intime gioje

chiuder la prigione e buttar la chiave

30 novembre, 2019

La Tosca presa alla... lontana (4)


Parliamo un po’ anche di musica... ma musica particolare.  

Sappiamo che una delle trovate che Puccini inventò per dare a Tosca la patina di romanità furono le campane. Nell’opera compaiono sia nel primo che nel terzo atto, in alcuni momenti scelti in modo ben appropriato. Vediamo quali.

L’opera inizia verso mezzogiorno e, poco dopo l’arrivo di Angelotti in Chiesa, si sente la campana dell’Angelus, al che il Sagrestano si inginocchia per recitarne la formula. Qui interviene soltanto una campana in FA, dal suono abbastanza medio-grave. Mentre il Sagrestano canta recto-tono - proprio accordandosi sullo stesso FA - si odono 12 rintocchi, ma non consecutivi, bensì suddivisi in tre gruppi rispettivamente di 3-4-5:



La sequenza dei rintocchi non è casuale, ma risponde ad una regola abbastanza diffusa per l’esecuzione dello scampanio dell’Angelus (come qui, nei primi 36 secondi del video). Secondo la quale (come ci ricorda - nei commenti al video citato - campanaro80) il 3 rappresenta le Virtù Teologali (Fede, Speranza e Carità); il 4 le Virtù Cardinali (Prudenza, Giustizia, Fortezza e Temperanza); e il 5 rappresenta la Piaghe di Gesù (Piede sinistro, Piede destro, Mano sinistra, Mano destra, Costato). Questo, per sottolineare la maniacalità con cui Puccini ha evocato il contesto religioso (la sequenza tradizionale prevede poi, come si ode nel video, un ultimo rintocco isolato - rappresentante la Trinità - che Puccini ci ha, forse intenzionalmente?, risparmiato, insieme ad un altro gruppo di 7 rintocchi, i Sacramenti).
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Quattro campane medie vengono poi impiegate a sottolineare alcune battute dell’incontro fra Scarpia e Tosca. Il pretesto che Puccini trova per giustificare questi interventi è che si tratta del richiamo ai fedeli perchè si rechino alla Chiesa per il TeDeum. Precisamente udiamo in quattro occasioni ripetersi (reiterata) una cellula motivica che dalla dominante SIb (siamo in tonalità MIb maggiore) scende alla mediante SOL, poi sale alla sottodominante LAb e scende alla sopratonica FA:

Questi quattro momenti corrispondono rispettivamente al canto dei seguenti versi:

Tosca: ...tradirmi egli non può...
Scarpia: ...non per galanteria...
Tosca: Che intendete?
Scarpia: O che v’offende, dolce signora?

A proposito di queste quattro campane, si racconta che Puccini ne trasse ispirazione ascoltando i suoni che provenivano dal campanile di Bargecchia. E che questo particolare salvò le campane del piccolo borgo lucchese dall’essere trasformate in... cannoni!  
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Veniamo ora al TeDeum, che chiude l’atto primo. Largo religioso sostenuto molto; tonalità SIb-MIb maggiore, 4/4 alla breve.

Qui sentiremo i rintocchi di quattro campane: due profonde (SIb-FA) e due medie (le stesse di poco prima, LAb-SIb):

Le campane profonde - a mo’ di accompagnamento di sapore gregoriano - suonano quei SIb-FA su 73 semibrevi in altrettante battute, lungo tutto il preliminare all’inno: da quando Scarpia istruisce Spoletta per il pedinamento di Tosca e poi canta il concupiscente... va, Tosca; a quando il Capitolo attacca l’Adjutorium; e infine sulle libidinose esternazioni del Barone culminanti in... fra le mie braccia illanguidir d’amor. A proposito, quel motivo udito poco prima durante il duetto, qui torna in bocca a Scarpia (...fra le mie braccia) leggermente ma significativamente variato: è trasposto in alto di una quarta, da dominante a tonica (MIb-DO-RE-SIb) e con la terza nota innalzata di un semitono, quasi a sottolineare che ciò che prima era in Scarpia solo una sensazione, un inconscio desiderio, adesso si è trasformato in fiero proposito dal conseguimento ormai certo!

Torniamo alle due campane gravi: il loro suono si protrae ancora, accompagnando le prime 8 battute del TeDeum (fino a ...confitemur) dopo di che tacciono fino alla fine. Invece all’attacco del TeDeum entrano le due campane medie che (sovrapponendosi per 8 battute a quelle gravi) ripetono per 12 battute (24 volte) la terzina di semiminime LAb-SIb-LAb, accompagnando Scarpia nel suo ...Tosca, mi fai dimenticare Iddio, dopo di che, da ...Te æternum Patrem, tacciono fino alla fine. Anche perchè, fra organo, 7 ottoni in scena e le cannonate da Castel Sant’Angelo, di fracasso ne basta e avanza.
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Eccoci adesso al terz’atto, dove di campane ce n’è un concerto grosso. In una edizione originaria del libretto (per mano di Illica) si elencavano con precisione tre campane i cui rintocchi arrivavano da San Pietro in Montorio (lontanissimo) poi da Sant’Onofrio (lontano) e quindi dalla Chiesa dei Miracoli (vicinissima). Ma in un’altra versione di campane ce n’erano assai di più, includendo anche San Giovanni in Laterano, San Pietro in Vincoli e Santa Maria Maggiore. Ebbene, nella partitura di Puccini ne troviamo ben 14, più il campanone di SanPietro! Il tutto in 68 battute musicali:




