagonisti canori: una Lavinia Bini dalla vocina adatta al personaggio sbarazzino di Serpina, e Davide Bartolucci, un Uberto forse un filno troppo… giovane (beato lui, smile!) ma autorevole sia vocalmente che scenicamente.

I suonatori sono 17 archi dell’Orchestra del Maggio, coadiuvati dal sempre più capelluto Andrea Severi al cembalo e guidati con cura e precisione da Massimiliano Caldi. Il quale si è scrupolosamente attenuto alla partitura originale, evitando di aggiungervi brani alieni (tipo sinfonia o altro) ed includendovi il secondo finale (largamente il più rappresentato) con il duetto Per te io ho nel core (preso da Il Flaminio).  

Qui una pregevole edizione cinematografica del 1962, con Montarsolo-Moffo diretti da Ferrara, che ha invece rimpolpato i due intermezzi con una sinfonia e un… intermezzo (smile!) oltre che giustapporre i due numeri finali (il sostituto, Per te io ho nel core, e l’originale, Contento tu sarai).

Pubblico divertito, come ad un avanspettacolo di alto livello, ecco: un’oretta davvero frizzante e gradevole!
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Primo intermezzo
Aria (Allegro, 4/4, SIb maggiore): Aspettare e non venire (Uberto)  
Recitativo: Quest’è per me disgrazia (Uberto, Serpina)
Aria (Allegro assai, 4/4, FA maggiore): Sempre in contrasti (Uberto)  
Recitativo: In somma delle somme (Serpina, Uberto)
Aria (Allegro, 2/4, LA maggiore): Stizzoso, mio stizzoso (Serpina)
Recitativo: Benissimo. Hai tu inteso? (Uberto, Serpina)
Duetto (Allegro, 4/4, SOL maggiore): Lo conosco a quegli occhietti (Serpina, Uberto)

Secondo intermezzo
Recitativo: Or che fatto ti sei (Serpina, Uberto)
Aria (Largo, 4/4 – Allegro, 3/8, SIb maggiore): A Serpina penserete (Serpina)
Recitativo: Ah! Quanto mi sa male (Uberto, Serpina)
>>Recitativo accompagnato: Per altro io penserei (Uberto)
Aria (Allegro, 4/4, MIb maggiore): Son imbrogliato io già (Uberto)
Recitativo: Favorisca, signor, passi (Serpina, Uberto)
Duetto originale (Allegro, 6/8, LA maggiore): Contento tu sarai (Serpina, Uberto)
>>Duetto sostituivo (Allegro, 4/4, RE maggiore): Per te io ho nel core (Serpina, Uberto)

08 novembre, 2013

Orchestraverdi – Concerto n°8

 

L’ottavo appuntamento stagionale de laVerdi propone uno dei cavalli di battaglia dell’orchestra (l’altro è la nona di Beethoven, ormai di tradizione a capodanno): il Requiem di Verdi.

A dirigerlo è tornata – dopo l’avvicendamento con Ceccato e Axelrod nelle due stagioni precedenti – Zhang Xian. Che è anche tornata – dopo esperimenti che evidentemente non l’hanno convinta del tutto – a dislocare strumentisti e solisti in modo abbastanza tradizionale: violoncelli al proscenio, bassi a destra e solisti posti fra orchestra e coro.

Ecco, forse i quattro avrebbero meglio fatto passare le proprie voci, non proprio possenti (salvo la Chiara Angella, la più convincente) se fossero stati messi al proscenio. Agunda Kulaeva e Alexander Vassiliev hanno onestamente fatto la loro parte. Mario Zeffiri, tenore abbastanza leggero, ha sostituito all’ultimo minuto Roman Sadnik (che dal repertorio parrebbe più una voce da Heldentenor) ma ha comunque fatto valere la sua esperienza anche nello specifico del Requiem verdiano.

Per il resto, una prestazione eccellente di tutti, a partire dal coro di Erina Gambarini, che sa gestire alla perfezione i passi più colossali così come gli ultra-pianissimo che Verdi ha disseminato nella partitura.

