intime gioje

chiuder la prigione e buttar la chiave

28 febbraio, 2019

La Chovanščina è tornata alla Scala


Ieri sera il Piermarini ha ospitato la prima delle 7 rappresentazioni di Chovanščina, una nuova produzione affidata a Mario Martone e, per la parte musicale, al confermato (dopo il 1998) Valery Gergiev. Chiudo subito la questione tagli rispetto alla versione-Shostakovich: Gergiev conferma l’approccio che tiene da diversi anni e cioè elimina le trombe di Pietro in chiusura di second’atto, sostituite con una dissolvenza e con il passaggio senza soluzione di continuità all’atto successivo; nel terzo atto taglia completamente la canzone di Kuzka e Strelcy; chiude infine l’opera dopo il coro dei raskolniki, ripreso in orchestra e omettendo quindi il finale di Rimski (trombe di Pietro) e le aggiunte di Shostakovich (moscoviti e alba). Il tutto per una decina di minuti in meno di musica.

Gergiev si conferma, ce ne fosse bisogno, un profondo conoscitore di questa complessa partitura: nulla gli sfugge e tutto concorre a creare l’atmosfera così profondamente russa di cui l’opera è intrisa. Dove squarci di assoluto lirismo si affiancano a scene di rozzezza animalesca, momenti di intimità privata a sguaiate manifestazioni popolari, sfoghi di forza bruta ad espressioni di profonda religiosità. Il Maestro russo ottiene sempre dall’orchestra (in gran forma) e dalle voci il massimo dell’efficacia, senza che la tensione si abbassi mai nel corso delle più di tre ore nette di musica.

Ma encomiabile è anche l’affiatamento con la parte scenica dello spettacolo di Martone, che a sua volta interpreta con grande coerenza lo spirito dell’opera. Dove non si mandano messaggi nè si presentano posizioni politiche o sociologiche o ideologiche, ma si descrive semplicemente e dolorosamente un’epoca storica travagliata e caotica della vecchia Russia, un immenso paese sconvolto da fenomeni tipici del trapasso politico da medioevo a modernità, nonchè dal cambio radicale di modelli culturali: da quelli tipici dell’Asia ad altri mutuati dalla civiltà occidentale. Peccato che qualche gratuita (quanto evitabile) forzatura del regista (ci torno nel seguito) abbia compromesso una messinscena tutto sommato intelligente, tanto da guadagnare a Martone gli unici buh uditi alla fine.

Il cast delle voci merita un encomio cumulativo: ciascun interprete ha saputo dar vita al personaggio con efficacia e appropriatezza. Ecco quindi il volgare Ivan Chovanskij di cui Mikhail Petrenko mette in risalto le attitudini di vecchio possidente privo di cultura, ma pieno di boria, prepotenza e cinismo.

Splendido Alexey Markov come Šaklovityj: e non solo per la grande aria del terz’atto, davvero esposta con nobiltà, portamento e con il supporto di una splendida voce baritonale, ma anche per l’efficacia con cui ha incarnato questo personaggio caratterizzato da tratti inafferrabili, ambigui e contraddittori. 

Il santone Dosifej è impersonato da Stanislav Trofimov, praticamente perfetto in questa parte che coniuga la nobiltà di ideali religiosi con il cieco dogmatismo e l’intolleranza di chi arriva persino al sacrificio della propria vita pur di non dover vivere in una società nella quale non si riconosce più.

Evgeny Akimov incarna da par suo la figura di Vasilij Golicyn, personaggio tanto raffinato, laico e progressista quanto schizofrenicamente schiavo di assurde superstizioni. La sua è una figura che passa come una meteora (lo vediamo e sentiamo solamente nel second’atto, poi ne sentiremo solo parlare nel quarto...) ma - anche grazie all’integrità della partitura, preservata da Shostakovich e da Gergiev - ha modo di mettere in mostra la sua voce squillante (un po' meno nei centri e bassi) e le sue notevoli qualità espressive.

Discreta anche la prestazione di Sergey Skorokhodov, un Andrej Chovanskij dalla personalità instabile (con quel padre...) che lo trasforma da bestia assatanata di sesso in bambino piagnucoloso e disperato al momento del redde-rationem.

Lo scrivano è impersonato da Maxim Paster: ottima la sua resa di questo personaggio tremebondo, qualunquista e meschinello, in particolare nella scena con Šaklovityj e nella ricomparsa al terz’atto.

Penalizzato dal taglio della sua canzone della calunnia, Sergej Ababkin (uno dei sei accademici scaligeri di questa produzione) si è rifatto aggiungendo al personaggio di Kuzka anche quello, piccolo piccolo, di Strešnev.  
   
Gli altri cinque dell’Accademia vanno accomunati in un elogio collettivo: ciascuno ha meritevolmente dato vita a personaggi che saranno pure di contorno ma richiedono pur sempre (ad esempio il Pastore protestante) sensibilità interpretativa e voci adeguate.

Vengo ora al gineceo: qui il personaggio che torreggia (è l’unico presente in tutti i cinque atti dell’opera) e quello di Marfa. Bene, Ekaterina Semenchuk è assai efficace nella parte: memorabili la sua profezia e la canzone, ma di grande spessore anche tutti gli altri suoi interventi. Sostenuti da una voce di bel colore brunito e dagli acuti potenti, anche se nell’ottava bassa qualche decibel in più non guasterebbe.

I due soprani hanno parti non proibitive, ma proprio per questo non si possono permettere pecche: devo dire che sia la Emma di Evgenia Muraveva che la Susanna di Irina Vashchenko hanno messo in mostra buone qualità, voci ben impostate e corpose, e non si son fatte trascinare dalla foga che caratterizza i due personaggi e che potrebbe facilmente portare ad emettere schiamazzi invece che canto.

Il coro di Casoni è chiamato ad un compito oltremodo difficile, dovendo passare - i maschi - dalle sguaiatezze dei buzzurri moscoviti e dei prepotenti Strelcy alle stolide esternazioni dei monaci e alle esaltate preghiere dei raskolniki; ma anche dare nobiltà e religiosità ai cori degli stessi moscoviti. Le donne devono pure loro sdoppiarsi fra gentili e timide contadinelle che cantano canzoncine da educande e mogli degli Strelcy inferocite e vociferanti, oltre che in popolane esultanti per Ivan e in vecchie credenti invasate. Bene, come al solito la compagine scaligera ha dato il meglio di sè, a dispetto del... russo!

Detto ciò, mi sembra quasi superfluo aggiungere che tutti, ma proprio tutti, hanno avuto alla fine un calorosissimo riconoscimento da parte di un pubblico entusiasta, che evidentemente non ha avuto problemi a sopportare più di quattro ore di spettacolo.
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Spettacolo che ha avuto in Mario Martone il protagonista della parte scenica e drammaturgica. L’ambientazione è in un tempo-fuori-dal-tempo, un mix di passato, presente e (forse) futuro, dove convivono oggetti, suppellettili e abbigliamenti di provenienza eterogenea, come il consunto sidecar dello scrivano carico di residuati di strumenti elettronici, o gli smartphone impugnati indifferentemente da modernisti (Golicyn) e passatisti (Dosifej); c’è anche una specie di drone che attraversa la scena proprio all’inizio; i costumi sono pure di fogge svariate, dai cappottoni di Ivan e Dosifej all’impeccabile abito scuro, con valigetta 24-ore, da funzionario FBI (più che KGB...) di Šaklovityj; le scene lasciano percepire un generale stato di caos e degrado, che ben rappresenta la situazione vissuta dalla Russia nel periodo oggetto del testo di Musorgski. Meno efficace invece la differenziazione fra l’ambiente in cui vive Golicyn da quello di Chovanskij (ma di quest’ultimo parlerò più avanti).

Martone inventa encomiabilmente alcune trovate di carattere didascalico, che aiutano lo spettatore meno addentro alle contorte vicende del libretto (e alle prese con i problemi di lingua...) a capirci qualcosa in più. La ricorrente presenza in scena (accuratamente evitata, pur se inizialmente contemplata da Musorgski) di Sofia con i due piccoli zar ne è esempio illuminante. I tre appaiono proprio all’inizio dell’opera, sulla musica dell’alba, dove possono rappresentare, soprattutto Pietro, il-nuovo-che-avanza; poi tornano al momento in cui lo scrivano esce di scena, e va a consegnare la lettera delatoria di Šaklovityj alla zarevna. La quale, significativamente, la fa leggere anche al piccolo e intelligente Pietro, per poi consegnarla appallottolata nelle mani del grandicello ma minorato mentale Ivan! Alla fine del primo atto Sofia abbandona i piccoli zar per... abbandonarsi ad un amplesso con Golicyn, comparso a chiarire in anticipo il significato della lettera (no... un sms) d’amore che la zarevna gli invia all’inizio dell’atto successivo. Infine i tre tornano sulla scena nel secondo quadro del quarto atto a chiarire come il padrone della situazione resti, da solo, Pietro (che però, a 10 anni, difficilmente poteva essere già solitario al potere... ma questo è un problema di Musorgski).

Nell’atto iniziale citerei ancora l’incomprensibile mancanza di reazione di Marfa al tentativo di accoltellamento da parte di Andrej, il che dà modo a Emma di ricambiarle il favore (?) difendendola dall’energumeno. Azzeccata invece la permanenza dello stesso Andrej con il gruppo di vecchi credenti (mentre il padre e gli Strelcy entrano al Kremlino) che sta a prefigurare la sorte del poveraccio, come si materializzerà nel quarto e quinto atto. Poco da dire sul second’atto (il bicchiere che sostituisce la bacinella d’acqua non fa troppi danni...) Efficace la resa del turbolento convegno a tre e delle irruzioni da Marfa e Šaklovityj.

Come detto, il secondo e il terzo atto vengono accorpati e c’è assoluta continuità musicale fra la dissolvenza che chiude l’uno e l’attacco dell’introduzione che apre l’altro. Il coro dei monaci (che erano presenti e ben visibili nell’atto secondo) viene qui cantato a sipario chiuso (scelta del tutto condivisibile); sipario che si alza quindi sulla canzone di Marfa, che vediamo ingabbiata come una belva, per nulla feroce, peraltro. Gabbia che rappresenta - direi - un’allegoria: la costrizione psicologica che attanaglia la donna, prigioniera dei suoi bei ricordi dei momenti passati con Andrej ed anche della sua fede talebana in una religione fossilizzata e ormai minoritaria. Gabbia dalla quale viene liberata dal santone Dosifej che la invita ad accettare fatalisticamente ciò che il futuro le riserverà.

A questo punto arriva (secondo me e credo per buona parte del pubblico) la prima caduta di stile, e non solo, di Martone. Il quale ci mostra un Šaklovityj che canta quel mirabile e accorato arioso sulla situazione della sua povera Russia e contemporaneamente dà ordine ai suoi sgherri di arrestare Ivan Chovanskij! Davvero un’invenzione sopra le righe, poichè sappiamo già che Šaklovityj vuole Chovanskij morto, ma lo farà ammazzare nell’atto successivo e senza di certo imprigionarlo prima. Così siamo costretti a vedere Ivan che fa l’ultimo appello ai suoi Strelcy, invece che da casa sua, da una gabbia di penitenziario, dopodichè, nell’atto quarto, torna libero come un uccello (anzi con una dotazione di doppiette per sparare ai volatili) nella sua residenza di campagna, dove si gode i canti delle sue contadinelle. Mah... che siano arresti domiciliari all’acqua di rose, tipo quelli di Tiziano Renzi e consorte?  

Ma il peggio arriva adesso, con la danza delle persiane: un siparietto da volgarissimo avanspettacolo, con lap-dance, strip e strusciamenti, culminante nell’uccisione di Chovanskij per mano (anzi, per fucilata) di una delle zoccole! Qui siamo caduti proprio in basso... e in basso si resta alla fine del quadro successivo dove, in barba alla grazia concessa da Pietro agli Strelcy, alcuni di questi vengono platealmente ammazzati da tagliagole dell’ISIS! (Certo, sappiamo bene che 15 anni dopo Pietro il Grande farà ammazzare come cani gli Strelcy, ma nell’opera non è così e allora: perchè si deve correggere a tutti i costi Musorgski?)

Ecco, una regìa apprezzabile che si è in parte rovinata per voler strafare. Così alla fine, mentre per tutti c’erano solo applausi e bravi!, per Martone sono piovute sonore contestazioni. Ma chi è causa del suo mal...  

23 febbraio, 2019

laVerdi 18-19 - Concerto n°18


L’eclettico Maxim Rysanov fa una nuova e gradita visita in Auditorium per presentare un programma tutto slavo.

