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consulta e zecche rosse

29 aprile, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°16


Programma classico (come impaginazione e come autori ed opere presentate: Mozart-Beethoven) per il concerto di questa settimana, diretto da Patrick Fournillier. E l’Auditorium (almeno questa sera) era pieno come un uovo, a testimonianza dell’indubbia preferenza del pubblico per i classici (che poi questo sia un segno positivo non è detto, ma... è così). 

Per Mozart Fourniller rinuncia alla bacchetta, ma si fa portare le partiture sul leggio; per Beethoven farà esattamente il contrario.

Si apre con Eine kleine Nachtmusik, tanto inflazionata quanto affascinante ad ogni riascolto, tanto che qualcuno del pubblico non resiste ed applaude (neanche si fosse ai PROMS) già alla fine dell’Allegro iniziale.

Paolo Grazia, oboe principale dell’Orchestra del Comunale di Bologna e docente in quel di Fiesole si presenta poi per interpretare il Concerto K314, quello che il Teofilo riciclerà come secondo concerto per flauto, portandolo dal DO al RE maggiore; e il cui terzo movimento fornirà (in SOL maggiore) il supporto musicale ai versi Welche Wonne, welche Lust di Blondine nel second’atto del Ratto.

Applauditissima la performance di Grazia, che così ci regala questo bis (qui registrato giovedi, sul quale questa sera il solito impaziente applaude quando ancora il suono non si è spento...) 

Si chiude con la celeberrima Quinta del genio di Bonn: Fourniller la attacca quando ancora il pubblico lo sta applaudendo all’ingresso e lo fa con una foga strabiliante, mettendo davvero a dura prova i ragazzi; e non solo nell’iniziale Allegro con brio, ma in particolare nella sezione centrale dell’Allegro, dove soprattutto gli archi sono chiamati ad un vero super-lavoro per scolpire le rapidissime crome che costellano la partitura (e a proposito di fatica, il Direttore fa pure il ritornello dell’Allegro conclusivo). Insomma, una cosa davvero entusiasmante, che trascina il pubblico ad ovazioni e applausi ritmati (ecco, proprio come ai PROMS!)      

27 aprile, 2016

In attesa della cieca di Firenze (2)

 

Domani il MMF si appresta alla prima di Iolanta di Ciajkovski. Dopo aver esplorato le origini dell’opera e le caratteristiche del soggetto (anche per differenza dal lavoro ispiratore di Hertz) passiamo ora a qualche nota relativa alla struttura e al contenuto musicale dell’opera.

Introduzione strumentaleAndante, quasi Adagio. Suonano solo i fiati, la tonalità è piuttosto ambigua e l’atmosfera assai lugubre, poichè lo scenario – al di là delle apparenze esteriori - non è dei più sereni: il corno inglese espone una cupa melodia stagnante, che poi si anima con veloci biscrome ascendenti anche dei flauti e discendenti di clarinetti e fagotti, subito sostenuti dall’intervento dei corni che appaiano le semicrome di clarinetto e fagotti. Poco dopo un’ulteriore animazione porta a veloci volate di biscrome per terze (flauti) e seste (oboi) che si interrompono per lasciare spazio a un ondeggiare dei clarinetti sul quale ancora il corno inglese ripete incisi degradanti, fino allo spegnersi del preludio sul DO-RE-LA di corni e fagotti, accordo di dominante del SOL maggiore che caratterizzerà la scena iniziale.

Le prime tre scene sono ambientate nel lussureggiante giardino-frutteto della dimora dove è ospitata fin quasi dalla nascita Iolanta, circondata dalle cure premurose della governante Marta, da due ancelle (Brigitta e Laura) e da uno stuolo di altre giovani donne.

Scena 1 - Andante semplice. Sugli arpeggi in terzine dell’arpa, violini I-II, viole e violoncelli divisi (rappresentano i quattro suonatori indicati nel libretto) espongono una dolce e cullante melodia, sulla quale udiamo le prime esternazioni di Iolanta, cui la prigione dorata in cui vive da sempre comincia a ingenerare ansia e insoddisfazione. Espresse mirabilmente nell’arioso Otchego 'eto prezhde ne znala (Perché mai nell'albor della vita) un Larghetto, a tempo molto rubato che ha mutato la tonalità dal maggiore al SOL minore, per sottolineare lo scarto fra la (fin eccessivamente) idilliaca atmosfera esteriore e l’intimo travaglio della ragazza. Torna però il SOL maggiore sull’ultima delle quattro strofe, Otchego `eto nochi molchan’e (Perché mai il freddo e il silenzio) in cui Iolanta sfoga tutto il suo disagio, prima di ripetere più volte: perchè?

