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01 marzo, 2013

Orchestraverdi – concerto n.24


Dopo più di due anni tornano a risuonare in Auditorium le poderose note mahleriane della Terza! E come allora è Zhang Xian a guidare i complessi strumentali e vocali de laVerdi in questo interminabile cammino in sei tappe che è un vero e proprio per aspera ad astra.

È curioso notare come in un’epoca (a cavallo fra ‘800 e ‘900) in cui il genere operistico subiva trasformazioni abbastanza radicali, una delle quali consisteva nell’infliggere decise sforbiciate ai tempi, rispetto al passato (raramente si superavano le 2 ore e spesso si andava anche al di sotto dei 90 minuti) Mahler – sulla scia di Bruckner - portasse invece la Sinfonia ad assumere strutture ipertrofiche mai viste prima (salvo rarissime eccezioni). Prima di Mahler (ma sempre escludendo Bruckner) si può dire che solo la Nona di Beethoven, la Grande di Schubert, la Fantastique di Berlioz (ma solo se eseguite con tutti i da-capo) e la Lobgesang di Mendelssohn (peraltro più assimilabile ad un Oratorio) avevano avvicinato o di pochissimo superato l’ora di durata; da Beethoven (non parliamo di Mozart e Haydn) e su su fino a Schumann, Mendelssohn, Brahms, Dvorak, Ciajkovski (ma aggiungiamoci pure i sinfonisti minori Franck, Saint-Saens, Balakirev, Glazunov, ...) le opere sinfoniche erano di norma contenute in tempi oscillanti fra i 30 e i 45 minuti.

Ecco, Mahler portò pressochè ad un raddoppio degli standard di durata, spostando quasi stabilmente le dimensioni delle sue sinfonie oltre i 60 minuti (solo la prima, senza Blumine, e la quarta sono di poco al di sotto) e raggiungendo anche (proprio nella Terza) durate paragonabili a quelle delle opere liriche composte in quel periodo (comprese le straussiane Salome ed Elektra). 

Non a caso si dice quindi che Mahler abbia portato l‘opera nella sinfonia (per speculare analogia al Wagner che veniva accusato di aver portato la sinfonia nell’opera…) A differenza di Bruckner, per il quale le dimensioni temporali delle sinfonie sono legate ad un allargamento smisurato delle forme classiche, di cui rispettano però sostanzialmente i caratteri, a partire dalla concisione e dall’astrattezza dei temi esposti, Mahler sembra aver bisogno di spazio e tempo per sviluppare invece i suoi ponderosi programmi interni (talvolta resi manifesti attraverso discutibili - e di norma poi ritrattati - riferimenti extra-musicali) e per soddisfare un impellente impulso ad esprimere sensazioni (chiare e precise, ma più spesso oscure – come il compositore stesso ammetteva).     

Ora, la lunghezza è solo uno dei difetti che molti musicologi (uno per tutti: Teodoro Celli) e parecchi Direttori (vedi Toscanini o il recentemente scomparso Sawallisch, che mai si decisero ad eseguirle) imputarono e imputano alle sinfonie di Mahler. Ai denigratori del suo livello artistico-estetico non par vero poi citare a suo carico un sacco di prove, consistenti nella montagna di reminiscenze, citazioni, auto-citazioni e scimmiottamenti di musiche altrui (e spesso proprio… dozzinali) che il boemo era solito infilare nei suoi lavori: musica che gli restava nelle orecchie e nella testa della tanta, tantissima, che lui dirigeva o ascoltava ogni giorno e che poi, poco o tanto, finiva sui righi delle sue sterminate partiture. Insomma: Kapellmeister-musik, null’altro.  

E la Terza è letteralmente disseminata di tali prove, proprio a partire dal tema esposto dagli otto corni in unisono al principio dell’opera, tema che ricorda vagamente (in minore) l’Allegro non troppo ma con brio del finale della prima di Brahms:


Ma Brahms lo aveva a sua volta derivato da un inno studentesco – impiegato qui pari-pari da Mahler nel quarto gruppo di temi - e successivamente ripreso nella Akademische Festouvertüre:

Ma ecco poi un motivo che udiamo nell’esposizione del primo movimento, dapprima solo accennato come un brontolio di fagotti e controfagotto, poi apparso timidamente nei corni, da ultimo negli archi bassi e infine esposto enfaticamente dal trombone solista. È una citazione - letterale (tonalità inclusa) e quindi smaccata - dal Requiem brahmsiano:

Chissà se questa criptica allusione alla brevità della vita rappresenta già una delle famose (quanto discutibili) anticipazioni di sventure che verranno attribuite al compositore soprattutto ai tempi della Sesta e dei Kindertotenlieder

Nel trio del Terzo movimento (i cui temi sono presi da un Lied del Wunderhorn) compare la cornetta da postiglione (dislocata dietro le quinte, dovendosi udire da lontano) che intona una melodia che in certi tratti richiama (in tempo lento e ritmo languido) una Jota Aragonesa (ad esempio qui nella trascrizione di Glinka):


A un certo punto la trombetta in orchestra emette uno squillo che ci ricorda immediatamente quello famoso del secondo atto del Fidelio, allorquando lo sbifido Pizarro viene avvertito da un suo scagnozzo dell’imminente arrivo del Ministro:


Nel quarto movimento, dapprima nei violini e successivamente nel canto del contralto sentiamo comparire nientemeno (!) che una canzone (già allora) popolare, La Paloma:

Nel quinto movimento (anche questo ispirato ad un Lied del Wunderhorn) il contralto interloquisce con il coro dei piccoli cantando cadenze che riappariranno pari-pari nel Das himmlische Leben che chiuderà la quarta sinfonia, e che in origine forse doveva fare da conclusione proprio a questa…


L’incipit dell’ultimo movimento espone un tema di stampo parsifaliano (la Fede), che ricorda però anche da vicino l’Op.135 di Beethoven (terzo movimento):


Infine compare anche l’amato Verdi (per la verità già nel primo movimento la sommessa fanfara dei tromboni ci aveva ricordato il letto di morte di Violetta…) laddove si cita esplicitamente un inciso dell’Otello (prima scena, la tempesta):

Che dire? Ugo Duse, nel suo testo su Mahler (compie 40 anni, ma per me resta tuttora insuperato, almeno in lingua italiana, e non me ne vogliano Principe e Fournier-Facio…) riporta una battuta di BusoniTutto è trascrizione – e conclude: è l’uso che se ne fa a decidere se si tratta di opera d’arte o di cattivo gusto.