Programma aperto da una composizione contemporanea (del 2006) di Dobrinka Tabakova, 39enne bulgara trapiantata in Albione: Suite in Old Style (The Courth Jester Amareu). Il giullare di corte Amareu è in realtà (anagrammando il cognome) Jean-Philippe Rameau ed è lui che fornisce l’ispirazione per questo brano musicale.

Rysanov è anche il dedicatario dell’opera - originariamente scritta per viola, clavicembalo e piccolo ensemble di archi, poi arricchita per un’orchestra d’archi e percussioni - che lui presentò in prima a Mosca domenica 21 gennaio 2007 ed ha poi portato in giro per il mondo, fino all’odierno approdo milanese. Possiamo ascoltare la versione per orchestra, proprio diretta ed interpretata da Rysanov, in questa esecuzione del 2015 a Madrid, una delle tante pubblicate in rete.

I sottotitoli che vi appaiono in sovrimpressione riportano quelli dei 5 movimenti in cui la Suite è suddivisa, che hanno riferimenti extramusicali, attinenti a scene di vita in ambienti nobiliari del ‘700 (Versailles, nientemeno...) La tonalità principale del brano (la Suite barocca era tipicamente mono-tonalità) è il RE minore, con qualche divagazione su tonalità vicine (ma il 4° movimento è in DO). Mutuata dalla tradizione è anche l’alternanza fra movimenti veloci e lenti:

- Preludio: fanfara dai balconi (lento) e ritorno dalla caccia (veloce)
- Attraversando corridoi di specchi (lento-veloce-lento)
- Il giardino delle rose al chiaro di luna (lento)
- L’indovinello del suonatore d’organetto (veloce)
- Postludio: caccia e finale (veloce-lento)

Che dire: senza conoscerne l’origine, si potrebbe davvero prendere per musica del ‘700! Il che può comportare un giudizio positivo, data l’indubbia gradevolezza del brano, o negativo, un comodo e facile sfruttamento di antiche forme e contenuti.

Rysanov, presentatosi in abbigliamento scamiciato, proprio da zigano (però dopo ha vestito il frac...) ha ovviamente dato il meglio per valorizzare il brano, con i suoi pregevoli virtuosismi, e quindi ci siamo goduti questi 20 minuti scarsi di musica orecchiabile e non parliamone più...
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Ma a proposito di scimmiottature di musica vecchia di secoli, ecco il secondo brano in programma, la Suite da Pulcinella di Stravinski. Al quale va però riconosciuto di aver sì impiegato modelli e melodie di Pergolesi&C, ma arricchendoli da par suo di contenuti squisitamente novecenteschi e orchestrando il tutto con la ricerca di raffinati timbri e sonorità.

Tutte qualità che Rysanov ha saputo benissimo mettere in risalto, ben assecondato dall’Orchestra con la quale mostra ormai (dopo diverse collaborazioni) di aver raggiunto un ottimo grado di affiatamento. Quintetto delle prime parti degli archi disposto attorno al podio, per valorizzarne gli interventi solistici; che riguardano anche altri componenti dell’orchestra, penso a trombe e tromboni, ma solo come esempi.

Successo pieno e applausi e chiamate singole per tutte le prime parti e le intere sezioni dell’orchestra.
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Chiusura in bellezza con la Quinta di Prokofiev. Figlia della WWII, fu composta nel ’44 in una specie di oasi in cui alcuni artisti considerati patrimonio dell’URSS erano stati ospitati per evitare di cadere sotto i bombardamenti tedeschi e poter trovare ispirazione per le loro opere. E Prokofiev, alloggiato con la moglie in un confortevole appartamento, trovò effettivamente l’ambiente e l’atmosfera adatti per comporre questa che è di sicuro la sua più nota sinfonia e forse è anche la più esteticamente pregevole.

Sinfonia dal carattere e dalla struttura classica: 4 movimenti, tonalità scolasticamente accostate (SIb - RE - FA - SIb) impiego della forma-sonata e poche innovazioni (il pianoforte a far da riempitivo e qualche tamburo assortito). L’atmosfera che si respira è le mille miglia lontana dai fragori e dalle miserie della guerra (quindi da ciò che componeva, vedi l’ottava sinfonia, lì nei pressi tale Shostakovich) e solo l’Adagio, quasi espressionista, fa eccezione alla regola.

Qui ce la propone, con i suoi del Marinskii, Valery Gergiev, che usiamo come cicerone per esplorarne sommariamente le bellezze.

L’iniziale Andante (SIb maggiore) è in forma sonata, quindi due sono i temi principali che lo caratterizzano (in realtà sono accompagnati da almeno quattro altri motivi di una certa rilevanza, quindi parliamo sempre di gruppi tematici):


Il tema A viene subito esposto, senza introduzioni di sorta, da flauti e fagotto e poco dopo (1’04”) è ripreso, quasi distorto nella tonalità, da archi e poi dai fiati e ancora sottoposto a varianti, esposto a piccoli nuclei che lo compongono e affiancato da motivi secondari. Si arriva al secondo gruppo tematico (3’02”) con il tema B (canonicamente nella tonalità dominante di FA maggiore) ancora esposto dal flauto accompagnato dall’oboe: alcune micro-sezioni del tema richiamano il tema A, a conferma della coerenza della struttura tematica. Anche questo tema si accompagna con motivi di supporto, viene ripreso e rielaborato, finchè si arriva alla chiusura dell’esposizione e all’inizio dello sviluppo (4’50”).

Il quale presenta dapprima il tema A, e poi il tema B, manipolati sapientemente e sempre accompagnati dai rispettivi motivi secondari. Mirabile anche l’orchestrazione, con un ribollire di effetti e un continuo rincorrersi fra le diverse sezioni.

Si arriva quindi (8’17”) alla ricapitolazione, che in realtà non ripresenta stucchevolmente i temi come uditi nell’esposizione, ma ancora li sottopone a sottili manipolazioni e/o li trasferisce da una sezione all’altra dell’orchestra. Il secondo tema (B) ricompare (10’00”, anche qui nel rispetto delle sacre regole) in tonalità SIb, seguito e accompagnato dai suoi motivi ancillari.

A 11’13” ecco la coda, aperta da pesanti perorazioni degli ottoni, basata ancora su spezzoni del tema A (qui in MIb maggiore) che si chiude con la massima enfasi su uno schianto di SIb maggiore di tutta l’orchestra.

L’Allegro marcato, in RE minore, può essere vagamente assimilato al tradizionale Scherzo, e si presenta infatti con tre sezioni, delle quali quella centrale, in tempo più lento, potrebbe lontanissimamente assomigliare al classico Trio, anche se qui è di proporzioni e articolazione colossali. I temi principali sono due, sempre accompagnati da motivi di supporto:


Il primo tema (13’23”, chissà se Nino Rota se ne è ricordato per le sue musiche di 8½) pare evocare sbuffanti locomotive lanciate a tutta velocità, o l’incessante lavoro di magli che modellano l’acciaio nelle fabbriche di armamenti... Viene al solito presentato e poi manipolato sapientemente, fino all’arrivo (1602”, meno mosso) del motivo B (RE maggiore) che introduce il secondo gruppo tematico (16’28” e poi 17’06”) di proporzioni enormi e in metro ternario, che viene chiuso ancora dal motivo B (18’14”). Riecco il primo gruppo tematico (18’45”) che si presenta quasi ansimando, sembra proprio una locomotiva che sta faticosamente mettendosi in moto, sbuffando sempre più affannosamente, finchè (20’03”) eccola lanciarsi ancora nella sua folle corsa! Che per la verità (ecco la coda, 21’24”) si interrompe bruscamente (21’48”) come sbattesse contro un muro... di RE minore!

Ora abbiamo l’Adagio, in FA maggiore, una vera oasi di calma (ma anche di severa riflessione) dopo cotanta agitazione. Un movimento francamente ostico e non facile (a differenza degli altri) a digerirsi al primo ascolto. É in forma ternaria, con una sezione centrale più mossa. Dopo 3 battute introduttive ecco il tema A esposto da clarinetti e clarinetto basso (22’11”) subito seguito da un paio di controsoggetti e poi ripetuto (23’15”) dagli archi in MI maggiore. Un altro motivo B è esposto (24’58”) per chiudere la prima sezione:

La parte centrale del movimento (26’07”) presenta un ritmo più mosso, con un ostinato asimmetrico (terzine e duine per battuta) e vi appare (come a 26’19” e poi a 26’48” e ancora a 28’05”) un motivo puntato (C) assai dolente che sfocia (29’28”) in una poderosa perorazione dell’intera orchestra.  

A 30’15” attacca la terza parte del movimento con la ripresa del tema A negli archi; poi riecco (31’48”) il tema B. A 32’38” arriva la lunghissima coda che il clarinetto conduce in un’atmosfera sempre più rarefatta, a chiudere questo movimento davvero sofferto!

Ed eccoci al finale Allegro giocoso, SIb maggiore. La sua struttura ternaria si presta in questo caso ad una interpretazione in termini di forma-sonata, con esposizione, sviluppo e ripresa, anche se spesso si indica la forma come rondo, per il periodico ritorno del tema principale. L’Introduzione (che attacca riprendendo il FA conclusivo del precedente Adagio) è caratterizzata dalle reminiscenze del tema principale dell’Andante (primo movimento) che appaiono rispettivamente a 35’13” (frammento) e a 35’25” (tema completo).

Le viole, imponendone il ritmo, danno l’attacco al tema A esposto dapprima (36’03”) dal clarinetto solo e poi, dopo una risposta dei violini, da legni ed archi (36’20”). Il secondo gruppo tematico (motivo B) è esposto dal flauto a 37’17”, poi ripreso ancora a 37’45”, sempre dal flauto spalleggiato dal clarinetto. Ancora il tema A (38’10”) attaccato dal clarinetto ad invitare il flauto per il suo completamento, cui segue un transizione che chiude questa prima parte del movimento (l’esposizione, in linguaggio di forma-sonata).


Ecco quindi la sezione centrale, o sviluppo (39’12”) che introduce per la verità un nuovo motivo C, di natura assai cantabile, che richiama nello spirito il tema A del primo movimento. Poi vengono rielaborati e manipolati i motivi esposti in precedenza, compreso il tema C, fino a concludere questa sezione.

La ricapitolazione inizia a 40’57”, con la riproposizione del tema A e poi (41’48”) del tema B. Ancora il tema A (42’15”) viene esposto a grande ampiezza, spezzato nelle sue componenti, e poi torna a farsi vivo (42’43”) enfaticamente nei corni. Con il tema C innesca infine una colossale coda, dove tiene banco, fra le percussioni, un insistito quanto impertinente martellamento del legno, che rende ancor più esilarante la conclusione della sinfonia.
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Anche questa sinfonia è ormai entrata nel vasto novero dei cavalli di battaglia dell’Orchestra, che anche ieri non si è smentita, tirando fuori un’esecuzione davvero encomiabile. Merito certamente anche di Rysanov, che mostra grande autorevolezza nella direzione e perspicacia nel mettere in risalto le tante perle di questa grande partitura (per dire, anche l’ostico Adagio è stato padroneggiato in modo da evitare assopimenti!) 

Pubblico anche ieri tutt’altro che oceanico, anzi: evidentemente se mancano Ciajkovski o Beethoven molti non si scomodano... ma anche stavolta hanno avuto torto.

22 febbraio, 2019

La Chovanščina in arrivo alla Scala (4)


Dopo aver fatto la conoscenza con l’integrale dell’opera nella versione-Shostakovich, e prima di dare una scorsa a quella tradizionale di Rimski, prendiamo in considerazione le esecuzioni di due direttori che, come si dice in gergo, hanno lasciato il segno nella storia interpretativa dell’opera così come strumentata e completata dal grande Dimitri. Cercherò di essere il più asettico possibile, limitando al minimo personali giudizi sulle diverse (in alcuni casi diversissime) scelte dei due direttori. Ripropongo il riferimento al libretto multi-uso, che può facilitare l’ascolto, specie in presenza di tagli al testo.

Cominciamo - se non altro perchè sarà lui sul podio del Piermarini dal 27/2 - da Valery Gergiev che è da anni (almeno dal 1991, anno di uscita della sua prima incisione) un campione di questa versione, da lui già diretta alla Scala quasi 21 anni orsono.