La lista delle comparse di campane (battute numerate a partire dalla cifra 4 di lettura) è la seguente: 

battute

campana

suono

posizione

lunghezza

1 - 7

1

SI2

lontanissimo

minime

5 - 8

2

RE4

meno lontano

semiminime

8 - 11

3

SOL3

vicino

semiminime

11 - 12

4

MI4

meno vicino

minime

13 - 17

5

SIb1

lontano

semibrevi

18 - 22

6

DO4

più vicino

semiminime

19 - 22

7

FA1

lontano

semibrevi

24 - 30

8

FA3

meno lontano

minime

29 - 33

9

SIb3

 

semiminime

32 - 37

10

LAb3

più vicino

semiminime

36 - 44

11

SI2

 

minime

40 - 46

12

MI4

più lontano

minime

44 - 51

13

RE4

vicino

semiminime punt.+crome / semiminime

48 - 49

14

SIb1

molto lontano

minime

55 - 68

San Pietro

MI0

 

semibrevi / minime


Come si nota, 4 campane (1-2-4-5) con la stessa intonazione compaiono due volte; peraltro in posizioni non coincidenti. Qui un esempio di esecuzione al Marinski, con Gergiev dal video e il maestro campanaro.
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Curioso esaminare come la presenza delle campane è segnata sulla prima partitura Ricordi del 1900, dove ogni prima pagina di atto riporta tutti gli strumenti e le voci che vi suoneranno/canteranno. Per il primo atto vengono indicate - con la notazione di altezza - le sei campane che si odono nel finale (manca quella dell’Angelus) con l’avvertenza di suonare elettricamente le quattro più acute; per il terzo atto si trova esclusivamente l’indicazione della posizione:

Infine, si racconta che per la prima romana le campane furono portate da Milano. Come pure dall’Italia furono importate quelle impiegate a Leopoli nel 1903 per alcune rappresentazioni, una delle quali rimasta famosa in realtà solo perchè vi presenziò come spettatore Gustav Mahler, che se ne andò prima della fine, scrivendo poi peste-e-corna delle campane ma soprattutto dell’opera, che mai avrebbe diretto in vita sua!

(4. continua)

29 novembre, 2019

laVerdi-19-20 - Concerto n°9


Il nono appuntamento della stagione principale vede il ritorno in Auditorium di un direttore e un solista che già vi hanno messo piede in passato: l’uzbeko Aziz Shokhakimov e il russo-italico Boris Petrushansky. Per offrirci un interessante programma romantico, di un romanticismo che però si estende dall’800 alla metà del ‘900.

Si comincia con il Primo Concerto uscito dalla penna del compositore più rappresentativo (almeno in campo pianistico) del romanticismo ottocentesco, Fryderyk Chopin. Parlare di capolavoro per questo... lavoro sarebbe eccessivo, personalmente lo colloco fra le cose interessanti e soprattutto godibili. Come quelli di Schumann, per dire, o di Grieg, ecco.

Solista e direttore sembrano assai ben affiatati (fecero già coppia qui anche tre anni fa, allora per Rachmaninov): Petrushansky con la tastiera ci va in guanti di velluto, e non solo nella Romanza, mentre Shokhakimov con l’orchestra non risparmia i decibel, ma questo contrasto ci sta assai bene. Il pubblico è da pochi-ma-buoni ed apprezza molto, così il canuto Boris ci regala un altro Chopin, quello del celeberrimo Walzer op.64-2.
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Secondo e ultimo brano in programma una Suite dal balletto in tre atti Zolushka (Cenerentola per gli amici...) di Sergei Prokofiev. Composto durante la guerra, su commissione del Kirov di Leningrado e presentato a fine 1945, il balletto marca un vero e proprio ritorno di Prokofiev al romanticismo in stile-Ciajkovski: sia per combattere con ottimismo i dolori e le miserie del conflitto, sia (chissà) per accattivarsi un establishment che ogni tanto gli faceva (come gli farà ben presto, ahilui) brutti scherzi... I tre atti ripercorrono la leggenda di Perrault (originata a sua volta da antichissime leggende egiziane). Dai 50 numeri del balletto Prokofiev ricavò, ancora durante la composizione, tre estratti per pianoforte (3, 10, 6 pezzi) e poi, nel 1946, tre diverse Suites (di 8, 7, 8 numeri) la prima della quale viene eseguita in questo concerto.

Come spesso accade in casi come questi - e come è abbastanza logico che sia, a pensarci bene, visto che si tratta di musica da eseguirsi senza la danza - la sequenza dei brani della Suite non rispetta rigorosamente quella della trama del balletto. Data la natura del soggetto, è musica accattivante, anche se piuttosto... datata: il confronto con Romeo&Giulietta è al proposito piuttosto impari. Tuttavia ciò non ha impedito al balletto di avere (anche tuttora) un buon successo di pubblico.