Insomma, ancora una volta un’esecuzione davvero emozionante, e questo è ciò che si richiede in questi casi: il pubblico ha ricambiato tutti con un autentico trionfo.

Buon viatico per la titanica impresa che i complessi de laVerdi si preparano ad affrontare fra un paio di settimane con il redivivo Chailly.


02 novembre, 2013

Orchestraverdi – Concerto n°7

 

Torna sul podio de laVerdi il venerabile Helmuth Rilling per proporci un delizioso programma tutto mozartiano.

Programma aperto dalla Sinfonia K319 (catalogata come la 33ma) composta da un Teofilo 23enne che era in procinto, con Idomeneo, di spiccare il grande volo delle opere della maturità. 

E proprio nell’iniziale Allegro assai scopriamo un motivo secondario che Mozart riproporrà come tema conduttore dell’ultimo movimento di sinfonia da lui composto, quasi 10 anni dopo:
 
Qualcuno l’ha definita la pastorale di Mozart, e non senza ragione; a giustificarlo basta questo esempio di un motivo del Finale:

Come sempre Rilling dirige con grande sobrietà, ma con assoluto rigore,  ed è davvero un piacere ascoltare da lui – ben assecondato da Dellingshausen che guida l’orchestra da par suo - questo piccolo capolavoro.
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Ecco poi la sorridente tedeschina Mirella Hagen farsi avanti per interpretare Exultate, Jubilate!  Composto dal 17enne Mozart ed eseguito per la prima volta proprio a Milano nel gennaio 1773 (altro anniversario… 240 anni!) fu dedicato e indirizzato al castrato Venanzio Rauzzini, già interprete di opere mozartiane.

A volte è definito mottetto, altre volte aria: in effetti ha un testo vagamente spirituale (non strettamente religioso) su cui Mozart ha scritto una musica assolutamente laica e profana, piena di svolazzi da teatro. E che chiude – sull’Alleluja! - con un accenno all’inno dell’imperatore, nientemeno:

La Hagen fa gorgheggi da usignolo (non per niente quest’estate a Bayreuth ha sostenuto la parte dell’Uccellino del bosco…) e si merita calorosi applausi dal foltissimo pubblico.
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Chiude il programma la Praga (K504) già diretta qui proprio da Rilling anni orsono. Di struttura haydn-iana, a partire dalla lunga introduzione lenta all’iniziale Allegro, che anticipa nelle atmosfere cupe l’imminente DonGiovanni, manca però del Menuetto, cosa che ancora gli esperti devono decidere se sia stata voluta da Mozart, o sia dipesa da… perdite nelle tubature (smile!)

Rilling non si smentisce e ce ne dà ancora un’interpretazione impeccabile, accolta calorosissimamente dal pubblico, che si è goduto una serata davvero… distensiva.    

01 novembre, 2013

Noseda inciampa in Aida alla Scala

 

Ieri sera, in un Piermarini per nulla preso d’assalto, terza delle nove recite di questa ripresa dell’Aida  di Zeffirelli del 2006.

 

Sul podio il milanese Gianandrea Noseda, che dopo aver inaugurato la stagione 13-14 del suo Regio sta chiudendo quella 12-13 della Scala. Un testa-coda che ieri si è materializzato proprio come in pista: una salva di vergogna alla fine del second’atto, buh al rientro per il terzo e altri pesanti buh alla singola finale. Insomma, per lui un autentico calvario… Meritato? Mah, di certo il mio concittadino sestese non ha prodotto una delle sue prestazioni migliori: dopo un avvio promettente con gli archi del preludio, si è fatto prendere la mano da una specie di fregola, che lo ha portato a staccare quasi sempre tempi eccessivamente concitati e a produrre fracassi francamente insopportabili. E proprio la scena del trionfo ne è stata testimone, con le conseguenze descritte. Ma anche in seguito le cose non sono poi migliorate molto. Insomma, una serata storta, ecco.


La compagnia di canto è stata evidentemente riparata dal parafulmine Noseda, ricevendo complessivamente solo applausi: in realtà qualcuno avrebbe meritato le sue belle disapprovazioni. A cominciare da Nadia Krasteva, un’Amneris quasi inesistente: voce scarsa, spesso inudibile e male impostata. Poi Ambrogio Maestri, che ha sfoderato il suo vocione, ma usandolo più per vociferare che per cantare Amonasro (smile!)