É possibile oggi seguire in rete (con video) una sua (relativamente) recente produzione (2012) al teatro Marinski di SanPietroburgo. A parte le immancabili piccole divergenze di carattere interpretativo, questa esecuzione di Gergiev si differenzia dalla versione adottata in alcuni particolari. Il primo è di scarsa importanza: verso la fine del primo atto, allorquando Ivan Chovanskij comanda agli Strelcy di rientrare al Kremlino (si è udita una fanfara di trombe) Gergiev inserisce (da 48’30” a 48’54” della registrazione) subito prima dell’ultima invocazione di Dosifej, 12 battute di soli strombazzamenti (inesistenti in Lamm e Shostakovich) prese di peso dalla partitura di Rimski. Non è escluso che questa scelta sia stata suggerita da esigenze puramente registiche (accompagnare il corteo degli Strelcy che esce di scena); l‘inserimento è presente anche nell’edizione CD del 1991.

Altra deviazione da Shostakovich è il finale dell’Atto II: Gergiev ignora la trionfalistica fanfara di zar Pietro e si limita ad un colpo di tam-tam, facendo poi tenere (1h32’20”) agli archi il RE (su cui Šaklovityj aveva chiuso il suo intervento) in dissolvenza. Una scelta abbastanza vicina alle intenzioni dell’Autore, e anche - come vedremo - a quella di Abbado.

Gergiev poi taglia (in questa occasione, ma non nella registrazione del 1991) la filastrocca di Kuzka, accompagnata da Strelcy e mogli, dell’atto terzo: a 2h01’44” salta direttamente all’arrivo dello scrivano (questo è uno dei tanti tagli di Rimski).   

E infine ecco la differenza, questa sostanziale, che riguarda il finale dell’opera. Come si può constatare, Gergiev segue fedelmente Shostakovich (in realtà... Rimski, come abbiamo visto in una precedente puntata, esaminando i diversi finali) fino alla perorazione del coro dei raskolniki, seguita dalle invocazioni di Marfa, Andrej e Dosifej (3h15’18”). A questo punto però, invece della sequenza prevista da Shostakovich (marcia delle truppe di Pietro + motivo della foresta + coro dei moscoviti + alba sulla Moscova) il Direttore russo fa semplicemente ripetere alla sola orchestra il tema del coro, chiudendo (3h15’54”) con un lungo accordo tenuto di LAb minore. Una soluzione quindi che sconfessa Shostakovich, mentre si avvicina un pochino a quella di Stravinski, che osserveremo in dettaglio ascoltando l’esecuzione di Abbado: insieme a quest’ultima, è la soluzione per il finale che forse meglio interpreta ciò che l’Autore aveva affermato di voler realizzare. 
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E a proposito di Abbado, ha fatto storia la sua interpretazione del 1989 a Vienna, di cui esistono in rete almeno due riprese dal vivo in date diverse, con cast leggermente ma significativamente diversi. La prima è stata trasmessa in video; la seconda è incisa su CD. La base è sostanzialmente costituita dalla versione-Shostakovich, ma con alcuni tagli e soprattutto con il finale mutuato da quello composto nel lontano 1913 da Igor Stravinski (per Diaghilev). Le considerazioni (e i riferimenti temporali) che seguono si riferiscono alla versione CD.

Una prima constatazione riguarda la durata netta dell’intera opera: 2h50’. Rispetto a quella dell’edizione integrale (3h18’ sia per Tchakarov-1986 che per Gergiev-1991) ci sono ben 28 minuti di differenza! Il che ovviamente porta subito a concludere che Abbado abbia tagliato parecchio!

Una delle ragioni, diciamo così, programmatiche, dei tagli è stata esposta dallo stesso Abbado, che li ha giustificati (ma non tutti...) con il desiderio di rispettare la presunta volontà di Musorgski, deducibile dalle cancellature rinvenute sui suoi manoscritti e dalle parti di testo mancanti nel quaderno blu; tutto materiale che Lamm (e Shostakovich con lui) hanno invece tenuto in vita. Si tenga presente che la quasi totalità dei tagli di Abbado è mutuata da Rimski. Vediamo però più in dettaglio.

Primo atto. A 11’46” vengono omessi alcuni versi cantati da Šaklovityj, effettivamente pleonastici: una parte cancellata (da mano ignota) anche sul manoscritto.

A 13’54” c’è un piccolo taglio nel dialogo fra Šaklovityj e scrivano, anche questo di versi pleonastici, cancellati anche sul manoscritto. 

A 20’27” troviamo un taglio più sostanzioso, che elimina una parte del battibecco fra i moscoviti e lo scrivano; effettivamente è anche questo un passaggio pleonastico, che fra l’altro lo stesso Musorgski non riportò nel quaderno blu.

A 35’08” ecco un piccolo ma significativo taglio, nel corso del terzetto Emma-Marfa-Andrej: taglio che elimina una velata minaccia di Marfa ad Andrej, che ha un momento di paura. Tuttavia si tratta di una delle cancellature apportate sul manoscritto verosimilmente dallo stesso Autore.

Il secondo atto è quello che Abbado ha sfrondato di più (almeno un quarto d’ora di musica).

La prima grossa sforbiciata (49’50”, mutuata da Rimski) inizia con la lettura da parte di Golicyn della lettera della madre (Abbado salva pochi versi conclusivi). Il taglio ci priva del primo apparire del tema trionfante della casata di Golicyn, tema che ci viene negato anche subito dopo, a causa della cassazione totale dell’incontro tra Golicyn e il Pastore luterano (il che purtroppo ci impedisce anche di farci un’idea più precisa della personalità del principe). Abbado ha qui la scusante della mancanza di questa scena nel famoso quaderno blu, ma francamente mi pare che questo taglio presenti più contro che pro. Si passa quindi direttamente al momento in cui Varsonofev annuncia l’arrivo di Marfa.

A 1h00’21” abbiamo un piccolo taglio (mutuato sempre da Rimski) durante il battibecco fra Golicyn e Chovanskij, che ci fa sfuggire uno dei motivi di rancore del capo degli Strelcy verso il consigliere della zarevna: accusato di aver manipolato le decisioni della Duma!

Altro taglio, più o meno significativo, a 1h03’22”: Dosifej, appena arrivato, rivela di essere stato principe, prima di convertirsi all’apostolato come guida spirituale dei Vecchi Credenti. È un taglio di Rimski, e per pochi versi finali è anche una mancanza nel quaderno blu.

Ci sono infine due tagli (sempre da Rimski) che riguardano aspetti non proprio trascurabili della personalità e della storia di Chovanskij: il primo si trova a 1h04’36”: laddove Chovanskij si propone in sostanza come nuovo capo del governo, impiegando i suoi Strelcy per arrivare al potere su Mosca e sulla Russia. Il secondo (minuscolo e quasi impercettibile) si incontra a 1h07’14”: è Chovanskij che ricorda a Dosifej di averlo già in passato aiutato con idee, uomini e mezzi.

Si è già detto, trattando dei finali d’atto incompleti, come Abbado abbia di sua iniziativa ignorato la versione di Shostakovich, anticipando qui (1h11’20”) cinque battute della fine del terz’atto.

Nel quale atto terzo notiamo come Abbado abbia impiegato, per la canzone di Marfa (1h15’15”) la versione originariamente orchestrata da Musorgski (accompagnamento di archi, mentre Shostakovich aveva fatto di testa sua, accompagnando con i fiati). Poi troviamo a 1h20’45” il primo dei due tagli personali (cioè non mutuati da Rimski) di Abbado: è una piccola parte dello scontro fra Marfa e Susanna, e contiene un frase appena-appena osé: non può certo essere questa la ragione del taglio... bisognerebbe chiederlo ad Abbado!         

Per il resto, solo un altro piccolo taglio (1h24’27”, giustificato dall’assenza dei versi nel quaderno blu) di parte dello scambio di battute fra Dosifej e Susanna. Effettivamente non si tratta di cosa grave.

Nel quarto atto c’è solo da segnalare la Danza delle persiane, dove Abbado sembra fare un mix fra l’orchestrazione di Rimski (vedi impiego delle arpe) e quella di Shostakovich (esempio: la cadenza finale con scoppiettanti interventi delle percussioni).

Nel quinto atto troviamo il secondo e ultimo (e minuscolo) taglio personale di Abbado (2h36’04”): sono i primi versi dell’esternazione di Marfa, che manifesta il suo dolore per l’abbandono di cui Andrej l’ha fatta oggetto.

Ed eccoci ora arrivati al cuore della scelta drammaturgica di Abbado: il finale dell’opera. Si è già sommariamente descritto l’approccio del Direttore, consistente nell’adozione della versione 1913 di Stravinski. Seguiamo ora la musica in dettaglio, a partire dal momento (2h45’04”) in cui Marfa accende il rogo, sull’accordo di MIb maggiore che ha chiuso l’invocazione di Dosifej e fedeli dopo quella strabiliante discesa cromatica: questo è chiaramente riconoscibile come il punto dal quale la soluzione Abbado(-Stravinski) che fin lì aveva seguito sostanzialmente quella di Shostakovich(-Rimski) se ne distacca nettamente.    

E se ne distacca anche dal punto di vista della complessità dell’impianto, che sarebbe stata del tutto impensabile da parte di Musorgski, e ancor meno da parte di Rimski; lo stesso Shostakovich (arrivato 45 anni dopo Stravinski) si è ben guardato dall’introdurre nel suo finale (come nel resto dell’opera) soluzioni tanto brillanti quanto lontane dallo scenario in cui l’opera prese vita. Dopodichè non sorprende che un musicista orientato al ‘900 come Abbado si sia letteralmente innamorato di quel finale! Che - lo ammise lui stesso - è puro Stravinski, quindi nulla a che vedere con Musorgski, del quale impiega peraltro genialmente le note... (Curiosità: Stravinski enarmonicamente adotta notazioni con i diesis al posto di quelle con i bemolle usate sempre da Musorgski.)

Il coro inizia a cappella (come previsto da Musorgski) con la frase musicale dell’Autore, ma subito (2h45’22”) Stravinski introduce una nuova frase composta intrecciando il motivo scelto da Musorgski con l’altro (parte anch’esso del corale popolare fornito dalla Karmalina) che l’Autore aveva ignorato. Il tema completo di Musorgski viene esposto con accompagnamento orchestrale a 2h45’48”, e alla conclusione (2h46’15”) ecco il tema della foresta (inizio atto V) che finora era rimasto in sottofondo, uscire allo scoperto in funzione di interludio, seguito (2h46’30”) da una sequenza discendente del coro, di pura mano di Stravinski.

A 2h46’51” è Dosifej da solo a cantare il primo verso; gli rispondono (2h47’09”) Andrej e i raskolniki (RE# minore, come dire... MIb) e in sottofondo, nei bassi, si ode distintamente il tema cantato dai Monaci alla fine del secondo e poi all’inizio del terzo atto (un bell’esempio di politonalità, non c’è che dire). La cosa si ripete: 2h47’28” Dosifej e 2h47’42” Andrej e fedeli (SOL#=LAb). Un ultimo intervento del coro e dei solisti (2h47’56”) porta alla chiusa (2h48’23”) in dissolvenza, sostenuta da un insistente pedale acuto di RE# e LA#, accompagnato da cupi rintocchi di campana.
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Da ultimo ascoltiamo l’opera come apparve per la prima volta in scena nel 1886 e come è stata ovunque rappresentata fino alla metà (come minimo) del secolo scorso: la versione di Rimski, che per più di mezzo secolo è stata l’unica disponibile sul mercato. Sappiamo che Rimski, oltre a creare l’orchestrazione (del tutto o quasi assente nei manoscritti di Musorgski) aveva anche apportato pesanti modifiche all’originale, consistenti in ampi tagli e in interventi sia su melodia che su armonia. Seguiamone quindi sommariamente i contenuti ascoltando questa edizione storica del Bolshoj del 1946.

Preludio: nella chiusa (3’28”) la tonalità, dal precedente FA#, anzichè a LAb è trasposta alla sottodominante REb.

Primo atto: nella prima scena (Kuzka e due Strelcy) a 6’50” troviamo un piccolo taglio (Kuzka manda al diavolo i commilitoni). Poi, a 8’09” sono omesse poche battute di dialogo all’arrivo di Šaklovityj presso lo scrivano. A 10’56” è omessa la prima parte della dettatura di Šaklovityj (cancellata sul manoscritto di Musorgski). Piccolissimo taglio a 13’03”, parte pure cancellata sul manoscritto. Idem a 13’32”.