Successo che non è mancato ieri: per il Direttore, che con gli anni sembra mettere... la testa a posto; e ovviamente per l’Orchestra, davvero impeccabile nel domare questa partitura per nulla facile.

27 novembre, 2019

La Tosca presa alla... lontana (3)


In attesa della prima in TV, quando si materializzerà compiutamente l’allestimento di Davide Livermore, si può intanto fare qualche considerazione sul soggetto di Tosca in relazione alle possibili scelte di rappresentazione.

Per ben più di mezzo secolo a partire dalla sua comparsa (1900) era generalmente, per non dire sistematicamente, invalsa la tendenza a considerare l’opera come legata a doppio filo allo scenario spazio-temporale della Roma del 1800: troppi essendo i riferimenti minuziosi (a volte maniacalmente minuziosi) a luoghi, accadimenti e personaggi della città eterna o ad essa strettamente legati. Innumerevoli poi i riferimenti religiosi, contenuti non solo nel testo cantato (Angelus, TeDeum) e nelle didascalie di scena (chiesa, cappella, acquasantiera, sagrestia, chierichetti, crocifissi, campane, cardinali, guardie svizzere, ...) ma chiaramente presenti nella musica, ricca di motivi costruiti con tecnologia ecclesiastica (scale modali e a toni interi). Insomma, un’ambientazione spazio-temporale diversa da quella fissata dal libretto sembrava del tutto da escludersi, dato che avrebbe necessariamente comportato troppe e pesanti incongruenze con testo e musica cantati e suonati.

Poi però il teatro di regìa ha pian piano fatto la sua... breccia di Porta Pia (!!) Una delle prime trasposizioni (o attualizzazioni) del soggetto fu quella operata a Firenze nel 1986 da Jonathan Miller, che ambientò l’opera (in una Roma per nulla oleografica, peraltro) alla fine del ventennio fascista. La cosa fece abbastanza scalpore, ma tutto sommato e a mente fredda ci si rese conto che in fondo tra il regime fascista - peggiorato se possibile dall’occupazione nazista - del 1943, a noi assai vicino, e quello papalino - peggiorato dalla tutela borbonica - del 1800 non c’erano poi così tante differenze, almeno guardando alla sostanza politico-religiosa-culturale del soggetto.

E probabilmente molti degli spettatori del Maggio fiorentino che avevano ancora vivido il ricordo degli ultimi anni del fascismo non faticarono ad apprezzare l’appropriatezza dell’accostamento delle note di Puccini a quello scenario ancor fresco nella loro memoria. Questo prezioso video di mamma-RAI ci mostra le prove di quello spettacolo con Zubin Mehta che dirige e il regista che ci spiega la sua concezione e le ragioni che lo spinsero ad operare quell’attualizzazione del soggetto; e poi mostra la sua grande cura per i dettagli di recitazione.

Se guardiamo agli ingredienti del dramma, è pacifico elencare: religione, politica, sentimenti e comportamenti. Tutti piani che si intersecano e che si influenzano vicendevolmente. L’immediata spina dorsale del soggetto è la politica: la repressione di ogni forma di opposizione al potere, da poco restaurato. Il quale, nella fattispecie, è anche potere religioso. Ispirati alla religione e al rispetto della relativa autorità sono i sentimenti della protagonista, Tosca, che però tiene comportamenti che lei stessa ammette essere peccaminosi. Altri protagonisti (Cavaradossi, Angelotti) professano sentimenti e tengono comportamenti laici e in aperta o coperta opposizione all’autorità politico-religiosa. Uno, Scarpia, espressione massima del potere (politico-religioso) professa sentimenti religiosi ma tiene comportamenti criminali (schiavo com’è delle sue libidini) perchè protetto dal potere praticamente assoluto che concentra nelle proprie mani. Ed è proprio Scarpia il centro dell’opera: che si apre sui suoi accordi, sinistri quanto retorici, volgari e - nelle sfumature ecclesiastiche - quasi blasfemi; e la cui figura (musicale!) incombe di continuo e anche dopo che Tosca l’ha spedito all’aldilà...

Già da queste constatazioni si potrebbe avanzare qualche dubbio sull’imprescindibilità dell’ambientazione a Roma-1800 del dramma. A Parigi (vedi Chénier) in quegli stessi anni gli oppositori del potere o le menti libere non se la passavano tanto meglio rispetto ad Angelotti e Cavaradossi... e anche ai giorni nostri non mancano regimi teocratici o ipocritamente laici che soffocano (anche nel sangue) ogni opposizione (nulla di nuovo sotto il sole...) Ma poi, se è vero, come è vero, che il centro dell’opera, quasi e più che Tosca, è Scarpia, ecco che allora gli ingredienti fondamentali del dramma diventano i sentimenti e i comportamenti. Di uomini e donne sotto tutte le latitudini e in ogni tempo. E così in questi ultimi anni si sono moltiplicate le regìe che hanno fatto tranquillamente a meno di Roma e magari anche della religione, e hanno ambientato l’opera in uno spazio-tempo astratto, estrapolandone quasi esclusivamente gli aspetti relativi al rapporto fra l’individuo e il potere (normalmente corrotto e abietto): cioè Scarpia al vertice di un triangolo, a sovrastare gli altri due angoli, Tosca e Cavaradossi. Basterà ricordare al proposito gli allestimenti di Lehnhoff (Amsterdam, 1998, guarda caso con Chailly!) o di Bieito (Oslo, 2017).