Ecco, mentre Teodoro Celli, grandissimo wagneriano, negava al Mahler sinfonista ogni credito estetico, Duse non ebbe dubbi in direzione opposta, cogliendo proprio in questa Terza un profondo senso religioso; ma religioso in termini assolutamente non confessionali (quantunque Mahler la componesse proprio mentre maturava la decisione di abbandonare l’ebraismo per abbracciare il cattolicesimo); bensì profondamente umani e soprattutto legati ad un rapporto davvero panteistico con la Natura, che culminerà nel Die liebe Erde dell’estremo commiato.  

Ma a proposito di commiati e della Terza, davvero drammatico fu quello con cui Dimitri Mitropoulos passò a miglior vita. Il giorno 2 novembre 1960 il maestro, che meno di due anni prima era stato colpito da un grave infarto a New York, era alla Scala per le prove della mastodontica sinfonia di Mahler. Bene, l’anti-mahleriano Teodoro Celli assistette alla prova, dalla penombra di un palco. Ecco come descrisse la scena: 

Sul podio Mitropoulos, impastando i suoni con quelle sue mani parlanti, conduceva l’orchestra a veleggiare attraverso l’eloquenza dei corni, i richiami delle trombe, i rulli del tamburo, l’assolo del trombone e i trilli degli archi con sordina. E il fiume dei suoni scorreva irruente, si diffondeva, sovrabbondava: e, in tutti, l’impegno era al massimo. 

Ad un tratto Mitropoulos si fermò. Gettò un urlo e si portò le mani al petto; poi ondeggiò, sussultò: infine precipitò dal podio, direttamente nell’eternità. Il suo corpo stramazzò addosso ai primi violini, travolgendo strumenti e leggii. Io ero saltato in piedi e m’ero sporto spasmodicamente dal palco. E quello che vedevo era così terribile da sembrare irreale. Tutti i professori dell’orchestra erano accorsi al centro e avevano fatto gruppo attorno a quel caduto. Cercavano di sollevarlo, di rianimarlo, lo chiamavano: “Maestro! Maestro!” Ma Mitropoulos era morto; il suo cuore s’era spaccato in due. 

Aveva detto a se stesso: “Guai a me, se non dirigo!” Ed era rimasto fedele alla sua missione, fino alla fine.  

Già: …und mein Leben ein Ziel hat.
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Devo ammettere che mi emoziona sempre ripercorrere questo itinerario che ci porta dalle montagne ai prati, agli animali dei boschi, alla notte catartica e allo scampanìo mattutino, per giungere infine alla beatitudine dell’Amore, cui noi poveri mortali abbiamo dato il nome di Dio.  

E anche ieri sera l’emozione non è mancata. L’approccio forse eccessivamente garibaldino della Xian ha magari tolto un filo di pathos all’esecuzione; qualche incertezza degli strumentisti (i corni ma anche gli oboi, mi è parso) ha prodotto qualche piccola macchia tecnica, ma in complesso è stata una prestazione di buon livello. Bravissimo Alessandro Ghidotti, cui ieri spettava l’onere e l’onore di suonare da dietro le quinte (con un’argentea tromba in DO) la parte del Posthorn; eccellenti il coro femminile della Gambarini e quello dei piccoli della Tramontin. Positiva per calore e portamento anche la prestazione di Carina Vinke. Grandissimo successo in un Auditorium ancora piacevolmente affollato.
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Il prossimo appuntamento è ancora di quelli da far tremare i… soffitti

22 febbraio, 2013

Orchestraverdi – concerto n.23


Otto stagioni sono l’oggetto del concerto di questa settimana, per il quale torna sul podio Jader Bignamini in (bella, ad onor del vero!) compagnia della violinista Natasha Korsakova, un’ospite non nuova de laVerdi (l’avevamo ascoltata un paio di anni fa in Shostakovich) che si presenta fasciata da un lungo nero dotato di spacco vertiginoso. Chissà se è per vedere (e ascoltare, ovviamente) lei che l’Auditorium di Largo Mahler, a dispetto del nevischio imperversante su Milano, è stato letteralmente preso d’assalto (ed esaurite risultano anche le due prossime repliche)!

Quattro sono le celeberrime Stagioni di Antonio Vivaldi, e le altre quattro sono Las cuatro estaciones porteñas di un re del tango, Astor Piazzolla. In questo video Bignamini spiega l’approccio usato per presentarcele: un approccio non certo nuovo, dacchè l’accostamento fra le stagioni vivaldiane e quelle bairensi non è una primizia, essendo spesso oggetto di concerti ed esibizioni. Quindi l’ordine di presentazione non ha poi moltissime possibili varianti: prima le une, poi le altre; oppure, più spesso, una mescolanza delle otto stagioni ordinate per calendario (primavera-primavera, etc.) oppure, come in questo caso, per contemporaneità fra le stagioni dei due emisferi.
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I concerti vivaldiani fanno parte dell’op.8, stampata in Amsterdam attorno al 1725 e pomposamente consacrata a tale Venceslao, Conte di Marzin (o Morzin) un nobile mecenate boemo che aveva incontrato e apprezzato Vivaldi durante uno dei suoi soggiorni italiani:


Vivaldi scrisse personalmente (o forse impiegò farina del sacco di altri, chissà…) i testi poetici richiamati nei quattro concerti tripartiti, trascrivendo i singoli versi sui corrispondenti righi delle partiture, ed aggiungendo sulle stesse alcuni sottotitoli, come schematicamente rappresentato nelle figure che seguono.