A 15’12” ecco il proditorio (davvero) taglio di tutta la lunga scena che coinvolge scrivano e moscoviti. Soltanto una piccola parte di essa si giustificherebbe con l’assenza dal quaderno blu. Veniamo così privati di una fondamentale componente dello scenario dell’opera, quella che descrive la condizione di vita del popolo russo. Inoltre, la scena che segue - il tripudio popolare in attesa di Ivan Chovanskij - è stata da Rimski pesantemente modificata nella linea musicale e pure nel testo. Poco dopo (coro di lode, 19’45”) ecco altri interventi di Rimski, che aggiunge delle ripetizioni (il numero di battute raddoppia!) e alcuni incisi musicali di sua invenzione.

All’arrivo di Emma, piccolo taglio (22’29”) di un botta-e-risposta fra la ragazza e Andrej. Subito dopo (23’26”) un taglio che ci priva dell’offerta di Andrej di fare di Emma la zarina! Ancora tagli piccolissimi nel seguito (23’44”, minaccia di Andrej di usare la forza). E poi (24’45”) tagliata una parte dell’intervento di Marfa a proteggere Emma. E poi altro taglio (25’08”, è una cancellatura nel manoscritto) dove Marfa chiede ad Andrej se ha dimenticato il giuramento fatto in passato e lancia una velata minaccia di denunciarlo: qui viene a mancare la prima comparsa del tema dell’amore perduto di Marfa. Modifiche anche alle tonalità del canto di Marfa e Andrej. Ultimo piccolissimo taglio a 27’51”, allorquando Andrej sfida gli Strelcy. 

Dopo l’arrivo di Dosifej e il suo accorato appello, a 34’01” Rimski aggiunge all’originale alcune battute, reiterando la fanfara degli Strelcy per accompagnarne il corteo che si muove verso il Kremlino. Un’ultima, microscopica ma significativa modifica all’originale: a 36’43” Dosifej chiude il suo invito ai fedeli - a rinunciare a questo mondo - con una terza minore discendente (RE-SI) al posto della terza maggiore (RE#-SI) dell’originale. 

Secondo atto: dopo che Golicyn ha letto la focosa quanto erotica missiva della zarevna, ecco il primo gigantesco taglio (42’33”): se ne vanno la lettura della lettera della madre e l’intera scena dell’incontro con il Pastore protestante (questa manca per la verità nel quaderno blu). Si arriva quindi direttamente alla scena con Marfa. La cui aria (quella della profezia, 44’33”) ha un’introduzione di Rimski, diversa dall’originale, oltre ad essere innalzata di un semitono (da DO a DO#) e ancora presentare tonalità diverse nel seguito (MI e SOL minore, anzichè LAb) e modifiche nell’accompagnamento. 

Dopo l’esternazione di Golicyn si arriva ad un paio di tagli abbastanza corposi, durante il battibecco fra il padrone di casa e il sopravvenuto Ivan Chovanskij. Il primo a 53’14”, quando Golicyn ricorda all’ospite come fu la Duma a varare le leggi che Chovanskij reputa lesive dei suoi diritti e privilegi. Il secondo (53’46”) quando Golicyn ricorda al suo ospite fatti che lo mettono in cattiva luce. 

Arriva Dosifej e qui c’è il lungo taglio (55’48”, solo in piccola parte giustificato dalla mancanza del testo nel quaderno blu) che riguarda il passato del santone. Poi (57’20”) altro taglio, dell’offerta di Chovanskij di fare un colpo di stato e salire al potere. Poco dopo, tagliato (58’03”) un breve battibecco fra Dosifej e Golicyn, accusato di comportamenti reprensibili. Tagliato anche (58’49”) il successivo battibecco fra Dosifej e Chovanskij, per cui si passa direttamente al canto dei Monaci Neri.

Arriva Marfa e una parte del suo racconto (1h01’37”) dell’aggressione subita è soppressa. Ecco poi Šaklovityj e il finale, che Rimski inventa (1h02’56”) riprendendo - in RE maggiore, dal preludio - il motivo dell’alba sulla Moscova.

Terzo atto: Rimski ristruttura il coro dei Monaci Neri (1h03’56”) apportando modifiche sia al testo che alla linea delle voci. Per la canzone di Marfa Rimski impiega la strumentazione di Musorgski, come si deduce dall’attacco degli archi (1h06’41”). Poi qualche modifica ai tempi.

Per lo scontro Marfa-Susanna (1h10’11”) Rimski adotta la versione accorciata (come nell’edizione di Lamm) ma introduce modifiche all’armonizzazione e alle tonalità (Marfa, 1h12’43”). Dopo l’arrivo di Dosifej ecco il taglio (1h15’54”, giustificato dalla mancanza del testo nel quaderno blu) dello scambio di battute fra il santone e Susanna. Piccolo taglio (1h18’04”) alla risposta di Marfa a Dosifej, dove la donna prevede sventure. Nell’aria di Šaklovityj troviamo due piccoli e ravvicinati tagli (1h25’01” e 1h25’25”) quando il boiaro ricorda le vicissitudini politiche della Russia.

Dopo l’ingresso in scena degli Strelcy e quindi delle rispettive mogli, ecco un altro macroscopico taglio (1h30’45”): l’intera scena della canzone di Kucka, accompagnata da Strelcy e mogli. Si passa direttamente all’arrivo dello scrivano. Piccolo taglio (1h31’33”) alle minacce degli Strelcy al povero malcapitato. Microscopico taglio (1h33’16”) ad un’esternazione delle mogli. Poi, nella scena finale con Kuzka, Strelcy e Ivan troviamo più che altro delle trasposizioni di tonalità.

Quarto atto, primo quadro: i due cori delle contadinelle appaiono variati nell’armonizzazione e nell’accompagnamento. Rimski identifica poi (1h43’26”) l’emissario di Golicyn (che per Musorgski è un tenore) con il suo assistente Varsonofev (che è però un basso) per cui ne deve abbassare la tessitura originale, oltre che alterarne l’accompagnamento.

La Danza persiana (1h45’07”) presenta due piccoli tagli (10 battute in tutto) e piccole differenze di armonizzazione. La canzone finale (1h54’14”) presenta pure differenze più o meno marcate di armonizzazione.

Quarto atto, secondo quadro: pochi gli interventi di Rimski sull’originale (accompagnamento, armonizzazioni). Durante l’appello di Dosifej, subito dopo un inciso di Marfa (2h01’18”) la frase di Dosifej alla donna è abbassata dal DO al SIb maggiore.

Per il resto sono da rilevare soltanto tre piccoli interventi. Dapprima un piccolo taglio sull’ultima esternazione di Marfa (2h08’50”) che cerca di tranquillizzare Andrej. Poi (2h09’41”) un’aggiunta (una battuta!) al coro delle mogli degli Strelcy. Infine (2h10’10”) un altro minuscolo taglio al coro degli Strelcy.

Quinto atto: l’introduzione strumentale viene accorciata della metà. Il primo intervento piuttosto corposo di Rimski riguarda l’esternazione iniziale di Dosifej: alla quale viene aggiunto di bel nuovo (2h18’25”) un altro appello ai fedeli di argomento, potremmo dire, politico. La musica impiegata qui a sostenere il testo di Rimski è la medesima che nel primo atto aveva accompagnato il richiamo dello stesso Dosifej.

Poi troviamo trasposizioni di tonalità nei cori dei fedeli, e una ristrutturazione dell’ultima parte del coro, con un taglio di implorazioni a 2h26’18”, che porta direttamente all’entrata di Marfa. A proposito della quale poco dopo (2h33’34”) troviamo l’aria che non figura nell’edizione di Lamm, ma che si è già visto come sia da considerare del tutto autentica.

Infine (2h37’01”) ecco le battute scritte da Rimski per evocare le lingue di fuoco, che introducono il coro finale in LAb minore, chiuso (2h38’16”) sulle esternazioni (aggiunte da Rimski) di Marfa, Andrej e Dosifej, prima del sopraggiungere delle truppe dello zar Pietro e della trionfalistica chiusura in modo maggiore.
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(4. fine.)

20 febbraio, 2019

La Chovanščina in arrivo alla Scala (3)


Dato che è quella che andrà in scena prossimamente al Piermarini, accingiamoci all’esplorazione della versione di Shostakovich seguendone in rete un’esecuzione assolutamente integrale, realizzata a Sofia nel 1986. In sostanza, qui si ascolta tutto ciò che Musorgski ha composto per Chovanščina, incluse quelle parti che - a giudicare dalle correzioni sui manoscritti e dalla mancanza nel quaderno blu - il compositore medesimo avrebbe magari espunto al momento di licenziare il suo lavoro per l’esecuzione e la pubblicazione; in più si ascoltano le aggiunte (nel finale) di Rimski e dello stesso Shostakovich. Come ausilio all’ascolto, ripropongo il riferimento al libretto multi-uso, che reca il testo integrale di questa versione dell’opera.

Ovviamente tutti i riferimenti all’orchestrazione (così come gli esempi musicali riportati) riguardano Shostakovich e non già Musorgski, che in proposito ha lasciato solo scarne indicazioni sui suoi spartiti. Le differenze (spesso marcatissime) fra questa strumentazione e quella di Rimski evidentemente dipendono dai diversi approcci che i due orchestratori hanno tenuto: oggi si tende ad accreditare maggior aderenza alla volontà dell’Autore al lavoro di Shostakovich in quanto non condizionato (o meno condizionato) come quello di Rimski da personali convinzioni estetiche o da sedicenti intenti migliorativi, e in compenso guidato da tutti gli approfondimenti della conoscenza dell’estetica musorgskiana maturati durante la prima metà del ‘900. Ma, così come accade per il Boris, anche qui la versione di Rimski non è stata per nulla seppellita dalla storia, e conserva intatto il suo appeal su gran parte del pubblico.                
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Il Preludio (alba sulla Moscova) è caratterizzato dalla insistita reiterazione (non meno di 11 ricorrenze) di un unico motivo affidato a strumenti diversi ed esposto in forme sottilmente variate, nella melodia, nella scansione temporale, nella tonalità e nell’armonizzazione:

Questo processo, che ritroveremo anche più avanti, rischia di ingenerare all’orecchio dell’ascoltatore una certa qual monotonia: qui il rischio è scongiurato dalle continue variazioni cui il motivo è sottoposto; ma ad esempio nella canzone di Marfa dell’Atto III tale rischio si materializzerà in modo clamoroso.

Si è già detto come questo riferimento esplicito all’alba sia stato interpretato, dagli ammiratori della figura di Pietro il Grande (Stasov e Rimski in primo luogo) come un’allegoria dell’avvento dello zar innovatore. Tesi che però non troverebbe conferma nell’atteggiamento dello stesso Musorgski, il quale - a dispetto di aver fatto parte in qualità di ufficiale del corpo militare creato da Pietro (la Guardia Preobrazhenzki) - è sempre parso piuttosto tiepido nell’esaltarne la figura.

Atto I - Veniamo a conoscenza dello scenario di partenza del dramma e di tutti i suoi principali protagonisti (Golicyn escluso). Ci rendiamo conto così della situazione di totale caos istituzionale (tutti-contro-tutti e ciascuno-per-sè) che regna in quei momenti a Mosca (e nell’intero Paese).

All’alzata del sipario (5’11”) sulla Piazza Rossa di primo mattino, dopo un pesante rintocco del campanone del Kremlino (amplificato per risonanza dal tam-ram) assistiamo alla scenetta di Kuzka e dei suoi due commilitoni Strelcy (guardia speciale degli zar). L’atmosfera sonora è più volte ravvivata da perentori squilli di trombette che arrivano dal vicino Kremlino. Kuzka (che ritroveremo nel terz’atto) ha fatto un turno di sentinella nella notte e ancora non è ben sveglio, mentre gli altri due vantano le loro sanguinose imprese contro i boiari ribelli e a difesa della reggente Sofia e dei due fratelli-zar (l’handicappato 15enne Ivan e il più giovane di 5 anni, Pietro).

Arriva poi (7’29”) lo scrivano pubblico, sbeffeggiato dagli Strelcy, il quale a sua volta bestemmia (7’56”) contro la vita grama, mentre si installa nella sua garitta. L’atmosfera piuttosto sbracata della scena viene improvvisamente incupita dal sopraggiungere (8’11”) dello sbifido Šaklovityj, accompagnato da un motivo minaccioso e protervo, proprio di chi è in condizioni di dettar legge. Questo boiaro è un tipo poco raccomandabile e dalla personalità indecifrabile (come scopriremo dai suoi contraddittori atteggiamenti nei tre atti successivi). È arrivato lì per usare i servizi del pubblico scrivano, che si prepara a servirlo, ma poi, di fronte ad oscure minacce del (per lui sconosciuto) personaggio si schermisce e lo prega di andarsene. Il battibecco fra i due mette in risalto musicalmente i loro diversi stati d’animo: calmo e protervo quello di Šaklovityj (voce di basso); agitato e petulante quello dello scrivano (tenore).