Altri temi che si possono estrapolare dal soggetto e che sono già stati al centro di interpretazioni dell’opera (Carsen, Anversa, 1991) riguardano la posizione dell’artista nella società: in particolare quella di Tosca, portata professionalmente a recitare sempre, scambiando la realtà per il palcoscenico e rimanendone stritolata. Ma anche quella di Cavaradossi, vittima di utopie, di infatuazioni ideali, e in fin dei conti della propria irresponsabilità.

Personalmente non ho nulla contro ri-ambientazioni o trasposizioni, purchè non snaturino il soggetto originale, o lo distorcano esaltando solamente una delle sue componenti mentre trascurano o ignorano le altre: purtroppo invece è tipico di molte regìe moderne prendere uno degli aspetti (a volte, ma non sempre, il più vistoso o importante) del soggetto ed amplificarlo e dilatarlo fino a far scomparire tutti gli altri. È come se, dovendo presentare una cattedrale, si focalizzasse l’intera presentazione sull’altar maggiore, mostrandone ogni minimo dettaglio e ogni preziosità, ma dimenticando le navate, i rosoni, l’esterno della facciata e tutto il resto della costruzione. Tradotto con una battuta: Tosca non è Lulu... anche se la contiene.

Naturalmente qualcuno ha continuato a inscenare Tosca con la più assoluta fedeltà alla lettera del testo. Manco a dirlo, Franco Zeffirelli, che ormai quasi vent’anni fa fu chiamato a Roma per celebrare i 100 anni di Tosca, e sfornò questo gran maritozzo! (Invece noi a Milano recentemente abbiamo dovuto soffrire - e per due stagioni! - l’inqualificabile allestimento di Bondy, un vero affronto all’intelligenza, oltre che a Puccini e al suo capolavoro.)

Per concludere, molto sommariamente si possono distinguere due approcci di fondo all’interpretazione di Tosca: quello (tradizionale) che considera l’opera come un tipo, dalle caratteristiche uniche e irripetibili, quindi da rappresentare così come prevede la lettera del libretto; l’altro (più moderno, quanto meno perchè più vicino temporalmente a noi) che tende invece a vedere in Tosca un archetipo, quindi potenzialmente rappresentabile prescindendo dall’involucro contingente del quale è stato rivestito dagli Autori.  

Quindi, staremo a vedere cosa ci propina Livermore. In questa sua esternazione pubblicata sul sito del Teatro il regista racconta molte cose interessanti e qualche ovvietà. Ma una cosa pare chiara: lui vede Tosca come un tipo (“quella storia lì!”) e non come un archetipo. Cioè... Zeffirelli (?!?)

(3. continua)

24 novembre, 2019

La Tosca presa alla... lontana (2)


Lungo il percorso di confronto fra il testo di Sardou e quello di Puccini (indicherò sempre Puccini in rappresentanza del quartetto che sfornò il libretto dell’opera, non certo del musicista che lo ricoprì di musica immortale) prenderò adesso in considerazione il carattere del personaggio Scarpia e lo sviluppo della vicenda.

É opinione comune dei critici (ma più di parte musicale che strettamente letteraria) riconoscere a Puccini il merito di aver, per così dire, migliorato la trama del dramma originale, attraverso la sua compressione (da 5 a 3 atti) e una più potente definizione delle personalità dei protagonisti, primo fra tutti Scarpia.

A me piace (a volte) fare il bastian contrario, e così mi permetto di contraddire (almeno in parte) quegli elogi a Puccini. E quindi provo a mettere a confronto Sardou e Puccini sul terreno della personalità di Scarpia e dello sviluppo dell’intera vicenda, per mostrare come sotto molti aspetti Sardou si faccia preferire.

Quanto al Capo della Polizia vaticana, è stato giustamente osservato che lo Scarpia di Sardou è sì un personaggio potente (oltre che sessualmente depravato) ma non è per nulla onnipotente, come è perfettamente naturale che non sia uno che occupa quel ruolo, necessariamente subordinato al potere politico. Nel second’atto del dramma, Scarpia deve render conto delle sue azioni (la ricerca di Angelotti) nientemeno che alla Regina! E la folla che staziona fuori Palazzo Farnese non si limita a gridare “A morte Angelotti”, ma grida anche “A morte Scarpia”, al che la Regina gli ricorda la precarietà della sua posizione. Ed è proprio meditando preoccupatissimo sulla sua sorte - nel momento più critico per lui delle sue indagini su Angelotti - che Scarpia troverà la geniale quanto perfida soluzione al suo problema!