I tentativi di Vivaldi di imitare la natura (e/o le reazioni e i sentimenti che si provano al contatto di essa) oggi ci possono sembrare patetici, ma non va dimenticato che il nostro aveva a disposizione mezzi assai limitati, e non certo le macchine del vento (vedi Strauss) né tanto meno i nastri magnetici registrati col cinguettar di un usignolo (Respighi)! Inoltre i concerti sono per complessi di soli archi, quindi il reverendo nemmeno si potè giovare (come Beethoven nella Pastorale) di flauti-usignoli, oboi-quaglie e clarinetti-cuculi! Né di timpani o di grancasse a simulare tuoni e temporali.


Nell’Allegro iniziale c’è la scena dei ruscelli (le fonti) dove Vivaldi impiega quartine di semicrome ad evocare lo scorrere calmo ma continuo delle acque. Qualcosa di simile sentiremo 150 anni più tardi nella Moldava… In compenso simili semicrome (in sestine) verranno impiegate da Wagner per evocare lo stormir di fronde (il Waldweben nel Siegfried); il quale mormorio è invece rappresentato da Vivaldi (all’inizio del Largo) con semicrome puntate seguite da biscrome, proprio a darci l’idea dell’incresparsi irregolare del fogliame.

Insomma, fenomeni diversi possono essere evocati dallo stesso stilema musicale, e uno stesso fenomeno da stilemi diversi. A dimostrazione, ce ne fosse ancora bisogno, che la musica mai e poi mai può descrivere alcunché, ma soltanto richiamare vagamente alla nostra sensibilità oggetti, fenomeni o personaggi. I quali, se non esplicitamente e preventivamente esposti in un programma o in didascalie, ci rimarrebbero del tutto indecifrabili al puro udirne i motivi musicali.


Nell’Allegro compaiono (come in Beethoven) tre volatili (cucù, tortorella e cardellino): è invariabilmente il violino solista a doverli impersonare, e non può far altro che differenziarne il canto attraverso il ritmo impresso alla melodia, mancandogli la qualità fondamentale, il diverso timbro. E Vivaldi fa effettivamente miracoli, nel tentativo di presentarci tutta questa varietà ornitologica con questi limitatissimi mezzi…

Nell’Adagio-Presto centrale e poi nel Presto finale abbiamo l’evocazione di tuoni e di un classico temporale, e guarda caso molti dei mezzi musicali impiegati da Vivaldi sono analoghi, se non identici, a quelli relativi ai tuoni del movimento iniziale della Primavera. Simili urla di vento udiremo infine anche nell’Inverno. Certo che la mancanza di timpani (tuoni) e di un bell’ottavino (per lampi e saette) si fa sentire, e come!


Nell’Allegro iniziale, curiosa la rappresentazione di ubriachi, dove il violino cerca di mostrare l’effetto dei fumi dell’alcol, i giramenti di testa e il barcollare incerto della persona:


L’Allegro conclusivo, che dovrebbe rappresentare la caccia, in effetti è un menuetto dietro il quale inizialmente si intravedono, più che preparativi di carattere venatorio, leziosi balletti di corte! Poi l’atmosfera si muove assai con la comparsa di schioppi e cani e le terzine che evocano la belva fuggente. Però ci vuole una bella fantasia per associare questa musica allo scenario proposto!


Nell’iniziale Allegro non molto è curiosa e meticolosa allo stesso tempo la cura che Vivaldi pone nel differenziare due fenomeni di battimento (di piedi e di denti) legati alle basse temperature. Per rappresentare i secondi il prete rosso introduce una rudimentale poliritmia, con il violino solista che suona in corda doppia 32 biscrome a battuta (4/4), i violini che suonano 16 semicrome e le viole che suonano 8 crome.

Nel Largo, il sottotitolo La Pioggia è scritto sulla parte dei violini (primi e secondi) che suonano arpeggi di MIb in pizzicato, proprio ad evocare il rumore di sgocciolamento che arriva alle nostre orecchie, ovattato, mentre ce ne stiamo al calduccio davanti al caminetto!

Nelle sezioni estreme tornano venti e maltempo, ma anche corse e scivolate sul ghiaccio: e il povero violino solista, con i colleghi, deve far miracoli per rappresentarli plausibilmente, anche se il risultato, ammettiamolo pure, non cambierebbe se le diverse didascalie venissero magari rimescolate a piacere!
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Quanto ai tanghi di Piazzolla, che non sono stati propriamente concepiti come un corpus organico, non hanno certo pretese descrittive, ma sono più che altro rievocazioni poetiche della vita del porto di Baires.

Musicalmente, uno degli stilemi ricorrenti è un inciso di due semicrome che ricompare quasi come un tic in tutte le stagioni:


Qui una interessante interpretazione del Quartetto Artemis.

La versione che ascoltiamo in questa occasione (ci sono svariati arrangiamenti di questi tanghi) è opera abbastanza recente di un russo (Leonid Desyatnikov) che ha voluto evidentemente rivestire Piazzolla con qualcosa di Vivaldi, a cominciare dal violino principale, che diventa protagonista dei quattro tanghi, nei quali Desyatnikov ha pure infilato qualche chiara reminiscenza vivaldiana, a costo di qualche forzatura, come il MI maggiore del veneziano messo in chiusura del SOL minore della Primavera di Piazzolla.
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La coppia Bignamini-Korsakova fa davvero scintille: lui sempre impeccabile e pulitissimo nel gesto (ed avendo sia Vivaldi che Piazzolla mandati a memoria…) lei a sfoggiare la sua tecnica sopraffina, ma anche una grande sensibilità di interprete. Ai lodati sono da aggiungere il violoncello di Tobia Scarpolini (in particolare nell’Autunno bairense) la viola di Gabriele Mugnai e il violino di Luca Santaniello.