Scrivano che si convince però rapidamente alla vista di una borsa di denaro che lo sconosciuto gli allunga. Così si mette in ascolto della dettatura. Che inizia (10’20”) ovviamente con l’indicazione dei destinatari: nientemeno che la zarevna e le massime autorità dell’intera Russia! E il contenuto? Una denuncia (10’40”) a nome degli stessi Strelcy contro il loro stesso capo, Ivan Chovanskij, accusato di preparare un colpo di stato contro Sofia e fratelli per portare sul trono il figlio Andrej!

Per sincerarsi che lo scrivano abbia riportato quanto dettatogli, Šaklovityj gli chiede di rileggere. Qui (10’56”) abbiamo un divertente contrappunto fra il canto dello scrivano, che legge il testo della lettera a rotta di collo, sovrapponendo la sua voce a quella di un gruppo di illetterati moscoviti che sfilano nella piazza cantando una filastrocca abbastanza sconcia (torneranno a farsi vivi fra poco).

Šaklovityj (11’12”) intima allo scrivano di completare la denuncia, dettandogli altri particolari del progetto di golpe, che avrebbe obiettivi chiaramente reazionari: riportare indietro la Russia sul terreno politico e religioso e i Chovanskij al potere. Lo scrivano è in grande agitazione, già temendo le ritorsioni dei denunciati. Sopraggiunge in quel momento (12’10”) un drappello di Strelcy che cantano spavaldamente, su un motivo rozzo e protervo, la loro onnipotenza, cosa che mette in agitazione anche Šaklovityj. Dopo che lo scrivano (12’59”) ha manifestato tutto il suo disprezzo per quei boriosi quanto feroci militari, lo sconosciuto si affretta (13’44”) a concludere la sua denuncia, suggerendo prudenza in attesa degli eventi e ribadendo che la missiva deve essere indirizzata alla zarevna. Un ultimo scambio (14’19”) di battute, preoccupate (lo scrivano) e minacciose (lo sconosciuto) pone fine al loro incontro di... affari.

E proprio dei suoi affari si occupa ora lo scrivano, apprestandosi (15’00”) a verificare il contenuto della borsa lasciatagli dallo sconosciuto. Il quale - così sentenzia - sarà pure ricco e potente, ma io sono più furbo di lui, chè ho scritto la sua denuncia con la calligrafia di un tale che è morto!

Qui (15’53”) abbiamo una lunga scena dove lo scrivano è coinvolto in una nuova spiacevole faccenda, complice quel gruppo di buzzurri moscoviti che ripassa di lì cantando la sua indecente filastrocca. Questa gente vive nella più totale ignoranza di ciò che gli accade attorno, ed è quindi facilmente strumentalizzabile da chiunque. Per capire cosa sta succedendo non ha altro modo che farsi spiegare - da qualcuno che sa leggere, oltre che scrivere... - cosa sta scritto sulle gride esposte in piazza. E una di esse campeggia proprio lì, appesa ad una colonna: il canto goliardico del gruppo viene bruscamente interrotto (16’10”) da un poderoso intervento (un MIb in unisono di fiati e timpani) dell’orchestra, cui segue un truce motivo esposto ancora in unisono da tutti gli archi, che si alternano poi ai ritorni dei fiati, chiusi da un triplice accordo di questi, che sembra evocare le bocche aperte di quegli ignoranti di fronte all’arcana presenza dei segni, per loro incomprensibili, esposti su quella colonna eretta nella piazza.   

Questi ragazzotti saranno pure ignoranti, ma almeno paiono essere anche curiosi... Inizia qui (16’42”) l’esternazione della loro curiosità e il desiderio di soddisfarla: e chi meglio dello scrivano è più adatto alla bisogna? Così cominciano (18’08”) a pretendere da lui la lettura della grida, scontrandosi con la riottosità (18’14”) di uno che non vorrebbe lavorare a gratis... Allora (18’36”) decidono di ottenere ciò che vogliono con le cattive. E così, seguitando il loro monotono cantilenare, decidono di sollevare di peso lo scrivano, con tutta la garitta, per depositarli ai piedi della colonna che reca la grida.

Alle rimostranze e alle grida di aiuto dello scrivano (19’11”) si inventano, sempre cantilenando, la storia dello scrivano che aveva una bella casotta ma non voleva accontentarli: così loro presero la casotta e la portarono alla colonna; poi chiesero gentilmente (19’40”, la cantilena lascia il posto ad una suadente melodia) allo scrivano di leggere la scritta e, al suo rifiuto, cominciarono a distruggergli la casotta. Al che (20’07”) lo scrivano si arrende e promette di accontentarli. Ma la cosa ancora non avviene, preceduta com’è da altre picche-e-ripicche fra le due parti in causa. Finalmente (22’04”) ecco la lettura: gli Strelcy hanno severamente punito alcuni nemici della patria, principi, politici e boiari; chiunque spargerà calunnie sugli Strelcy verrà punito senza pietà.

All’ascolto di queste notizie (23’51”) quella masnada di beceri scavezzacollo si trasforma miracolosamente in un gruppo di patriottici cittadini, che piangono le tristi sorti della Russia, oppressa dalle malefatte dei suoi stessi figli, con un mirabile coro in FA minore, in buona parte a cappella. (Ritroveremo pari-pari la prima parte di questo coro nel finale predisposto da Shostakovich).


Durante il canto si sono udite - fuori scena - le trombe degli Strelcy, che il loro capo Ivan Chovanskij sta passando in rassegna. E adesso (26’00”) con un totale cambio di atmosfera, ecco che una folla di ragazzi e donne si fa udire per annunciare il passaggio del capo della Guardia zarista (solo lo scrivano e i moscoviti osano sparlare degli Strelcy...) Un perentorio motivo in SI minore (27’58”) suonato da archi e legni con il sottofondo degli ottoni (caratterizzerà d’ora in poi Ivan) si fa udire all’ingresso del capo sulla piazza:


Davvero proterva quella chiusa sulla seconda, con i tre DO# (due crome e semiminima) ribattuti, un’eloquente presentazione della dura, inflessibile e minacciosa personalità di Ivan. Il motivo viene reiterato (con una variante) altre tre volte, quasi a far entrare bene in testa alla gente di che pasta sia fatto l’uomo più potente di Mosca! Il quale (28’30”) contrappuntato da una sottile variante del suo tetro motivo musicale, accusa di fronte alla folla plaudente (quanto ignorante) i boiari traditori e ladri, promettendo di difendere Sofia e gli zar. Ogni sua frase è intercalata da applausi e grida della folla. Dopo la breve concione, il capo invita i suoi militari a scorrazzare per Mosca per ricevere onori dal popolo. Uno squillo di tromba (30’27”) mette in marcia gli Strelcy e dà il via alle ovazioni e ai cori del popolo esultante, cui si aggiungono poco dopo quelle degli stessi Strelcy.

Proprio mentre la piazza si svuota, ecco (31’46”) un classico colpo di teatro: su secche crome sincopate di trombe, tromboni e timpani, accompagnate da agitatissime semicrome degli archi, ecco sopraggiungere trafelata e sconvolta dalla paura una ragazza, tale Emma, di religione protestante e proveniente dal quartiere tedesco. La poveretta (31’57”) è inseguita da un energumeno libidinoso che sta cercando di farla sua con le cattive. E di chi si tratta? Ma guarda un po’, nientemeno che del figlio di Ivan Chovanskij, Andrej, che ci mostra quindi quali siano le sue spiccate attitudini! I due battibeccano animatamente: lei gli rinfaccia le sue colpe, averle ammazzato il padre ed esiliato il fidanzato; lui per convincerla arriva a prometterle il trono di zarina! Poi, spazientito, sta per passare alle maniere forti, approfittando della piazza rimasta deserta.

Ma c’è qualcuno (anzi qualcuna) che invece ha osservato tutto (si è già fatta sentire per la verità, ma la sua voce era coperta da quella dei due litiganti). É Marfa, la donna che d’ora in poi avrà una parte in tutte le successive vicende dell’opera. Arriva giusto in tempo (34’30”) per togliere Emma dalle grinfie di Andrej, la cui reazione di grande stupore nel vedersela di fronte ci fa pensare che fra i due ci sia stato qualcosa. Ed è precisamente così: Marfa infatti accusa Andrej di averle giurato eterna fedeltà, per poi abbandonarla in cerca di avventure. Segue qui una specie di terzetto, dove si sovrappongono le voci di Emma, che si dichiara innocente e vittima di un mostro; di Marfa che la rassicura e promette di difenderla; di Andrej che pare deciso a togliere di mezzo quell’intrusa che gli sta rovinando la conquista...

Con grande calma e solennità Marfa domanda ad Andrej (36’50”) se non sia arrivato per lui il momento di metter la testa a posto, invece di far soffrire una donna abbandonata. E poco dopo (37’21”) gli chiede se abbia già dimenticato il giuramento di fedeltà: si noti qui la comparsa di un tema (ora in REb minore) che rappresenta l’amore perduto di Marfa, tema che tornerà, sviluppato, nella sua canzone dell’Atto III.

Per tutta risposta (38’05”) Andrej estrae un coltello con l’intenzione di usarlo contro la ex-amante.  Che però sa come difendersi e in compenso (38’45”) predice ad Andrej la sua sorte (un asilo splendente...) mentre Emma prega per lei e Andrej la maledice. (Le qualità divinatorie di Marfa si manifesteranno anche in seguito, e tutte le sue profezie, per la verità, si avvereranno!)

Ma chi sta per tornare sulla piazza e sulla scena è Ivan Chovanskij con il suo codazzo: ce lo anticipano (39’44”) i soliti squilli di tromba e poi le voci osannanti del popolo e degli Strelcy, mentre Emma e Marfa gioiscono e Andrej si dispera vieppiù. Ed eccolo, il gran capo, arrivare (40’24”) e subito... restare di sasso, come sottolineano le cupe note delle trombe e la variante del suo truce tema negli archi: ma come, Andrej qui? E anche Marfa, ma con lei c’è anche una ragazza appetitosa! E così (talis filius, talis pater!) Ivan concupisce Emma sui due piedi e ordina ai suoi Strelcy di catturargliela. Al che, suo figlio Andrej (41’05”) la protegge, accusando curiosamente quanto ipocritamente il padre e i suoi scherani del suo stesso comportamento verso le donne! Il battibecco padre-figlio con interventi degli Strelcy (che in un primo momento non sanno che pesci pigliare) continua finchè Andrej aggredito dai soldati non minaccia addirittura di ammazzare la ragazza, pur di non cederla.

L’orchestra (42’48”) sottolinea il drammatico momento esplodendo un sinistro accordo, che prepara l’arrivo di un nuovo colpo di teatro; e di un nuovo personaggio, il santone Dosifej, guida spirituale della setta dei Vecchi Credenti (raskolniki) che blocca Andrej e redarguisce tutti quanti! Emma (43’09”) è ancora in preda allo spavento e, pur essendo quel vecchio per lei un illustre sconosciuto, lo accoglie come il salvatore, mentre Marfa mostra di essere una sua adepta. A lei Dosifej (43’22”) chiede di riportare Emma a casa sua. Poi (44’01”) sciorina un canto solenne, un grande arioso in MIb minore, tonalità che tornerà ancora a supportare atmosfere cariche di drammaticità:



Si tratta in realtà di un’autentica filippica, dove si stigmatizzano la decadenza dei costumi e l’abbandono della vecchia religione, chiamando tutti a ritrovare la perduta fede.

A Ivan Chovanskij (46’39”) non resta che riunire i suoi, figlio compreso, e rientrare al Kremlino, fra uno strombazzamento e l’altro. E proprio mentre il campanone fa sentire poderosi rintocchi, ecco un’ultima accorata preghiera (47’12”) di Dosifej, nel corso della quale (48’40”) c’è una inaspettata salita al RE#, da ricordare poichè Rimski le... tarperà le ali (mentre non toccherà il successivo MI naturale). Poi Dosifej e i suoi Monaci Neri si allontanano, e l’atto si chiude sotto i pesanti rintocchi del campanone.