Scena 2 - Adagio con moto. Marta è incapace di dare risposte al disagio di Iolanta, così ecco arrivare un Allegro in LA maggiore, il cosiddetto coro dei fiori, cantato dal coro femminile, con interventi solistici di Marta, Brigitta e Laura. Le ragazze hanno portato fiori profumati per la loro padroncina e cercano con essi di dissiparne la malinconia. È una serena melodia in tempo ternario (6/8) che il flauto solo contrappunta con veloci biscrome ad imitazione del cinguettare di uccelli.  

Scena 3 - Moderato mosso. Iolanta è stanca e chiede a Marta di cantarle la sua canzone preferita. Ecco quindi Brigitta, poi Laura e quindi Marta cantare in coro una patetica ninna-nanna in MIb maggiore (2/4, Moderato assai): Spi, pust’ angely krylami navevajut sny (Dormi, gli angeli con le ali ti portino il sonno). Iolanta si è addormentata e viene portata nella sua camera.

A questo punto, dopo tre scene che ospitavano solo voci femminili, ne abbiamo altrettante in cui si odono soltanto (o quasi...) voci maschili: conosceremo quindi tutti i restanti personaggi del dramma.

Scena 4 - Allegro semplice. Si apre con un felice accostamento di un tema maschio (nei corni, indicante l’approssimarsi di qualche cavaliere) e di quello, tutto femminile, della ninna-nanna che aveva poco prima accompagnato Iolanta nel mondo dei sogni. Il motivo dei corni (che si muove per terze su classiche terzine romantiche) principia canonicamente in MIb maggiore, da cui si modula una terza minore in basso per raggiungere il DO maggiore sul quale gli oboi (anch’essi per terze) intonano la ninna-nanna. I corni rispondono a tono (DO) da cui si modula ancora una terza minore sotto, per raggiungere il LA, dove sono ora gli oboi a riprendere il motivo della ninna-nanna. E i corni restano sul LA per introdurre il personaggio che sta bussando alla porta: Alméric, messaggero di Re René. Il colloquio fra il custode Bertrand e Alméric serve soprattutto a farci conoscere i principali retroscena ed antefatti della vicenda. Vi partecipa fugacemente anche Marta, introdotta dal flauto e successivamente accompagnata dal clarinetto con motivi di sapore weberiano, ma il clou della scena è costituito dall’esternazione in arioso di Re Renè che nel frattempo è arrivato in compagnia del medico islamico che dovrà curare la figlia. Si tratta di un Andante in DO minore, da cantarsi a piena voce, espressivo, Gospod’ moj, esli greshen ja (Mio Signore, se io ho peccato) ed è caratterizzato da una melodia ascendente che dal DO centrale sale per una decima fino al MIb sopra il rigo e da qui ancora si spinge fino al FA. L’intera orchestra la riprende in chiusura della scena.

Scena 5 - Allegro moderato. È occupata dal dialogo fra il Re e il medico Ibn-Hakia, che pone il prerequisito per la sua cura: notificare a Iolanta la sua condizione. Il Re si rifiuta di farlo e così, dopo l’arioso del basso nella scena precedente, questa si incentra su quello del baritono, un Adagio con moto in SI minore, Dva mira: plotskij i dukhovnyj (Esistono due mondi: corporeo e spirituale) nel quale il medico spiega come e qualmente Iolanta potrebbe acquistare la vista. È una melodia che insiste quasi pedantemente (come si addice ad uno scienziato-cattedratico) fra tonica e dominante (FA#). Il Re non ne vuol sapere e così chiude la questione chiamando in causa trombe e tromboni per una perentoria reiterazione (un semitono sopra, DO#!) del tema della sua esternazione nella scena precedente.

Talvolta si usa praticare qui un intervallo, dato che siamo a poco meno di metà (in termini di tempi di esecuzione) dell’opera. Ma è una pratica censurabile (utile solo a procurare un po’ di business per il bar, e qualche frequentatore per i bagni del teatro, ecco).