In un’onesta sufficienza, ma nulla più, i due bassi Alexander Tsymbalyuk e Marco Spotti, che han fatto dignitosamente la loro parte di Re e Gran Sacerdote.

Per fortuna note (abbastanza o molto) positive dai due protagonisti: Marco Berti conferma le sue grandi doti naturali e se riuscisse a sfoderare un filino di espressione in più potrebbe anche essere un Radames di altissimo livello. Grande l’Aida di Hui He, vera trionfatrice della serata, cui è difficile trovare pecche interpretative.  

I due comprimari erano altri asiatici (Jaeheui Kwon, messaggero e Sae Kyung Rim, sacerdotessa) che hanno assolto onestamente i rispettivi compiti.

Efficace il coro di Casoni e abbastanza in palla l’orchestra, che però Noseda ha guidato come detto più sopra, e come se sul palco non ci fosse nessuno da far ascoltare.

L’allestimento è ultra-conosciuto e poco c’era da scoprirvi: tutto sommato è proprio come uno si immagina l’Aida, coreografie (di Vladimir Vasiliev) incluse; anzi chi è stato all’Arena forse si aspetterebbe qualche… bestia in più (smile!)  

26 ottobre, 2013

Orchestraverdi – Concerto n°6

 

Prima apparizione sul podio, nella stagione 13-14, per il Direttore principale John Axelrod, che continua la sua visitazione delle sinfonie di Brahms e completa il ciclo dedicato ai concerti di Rachmaninov.

In un gremitissimo Auditorium si esegue del russo il Quarto ed ultimo, interpretato da Alexander Ghindin. Un’opera dalla genesi tormentata e dalla vita piuttosto grama… (meritatamente, tirate tutte le somme.)

Concepito ancora a ridosso del terzo, questo quarto dovette attendere anni e anni prima di vedere la luce (1926). E quelli furono gli anni peggiori per Rachmaninov, che era faticosamente – e con grandi compromessi sul piano artistico – uscito dalla tremenda crisi depressiva patita sul finire dell’800 ed ora era volontario esule da una patria che i bolscevichi gli avevano resa invivibile, cittadino errante in un mondo (l’Occidente) che magari lo riempiva di dollari, ma che lui intimamente disprezzava, includendo nella sua diffidenza anche le clamorose novità che vi nascevano in campo musicale: a Vienna (Schönberg) e Parigi (Stravinski, un suo compatriota che però, a differenza di lui, qui da noi aveva davvero trovato… l’america! )

Ecco perché, più che veder la luce, il concerto vide un lumicino, come quello che i simpatici nostri governanti ci indicano da anni baluginare laggiù, in fondo all’interminabile tunnel della crisi (smile?) Rachmaninov, dopo poche esibizioni in USA, accolte, ad essere comprensivi, dalla più totale indifferenza (beh, qualcuno si spinse a scrivere che il concerto sarebbe stato vecchio già 50 anni prima!) non fece nemmeno pubblicare la partitura (la cosa è avvenuta solo nel 2000, quando il manoscritto originale del compositore fu ceduto a Boosey). Questa versione è stata incisa proprio da Ghindin con Ashkenazy, in Finlandia.

Due anni dopo (1928) Rachmaninov si decise a far pubblicare l’opera, non dopo averla un po’ rimaneggiata (soprattutto nel tempo finale) e smagrita. (Il fatto che lui medesimo la ritenesse smisuratamente prolissa, mentre durava poco più di 30’, la dice lunga sul suo valore intrinseco…) Ne esiste, pare, un sola incisione, che si può ascoltare qui, sia pur mutilata del tempo di mezzo.

Ma dopo la riproposizione al pubblico, il lumicino, proprio come quello sul fondo del nostro tunnel, si trasformò in… lumino da cimitero: così il compositore ritirò l’opera dalla circolazione e non se ne riparlò per più di un decennio, fino al 1941, quando un Rachmaninov che forse non immaginava di essere ormai vicino alla fine le diede un’altra robusta sforbiciata e un deciso maquillage (qui Benedetti Michelangeli).