Lo Scarpia di Puccini invece è - anche qui per unanime consenso - la personificazione del male assoluto, certo, ma in un contesto per lui fin troppo facile, quasi di onnipotenza, in mancanza di vincoli e di obblighi che invece gli dovrebbero essere imposti dalla natura del suo ruolo. Mai in tutto il libretto si accenna a ordini che Scarpia riceve da suoi superiori, nè il fatto che lui debba render conto ad alcuno delle sue azioni. Quindi lui pare muoversi in un contesto poco credibile e meno plausibile rispetto a quello presentatoci da Sardou. Persino la sede in cui dimora (un piano di Palazzo Farnese, residenza romana dei sovrani) è sproporzionata rispetto al suo ruolo: molto più appropriata appare essere quella immaginata da Sardou, all’interno dello stesso complesso delle carceri.

La differenza fra le personalità dello Scarpia di Sardou e di Puccini è lampante prendendo in esame le modalità attraverso le quali il Barone arriva a plagiare Tosca, instillandole nell’animo (come fa Jago con Otello) il veleno della gelosia, che la porterà alla perdizione: sua, di Cavaradossi e di Angelotti. Partiamo stavolta da Puccini.

Alla fine del primo atto (vedremo in seguito altre implicazioni dello spostamento qui dell’incontro Scarpia-Tosca, che Sardou colloca nel suo secondo atto) il Barone avvicina Tosca, appena tornata in Chiesa, con approccio effettivamente mellifluo e subdolamente elogiativo della devozione della cantante e della sua irreprensibilità di costumi. Ma subito, senza perifrasi, accusa esplicitamente la Marchesa Attavanti di trescare con Cavaradossi. Tosca è sconvolta, stenta a crederlo, ma Scarpia le consegna la prova della tresca: il ventaglio dell’Attavanti. Ecco, Tosca è già vinta: perchè i suoi sospetti, che Cavaradossi aveva faticato a contenere poco prima, adesso sono certezza. Ma ora, l’obiettivo principale che invade la mente di Scarpia non è più Angelotti (il dovere) no, è Tosca (il piacere)! Basta ascoltare ciò che il Barone dice e canta mentre si celebra il Te Deum.

Osserviamo invece lo Scarpia di Sardou. Nel second’atto del dramma, tutto il processo che porta alla demolizione delle certezze di Tosca e alla sua ossessionante gelosia è in realtà una mirabile (per quanto diabolica) costruzione della mente di Scarpia, interamente occupata dall’obiettivo di catturare Angelotti - quasi questione per lui di vita o di morte in quel momento - e non il corpo di Tosca, la libidine per il quale (il piacere) emergerà in primo piano soltanto dopo che il dovere sarà stato compiuto. Quella che leggiamo in Sardou è una perfetta rete che il ragno tesse pazientemente per attirarvi, maglia dopo maglia, la preda (non già per spingervela di forza, come fa lo Scarpia di Puccini) dandole l’impressione di essere lei stessa a scoprire la verità (significativo il siparietto con  il Marchese Attavanti e il cicisbeo a proposito del ventaglio...) traendo autonomamente le logiche conclusioni da indizi che il Barone si limita ad offrirle quasi con timidezza e reticenza, manifestando continuamente il timore di fare qualche gaffe e addirittura fingendo di contestare come affrettate certe conclusioni estreme della donna.

Insomma: una mente cinica ma raffinata, non un libidinoso viscerale e rozzo come lo Scarpia di Puccini. Il che ci viene confermato da altri importanti dettagli. Per Puccini, come abbiamo visto, Scarpia ha ormai la mente occupata da Tosca fin dalla fine del primo atto. E subito, all’inizio del secondo, prima ancora di fare il suo lavoro di poliziotto, esterna (Per amor del suo Mario... al piacer mio s’arrenderà!) le sue mire sulla donna, aggiungendo di privilegiare le conquiste difficili, quelle ottenute con la forza (del ricatto). In Sardou Scarpia comincerà invece a pensare libidinosamente a Tosca (con i termini che verranno ripresi da Puccini) soltanto all’inizio del quarto atto, dopo che avrà onorato i suoi compiti di poliziotto e si potrà quindi dedicare al soddisfacimento delle sue depravazioni.

Una differenza abbastanza evidente nei comportamenti (quindi nelle personalità) dei due Scarpia riguarda la modalità con la quale viene raggiunto l’obiettivo di catturare Angelotti. In Sardou, il fatto che il Barone sia continuamente tenuto sotto pressione (dalla stessa Regina, innanzitutto) lo costringe ad impegnarsi sempre in prima persona. Ecco perchè, alla fine del second’atto, quando Tosca esce in tutta fretta da Palazzo Farnese per raggiungere la villa di Mario, lui non solo attiva i suoi sbirri (Schiarrone nella fattispecie) ma si mette lui stesso in pista per partecipare alle operazioni, che poi concluderà con la straziante quanto geniale trovata del processo parallelo a Cavaradossi e Tosca, nella villa suburbana.

Invece lo Scarpia di Puccini opera in un tale stato di ubriacatura da onnipotenza da potersi permettere - dopo aver convinto Tosca del tradimento di Mario, fine atto primo - di mandarle dietro il solo Spoletta con tre uomini, convinto (lo dice proprio in apertura dell’atto secondo) che ciò gli basti a mettere in catene Angelotti e Cavaradossi, da impiccare l’indomani, per potersi dedicare solo a Tosca. Sarà il mezzo fallimento di Spoletta a costringere Scarpia ad organizzare il processo parallelo a Palazzo Farnese (vedremo però come ciò toglierà un poco di plausibilità alla vicenda). 