Il successo è tale che non può mancare un bis, con la ripetizione del Largo dall’Inverno: che, devo dire, a me più che la pioggia ha sempre richiamato alla mente la classica slitta di SantaKlaus che se ne scivola dolcemente sulla neve diffondendo cullanti suoni di sonagli.

Ma non finisce qui, poiché la fascinosa discendente del grande Rimsky ci regala anche la Sarabanda in RE minore, dalla seconda Partita bachiana.
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A fine mese, in singolare coincidenza con il prepensionamento del Papa (per il quale laVerdi ha più volte suonato) una sesquipedale costruzione sonora del tardoromanticismo: la Terza di Mahler! 

15 febbraio, 2013

Orchestraverdi – concerto n.22


Un  programma abbastanza inconsueto caratterizza l’appuntamento stagionale n° 22 de laVerdi, ancora guidata dal texano (franco-italiano d’adozione) John Axelrod.

Ieri la prima delle tre repliche è stata preceduta da una specie di cerimonia celebrativa del capodanno cinese (che corrisponde più o meno al nostro carnevale…) presente il console a Milano, signora Liang Hui, cui hanno fatto da anfitrioni due vecchie… cariatidi (smile!) della nostra società politica e civile: Gianni Cervetti - presidente del CdA della Fondazione dell’Orchestra ed ex-amministratore pubblico della città - che ha tracciato un bilancio per la verità assai edulcorato per non dire idilliaco (noblesse oblige) della storia della comunità cinese a Milano, e Cesare Romiti in doppia qualità di Presidente della Fondazione Italia-Cina e di Presidente del Consiglio Generale della Fondazione dell’Orchestra. Con tanto di traduzione semi-simultanea in cinese ad uso e consumo dei numerosi nipotini di Mao (stra-smile!) presenti in sala. Peccato che alla festa mancasse Zhang Xian, che però è stata puntualmente evocata.  

Come spiega lo stesso Direttore in questo simpatico video di presentazione del palinsesto del concerto, la sua idea è stata di assemblare alcuni brani musicali che in qualche modo evocano la figura della Femme fatale. E la scelta (che davvero comporta solo l’imbarazzo…) è caduta su quattro personaggi: Medea, Salome, Candelas (e/o… Lucia?) e Sheherazade.

Per la verità l’unica vera e autentica donna fatale qui è Salome (che infatti, per contrappasso, è anche l’unica a finire assai male). La prima e l’ultima paiono più (o prima, o insieme) vittime che carnefici (smile!) essendo piuttosto donne un filino… bistrattate dai rispettivi compagni (o padroni) e che reagiscono con armi diverse (quanto a tasso di sanguinolenza) rapportate alle circostanze. Le gitane Candelas e Lucia (sua sodale) diciamo che stanno a metà strada.

Quanto ai compositori, da buon patriota Axelrod ha cominciato con un’opera americana: Medea's Meditation and Dance of Vengeance (Meditazione e danza della vendetta di Medea) di Samuel Barber. Ecco la registrazione della prima esecuzione (2 febbraio 1956) diretta da Mitropoulos con la NYPO.

Ci si potrebbe chiedere che c’entri la danza con Medea (a differenza di Salome o di Elektra, la protagonista della tragedia di Euripide non si abbandona a questo tipo di esternazioni) ma in questo caso c’entra poiché in realtà il brano è tratto da un balletto (Op.23, ispirato al triangolo Medea-Giasone-Glauce) che Barber aveva composto nel 1946 e che era stato presentato dapprima con il titolo The Serpent Heart (Il cuore della serpe) e successivamente con quello Cave of the Heart (La caverna del cuore). La partitura prevedeva una piccola orchestra da camera (Flauto-Ottavino, Oboe-CornoInglese, Clarinetto, Fagotto, Corno, Pianoforte e archi, in tutto 13-15 strumenti al massimo).

Dalla musica per il balletto – con una prima re-strumentazione - l’Autore aveva poi tratto anche una Suite per orchestra (eseguita originariamente da Ormandy con la Philadelphia nel dicembre del 1947) a cui aveva imposto il titolo di Medea, in omaggio al personaggio mitologico. E da qui l’idea di estrarre la Meditation (Op. 23a) ora per grande orchestra, con nutrita sezione di percussioni e strumentazione assai rinnovata.

Nella prefazione alla partitura del balletto si chiarisce in modo netto che né Barber né la signora Martha Graham (la coreografa-danzatrice che era stata di fatto l’ispiratrice dell’opera) intendevano in alcun modo fare un esplicito riferimento alla vicenda del mitologico triangolo, ma semplicemente evocarne i caratteri legati ai concetti di gelosia e di vendetta (moventi dell’orripilante strage compiuta da Medea) visti come archètipi di sentimenti assai diffusi in ogni tempo e luogo. Al punto che nella coreografia (ma anche nella musica!) i personaggi alternativamente appaiono nella propria natura mitica e in quella umana. Però il buon Barber non doveva proprio essere del tutto convinto di quella perentoria affermazione, altrimenti non si spiegherebbe perché la Suite tratta dal balletto (i cui 9 numeri non recano alcun titolo) oltre ad intitolarsi Medea rechi chiare indicazioni dei personaggi mitologici nei 7 numeri che la compongono.
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Il balletto originale si struttura per l'appunto in 9 numeri (non titolati) che vengono accorpati a 7 nella Suite (dove peraltro viene tagliato abbastanza poco, in pratica una porzione del n. III del balletto, le prime 71 battute). La quale Suite reca i seguenti titoli:

1. Parodos: una sorta di introduzione (corrisponde al n. I del balletto);
2. Choros. Medea and Jason: il Coro presenta i due protagonisti principali e la vicenda che si va a dipanare (n.II e III, da battuta 72, del balletto). 27 battute del n. II (da 29 a 56) che evocano Medea, vengono riprese, leggermente variate nella strumentazione, nel n. VI (48-75);
3. The Young Princess. Jason: ora compare anche Glauce, la figlia di Creonte per amore della quale Giasone tradì Medea (n. IV e V del balletto);
4. Choros: prepara mestamente il covare della gelosia e il montare della sete di vendetta di Medea (n. VI del balletto). Vi ritroviamo il passo citato del n. II;
5. Medea: qui abbiamo lo scatenarsi della sua furia (n. VII del balletto);
6. Kantikos Agonias: lamenti dopo il massacro (n. VIII del balletto);
7. Exodos: commenta il tremendo epilogo della vicenda, ma chiude con il rientro dei protagonisti nel mito, dove… tutto è sempre concesso e perdonato (n. IX del balletto).

La Meditation di fatto è costruita assemblando in un unico corpo alcuni brani del balletto (o della Suite) più direttamente riferiti a Medea. Vi troviamo, in sequenza:

- una breve Introduzione: sono le prime 5 battute del n. I, ripetute, dove si nota l’uso sapiente di strumentini e pianoforte (rinforzato dallo xilofono) per creare un’atmosfera di sonorità arcaiche e… mitologiche:

Segue la parte centrale (battute 36-43) del n. I, che prolunga e chiude l’introduzione in questo scenario bucolico;

- la Meditazione di Medea: è quasi l’intero n. VI (battute 1-79) caratterizzato da languide melodie del violino solo con sordina, imitato dal flauto, poi dal fagotto e quindi dall’oboe e dal clarinetto. Qui la scrittura è ancora rarefatta, l’atmosfera contemplativa:

Ora gli archi allargano la melodia, alternandosi ai fiati, finchè un’improvvisa irruzione di un MI chiuso del corno non innesca (n. III, battute 99-107) una nervosa serie di incisi degli strumentini (incluso lo stridulo ottavino) che culmina in una maestosa perorazione (FA-SOLb-LAb) dei corni (n. I, battute 28-32). L’atmosfera torna apparentemente calma, ma una calma piena di tensione (n. VIII, battute 1-13 e poi 25-30) con note insistite negli archi, che fanno pensare a dolorose fitte di un cuore esacerbato; il tutto inframmezzato da accenti decisamente mesti (n. II, battute 68-80). Un altro richiamo dei corni (MIb-RE-MIb-RE) introduce quello di pianoforte e xilofono (SIb-LA-SIb-LA) che apre la successiva…

- la Danza di vendetta di Medea: è in realtà una profonda rivisitazione del n. VII, di cui conserva la struttura, ma variandone i contenuti (e anche la tonalità, alzata per buona parte di un semitono) oltre che la strumentazione. La caratteristica principale è un continuo montare del ritmo, con passi fortemente sincopati, che ben dipinge lo scatenarsi della folle determinazione di Medea di sopprimere i figli avuti da Giasone; qui pare di distinguere addirittura le feroci coltellate inferte dalla madre snaturata ai due pargoli:


Dopo la chiusa originaria - che nel balletto come nella Suite vede una rarefazione del suono e del tempo (prima allargando, poi sostenuto) poiché seguiranno ancora due numeri musicali - Barber qui aggiunge una breve ma indemoniata coda, costruita con lo stesso materiale, che serve a chiudere il brano in modo precipitoso e violento.  
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In pratica, mentre il balletto (e la Suite) raccontano – nonostante l’avvertenza minimizzante di autore e destinataria - lo scenario completo della vicenda di Medea, Giasone e Glauce, la Meditation si concentra esclusivamente sul dramma di Medea e presenta un percorso sinfonico assai conciso ed efficace, che parte da un movimento lento – quasi debussy-iano - per crescere progressivamente fino ad una parossistica conclusione, degna di Stravinski.

Barber vi impiega una grande orchestra e soprattutto fa vasto uso delle percussioni (del tutto assenti nella partitura del balletto, ivi sostituite dal solo pianoforte) e in particolare dello xilofono. Anche se la partitura reca spesso e volentieri gli accidenti in chiave, la scrittura è (prevalentemente) atonaleIl brano è anche entrato nel repertorio di una famosa band dell’Indiana… 

Axelrod mi è parso cogliere al meglio lo spirito di quest’opera, evitando eccessi da band (appunto…) e seguendo in modo coerente il percorso tutto psicologico (dal paradiso all’inferno) della protagonista di questa specie di poema sinfonico. Meritati gli applausi a lui e ai ragazzi dell’orchestra. 
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A differenza di altri brani estratti da opere, la Danza dei sette veli, pur entrata stabilmente nel repertorio delle principali orchestre sinfoniche, non ha di certo oscurato la notorietà e la popolarità della straussiana Salome, continuamente rappresentata in tutto il mondo.

Ascoltandola subito dopo Barber, vien proprio da domandarsi chi dei due, fra lui e Strauss, fosse il più all’avanguardia (!): tanta e tale è la sconvolgente modernità di Salome, nonostante i più di 40 anni di anticipo (e due guerre mondiali!) sulla Medea yankee… 

Per laVerdi si tratta solo (si fa per dire) del terzo approccio in 20 anni con questa partitura davvero impegnativa. Ma il risultato è sicuramente apprezzabile e così deve averla pensata anche il pubblico.
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El amor brujo di Manuel DeFalla , di cui ascoltiamo qui la celebre Danza rituale del fuoco, ha una storia abbastanza complicata, tipo la Medea di Barber, essendo nato nel 1915 come gitanerìa (scene gitane per voce, piccola orchestra e danza) e poi evoluto anni dopo a balletto (sempre con interventi vocali di mezzosoprano) da cui fu in seguito estratta una Suite per orchestra (con/senza la voce).