Ed è proprio quest’ultima (delle tre) la versione che si è faticosamente trascinata negli anni fra una sala da concerto e una di incisione, senza però mai sfondare; e che abbiamo ascoltato ieri sera nel primo dei due appuntamenti previsti per il 6° concerto.
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Il primo movimento (Allegro vivace, alla breve) è di struttura quasi indecifrabile, una cosa che si avvicina più alla fantasia o al capriccio che non alla classica forma-sonata. Al primo ascolto (ma non è che al secondo, terzo, ecc. le cose migliorino…) appare come un pot-pourri di motivi affastellati l’uno sull’altro, senza alcuna narrativa a giustificarne la presenza.

Sono almeno sei le idee tematiche (più le relative diramazioni e transizioni!) che compaiono in successione; alcune delle quali rifanno capolino in seguito, ma senza che ciò abbia attinenza con concetti di esposizione, sviluppo e ripresa. La qual cosa per me, più che innovazione, significa… manifesta impotenza ad esprimere in musica qualcosa di sensato. Effetti senza cause? O cause che non sfociano in effetti? Comunque sia, una cosa piuttosto deludente.

Nella figura sottostante sono riportati i principali motivi di questo primo movimento, individuati da lettere corrispondenti alla tabella successiva:


Lo specchietto qui sotto sintetizza la struttura del movimento, nelle due versioni del 1928 e del 1941; nella colonna tagli sono riportate esclusivamente le modifiche apportate da Rachmaninov in termini di accorciamento dei tempi; altre modifiche, più o meno pesanti e diffuse, riguardano la strumentazione:


Come si vede, i motivi ricorrono in modo disordinato, senza alcuna apparente logica formale, il che lascia l’ascoltatore interdetto, come di fronte ad una specie di caos.

Si noti di passaggio come la sforbiciata più decisa del 1941 (circa il 70% delle modifiche) riguardi la transizione nella parte iniziale del movimento.

Il successivo Largo – che è probabilmente la parte più nobile del concerto - ha una struttura semplice: breve introduzione, poi A-B-A e infine una breve transizione verso il Finale; era di sole 80 battute già nella versione 1928 e fu ulteriormente accorciato (di altre tre, nella prima delle tre sezioni) in quella del 1941, dove però subì anche qualche non banale modifica.

L’incipit del tema principale, DO maggiore, che in pratica monopolizza l’intero movimento, essendo riproposto in ben 5 diverse tonalità, scende dalla mediante alla tonica e ricorda ovviamente quello del famosissimo concerto di Schumann. Sembrerà strano, ma Rachmaninov se ne rese conto solo dopo aver riguardato la prima bella copia dell’opera, e ne scrisse stupito (!?) al dedicatario Nicolas Medtner, quasi rimproverandogli di non averglielo fatto notare prima.

Lo specchietto seguente riporta con un certo dettaglio la macro e micro struttura del brano:


Qui il taglio del 1941 è stato davvero impercettibile, mentre sono riscontrabili alcune innovazioni di non poco conto, fra cui è il caso di citare: la ristrutturazione delle 9 battute che nella versione del 1928 (a partire dalla 25) erano interamente affidate al solista, e che nel 1941 vennero distribuite fra solista e orchestra, in pratica riproponendo l’approccio impiegato nella prima esposizione del tema; poi l’inizio della sezione agitata, dove la parte del solista è stata semplificata (pesanti accordi in sostituzione di veloci semicrome) e vi è stato aggiunto un attacco del pianoforte (laddove c’era una pausa); poi il ritorno del tema principale (sezione Come primo) che era esposto esplicitamente in orchestra e poi dal solista, mentre ora è vagamente sfumato e variato; infine è stato cambiato radicalmente il passaggio alle battute 66-72 nella versione 1928, dove il pianoforte divagava sul tema, mentre ora procede con pesanti accordi ribattuti. Francamente è difficile trovare dei razionali convincenti per queste manipolazioni.