Un ulteriore (forse non ultimo) aspetto della differente condizione in cui operano i due Scarpia (soggetto all’Autorità quello di Sardou e invece sottratto di fatto alla Legge quello di Puccini) è dato dalle modalità di formulazione della condanna di Cavaradossi. In Sardou Scarpia, a Castel Sant’Angelo, atto quarto, riceve un ordine formale dal Governatore Naselli, che impone l’esecuzione di Cavaradossi all’alba. Nel libretto di Puccini, dopo il processo-farsa-tragedia, Cavaradossi viene portato via verso la forca, senza che si abbia notizia di sentenze, nè di ordini superiori sulla sorte che gli è destinata: insomma, pare proprio che Scarpia possa fare e disfare a suo piacimento!

Intendiamoci: tutte queste manipolazioni della personalità del Barone (e dello scenario in cui si muove) che Puccini opera e che ci mostrano uno Scarpia meno realistico, rispetto alla figura narrata da Sardou, hanno un fine ben preciso e deliberato: costruire un personaggio di altissima potenza drammatica, perfettamente funzionale al tipo di opera - davvero a fosche tinte - che il musicista intende proporre. E bisogna riconoscere che il risultato complessivo dell’operazione di Puccini (grazie alla sua musica!) giustifica ampiamente qualche sacrificio al realismo e anche alla logica che emerge dalla lettura del libretto.        
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Bene, liquidato in qualche modo lo sbifido Barone, vediamo qualche altra conseguenza della diversa strutturazione dei testi di Sardou e Puccini. Subito va rilevata la differenza tra la verosimiglianza delle circostanze che hanno portato Angelotti in Chiesa (ove si è rifugiato nottetempo) e l’inverosimiglianza di quelle presentateci da Puccini (una fuga per più di un Km nel centro di Roma, attraversamento del Tevere incluso, a mezzogiorno!)

Ancora: perchè Scarpia arriva in Sant’Andrea sicuro di trovarvi il fuggiasco? In Sardou la cosa si spiega perfettamente: Angelotti è fuggito la sera prima con la complicità di un carceriere (Trebelli) che avrebbe dovuto poi raggiungerlo il giorno dopo per portarlo in carrozza a Frascati dalla sorella. Ma Trebelli non si è più fatto vivo: non c’è bisogno che Sardou ci spieghi che dev’essere stato catturato, magari torturato ed abbia spifferato tutto! In Puccini l’arrivo così sollecito di Scarpia è assai meno giustificato, poichè l’unico labile indizio che ci viene offerto è l’esistenza in quella Chiesa di una cappella del cognato di Angelotti.

Poi abbiamo il pasticcio del finale del primo atto: per poter spostare alla fine di questo l’incontro Scarpia-Tosca, Puccini ha dovuto per forza far tornare precipitosamente la donna a Sant’Andrea, prima del Te Deum di ringraziamento per la vittoria austriaca a Marengo. Con quale pretesto? Per crearlo, Puccini è costretto ad una serie di ulteriori modifiche -  abbastanza serie - al testo di Sardou. Il quale ci racconta questa successione di fatti: Tosca è arrivata una prima volta in Chiesa per rimanere sola con l’amato prima di tornare a casa a prepararsi per la festa serale a Palazzo Farnese, festa che si protrarrà, dopo il concerto, con balli e pranzo di gala, fino a notte inoltrata. Ciò significa che fino all’indomani in tarda mattinata loro non si potranno rivedere. Ora però arriva in Chiesa anche Luciana, la dama di camera di Tosca, recante un messaggio urgente di Paisiello: il Maestro le annuncia la vittoria di Marengo e la vuole immediatamente al Palazzo per provare una cantata da lui composta espressamente per l’occasione, che verrà eseguita la sera stessa. Tosca non può che esserne contrariata, ma deve obbedire, così se ne va anzitempo (dopo la scoperta dell’immagine dell’Attavanti e i relativi piccanti commenti, inclusi gli occhi da rifare neri, da blu) dando appuntamento a Mario per l’indomani, mentre lui le promette che rimarrà lì a dipingere fino a notte, poi andrà a mangiare e a dormire alla villa. Ritroveremo Tosca in scena solo nel secondo atto a Palazzo Farnese, dove avrà il drammatico incontro con Scarpia.

Invece nel libretto di Puccini la figura e la visita di Luciana vengono soppresse, e Tosca se ne va dando appuntamento a Mario per la sera stessa, alla fine del breve concerto che la vede impegnata a Palazzo, poi andranno a passar la notte insieme, nella villa di lui. Qui c’è il loro battibecco riguardo il dipinto raffigurante l’Attavanti, con Tosca che, prima di uscire, chiede di fare gli occhi neri alla Maddalena. A questo punto c’è il colpo di cannone e la fuga di Cavaradossi e Angelotti, poi il Sagrestano annuncia i festeggiamenti per Marengo e la veglia a Palazzo Farnese, con la cantata appositamente composta da Paisiello, interpretata da Floria Tosca. La quale deve evidentemente aver ricevuto quell’incarico, un vero contrattempo che farà saltare l’appuntamento serale con Mario. Ecco finalmente spiegata la ragione che l’ha spinta a tornare in Chiesa: avvertire l’amato del cambio di programma per la sera e la notte.