Ecco quindi confermato lo scenario caotico di quel 1682: il trono retto dalla zarevna Sofia per conto di due ragazzini fratelli-fratellastri (Ivan e Pietro); la sicurezza in mano al boiaro Chovanskij che - a capo della guardia speciale zarista - combatte gli altri boiari solo per difendere la sua posizione e tramare un colpo di stato; gli Strelcy che sono convinti di servire il trono, mentre in realtà lavorano per chi prepara proprio quel colpo di stato; l’ambiguo Šaklovityj che rimesta nel torbido con denunce anonime, che evidentemente gli servono a trarre profitto per sè nella sua corsa alla conquista del potere; e Il vecchio Dosifej, campione dei nostalgici religiosi che sogna il ritorno al passato. Resta ancora da conoscere l’ultimo dei protagonisti-chiave del dramma: il principe Vasilij Golicyn, ma basta attendere poco...

Il Secondo Atto è infatti ambientato - di sera tardi - nella lussuosa dimora (dai tratti russi assai occidentalizzati) di questo boiaro di cui conosceremo prestissimo i trascorsi (e i progetti). La musica che lo introduce sembra proprio rappresentare la personalità e le attitudini del nostro: i suoi tre motivi hanno un sapore russo con retrogusto francese, si potrebbe scambiare per un passaggio, che so, della Serenata di Ciajkovski, il campione del matrimonio fra tradizione russa e musica occidentale:



Il principe è solo in casa (a parte il suo uomo di fiducia, Varsonofev) e leggerà due lettere, entrambe indirizzategli da esponenti del gentil sesso. La prima è nientemeno che della zarevna Sofia, ed è una vera e propria dichiarazione d’amore (con gran copia di eros e libidine, per la verità) che ci notifica quale fosse la relazione fra i due. Golicyn la legge accompagnato dai temi esposti nell’introduzione strumentale. Ma il principe è sospettoso, evidentemente conosce la volubilità della donna e sa che un passo falso, e la conseguente caduta in disgrazia, significherebbe per lui, tout-court, la testa! Si scopre qui la doppiezza del principe, che fa il consigliere a corte, ma che incontra (lo vedremo fra poco) i due principali oppositori di Pietro il Grande per discutere con loro sul come detronizzare lo zar!   

Ed ecco (3’50”) che prende la seconda lettera dallo scrittoio: è della madre. Subito un motivo in SIb maggiore, dal piglio eroico, sottolinea il vanto del principe per la sua schiatta (lo risentiremo fra poco, a josa):


Ma alla lettura della missiva esso lascia il posto a un’atmosfera assai più preoccupata: la madre si dice sempre più orgogliosa di lui, ma gli consiglia onestà e purezza... morale e materiale. E lui (5’04”) evidentemente toccato sul vivo da questi termini, interpreta il consiglio come un presagio di possibili sciagure! Incominciamo qui ad intravedere un lato oscuro del carattere di Golicyn: la sua incurabile superstizione, che mette in agitazione lui e la musica che lo accompagna. Ripete mestamente (5’37”) l’invito della madre, e la musica si spegne su di lui che resta pensieroso e preoccupato.

Preceduto da una figurazione del fagotto che ne anticipa l’entrata, ecco (6’12”) arrivare Varsonofev che annuncia la visita di un pastore luterano. Il principe decide di riceverlo e il religioso (6’42”) si presenta davanti a lui, e con tono grave avanza lamentele riguardo al comportamento di Andrej Chovanskij nei confronti della sua correligionaria Emma, con richiesta di provvedimenti da parte del principe. Il quale oppone un fermo rifiuto (lui non può immischiarsi in faccende che non lo riguardano) ma poi quasi a scusarsi chiede cosa altro possa fare per lui. E lo fa (8’49”) accompagnandosi con il motivo dei trionfi della sua casata, udito poco prima, all’apertura della lettera della madre. Il pastore prova allora (9’51”) a chiedere l’autorizzazione ad edificare nel quartiere tedesco di Mosca una chiesa luterana. E per tutta risposta Golicyn (10’55”) lo strapazza per bene, accusandolo di avanzare richieste irricevibili: e, tanto per mostrare da che parte stia il potere, lo fa cantando ancora sul motivo del suo nobile casato! Poi, sempre sul suo autoritario motivo, ripetuto fino alla nausea, addirittura lo umilia (11’09”) avvertendolo che di lì a poco arriveranno Chovanskij e Dosifej (due che lo vorrebbero morto!): avrebbe per caso piacere ad incontrarli? Insomma: si capisce perfettamente che questo Golicyn sarà pure di mentalità aperta, ma è anche un gran paraculo! E non per nulla (12’07”) appena il pastore se n’è andato, lo riempie di contumelie.

Ma scopriamo subito di ben peggio: Varsonofev (è sempre il fagotto ad annunciarne il rientro) torna per annunciare l’arrivo dell’indovina che il principe ha fatto chiamare poco prima. Golicyn lo richiama all’ordine sull’uso dei termini, così il suo attendente rettifica prontamente: la signora che spesso viene da voi per consigliarvi! E di chi si tratta? Di Marfa, chiamata stranamente dal padrone di casa, e per il motivo ben descritto da Varsonofev: lei è anche una veggente, un’indovina (già nel primo atto aveva pronosticato la fine ad Andrej). E scopriamo così che il laico Golicyn è pure un poveraccio superstizioso, che si fa leggere le carte da un’adepta raskolniki!

Un motivo nobile esposto dall’oboe (12’55”) introduce la donna, che si lamenta delle eccessive misure di sicurezza, al che Golicyn le giustifica con i pericoli che la grave situazione politica comporta. Marfa (13’49”) con voce improvvisamente più grave gli chiede se deve predirgli il futuro. Lui annuisce e le chiede di cosa abbia bisogno: di una bacinella d’acqua, risponde lei, così Golicyn la ordina a Varsonofev (dicendogli che è da bere...) e viene prontamente servito. Ora (14’38”) l’atmosfera si fa tipicamente misteriosa, con gli archi a tenere lunghi accordi di sapore arcano e i timpani a rullare sommessamente. La prima parte del rito è l’invocazione di Marfa (15’16”) alle creature delle profondità marine, perchè vogliano rivelare a Golicyn i misteri del suo futuro. Dopodichè (16’33”) osserva l’acqua (mentre le viole ondeggiano significativamente) per decifrarne i segreti nascosti, finchè (17’48”) annuncia la rivelazione. Golicyn è impaziente e Marfa (17’58”) attacca in LAb minore la sua lunga profezia, su un motivo dallo spiccato accento russo:



Siccome le creature evocate nella bacinella d’acqua dicono male (disgrazie ed esilio, sentenzia Marfa) Golicyn che fa? Con uno scatto d’ira (19’51”) licenzia la veggente sui due piedi, e per di più ordina ai suoi di farla secca! (Si può nutrire qui il legittimo sospetto che la profezia di Marfa sia un’invenzione, una deliberata ripicca della donna verso quell’individuo che ha rinnegato la vecchia religione, tuttavia resta il fatto che la realtà darà pienamente ragione a profezia e profetessa... e sarà proprio la musica a confermarcelo, a tempo debito.) Poi si lascia andare (20’11”) ad una delirante tirata sui suoi meriti verso la patria, e non può certo mancarvi (da 21’17”) il tema trionfale che abbiamo già sentito caratterizzare il suo nobile casato. Ma un tonfo di trombone, tuba e timpani (21’50”) gli lascia capire che la Russia ancora non pare in grado di liberarsi della ruggine tartara!

Bene, messa a fuoco la poco commendevole personalità del nostro, adesso bando alle ciance, si fa sul serio: si parla di politica! Perchè arriva (22’25”) l’atteso Ivan Chovanskij, annunciato dal suo protervo tema negli archi. Il capo degli Strelcy ipocritamente (lui che ai moscoviti ha detto di combattere fieramente i boiari, traditori della patria) si lamenta a nome dei boiari medesimi per i danni che le riforme volute da Golicyn avrebbero fatto alla loro categoria! E alle rimostranze di Golicyn, paragona i suoi atti politici a quelli dei Tartari. Al che il padrone di casa, toccato sul vivo, lo diffida dall’offendere la sua reputazione e, manco a dirlo (24’23”) lo fa ripetendo il motivo che rappresenta l’onore della sua famiglia. Adesso nasce il classico battibecco fra due galli nel pollaio, che si rinfacciano reciprocamente comportamenti disdicevoli: la meschinità e il servilismo di Chovanskij (25’50”) e le disfatte militari di Golicyn (26’55”).

I due rischiano di passare alle vie di fatto, quando provvidenzialmente (28’06”) entra Dosifej che li ammonisce, con il suo tono solenne, a cercare il bene della Patria. Subito dopo (29’09”) scopriamo che la guida spirituale dei Vecchi Credenti è un ex-principe convertitosi all’abito talare, cosa che gli altri due principi sembrano considerare inappropriata per un nobile. Adesso (31’28”) comincia la discussione politica e Dosifej chiede ai due nobili se hanno compreso le ragioni del malessere che affligge la Russia e dei rimedi da mettere in campo. Golicyn va subito al sodo e chiede (32’19”) dove sono le forze popolari per compiere l’impresa; alla risposta di Dosifej che lamenta come il popolo cristiano sia allo sbando, Golicyn considera chiusa la discussione (32’54”). Invece è Chovanskij (33’02”) che si propone senza mezzi termini come salvatore della patria (e futuro capo supremo!)

Adesso inizia un battibecco fra i tre: Dosifej (33’27) vorrebbe un governo che ripristinasse le antiche tradizioni, e si infervora contro Golicyn che dichiara di non seguirle affatto, accusandolo addirittura (34’02”) di essere un amico dei nemici teutonici (la musica si fa pesante, come una marcia dei tedeschi!); Chovanskij (35’01”) prende la palla al balzo e rincara la dose contro Golicyn; ma Dosifej (35’34”) ne ha anche per lui, accusandolo di consentire ai suoi Strelcy comportamenti contrari alla religione e alla morale. Golicyn (36’25”) sostenuto dal suo tema nobiliare cerca di riportare la calma, ma in quel momento (36’40”) un canto si ode in lontananza: sono i Monaci Neri di Dosifej che vantano le loro vittorie sui seguaci di Nikon, il patriarca modernizzatore, secondo loro colpevole di eresia. Mentre il canto si fa più forte (i Monaci passano nelle vicinanze) Dosifej (37’18”) si vanta di loro, come gli unici coraggiosi che osano sfidare il potere, e anche Chovanskij (ben felice di poterli strumentalizzare) si associa all’elogio, mentre Golicyn li definisce (38’33”) come dei settari (raskol).

Qui si rischierebbe un’altra baruffa se non arrivasse un nuovo colpo di teatro, protagonista (38’46”) la rediviva Marfa. Accolta da Golicyn come un strega, difesa da Chovanskij e onorata da Dosifej, Marfa (39’06”) racconta la sua avventura: il tentato omicidio perpetrato nei suoi confronti, che lei ha fortunosamente sventato, e poi, su una musica improvvisamente fattasi solenne, da concitata che era, l’arrivo (39’48”) dei soldati dello zar Pietro. (Anche questa, che Pietro avesse un esercito, è cosa storicamente inverosimile, almeno per l’anno 1682: la cosa si materializzò quasi 10 anni dopo.) Questa notizia piomba come una tegola sugli astanti (39’58”) subito dopo interrotti ancora da Varsonofev, che annuncia seccamente (40’03”) l’arrivo, del tutto inaspettato, di Šaklovityj!

I tonfi (archi, ottoni e timpani) che si odono in orchestra (40’08”) preparano il clamoroso annuncio del boiaro: è stata sporta denuncia contro i Chovanskij (lui deve saperne qualcosa, nevvero?) con l’accusa di tramare un colpo di stato. Aggiungendo che lo zar Pietro (che anche qui evidentemente non può avere solo 10 anni) ha sprezzantemente definito la faccenda come una chovanščina... (ecco da dove viene il titolo dell’opera!) e ha ordinato di mandarli a processo.

L’atto, nelle intenzioni di Musorgski, avrebbe dovuto concludersi con un classico numero da melodramma, un quintetto (magari... concertato) con i 5 personaggi in scena in quel momento. Ma la cosa rimase (per fortuna?) un’idea sulla carta. Abbiamo già visto come invece lo chiude Shostakovich: con 11 battute di strombazzamenti, evocanti lo zar.

Un atto che pone le premesse per la rovina di almeno due dei protagonisti: il destino preconizzato a Golicyn da Marfa e la caduta in disgrazia dei Chovanskij. In più, l’entrata in campo di un esercito (prima inesistente) direttamente al servizio del giovane zar modernizzatore prefigura la sconfitta finale di tutte le forze (politiche e religiose) che a tale modernizzazione cercano di opporsi.

Nel Terzo Atto si ritorna in piazza, tra la gente, come nel primo. E si assiste ad altre tappe del lento ma inesorabile cammino che porterà alla finale tragedia.