Le umane vicende che sono dietro alla gitanerìa e al balletto sono assai diverse fra loro, ed anche i testi impiegati divergono. Nella prima – scritta da Gregorio Martínez Sierra (anzi pare dalla di lui moglie María de la O Lejárraga) - la protagonista Candelas è una gitana che deve impiegare tutte le arti della seduzione e pure quelle della magia per far cascare finalmente ai suoi piedi un amato piuttosto riluttante a farsi accalappiare: insomma, è una femme fatale un po’ deboluccia, bisogna ammetterlo, se ha bisogno di tali coadiuvanti per farsi apprezzare!

Nel secondo invece – nel cui testo mise un po' le mani lo stesso DeFalla, per aggiustare l’originale al nuovo plot - ci sono quattro personaggi: Candelas, piacente vedova di un innominato marito che la perseguita anche da morto, apparendole continuamente in sogno; Carmelo, un giovane di lei innamorato (e corrisposto, ma ostacolato dalle apparizioni dello spettro!) e Lucia, amica di Carmelo, che viene assoldata da costui per… neutralizzare il defunto, seducendone lo spettro e spianando così la strada al lieto-fine fra Candelas e Carmelo. Quindi qui di donne fatali ce ne sarebbero addirittura due in uno spazio angusto! Per la verità, volendo restare in campo gitano-ispanico, forse una donna fatale più consistente di costoro la troveremmo in Carmen, da cui non sarebbe difficile estrarre musiche altrettanto accattivanti di quelle di DeFalla…   
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Il famoso brano che ascoltiamo (ecco Barenboim con la CSO) è l’ottavo dei tredici numeri del balletto, in tempo Allegro ma non troppo e pesante. I temi che lo caratterizzano sono essenzialmente due (A e B, più un terzo – A’ - chiaramente derivato dal primo): uno suonato principalmente dagli strumentini (poi ripetuto anche dagli archi) nel registro acuto, caratterizzato da un andamento nervoso, con parecchie acciaccature; l’altro invece esposto dai corni (poi dagli strumentini) e di piglio enfatico e quasi protervo.


Le entrate dei diversi temi (la cui disposizione schematicamente è: AA-B-A’A’-AA-B-A’-A-Coda) sono collegate da brevi transizioni. I temi ricompaiono sempre nella stessa tonalità, salvo la prima ripetizione di A’ (a distanza di una quinta) e l’ultima apparizione di A (variato) che sale di un semitono rispetto alle precedenti. Alle viole è prevalentemente assegnato il compito di evocare il fuoco, con insistenti figurazioni in tremolo che si muovono a distanza di semitoni. Il pianoforte ha quasi esclusivamente funzione di sostegno del ritmo.
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Gran successo per tutti, con l’oboe di Greci e i corni di Ceccarelli e Cardone sugli scudi.

Chiude la serata Sheherazade, l’autentico capolavoro di Rimski suonato qui poco più di due anni orsono sotto la bacchetta di un conterraneo della Xian.  

Bravo Axelrod a cavare il massimo da questa lussureggiante partitura, in cui spiccano su tutti le parti solistiche di violino, clarinetto, flauto, oboe e fagotto. Un vero piacere per l’orecchio questa musica dai tratti orientaleggianti innestati sul grande tronco del sinfonismo mitteleuropeo. Successo calorosissimo.
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Il sempre più convincente Jader Bignamini sarà prossimamente protagonista, con la solista Natasha Korsakova, di una specie di challenge quattro-stagionale fra Vivaldi e… Piazzolla!

08 febbraio, 2013

Orchestraverdi – concerto n.21


Il Direttore principale John Axelrod fa il suo esordio stagionale sul podio dirigendo due quarte piuttosto distanti fra loro. E non solo per i quasi 80 anni che le separano (1806-1885), ma per la diversissima collocazione che hanno nella produzione di Beethoven e Brahms.

La sinfonia beethoveniana, pur venendo dopo l’epocale tappa dell’Eroica (o forse proprio per questo) rappresenta un momento di riflessione (anche se non è di certo un riflusso) nel percorso estetico del genio di Bonn, che di lì a poco (anzi praticamente in contemporanea) riprenderà slancio e vigore con la sconvolgente Quinta; l’ultima di Brahms rappresenta invece (e non per nulla fu l’ultima…) l’apice della sua ascesa verso l’Olimpo della sinfonia.

Due opere che da tempo sono nel repertorio dell’Orchestra, che ormai le deve conoscere a memoria, dovendo quindi di volta in volta modularne semplicemente (si fa per dire!) l’interpretazione a fronte dell’approccio del Kapellmeister di turno.   

L’ultima esecuzione qui di entrambe le sinfonie vide sul podio Zhang Xian: l’Op.60 di Beethoven ormai quasi tre anni fa, con la cinesina che era al termine della sua prima stagione come Direttore Musicale; l’Op.98 di Brahms poco più di sei mesi fa, in chiusura della stagione ultima. Le ricordo come due interpretazioni di altissimo livello, caratterizzate la prima da grande grinta e cipiglio, la seconda da un’assoluta aderenza allo spirito, oltre che alla lettera, della partitura dell’amburghese.

John Axelrod viene (più o meno) dallo stesso ambiente yankee (smile!) in cui si è formata anche la Xian (è presumibile che questa comunanza di radici abbia anche giocato un certo ruolo, due anni fa, nell’orientare la scelta del nuovo Direttore principale…) In realtà mi sembra però che il suo approccio si discosti abbastanza da quello della Xian.

In particolare riguardo a Beethoven, che mi è parso, guarda caso… brahms-izzato (smile!) Sarà forse perché Axelrod in questo periodo sta registrando l’integrale sinfonica di Brahms (anche ieri sera il palco era ingombro di microfoni e cineprese) e avrà fatto full-immersion a gogò della musica dell’amburghese. Sta di fatto che il texano si permette un po’ di libertà (per non chiamarle gigionerìe) come un evidente quanto indebito rallentando e conseguente successivo accelerando nella transizione fra i due temi dell’Allegro vivace iniziale (cosa che è quanto di meno beethoveniano si possa immaginare). Nel Finale poi mi è parso un tantino molle, e forse per… recuperare tempo ha omesso il da-capo.  