Intanto, una domanda: perchè la didascalia di Puccini ci dice che lei arriva già nervosissima? Realisticamente dovrebbe essere piuttosto contrariata, certo, per poi caso mai innervosirsi (o peggio) solo dopo aver constatato l’assenza di Cavaradossi, che le aveva appena promesso di trattenersi a lavorare. Ma il punto cruciale è che, in ogni caso, quell’assenza basterebbe abbondantemente a convincere una donna sospettosa e gelosa come lei (cosa emersa chiaramente poco prima, con i suoi sospetti causati dalla scoperta del dipinto) del tradimento dell’amante, e a farla uscire precipitosamente per raggiungere i due fedifraghi alla villa. Senza bisogno che sia Scarpia a confermarle la tresca consegnandole il ventaglio: il che di conseguenza finisce per depotenziare parecchio la drammaticità dell’intervento del Barone.     

Insomma, anche questo è tutto un passaggio piuttosto discutibile, che serve indubbiamente alcuni obiettivi - quanto mai melodrammatici - del Puccini musicista: far cantare a Tosca l’aria della casetta; presentarci il lato libidinoso di Scarpia e soprattutto chiudere l’atto con una scena memorabile, obiettivamente mancante al corrispondente finale di Sardou. 

Se ci si domanda perchè il libretto dell’opera ambienti il secondo atto a Palazzo Farnese e non nella villa suburbana di Cavaradossi (atto terzo in Sardou) si può ipotizzare che la decisione dei librettisti sia dipesa dalla ricerca di un compromesso: tagliare il second’atto di Sardou senza tagliare... Palazzo Farnese! Trasferendo quindi nella residenza della Regina (oltre a Scarpia...) tutto ciò che in Sardou accade nella villa di Cavaradossi. Intenzione senza dubbio legittima, ma che ha comportato qualche scompenso, soprattutto a livello di plausibilità delle circostanze del ritrovamento di Angelotti, come andiamo a constatare.

Infatti a proposito dell’interrogatorio parallelo di Cavaradossi e di Tosca, che porta la donna a cedere e ad indicare il nascondiglio dell’Angelotti, ecco che si percepiscono altri scricchiolii nel testo di Puccini, rispetto a Sardou. Nel terzo atto del quale tutto avviene, ancora una volta, con il massimo realismo e con stringente logica: Scarpia sa per certo (dati gli indizi schiaccianti fin qui acquisiti) che l’evaso sta lì a pochi metri dalle stanze dell’improvvisato processo, e che non può più scappare poichè la villa è circondata da un esercito di gendarmi. Ovvio che Angelotti venga immediatamente catturato (anche se... già morto) pochi secondi dopo che Tosca ha spifferato dove si trova il suo nascondiglio.

Nel libretto le cose hanno invece una plausibilità assai inferiore: poichè fra la perquisizione alla villa, operata da Spoletta che ha portato all’arresto di Cavaradossi ma non di Angelotti, e la confessione di Tosca, passa parecchio tempo (Spoletta e l’arrestato devono percorrere 6 Km in linea d’aria per raggiungere Palazzo Farnese!); e poi fra la confessione di Tosca e la nuova irruzione dei gendarmi alla villa, altrettanto tempo: più quello del processo! Vogliamo ipotizzare almeno un paio d’ore in tutto? Ebbene, che Angelotti, che sa perfettamente che la polizia è stata lì e si è portata via l’amico, e soprattutto che ora anche Tosca è al corrente della sua presenza alla villa, se ne rimanga buono buono nel nascondiglio per tutto quel tempo ad aspettare che lo trovino, senza provare a fuggire (Spoletta aveva solo tre uomini con sè, lì al massimo ne sarà rimasto solo uno...) beh, è proprio difficile a credersi!

Un altro episodio che assume diversa plausibilità in Sardou e Puccini riguarda la richiesta di grazia che Tosca pensa di fare alla Regina. Nel dramma di Sardou Tosca è, come sappiamo, a Castel Sant’Angelo, quasi all’alba. É stata portata lì direttamente dalla villa di Mario, in stato di fermo. Scarpia ancora non le ha fatto l’oscena proposta; le ha solo comunicato che Cavaradossi sta per essere impiccato. E che lei è libera di andarsene. Allora le balena l’idea di chiedere la grazia per Mario alla Regina (certo non avrebbe avuto modo di farlo prima, date le circostanze). Ora, pur avendo una carrozza a disposizione (come le garantisce Scarpia) Tosca dovrebbe: uscire dal castello, andare a Palazzo Farnese (e fin qui son pochi minuti); ma poi farsi aprire, buttare letteralmente giù dal letto la Regina, convincerla a firmare la grazia e tornare al castello in tempo per bloccare l’esecuzione. Francamente una mission impossible, come la poveretta deve subito constatare, convinta dell’inutilità dei suoi sforzi dalle parole di Scarpia che l’avverte che la grazia arriverebbe con almeno un’ora di ritardo. Cosa forse esagerata quantitativamente, ma ben plausibile nella sostanza, dato che Scarpia non avrebbe alcun problema a far impiccare Mario, detenuto lì accanto, nel giro di pochi minuti. 