Scena 6 - Allegro vivo. Facciamo quindi la conoscenza degli altri due protagonisti maschili dell’opera (Robert e Vaudémont) che in questa scena si esibiscono rispettivamente in un’aria e una romanza. L’inizio è nel DO# che aveva chiuso la scena precedente ed è caratterizzato da brillanti svolazzi dei legni che accompagnano la sorpresa dei due cavalieri di fronte al paradiso nel quale sono capitati. Vaudémont ne è affascinato - ed esprime la sua meraviglia con una frase musicale in due sezioni: Gde my? Svoimi li glazami (Dove siamo? Non credo ai miei occhi) che scende dalla tonica DO# alla dominante SOL# e poi risale fono alla mediante per tornare alla tonica; e poi: ja vizhu raj sred’ dikikh skal! (un paradiso in mezzo a rupi inaccessibili!) che dalla mediante sale alla dominante e poi ridiscende di un’ottava, passando per la triade di DO#. Attenzione ora a ciò che osserva, dopo una modulazione a MI maggiore, Robert, che legge una scritta che intima agli estranei di non entrare: Vernis’ nazad ispolnennyj bojazni, Sjuda nel’zja vojti pod strakhom smertnoj kazni (Ritorna indietro e non osare entrare, poiché chi entra sarà condannato a morte). Ebbene, lo fa cantando su un tema (la cui seconda sezione ripete quella della precedente esternazione di Vaudémont) che tornerà assai sviluppato (in LAb) precisamente a chiudere in gloria l’opera! Si tratta di un riferimento tematico non certo casuale, una specie di sfida al destino, che alla fine sarà vinta. Dopo che siamo venuti a sapere che Robert è destinato in sposo a Iolanta, ma che non ne è per nulla entusiasta, il Duca attacca la sua aria in un Vivace-Moderato-Andante-Vivace-Moderato in MI maggiore: Kto mozhet sravnit’sja s Matil’doj moej (Chi può essere paragonato alla mia Matilde). È un bellissima dichiarazione d’amore per la donna tutta sensualità e carnalità che lo ha stregato, e si chiude con una retorica cadenza dell’intera orchestra. Vaudémont replica con la sua lunga e sentimentale romanza - Andante quasi Adagio in LAb maggiore - Net! Chary lask krasy mjatezhnoj (No! Il fascino delle carezze di una bellezza tempestosa) dove esterna il desiderio di trovare per sé una donna sensibile, angelica e celeste (sono precisamente le qualità della fanciulla che sta proprio per incontrare...)   

Scena 7 - Allegro non troppo.
È la scena clou dell’opera (e non solo perchè la più lunga) quella dove Vaudémont e Iolanta si incontrano e si innamorano... ciecamente! I due cavalieri si domandano dove siano capitati e chi abiti quel paradiso. Li accompagna un motivetto che scende da dominante a tonica e da sopratonica a dominante, ripetuto in diverse tonalità a distanza di terze minori (SOL, SIb, REb). Quando Vaudémont scorge Iolanta addormentata e manifesta tutta la sua ammirazione si ode in orchestra (celli) un nobile motivo che tornerà ancora (qui è in SI maggiore, parte dalla dominante, sale alla sesta e poi scende con due ritorni alla tonica). L’entrata in scena di Iolanta è accompagnata da preziose figurazioni del flauto che ne dipingono la bellezza e la pura ingenuità. Dopo che il sospettoso Robert se n’è andato in cerca di rinforzi, inizia il lunghissimo colloquio fra Vaudémont e la principessa, che si era assentata per recare del vino ai due inaspettati visitatori. Vaudémont, dopo aver bevuto con un gesto... tristaniano, non perde tempo a dichiararle la sua ammirazione cantando Vy mne predstali kak viden’e (Mi siete apparsa come una visione) e le parla esplicitamente di sentimenti e di amore. Iolanta ne sembra piacevolmente turbata e Vaudémont le chiede una rosa rossa in ricordo del loro incontro. Qui abbiamo la scena delle due rose bianche colte da Iolanta, che svelano a Vaudémont la di lei cecità. Al suo silenzio Iolanta risponde con una struggente melodia, sulle parole Tvoe molchan’e mne neponjatno (Il tuo silenzio mi è incomprensibile) e poi cita letteralmente le parole con le quali Vaudémont le aveva chiesto la rosa. Il quale Vaudémont procede quindi – su un tema parsifaliano (Kundry) - con la rivelazione dell’esistenza della luce e del senso della vista, che mettono la fanciulla in grave ansia e confusione. Vaudémont allora spiega a Iolanta la miracolosa creazione divina, e lo fa sulle parole Chudnyj pervenec tvoren’ja (La prima meravigliosa creazione) cantando – Moderato mosso – una melodia derivata dal tema del finale della Quinta sinfonia (qui in SOL maggiore). Iolanta ne è colpita e ribatte che la luce non è necessaria per lodare Dio, cantando Chtoby Boga slavit’ vechno (Per onorare Dio eternamente) sullo stesso motivo. Entrambi si inebriano in una specie di mistica esaltazione e insieme ripetono quella melodia sulle parole Blagost’ Bozh’ja beskonechna (La bontà di Dio è infinita) e così si chiude questa grande scena, con una poderosa e melodrammatica (wagneriana?) cadenza orchestrale di SOL maggiore.     