L’Allegro vivace finale è il movimento più pesantemente modificato da Rachmaninov nel 1941 (ma già l’incipit e la coda erano stati oggetto di corpose modifiche nel 1928): vi tagliò quasi il 9% delle battute e ne modificò un altro 32%... In particolare rivoluzionò la sezione conclusiva, cambiandone radicalmente anche il tempo (da 2/4 a 3/4). Insomma, un vero e proprio rifacimento!  

La macro-struttura del movimento presenta tre sezioni tematiche principali (A-B-A) ciascuna costituita da diversi motivi, richiamati nella figura seguente:

Lo specchietto qui sotto schematizza la struttura del movimento (di cui riporta soltanto i tratti salienti):


Come si vede, una prima modifica abbastanza marcata fra 1928 e 1941 riguarda l’inizio della sezione B, dove viene introdotto dal pianoforte un motivo impertinente, poi ripreso dopo il cantabile del solista. La ripresa della sezione A è, come detto, in gran parte rimaneggiata.

Dopo la riproposizione dell’Introduzione del primo movimento abbiamo la Coda, che Rachmaninov rifece di sana pianta (esclusa la cadenza conclusiva) nel 1941 portandola, come detto, da 2/4 a 3/4. In essa infilò anche un richiamo al motivo E del primo movimento, enfaticamente dilatato, dando così un (facile) tocco di ciclicità al lavoro; quanto alle novità di questo finale nella versione ultima, esse sono più che altro di natura scopertamente effettistica, e quindi non è che bastino a risollevare le sorti del concerto.
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Ghindin, che oggi ha solo 36 anni ma ne dimostra qualcuno in più (ahilui deve odiare ogni tipo di dieta, smile!) si è impegnato allo spasimo in questo concerto, anche con i muscoli maxillo-facciali, oltre che con le dita… ma più di tanto nemmeno lui può fare per trasformare questo pastiche in un capolavoro!

Così, per addolcirci la pillola, ci regala due bis di un Rach più abbordabile, nel primo dei quali si sente pure un po’ di Malagueña
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Dopo la pausa Axelrod si presenta per… incidere la Prima di Brahms: al pubblico viene chiesta in anticipo la massima collaborazione (leggi: limitare o evitare starnuti e scaracchi di stagione… smile!) e in effetti non si è sentita volare una mosca per l’intera durata della sinfonia.

Axelrod fa eseguire – cosa rara – il ritornello del primo movimento, chissà se per fedeltà alla lettera brahmsiana o perché poi (in studio) sceglierà quale delle due esecuzioni (anzi delle quattro, contando la replica di domenica) immortalare sul nuovo CD…

A parte gli scherzi, una performance pregevole, con il Direttore che ha tenuto un aplomb davvero impeccabile e i ragazzi che han dato il massimo in tutti i reparti: insomma nessuno si può essere annoiato, fosse pure al centesimo ascolto di questo capolavoro immortale.  

21 ottobre, 2013

Il Simon Boccanegra di Noseda a Torino

 

Prendendo direttamente il testimone da quello di Parma, il Regio di Torino ha inaugurato la stagione con Simon Boccanegra.


Già la prima di mercoledi 9 trasmessa da Radio3 aveva lasciato (perlomeno a me) una buona impressione, che si è confermata ieri dopo l’ascolto dal vivo della penultima delle otto rappresentazioni.

Spettacolo originale di Bussotti del 1979 (!) ripreso da Vittorio Borrelli: un esempio di come si possa coniugare il rispetto quasi maniacale per il libretto con la modernità di presentazione e di interpretazione. Modernità che nulla ha a che fare con trasposizioni spazio-temporali cervellotiche, né con la ricerca (che spesso è invenzione bella-e-buona) nell’originale di chissà quali reconditi significati filosofico-politico-psicologico-esistenziali.