Per la verità la prima scena sembrerebbe lasciar pensare il contrario: dopo la breve introduzione strumentale, sono ancora (36”) i Monaci Neri (ascoltati proprio alla fine dell’atto precedente) che continuano a sfilare in processione fra due ali di folla, cantando sulla stessa melodia inni di vittoria e di trionfo sui nemici (i seguaci del riformatore Nikon). Questo entusiasmo ha francamente del bizzarro, non essendo supportato da alcun elemento concreto: si può solo interpretare come l’espressione di un fanatismo cieco, da parte di individui che hanno perso totalmente il contatto con la realtà.

Una lunga cadenza accompagna i monaci che si allontanano, mentre l’obiettivo della cinepresa si sposta (3’06”) su Marfa, accovacciata presso la dimora del suo amato (e fedifrago) Andrej. Ricorda (3’29”) cantando la sua famosa canzone i bei giorni della giovinezza, l’incontro con colui che adesso l’ha scaricata. Ma lei prefigura la fine in sua compagnia, fra le fiamme purificatrici: sarà per lui la punizione per aver abbandonato la raskolnika. La canzone consta di 6 quartine, in SOL maggiore, su una struggente melodia:



Della canzone esiste una versione precedente a questa impiegata nell’opera, che Lamm ha pubblicato in appendice al suo lavoro, tutta in FA maggiore. Musorgski ne produsse anche una versione orchestrata, che Shostakovich ha però ignorato (non così Abbado) spesso scambiando archi e fiati nell’accompagnamento.

Certo, una melodia di tutto rispetto, non c’è che dire... ma ascoltarla per sei volte di fila, sempre uguale a se stessa (e verrà ripetuta altre tre volte fra poco!) può diventare persino esasperante. Non sarà mica per questo, mi si passi la battuta di basso livello, che una bigotta stagionata, tale Susanna, avendo ascoltato le sue reiterate esternazioni, aggredisca Marfa (6’53”) con rimproveri e improperi sempre più astiosi? (Di questo scontro fra le due donne esiste un’altra versione un poco più lunga, che Lamm ha pubblicato in appendice alla sua edizione.) Marfa, quasi a girarle il coltello nella piaga, le risponde (8’12”) intonando ancora la sua cantilena, adesso in FA maggiore, accusandola di averla spiata per carpire i suoi segreti. Il corno inglese (9’55”) tiene un RE che introduce una nuova esternazione di Marfa, su una melodia la cui grandissima nobiltà è pari alla disarmante semplicità, in MIb minore:


Vi è espresso tutto il dolore di Marfa per l‘amore perduto; e riascolteremo questo tema anche più avanti. Poi, sovrapponendosi ad altre imprecazioni dell’anziana, lei ricanta (11’37”, con testo appena modificato e sempre in FA maggiore) la quarta delle sei quartine della sua canzone.  

Susanna prosegue con le sue violente rimostranze (12’15”) e con promesse di vendetta -  scandite da proterve frasi musicali che cadono come pietre - che arrivano a prefigurare per Marfa il rogo! (Ma sappiamo che il rogo è per Marfa ormai la meta da raggiungere...) Le due verrebbero alle mani se non intervenisse provvidenzialmente (12’50”) Dosifej, che cerca, con la sua consueta autorità (anche musicale!) di convincere Susanna sulle buone intenzioni di Marfa, ma senza risultato. Anzi, la vecchia credente riprende più che mai le sue accuse alla giovane (riudiamo le pesanti frasi musicali di poco prima). Inutilmente Dosifej cerca di calmarla e allora, dopo che quell’invasata (15’03”) ha ripetuto la sua volontà di non cedere, Dosifej la accusa nientemeno che di idolatria, le prefigura l’inferno e la scaccia senza complimenti.

Poi (16’17”) si rivolge a Marfa invitandola ad operare per la salvezza della Russia. La donna ripete la sua disperazione per essere stata abbandonata da Andrej, poi (17’10”) riprende la cantilena della sua canzone (è alla nona esposizione! qui in LAb maggiore) profetizzando la sua riunione con l’amato nelle fiamme di un fuoco purificatore. Dosifej inorridisce all’idea, ma la donna (18’14”) riprendendo il tema (udito poco prima) del suo amore perduto, confessa la sua colpa (forse la tirata di Susanna ha avuto qualche effetto su di lei...) di aver infranto le leggi divine con il suo amore impuro e perciò di meritare la punizione: la morte del corpo come condizione per la salvezza dell’anima. Dosifej (19’33”) profondamente colpito, la compiange e le chiede perdono (pare qui di udire - 20’24” - un motivo del parsifaliano Gurnemanz) invitandola ad amare. Poi la trascina via.

Ecco ora (20’51”) un intermezzo abbastanza inaspettato: assistiamo infatti all’inopinata entrata in scena dell’indecifrabile Šaklovityj, che avevamo fin qui conosciuto come delatore e mestatore (e come tale tornerà a manifestarsi nell’atto successivo) protagonista invece di un’accorata esternazione (un colossale e articolato arioso in piena regola): il nostro prega Dio di salvare la grande Russia, che in passato ha saputo domare i Tartari e poi difendersi dalle prepotenze dei boiari, ma che adesso è ancora in balìa di mercenari stranieri che minacciano di sottometterla. Vien da chiedersi se i suoi siano sentimenti genuini, come suggeriscono peraltro il testo e la mirabile musica, oppure se si tratti - dato il tipo - di un atteggiamento ipocrita...

È passato mezzogiorno e - bontà loro - gli Strelcy si sono svegliati e (25’40”) irrompono in strada, suscitando la reazione sprezzante di Šaklovityj, che già pronostica la loro fine. Gli armigeri di Chovanskij si galvanizzano vicendevolmente cantando le loro turpi imprese e ubriacandosi di primo pomeriggio. Il loro canto assume forme goliardiche, come questa (26’24”) in SOL maggiore, quando invocano del vino:


Il canto si fa - (27’40”) pur senza mutazioni agogiche - più incalzante allorquando gli Strelcy si preparano alle loro scorribande attraverso Mosca. Si conclude (per ora) restando sospeso su un accordo tenuto di dominante che accompagna il loro sbalordimento di fronte all’arrivo in strada (28’12”) delle loro donne! 

Costoro li aggrediscono subito, rimproverando aspramente le loro malefatte e la loro irresponsabilità e augurandosi che finiscano sulla forca! Nasce un gigantesco battibecco fra mogli e mariti, i quali non trovano di meglio che cercar di ridurre al silenzio le donne attraverso uno stratagemma. Consistente nell’abbindolarle con la musica! E all’uopo chiamano (29’37”) una nostra vecchia conoscenza, Kuzka (quello che aveva aperto la prima scena dell’opera) che viene incaricato di calmarle mettendosi a cantare. Lui si schermisce poi imbraccia una balalaika e - contrappuntato dai commilitoni (30’33”) - attacca una canzone in FA# minore, una filastrocca in realtà, in cui si accusa una donna (la calunnia) di usare il pettegolezzo per rovinare la vita alle famiglie. Sulla stessa melodia martellante anche le donne (31’14”) si associano al canto, ripreso dai maschi (31’32) e quindi di nuovo (31’51”) dal solista Kuzka (seguito dagli uomini contrappuntati dalle femmine) che infine emette la sentenza di condanna contro la calunnia.

Chiusa la baraonda mogli-mariti, ecco l’atmosfera cambiare radicalmente (32’36”): sono i fiati con terzine sincopate ad evocare mirabilmente la corsa trafelata di qualcuno che sta arrivando da quelle parti in preda al panico. Si tratta di un altro personaggio già incontrato all’inizio dell’opera, lo scrivano! Perchè stia fuggendo a quel modo lo spiega agli increduli Strelcy, che provano a prenderlo in giro. Ma lui ha notizie davvero tremende e racconta (34’20”) con un canto triste ed accorato (viene dal Boris...): stava tranquillamente scrivendo una lettera quando un gran fracasso e scalpitio di cavalli ha annunciato l’arrivo di un banda di mercenari, che hanno cominciato a devastare tutto! Gli Strelcy ancora non gli credono, lo prendono un po’ in giro, ma lui (35’58”) rincara la dose: al fianco dei mercenari sono intervenuti i soldati di Pietro, che hanno sopraffatto un contingente di Strelcy! Adesso Strelcy e mogli cominciano a capire (36’20”) e la musica che aveva accompagnato l’arrivo dello scrivano trasferisce a loro ansia e paura. Così non gli resta che piangere...

Dopo che lo scrivano si è allontanato (37’01”) con un sibilante via!, è ancora Kuzka a prendere l’iniziativa: qui si deve interpellare il grande capo Chovanskij e prendere ordini da lui. Il coro degli Strelcy e relative mogli attacca (37’28”) una grandiosa implorazione in MIb minore, invocando il capo a mostrarsi e ad esprimersi. Gli archi la chiudono virando dolcemente a MIb maggiore, così introducendo l’apparizione (39’57”) di Ivan Chovanskij, uscito dalla sua abitazione. Dapprima il capo chiede la ragione di questa adunanza e della sua chiamata. Strelcy e mogli lo informano dell’arrivo dei soldati di Pietro e dei mercenari, aspettando ordini da lui. Per tutta risposta (40’55”) lui li invita (toh!) a tornarsene a casa ad aspettare gli eventi! Qui pare chiaro che persino il tronfio Chovanskij ormai la dia per persa: anche la musica che lo sostiene è ben lontana dalla protervia che lo caratterizzava da sempre; e persino il suo tema, da minaccioso e truce si è fatto timido, vagando quasi inudibile dai legni agli archi. Ai poveracci non resta (42’19”) che invocare protezione e misericordia, con un toccante coro a cappella. 

Il Quarto Atto è per certi versi (il primo quadro) speculare al secondo: siamo nella lussuosa residenza (che più russa non si può...) di Ivan Chovanskij, il quale cerca di dimenticare le nuvole che si addensano al suo orizzonte con i piaceri della buona tavola e delle... belle donne!

L’introduzione strumentale ci presenta il bel tema russo (in SOL# minore) preso di peso da una raccolta di canti popolari, che poi (56”) caratterizzerà il canto delle contadinelle, una canzoncina triste che il padrone di casa (2’12”) trova evidentemente insopportabile, parendogli (presentimento freudiano?) un mortorio! Così, ancora accompagnato dal suo tema letteralmente avvizzito, chiede che cantino qualcosa di allegro, e le sue contadinelle (3’48”) attaccano una gaia filastrocca in FA maggiore, che pare più gradita al padrone. Il quale chiede di accelerare ancora il ritmo, ma alla fine della strofa l’orchestra si blocca (4’13”) su un poderoso accordo di sesta tenuto dagli ottoni: c’è un intruso che è arrivato a disturbare il divertimento del principe.

Si tratta di un emissario di Golicyn, venuto lì per avvertire Chovanskij di imminenti e non meglio precisati pericoli. Il boiaro lo liquida all’istante (4’47”) sicuro che in casa sua nessuno potrà dargli fastidio. E così (5’44”) fa gettare il messaggero agli stallieri e chiama le danzatrici persiane per dimenticare tutte queste rogne! Qui (6’13”) abbiamo il balletto stile grand-opéra (evidentemente anche Musorgski - così come Borodin - aveva le sue debolezze...) Sono un paio di temi, rielaborati di continuo, a caratterizzare l’intero balletto:


Il primo tema (tonalità FA# minore) è una melodia davvero orientaleggiante, esposta all’inizio dal corno inglese, poi ripresa via via dall’orchestra, con piccole varianti. Il secondo motivo (appare a 9’14”) è più vivace e in tonalità maggiore (SOL). A 9’39” ne udiamo una variante agitata in MIB minore, che si alterna due volte con la ricomparsa del tema in SOL il quale porta ad una momentanea pausa di rilassatezza. Rotta (10’39”) da un nuovo sommovimento del tema, passato a FA maggiore. Il primo tema torna (11’11”) sempre in FA# minore, poi va adagiandosi fino a sfociare (12’10”) nel secondo, tornato a SOL maggiore, ma adesso ancor più concitato. Un’ultima sua esposizione (12’37”) porta direttamente (12’48”) alla forsennata cadenza conclusiva.