Scena 8 - Allegro vivo. Si apre con il sopraggiungere delle donne di casa in cerca di Iolanta, poi del Re con gli uomini, tutti sorpresi di vedere la fanciulla in compagnia di uno sconosciuto. E inorriditi poi nell’apprendere dalla stessa Iolanta di essere stata informata da Vaudémont della propria menomazione. Tutti, meno il medico islamico, che ci vede invece – sentenziando su uno stentoreo DO maggiore - un segno positivo del destino. Segue un concertato sempre in DO cui partecipano parte o tutte delle 9 voci (4 femminili e 5 maschili) più il coro femminile, dove tutti i personaggi esternano i rispettivi sentimenti: di sorpresa, preoccupazione, sdegno, speranza. Il Re presenta alla figlia il medico che la dovrà curare e Iolanta si dice disposta alle cure, ma solo per far piacere al padre. A queste condizioni Ibn-Hakia toglie ogni speranza al Re: solo una grande volontà e motivazione può portare Iolanta alla guarigione. Qui il Re ha l’idea vincente: minacciare Vaudémont di morte se Iolanta non guarirà: ciò dà alla figlia la motivazione – salvare l’uomo a cui si sente legata – per voler guarire. Ed esprime questa sua volontà ripetendo, ora un semitono più in alto (LAb maggiore, Adagio con moto) le parole chudnyj pervenec tvoren’ja (la prima meravigliosa creazione) che aveva cantato nella scena precedente con Vaudémont. Il quale riprende ora la melodia, giurando che sarà fedele a Iolanta comunque vadano le cose. Poi la lunga frase musicale passa ai violoncelli, mentre Iolanta accarezza il viso di Vaudémont e si prepara a sottoporsi alle cure del medico. La scena si chiude con tutti gli astanti in religiosa aspettativa e con il Re che benedice la figlia, ormai fiducioso nella sua guarigione.