Molto meglio Brahms, dove mi sembra che Axelrod abbia, come dire, tenuto buoni gli effetti dell’approccio adottato lo scorso anno da Xian: esecuzione dignitosa accolta da applausi convinti.

Ancora Axelrod fra una settimana con un programma assai variegato e – per me – interessantissimo.

06 febbraio, 2013

Nabucco resta in brache di tela alla Scala


Secondo titolo verdiano nella stagione del centenario: dopo Falstaff (ultima opera del Maestro) ecco Nabucco, che se non è la prima, poco ci manca (ma fra qualche tempo è in programma anche Oberto, proprio la prima). Una produzione nuova affidata al duo Luisotti-Abbado (Daniele, oh…) che esordisce qui per trasferirsi poi a Londra, Chicago e Barcellona.

Ieri sera terza recita, in un Piermarini abbastanza affollato, ma dove si notava a colpo d’occhio l’enorme vuoto lasciato dal bandito Isotta Paolo (smile!) (In un primo momento avevo pensato – dati i tempi piuttosto duri - di approfittarne, chiedendo a Lissner di girare a me il pass dello sgradito, ma nel frattempo un manichino ambulante con rassicurante sorriso a 64 denti mi ha garantito il rimborso dell’IMU e l’eliminazione di ogni altra tassa, più in omaggio un DVD con la Strepponi che fa il bunga-bunga, e allora ho deciso di soprassedere e di continuare a pagarmi di tasca mia l’abbonamento, garantendomi così anche l’indipendenza di giudizio… ultra-smile!

Luisotti ha diretto con onesta pulizia e (per me) con grande attenzione a non farsi prendere la mano da eccessive enfasi (forse doveva farsi perdonare qualche critica di eccessiva foga che si era beccato l’altr’anno dirigendo qui Attila).

A mo’ di esempio, citerò l’Andante maestoso su D’Egitto là sui lidi, dove abbiamo un volgarotto cèccè/pùm-cèccè/pùm, scandito da archi, triangolo e corni su ogni semiminima delle battute in 4/4, che accompagna la prosaica linea melodica, ora esposta dal coro (Di lieto giorno un so-o-o-o-o-le) sottolineata in unisono da trombette, tromboni e fagotti:
 
Qui se non si dosano al meglio – come ha saputo fare Luisotti - gli ingredienti sonori (tutti, voci e strumenti, sono notati in piano…) c’è il rischio di ottenere l’effetto di una banda di paese della bassa che avanza verso la chiesa, seguita da un coro di contadini e contadine vestiti della festa e inalberanti effigi di Marie Vergini e Cristi Re!

Quindi, il maestro per me si merita un ottimo voto.

Il coro di Casoni mi è parso all’altezza, anche se proprio dopo il Va’ pensiero sono piovuti alcuni isolati buh dal loggione (peraltro compensati da lunghi applausi e bravi!)

Che dire dell’inossidabile Leo Nucci? Che - ahilui - forse si sta un tantino ossidando (smile!) La sua capacità di auto-gestione è sempre grandissima (anzi di certo aumenta con l’esperienza di decenni!) ma le pecche fatica sempre di più a coprirle, prima fra tutte l’intonazione spesso trovata a partire da un bel quarto di tono sotto, rispetto alla nota da scandire. E anche i non prescritti LAb acuti (duetto della terza parte e Oh prodi miei della quarta) non sono proprio stati delle meraviglie, diciamolo… Insomma, come gli accade da parecchio tempo ormai: per lui gran successo ma… alla carriera. A proposito di carriere, in aprile a Londra la parte sarà sostenuta – indovina? – dal Topone!

Vitalij Kowaljow sarebbe uno Zaccaria rispettabile se avesse più voce là dove la si richiede ad un basso (smile!) Invece dal LA grave in giù (i SOL e un paio di FA# cui Verdi lo chiama) il nostro sembra proprio cantare immerso in un acquario.  

L’Ismaele di Aleksandrs Antonenko fatica a meritarsi la mia sufficienza (e dire che io sono proprio di bocca buona!) Potenza notevole, ma impiegata in modo rozzo e scriteriato (tutto l’opposto di come dovrebbe essere il mite Ismaele); intonazione sempre problematica, più che altro crescente (forse per paura di… calare).

Liudmyla Monastyrska è stata a mio giudizio la migliore della compagnia (ma si sa che tutto è relativo!): alla gran voce ha unito una sorprendente (per me, almeno) capacità di espressione e di portamento (fondamentali per questo personaggio di donna altera e spietata, ma alla fine distrutta e convertita) oltre a discreta fluidità nei ripidi saliscendi in cui Verdi la impegna.

Però, accipicchia, come si permette di prendersi certe libertà?! Nella cadenza (compresa la ripetizione) del celeberrimo cantabile della seconda parte (Anch’io dischiuso…) al verso Chi del perduto incanto mi torna un giorno sol troviamo questa unica battuta, che Verdi prescrive tutta in legato:

Viceversa la Monastyrska la stravolge letteralmente: inserisce una pausa (di respiro?) prima del LA acuto sul quale, in compenso, si ferma poi con una corona puntata. Ora, dato che il passaggio non è di quelli che richiedono doti di apnea alla Majorca, dovrei dedurre trattarsi di una scelta estetica dell’abbondante Liudmyla: dalla quale scelta, invero sconsiderata, modestamente mi dissocio in-toto.

Discreta la prestazione di Veronica Simeoni (Fenena): voce bene impostata, anche abbastanza passante, e di timbro gradevole. Lodevole anche la sensibilità alle caratteristiche del personaggio di donna allo stesso tempo pia e coraggiosa.