Invece nel libretto italico le cose stanno in modo assai diverso e meno plausibile: perché intanto l’idea della richiesta di grazia viene a Tosca dopo che Scarpia le ha proposto l’orrendo scambio. Domanda: perchè non le è venuta prima, già al momento in cui Cavaradossi veniva portato alla tortura? Scarpia l’avrebbe fatta bloccare con la forza? Ma lei avrebbe potuto mettersi a gridare (e la voce non le mancava!) richiamando l’attenzione di qualcuno al piano di sotto, dove ancora stazionava un sacco di gente, Regina compresa! Ma poi, nonostante Scarpia cerchi di dissuaderla (“La regina farebbe grazia ad un cadavere!”) è pur vero che Tosca si trova a distanza di pochi metri dalla Regina (terzo e secondo piano dello stesso Palazzo Farnese); e la Regina è probabilmente ancora sveglia, o si sta appena preparando a ritirarsi, sebbene contrariata dalla ferale notizia appena arrivata da Alessandria. Ma soprattutto, se convinta da Tosca, potrebbe magari convocare Scarpia seduta stante per ingiungergli di non dar corso all’impiccagione, se non addirittura di far immediatamente riportare lì il Cavaradossi in carne ed ossa, vivo. E del resto – a differenza del dramma di Sardou - Scarpia non ha Cavaradossi lì accanto (il condannato è per strada verso Castel Sant’Angelo) e non potrebbe quindi farlo giustiziare in pochi minuti, salvo farlo raggiungere da un sicario e farlo di fatto assassinare. Perciò il fattore-tempo, addotto dal barone per far desistere Tosca, qui è assai debole: anche su questo punto è Sardou ad essere impeccabile quanto a plausibilità e realismo, molto meno Puccini. 

C’è infine un piccolo ma interessante particolare che riguarda Tosca e il suo incontro con Cavaradossi a Castel Sant’Angelo. In Sardou la donna, agghindata per la festa a Palazzo Farnese, corre precipitosamente alla villa di Cavaradossi, dove subirà l’odioso trattamento di Scarpia, confesserà e verrà tratta in arresto con l’amato e trasferita direttamente con lui al carcere. In Puccini invece Tosca, che era arrivata a Palazzo Farnese per la cerimonia, dopo aver ammazzato Scarpia si trasferisce con mezzi propri a Castel Sant’Angelo. Reca con sè il salvacondotto firmato dal Barone e sa che Spoletta è stato istruito dal suo capo perchè faciliti la sua fuga con Mario. Ma quando incontra l’amato in prigione, gli fa una rivelazione apparentemente insignificante, ma in realtà di grande importanza. Ed è qualcosa che in Sardou non avrebbe materialmente potuto verificarsi! Leggiamo il libretto: (mostrando la borsa) io già raccolsi oro e gioielli...

Ecco, è la prova inconfutabile che Tosca, dopo essere uscita da Palazzo Farnese, e prima di recarsi a Castel Sant’Angelo, è passata da casa! Poichè di certo non poteva aver portato quella borsa con sè alla festa, non ne aveva alcun motivo! Notiamo di passaggio che la cosa non è sfuggita, da sempre, ai registi dell’opera, che ci mostrano nel terzo atto una Tosca abbigliata modestamente, mentre alla fine dell’atto secondo la vedevamo nel suo sontuoso abito da cerimonia. Ora, dato che questo particolare non si trova (perchè non potrebbe trovarsi...) in Sardou, se ne deduce che sia stato inventato a bella posta da Puccini. Perchè? Verosimilmente per aggiungere un tocco di realismo alla situazione: Tosca sa di prepararsi ad un lungo viaggio (quasi una fuga, in realtà) e compie un atto di gran buon senso, guidata dalla logica e dalla ragione.

Ma proprio questo è il punto: Tosca è proprio quel tipo di donna? Per la verità sia Sardou che Puccini ce l’hanno presentata come una persona impulsiva e assai poco raziocinante. E invece adesso, oltretutto sotto lo choc emotivo di un omicidio (un atto che contrastava con tutti i suoi principii) sarebbe improvvisamente diventata fredda e previdente?     
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Bene, a che pro tutto questo noioso tormentone? Per denigrare Puccini? Al contrario, per esaltarlo e coprirlo di lodi! Per aver saputo, con la sua musica, creare un capolavoro immortale (una delle opere più grandi dell’intero teatro musicale occidentale) a dispetto di un libretto non proprio irreprensibile.

E pensare che Puccini ha ignorato (atto secondo di Sardou) proprio l’unico riferimento alla musica che avrebbe dovuto attirare la sua attenzione. Allorquando Paisiello si appresta a dare l’attacco della cantata, si rivolge a Tosca chiedendo, per sicurezza: SI naturale, d’accordo? E lei, che è reduce dal drammatico scontro con Scarpia, quindi in uno stato di profonda prostrazione, ribatte: No, bemolle!   

(2. continua)