Scena 9 Allegro non troppo.
Una fanfara di trombe in MI maggiore si fa sentire da lontano (è Robert che torna con i rinforzi per proteggere Vaudémont). Il Re (passato a DO maggiore) tranquillizza il giovane: ha minacciato di giustiziarlo solo per stimolare la figlia a desiderare di guarire. Vaudémont svela la propria identità e si offre in sposo a Iolanta, ma ne riceve un diniego: lei è già destinata ad un altro. E quest’altro è proprio ora in procinto di arrivare lì, annunciato da Alméric (fanfare in LA maggiore). Vaudémont sa di chi si tratti e, quando l’amico entra – è tornato nella fanfara il DO maggiore - e omaggia il Re, conosce anche l’identità del padre di Iolanta; poi supplica Robert di mettere il Re a parte della sua decisione di rinunciare alla figlia per amore di Matilde. Cosa che Robert fa con una certa riluttanza, ma alla fine con decisione (una stentorea salita al FA#, avendo modulato a SI maggiore) dichiarando il suo amore per Matilde: no serdcem budu veren ja Matil’de (ma col cuore sarò fedele a Matilde). Vaudémont - O, moj gosudar’, ja vashu doch’ ljublju takoj, kak est’ (Mio Signore, amo vostra figlia così com’è) - promette di amare Iolanta in ogni caso e a questo punto irrompe un emozionato Bertrand a portare notizie sulla cura cui la fanciulla si è sottoposta: una poderosa scalata di accordi dell’orchestra chiusi dalla dominante SOL introduce il suo recitativo in cui racconta della grande forza d’animo di Iolanta, mossa dal desiderio di salvare la vita di Vaudémont. Tutti invocano la misericordia divina e subito le donne annunciano felici – scalando la triade di DO maggiore - che Iolanta vede! Il Re ringrazia il Cielo, modulando a LAb maggiore, e in questa tonalità il flauto intona, sugli arabeschi dell’arpa, il motivo sul quale nella Scena 6 Robert aveva letto il divieto ad entrare nella dimora di Iolanta! Che in quel momento è apparsa, condotta per mano dal medico, al quale su quella melodia, chiede - Gde ja? Kuda vedesh’ menja ty, vrach’! - dove egli l’abbia condotta. Il medico ora le ha tolto la benda dagli occhi e lei torna a vedere la luce. La tonalità è salita al DO maggiore e Iolanta sembra intimorita dalla scena che le sta di fronte. Il medico la invita a guardare il cielo stellato, e in una continua progressione armonica fino al LAb, lei ci vede il Creatore, al quale innalza (Moderato assai) un inno di ringraziamento - Blagoj, velikij, neizmennyj (Misericordioso, immenso, immutabile) – sempre sulla melodia del divieto. E qui ha inizio il finale, con Iolanta che poco a poco fa la conoscenza visiva con persone ed oggetti che fino a poco prima poteva soltanto toccare o ascoltare. La melodia del divieto, ormai divenuta simbolo della libertà e della felicità - torna per l’ultima volta sulle sue parole Primi khvalu raby smirennoj (Ricevi la lode della tua umile serva) che introducono il grandioso concertato finale, un commovente inno di lode e ringraziamento al Creatore.
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Se qualcuno scorge in alcuni passaggi di questa musica atmosfere o motivi mahleriani non sbaglia di certo: il 33enne Gustav Mahler, che era allora alle prese con la sua Auferstehung, diresse (Amburgo, martedi 3 gennaio 1893) la prima dell’opera in territorio straniero, a soli 16 giorni da quella assoluta di SanPietroburgo! E sappiamo come Mahler fosse un maestro nell’immagazzinare nel suo cervello molta musica che gli capitava di dirigere, per poi farne riemergere delle reminiscenze all’interno delle sue sinfonie.

Da domani a Firenze l’opera sarà diretta dal giovane russo (ormai ben noto ed apprezzato dai seguaci de laVERDI) Stanislav Kochanovsky, che è stato chiamato a sostituire Michail Jurowski (padre dei direttori Vladimir e Dmitri) originariamente scritturato. Per un primo assaggio radiofonico ci sarà la diretta su Radio3 alle 20; prossimamente le mie impressioni dal vivo: un’idea dello spettacolo di Mariusz Treliński si può avere dall’edizione di SanPietroburgo del 2009, cui ne sono seguite altre, ultima delle quali quella del MET nel 2015 (dove, a parte alcuni interpreti, sono cambiati soprattutto i costumi).

(2. continua)

25 aprile, 2016

In attesa della cieca di Firenze (1)

 

Dopo il concerto inaugurale di ieri (a proposito, nella Nona un Mehta letargico!) il 79°MMF aprirà il programma operistico - giovedì prossimo, 28 aprile, all’OF - con la prima di Iolanta di Ciajkovski.   

Il soggetto di quella che resterà l’ultima opera del compositore russo fu tratto da una pièce teatrale del danese Henrik Hertz intitolata Kong René’s Datter (renette e datteri di king-kong La figlia di Re René) andata in scena per la prima volta al Teatro Reale Danese sabato 5 aprile, 1845.  