Giuseppe Veneziano (Abdallo), Tatyana Ryaguzova (Anna) e il gran Sacerdote Ernesto Panariello: come da minimo sindacale.

Tirando le somme, una prestazione musicale appena dignitosa, che ai miei occhi mantiene quel livello di qualità (fossi Moody’s, oggi confermerei un rating Baa1) dopo la piccola risalita registrata già in occasione del Falstaff.
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Due impressioni sulla messinscena, che Daniele Abbado ha ripensato dopo quella di anni fa al Regio di Torino.

La sua concezione è diffusamente spiegata sul programma di sala, che ogni spettatore dovrebbe tassativamente leggere prima di assistere allo spettacolo, onde evitare di non capirci proprio nulla, tanta è la distanza fra i contenuti (testo e musica) dell’originale di Solera-Verdi che arrivano alle orecchie e ciò che dalla scena arriva agli occhi.

Sappiamo come Verdi avesse bisogno come l’aria di scenari di macro-conflitti a sfondo storico (o pseudo-storico, o biblico, nella fattispecie) da dipingere con grandi affreschi musicali, all’interno dei quali collocare i micro-conflitti delle personalità e degli affetti (amore, odio) dei singoli individui protagonisti dei suoi drammi. Ebbene, nella regìa di Abbado – sembra paradossale - manca proprio tutto, gli uni e gli altri (hai detto niente…)

Il conflitto, epico e anche mortale, fra due popoli e due etnìe -  basta leggere il libretto di Solera e ascoltare attentamente la musica di Verdi per capacitarsene (e lì gli ebrei non appaiono meno manichei e sanguinari degli assiri!) nell’allestimento di Abbado scompare, rimpiazzato da un non meglio definito scenario di disordine sociale, di continue sofferenze e di nichilistica rassegnazione di un unico e indistinto popolo. Per il quale il personaggio di Nabucodonosor non incarna il capo sanguinario e vanaglorioso di un altro e diverso popolo nemico mortale, ma una specie di proiezione delle proprie colpe secolari. Il che è un’interpretazione francamente forzata dell’ira del Nume sdegnato e del peccammo! che ascoltiamo in bocca agli ebrei nella prima scena.

Ma se guardiamo i costumi e le scene di Alison Chitty ci rendiamo subito conto che quell’unico popolo è il popolo ebraico ai tempi della Shoah: inequivocabili le lapidi disseminate in scena e le alte colonne laterali, che ci ricordano cimiteri ebraici e musei dell’Olocausto (che vedremo profanati all’arrivo di Nabucodonosor). Ma allora, accipicchia, se costui, invece di tale Adolf Hitler, è la proiezione dei sensi di colpa degli ebrei, dove andiamo a parare? Certo, mostrare il Führer nei panni del delirante despota assiro sarebbe stato demenziale, in quanto avrebbe comportato la finale farsa di un Ben Gurion che consacra un convertito Hitler come de’ regi il re!

Invece cosa vediamo noi in scena, all’arrivo di Nabucodonosor? Una situazione da sciopero selvaggio in una fabbrica occupata, nella quale fa il suo ingresso il titolare, il padrone, in elegante doppiopetto. Il quale sfida sprezzantemente gli scioperanti, prendendo a calci i volumi da loro deposti a terra, libri che dovrebbero rappresentare altrettante Bibbie, ma che nello scenario propostoci da Abbado dovremmo ipotizzare essere Das Kapital!   

E nel primo quadro della seconda parte, come spiegare il recitativo di Abigaille, che con una torcia dà fuoco a quelli che sembrano brandelli di quei libri della scena precedente? Forse la Bücherverbrennung del 1933? Mah…

E tutta l’opera prosegue su questa falsariga: uno scenario di indistinta sofferenza-insofferenza, mista a negativa rassegnazione. Ed è quindi fatale che l’unica scena che invece nel Nabucco originale evoca precisamente quella situazione e quello stato d’animo - il Va’ pensiero – finisca per perdere la gran parte della sua efficacia e del suo significato, immersa com’è in questa atmosfera uniformemente grigia (sì proprio grigia in tutti i colori di tutto ciò che sta in scena). Così come efficacia e significato perdono, ovviamente, tutte le scene che invece dovrebbero rappresentare la furia, l’ira, l’orgoglio, le manìe di grandezza e gli opposti integralismi religiosi. Il Nabucodonosor in canottiera sarà pure una metafora del famoso principio Il Re è nudo, ma diventa incoerente e incomprensibile in quello stesso scenario che Abbado gli ha costruito intorno.

Insomma, l’allestimento di Abbado ha il difetto – assai frequente nella prassi del Regietheater – di prendere una (piccola) parte o un solo aspetto del dramma originale per farne il tutto della messinscena. Così, in questo caso, ci viene nascosto il principale nocciolo drammatico di Nabucco, con la sua conclusione (tanto utopistica quanto storicamente inconsistente e ridicola) che sta nel prevalere del rapporto positivo fra individui (l’amore coniugale Fenena-Ismaele e soprattutto l’amore paterno Nabucco-Fenena) sul rapporto negativo fra politiche, imperialismi, ideologie e religioni guerrafondaie. Se si può indicare una morale della favola del Nabucco di Solera-Verdi, essa risiede nel fatto che la conversione di Nabucodonosor non è dovuta ai fulmini dell’immenso Jeovha, ma all’amore di un padre per la figlia; così come è l’amore fra Fenena e Ismaele a portare Abigaille a rinnegare il suo passato e la sua religione, rinunciando addirittura al supremo potere appena conquistato, di fronte alla constatazione che non c’è potere al mondo che possa surrogare la mancanza di amore.

In definitiva: un’operazione che non è né carne né pesce, equivoca e velleitaria al tempo stesso; un po’ come lanciare il sasso e… ritirare la mano.