Nessuno si è accorto che un nuovo intruso (13’21”) si è introdotto in casa Chovanskij: è ancora una volta il mefistofelico Šaklovityj, che comunica (13’38”) al padrone di casa la convocazione presso la zarevna Sofia, al Kremlino: Sofia lo vuole per un importante Consiglio di Stato. Chovanskij dapprima snobba l’invito, poi si fa convincere (14’35”) quando Šaklovityj gli fa presente che la zarevna ritiene indispensabile la sua presenza. Ordina allora (15’00”) i suoi abiti da cerimonia, bastone principesco incluso, e chiede alle contadinelle di cantare le sue lodi.

Queste riprendono perciò (15’22”) il loro canto, una delicata melodia in SOL maggiore, quasi una ninna-nanna, dove si glorifica il cigno bianco (così il popolo acclamava Chovanskij):


Ma proprio all’inizio della quarta strofa il padrone viene pugnalato alle spalle (17’06”) e tira le cuoia, sotto lo sguardo beffardo di Šaklovityj, che ha pure la faccia tosta di cantargli in faccia (17’14”) il verso finale della filastrocca! (Notiamo di passaggio che questo personaggio scompare dalla scena insieme al morto: d’ora in poi se ne perdono totalmente le tracce.)

Il secondo quadro è ambientato davanti SanBasilio. La musica che lo introduce (17’53”) tonalità di MIb minore, annuncia disgrazie, e infatti i violini seguiti dai fagotti espongono un tema da marcia funebre che è derivato strettamente da quello della profezia di Marfa a Golicyn, nel second’atto. Profezia infallibilmente materializzatasi: un carro sgangherato sta portando verso l’esilio il principe, evidentemente caduto in disgrazia, proprio come pronosticatogli da Marfa. I moscoviti (19’13”) provano pietà per quel poveraccio, mentre la musica (20’20”) accompagna il carro che si allontana.

Sulla piazza c’è anche Dosifej, che non manca (21’26”) di esternare il suo compianto, estendendolo a quello per Chovanskij, vittima della sua stessa boria, e al di lui figlio Andrej. Arriva Marfa (23’02”) alla quale Dosifej (su una musica simile a quella con cui aveva accolto la donna nel terz’atto) chiede conto delle decisioni del Gran Consiglio. La risposta di Marfa è tremenda: i Vecchi Credenti sono banditi e i mercenari hanno l’ordine di sterminarli! Ora anche Dosifej (23’54”) è convinto che a loro resti solo l’estremo sacrificio, e lo esprime con il suo tipico gesto musicale aulico ed autorevole. Poi (24’19”) invita Marfa ad occuparsi di Andrej e la lascia (24’43”) con la stessa esortazione (parsifaliana) con la quale si era congedato da lei nell’atto precedente. A sua volta Marfa (25’10”) su un tema di grande espressività (tornerà a farsi udire nell’ultimo atto) di sole 7 battute sembra esultare per l’avvicinarsi del momento fatale, quello del sacrificio fra le fiamme:


Andrej arriva proprio in quel momento (25’30”) e qui assistiamo ad un violento scontro fra i due ex-amanti, mirabilmente caratterizzato in musica: lui con esternazioni agitatissime, lei con calma e fermezza, su un ritmo quasi marziale. Lui la investe di improperi e le chiede dove nasconda la sua Emma! Lei lo informa (26’01”) che se la sono portata via in mercenari per farla riunire ai suoi compatrioti e al suo fidanzato. Lui non le crede e minaccia di denunciarla e farla arrestare dai suoi Strelcy. Marfa lo irride e poi lo informa della morte del padre e del mandato di cattura che pende anche sulla sua testa. Lui continua a non crederle e a minacciare di farla arrestare, così lei lo sfida a chiamare i suoi Strelcy, cosa che lui fa (28’40”) suonando il suo corno. E gli Strelcy arrivano, come no, seguiti dalle mogli sempre inferocite (come nel terz’atto); peccato che siano in catene ed in procinto di essere giustiziati, come annuncia il campanone a martello! Ad Andrej (29’22”) non resta che supplicare Marfa di salvarlo, e lei non vede l’ora di portarselo via, promettendogli di nasconderlo in un posto sicuro.

Qui si deve aprire una parentesi di natura macabro-orripilante, che riguarda le modalità di esecuzione dei condannati. Leggendo il testo originale di Musorgski (come riportato da Lamm, ma non interamente da Rimski, nè presente nel quaderno blu dell’Autore) si apprende che i condannati recano con sè ceppi e scuri (in realtà le loro bardiche, specie di alabarde); scuri che depongono sui ceppi con la lama rivolta in alto, inginocchiandosi poi davanti ai ceppi e quindi chinandosi sui medesimi. ? che significa questa messinscena? Ceppi e scuri in abbondanza parrebbero davvero uno spreco se il giustiziere fosse un unico boia... E poi, dal particolare delle lame rivolte in alto (una ghigliottina a rovescio) cosa si deve dedurre? Ecco, documenti su quel periodo storico (che Musorgski aveva consultato per ideare l’opera) riportano che in quegli anni, per velocizzare esecuzioni di massa, fu inventato il sistema dei due tronchi, consistente nel porre un tronco d’albero per terra, su cui deporre le scuri con le lame rivolte verso l’alto, sulle quali far appoggiare il collo dei giustiziati, inginocchiati fianco a fianco davanti al tronco. A questo punto un secondo pesante tronco veniva violentemente calato fra capo e collo dei malcapitati, e il gioco era fatto. Pare che il geniale meccanismo fosse collaudato proprio in occasione dell’esecuzione degli Strelcy del 1698, con ben 50 teste mozzate contemporaneamente!

Ma torniamo a... bardica. Dunque le mogli dei soldati (29’53”) invocano a gran voce (e per la verità con un canto assai scomposto) la più severa delle punizioni per i fedifraghi mariti, che invano - adesso! - chiedono pietà, perdono e misericordia. In lontananza si ode ora (30’20”) uno strombazzamento che si interpone fra i cori di Strelcy e mogli, finchè (31’22”) ecco comparire - dagli ottoni nella buca d’orchestra e da quelli dietro le quinte - un tema marziale ed eroico, in LAb maggiore, poco dopo (31’55”)  ripreso a piena orchestra, che rappresenterà d’ora in avanti le milizie di zar Pietro:


Tornano gli squilli di tromba (32’40”) e si fa largo un araldo (Strešnev) per annunciare che gli zar hanno concesso la grazia ai condannati, invitando tutti a tornare alle proprie case. Pietro passerà in rassegna le sue milizie al Kremlino!   

Ormai la storia ha imboccato la sua nuova strada. Non resta ora che accompagnare la vecchia Russia verso le fiamme purificatrici.    

Siamo quindi (Atto quinto) all’estrema testimonianza di fede dei Vecchi Credenti. L’introduzione strumentale in RE minore è affidata ai soli archi in unisono, che espongono una specie di moto perpetuo, che in realtà evoca leggere folate di vento che muovono nella notte di luna le cime dei pini di un bosco vicino all’eremo dei Vecchi Credenti (Musorsgki ne parlava - affinità elettive con Wagner, pur senza conoscersi - come di mormorio della foresta!):


E non può essere quindi che Dosifej (1’44”) ad aprire l’atto, con un nobile e accorato appello (sempre RE minore) ai suoi fedeli. Poi chiede rispettivamente a monaci (5’31”) e monache (6’34”) di prepararsi alla suprema testimonianza di fede nel Creatore. Quindi (7’35”) li invita ad indossare candide vesti e ad accendere ceri. Tutti (8’09”) si avviano verso il bosco, dal quale poi escono cantando i timori per il ritorno di Satana e le implorazioni al Signore. Lo fanno con un grande coro in modo frigio dalla pesante scansione marziale (MI-LA) rotto da un paio di grida allarmate, per l’arrivo dei nemici e della morte. (Qui termina - 11’34” - il libretto - quaderno blu - di Musorgski. Ma lo spartito prosegue, e per parecchio ancora...)  

Ora è Marfa a tornare sulla scena, con una toccante esternazione in RE minore (Lamm informa che di questa e del successivo dialogo con Andrej, Musorgski ha lasciato solo la melodia, armonizzata da Asafiev) dove canta il suo perenne dolore per il tradimento di Andrej e la sua volontà di salvarlo. Si noti la frase a 12’05”, che anticipa quella che Marfa canterà (un semitono sopra) al momento di invitare Andrej al sacrificio. E proprio Andrej si ode in lontananza (13’05”) vagare nel bosco, con un canto straniato (LAb) caratterizzato da grandi intervalli, come singhiozzando, mentre invoca ancora la sua amata, della quale pronuncia il nome poco dopo (14’21”) entrando a sua volta in scena: Emma! Marfa lo accoglie con dolcezza, su una variante in RE maggiore del tema del suo amore (comparso nell’atto precedente) ricordandogli i bei tempi della loro unione e descrivendo come un brutto sogno il suo successivo abbandono. Andrej ora (15’13”) pronuncia il suo nome (Marfa!) proprio sulle stesse note (MI-SI) con le quali aveva poco prima invocato Emma... E Marfa, riprendendo in FA# minore il tema del suo dolore per l’amore perduto (udito durante il confronto con Susanna nel terz’atto) gli promette di non abbandonarlo. Poi (15’45”) modula a REb maggiore e - ancora sulla variante del tema del suo amore - gli ricorda le sue ardenti parole, prima che una nera nube offuscasse la sua vita (16’28”, ancora il tema del suo dolore). E chiude (16’47”): adesso è arrivata l’ultima ora, alleluja!

Si sentono ora (17’13”) nelle vicinanze le trombe dell’esercito di Pietro. Dosifej le annuncia ai suoi fedeli come le trombe del giudizio, e li invita all’estremo sacrificio. Ma è ancora Marfa a tenere la scena, poichè deve convincere Andrej a condividere con lei l’ora suprema. Attacca quindi (17’43”) un’aria in MIb minore (quella ritrovata da Rimski e ignota a Lamm) dove riprende il motivo esposto alla sua entrata in scena, avvertendo Andrej che ormai per loro non v’è più scampo ed esortandolo a riunirsi a lei, poichè il destino li ha indissolubilmente legati. Andrej (18’56”) altro non sa fare se non manifestare angoscia e timore, e allora Marfa (19’08”) sempre sulla stessa melodia lo prende per mano e poi, mentre la tonalità sfuma a MIb maggiore, lo conduce verso l’immensa pira che li accoglierà, insieme a tutti i fedeli: così finalmente saranno uniti per sempre.

Le trombe dell’esercito di Pietro (20’20”) si sono ancora avvicinate e i raskolniki, quasi invasati, cantano a squarciagola le lodi del Signore, imitati e poi accompagnati da Dosifej, che innesca (20’56”) una mirabile discesa cromatica, chiusa in MIb maggiore, mentre Marfa attizza l’immane rogo, verso il quale tutti si avviano gioiosi.

A questo punto nelle carte di Musorgski ci sono gli ultimi tre fogli con l’abbozzo del conclusivo coro dei raskolniki. Rimski ha predisposto da qui il suo finale (che Shostakovich ha fatto proprio, estendendolo ulteriormente) a partire dalla scrittura delle lingue di fuoco (21’19”) che si sprigionano sempre più alte, evocate dalle veloci quartine di semicrome dei primi violini, mentre tutti cantano il grande coro, in LAb minore, contrappuntati dagli squilli di trombetta dei soldati zaristi. Marfa ancora (22’35”) esorta Andrej a ricordare il loro amore, ma lui fino all’ultimo invoca Emma, mentre Dosifej esala il suo amen!

Mentre il sacrificio di massa si compie, arrivano in primo piano (22’46”) i militari di Pietro, con il loro inconfondibile tema, che volge a modo maggiore il LAb minore del coro. Shostakovich qui aggiunge al finale di Rimski la sua parte. Dopo il penultimo squillo di Rimski, che si appoggia ovviamente sul LAb, Shostakovich, omettendo le quattro battute della chiusa, fa eseguire un nuovo squillo (23’02”) che si appoggia alla terza maggiore (DO). Da qui si dipartono tre battute di transizione, caratterizzate da un motivo discendente in archi e fiati; poi (23’15”) gli archi bassi riprendono il motivo della foresta che ha aperto l’atto (qui in tempi dilatati) per lasciar posto (23’36”) al canto di un gruppo di moscoviti sopraggiunto nel frattempo: è lo stesso canto - carico di pessimismo e rassegnazione - già udito nel primo atto (dopo che lo scrivano aveva spiegato il contenuto della grida affissa in piazza). La chiusura (24’52”) è però affidata, come un ritorno alle origini, al tema (qui in FA maggiore) dell’alba sulla Moscova.
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Prossimamente esamineremo altre due esecuzioni basate sulla versione-Shostakovich e una che si basa sulla versione-Rimski.
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(3. continua...)