Credo che pochi spettatori non si siano commossi fino alle lacrime nella scena dell’agnizione Simone-Maria o in quella che chiude l’opera. Naturalmente il merito preponderante è di tale Giuseppe Verdi, basta affidarsi a lui (come ha fatto Bussotti) senza pretendere di migliorarlo per rendercelo più appetibile…

Strepitosa la prestazione delle masse strumentali e corali del Regio: un Noseda che ha tenuto in pugno buca e palco con l’autorità di sempre (ormai il mio concittadino sestese staziona di diritto nell’Olimpo dei Kapellmeister) e un Fenoglio che ha preparato nel miglior modo i suoi coristi. Credo che il Teatro torinese abbia oggi pochi rivali (in Italia, quanto meno) in fatto di standard qualitativi.

Quanto alle voci, note essenzialmente positive, ovviamente con alti e… meno alti.

Su tutti il Fiesco di Michele Pertusi, vocalmente e scenicamente impeccabile. Come quasi impeccabile è stato Ambrogio Maestri, cui purtroppo mancano, come dire, i connotati somatici per interpretare al meglio ruoli che non siano Dulcamara o Falstaff: intendiamoci, la voce c’è e come, è il portamento e persino il suo ghigno naturale che lo rendono poco plausibile in ruoli drammatici, come questo di Simone o come Amonasro, per citarne solo un altro… Anche per lui comunque, come per Pertusi, un grande successo.

Bella sorpresa (ma già in radio si era apprezzata) da parte di María José Siri, voce per me molto adatta al ruolo di Amelia-Maria, ossia abbastanza pesante (in senso positivo): dopo un avvio con qualche incertezza (in Come in quest’ora bruna) non ha fatto altro che crescere, meritandosi applausi a scena aperta e ovazioni finali.

Roberto De Biasio è stato un Adorno appena sulla sufficienza (per me, ovviamente): è giovane e deve sicuramente migliorare; tutto sta a vedere se la strada migliore per farlo siano questi impegni con l’asticella troppo alta

Convincente il Paolo di Devid Cecconi, che non per nulla fa anche Rigoletto nell’attuale produzione del Regio. Un onesto Pietro è Fabrizio Beggi.

I due ruoli decisamente minori erano interpretati da Dario Prola (Capitano) e dalla brava soprano del Coro del Regio Eugenia Braynova (Ancella) che all’ultimo momento ha sostituito la collega Sabrina Boscarato.

Senza voler avanzare paragoni (che sarebbero improponibili date le due diversissime realtà) fra l’edizione di Parma e questa di Torino, mi sento di dire che la scelta parallela dei due teatri ha meritoriamente consentito di riportare in evidenza quest’opera forse ancora troppo poco valorizzata. 

18 ottobre, 2013

Orchestraverdi – Concerto n°5

 

Riecco in un Auditorium strapieno il rampante-con-juicio Jader Bignamini sul podio de laVerdi per dirigervi un concerto tutto russo, ma di musicisti di… esportazione.

La prima parte è dedicata a Rachmaninov, e precisamente al famigerato Rach3 (ascoltato recentemente agli Arcimboldi dal giovane bresciano Federico Colli con Temirkanov e i suoi) qui interpretato da un altro ventunenne: il milanese Luca Buratto.

Sarà magari perché questo Rachmaninov è, come dire, più di pancia che di testa e quindi non pone all’interprete (né all’ascoltatore, a dirla tutta) problemi metafisici… fatto sta che l’esecuzione del ragazzo è stata proprio travolgente!

Intanto non si è risparmiato una sola nota (sappiamo quanto venga tagliato, col beneplacito dell’Autore, questo concerto) e si è semplicemente cautelato tenendosi lo spartito dentro la cassa del pianoforte.
   
Quanto alla cadenza del primo movimento (che per la prima parte esiste in due versioni, entrambe autografe) Luca ha optato per la seconda (indicata come ossia) che è forse la meno eseguita, ma che non è certo di difficoltà inferiore all’altra.

Meritatissimo successo e grandi ovazioni per questa bella realtà del concertismo italiano, che ci offre un bis (ancora Rach?)
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Poi tutto Stravinski: uno e… due.

Lo Scherzo fantastique è un’opera del primo periodo (russo, 1907-8). Si volge ancora indietro, a Ciajkovski e soprattutto al maestro Rimski; però ci si trovano già i germi di ciò che maturerà di lì a pochi anni (se non mesi) come l’impiego, insieme ad uno spiccato cromatismo, di scale a toni interi e di scale diminuite (o ottofoniche che dir si voglia). L’accostamento con Le Sacre (1913) è quindi assai interessante ed istruttivo.
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La composizione fu ispirata dallo scritto del 1901 La vie des abeilles (La vita delle api) di Maurice Maeterlinck (un vero esperto in materia, avendo fatto per 20 anni l’apicoltore) e in effetti ci si sente il ronzio di insetti e coleotteri (teniamo presente che a quei tempi Rimski aveva già composto il suo Calabrone…)

In tutto consta di 460 battute, suddivise in tre sezioni, più una coda, così articolate in agogica:

a) 1-167 Con moto (6/8)  
b) 168-297 Moderato assai (3/4, 9/8 e 6/8) 
c) 298-460 Tempo I Accelerando-Stringendo-Vivo (6/8)

Si noti ancora la regolarità del tempo, che ha pochissime e morbide variazioni, al contrario di quanto accadrà per le opere successive (Le sacre ha 7 cambi di tempo nelle sole prime 9 battute!)

Le tre sezioni corrispondono al programma letterario pubblicato nella prima edizione della partitura, il quale programma deriverebbe più o meno dal corposo saggio di Maeterlinck, costituito da ben 7 libri, così strutturati:

I Sulla soglia dell’alveare (8 capitoli)
II Lo sciame (31 capitoli)
III La fondazione della città (25 capitoli)
IV Le giovani regine (18 capitoli)
V Il volo nuziale (12 capitoli)
VI Il massacro dei maschi (3 capitoli)
VII Il progresso della specie (19 capitoli)

Così avremmo in Stravinski: (a) la vita dell’alveare, poi interrotta (b) dall’accoppiamento dell’ape-regina con il fuco e, dopo la morte del maschio, (c) ripresa con maggior intensità. Mentre le due sezioni estreme abbondano di cromatismi e scale esotiche, quella centrale è assai più diatonica e ci si sente persino Wagner (l’incantesimo del Parsifal e atmosfere dei Meistersinger…) oltre ad influssi dell’impressionismo di Debussy e a reminiscenze proprio di Rachmaninov (la seconda sinfonia, composta un paio d’anni prima di questo Scherzo).

Nelle due sezioni estreme abbiamo un ampio impiego degli strumentini (fra cui l’ottavino, ovviamente) per evocare l’incessante muoversi e operare degli insetti; ci troviamo anche note rapidamente ribattute, che diventeranno ossessive nel Sacre.  La sezione centrale allarga i tempi e si fa più cantabile ed elegiaca.  

Stravinski a posteriori negò di aver voluto comporre della musica a programma, pretendendo invece che fosse nata come musica pura… ma sappiamo che sulla sincerità del nostro nessuno sarebbe disposto a mettere la mano sul fuoco. Per di più su quella musica fu costruito – toh! - un balletto (proprio col titolo da Maeterlinck) e chissà che la sconfessione di Stravinski non sia legata più prosaicamente a contenziosi economici relativi a come spartire i proventi di quello spettacolo.
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Bignamini ha il merito di averci evocato un ordinatissimo alveare e non un… vespaio (smile!) facendo suonare tutti con grande leggerezza, proprio come fosse un Mendelssohn del Sogno.

Infine ecco il piatto forte della Sagra (traduzione proprio ridicola, che fa pensare a salsicce alla brace, frittura di pesce, zucchero filato e processioni con madonne pellegrine); un capolavoro che ancor oggi – a un secolo di distanza! – sa di avanguardia, di novità, di rottura.

Straordinaria prestazione dell’Orchestra in tutte le sezioni, e sicura conferma del valore di Bignamini, che appare sempre più maturo e autorevole.

Intanto uno dei padri de laVerdi pare destinato a prendere – non proprio domani mattina - il timone della Scala. Intanto sarà protagonista, con l’Orchestra che lui ha guidato per anni, di un avvenimento quasi unico per Milano: l’Ottava di Mahler (21 e 23 novembre alla vecchia Fiera).