Il testo originale narra le vicende tardo-medievali (secolo XV) di Iolanthe, la figlia cieca del Re di Provenza che riacquista miracolosamente la vista. Si tratta di una versione romanzata della vita da adolescente della vera Yolande de Bar, nome con cui era conosciuta la Duchessa di Lorena (1428-1483 e della cui cecità non esiste traccia) che andò in moglie a Frédéric II, Conte di Vaudémont, in un matrimonio che doveva servire a chiudere un’antica faida fra le famiglie di René d’Angiò (padre di Yolande) e Antoine di Vaudémont (padre di Frédéric).

Il libretto dell’opera (che ebbe la prima a SanPietroburgo, abbinato al balletto Schiaccianoci, domenica 18 dicembre, 1892) fu redatto dal fratello di Ciajkovski, Modest, che lo trasse a sua volta da un adattamento russo (di Vladimir Zotov) del dramma lirico di Hertz. In entrambi i casi vengono scrupolosamente rispettate le tre classiche unità aristoteliche (luogo, tempo e azione): il tutto si compie nell’arco di una giornata, dal primo pomeriggio al tramonto.

Come accade regolarmente in casi consimili, il libretto non ha un grado assoluto di fedeltà al testo cui si è ispirato, e per ragioni spesso (non sempre) assai plausibili. Nel nostro caso l’opera presenta alcuni personaggi con nomi e comportamenti diversi, oltre che avere una struttura in scene (atto unico sempre) divergente dal lavoro di Hertz. Sinteticamente si possono osservare le differenze in questa tabella: 

Hertz
Ciajkovski


René, RE di Provenza
Jolanthe, sua figlia
Ebn Jahia, medico della Mauritania
Almeric, cavaliere
Bertrand
Martha, sua moglie
René, RE di Provenza
Iolanta, sua figlia cieca
Ibn-Hakia, medico della Mauritania
Alméric, scudiero del RE
Bertrand, custode del castello
Marta, moglie del custode e governante di Iolanta
Brigitta, ancella
Laura, ancella
Conte Tristan di Vaudemont
Cavaliere Jauffred d’Orange
Gottfried di Vaudémont, conte burgundo
Robert, duca di Borgogna










Scena 1
Arriva Almeric, ricevuto da Bertrand e Marta, che lo ragguagliano sulla cecità di Jolanthe, sopraggiunta in tenera età a seguito di uno shockIgnora la sua cecità e la regale identità del padre. Lei è destinata in sposa al conte Tristan di Vaudemont. La cura da tempo Ebn Jahia che ogni giorno la addormenta con un talismano.
Scena 2
Arrivano il RE e Ebn Jahia, che si reca subito da Jolanthe per visitarla.


Jolanthe può guarire quello stesso giorno, ma Ebn Jahia detta la sua condizione: notificarle subito la sua cecità. Il RE si oppone.
Scena 3
Arrivano Tristan e Jauffred. Tristan confessa la sua contrarietà a prendere in moglie Jolanthe, che lui nemmeno ha mai visto, così come mai ha incontrato suo padre. 
Scena 4
Tristan scopre Jolanthe e ne resta colpito. Jauffred cerca invano di svegliare la fanciulla, Tristan ci riesce togliendole il talismano. Jolanthe si presenta ai due e offre loro frutta e bevande. Jauffred parte. Tristan e Jolanthe si intrattengono, il giovane si accorge della di lei cecità e gliela descrive, dichiarandosi poi estasiato dalla sua persona. Torna Jauffred che avverte del sopraggiungere di uomini armati. Subito riparte con Tristan, che promette a Jolanthe di tornare.
Scena 5
Arrivano Martha, il RE e Ebn Jahia e scoprono che qualcuno ha rivelato a Iolanta la sua cecità. Ma Ebn Jahia ora sa che la ragazza può guarire la sera stessa e chiede al RE di spiegarle fino in fondo la sua condizione e la sua menomazione. Il RE lo fa, descrivendole il potere e la bellezza della luce e la potenza della vista, poi la invita all’ultima seduta di cura con il dottore. Lei accetta. Almeric arriva con una lettera di Tristan che annuncia il suo rifiuto a sposare Jolanthe. Il RE è dispiaciuto, ma accetta fatalisticamente anche questo contrattempo.
















Scena 6
In quel momento sopraggiunge proprio Tristan che si scontra con lui (i due non si conoscono). Arriva anche Jauffred che si inchina al RE, così Tristan ne scopre l’identità. Ma anche il RE scopre l’identità di Tristan e gli chiede ragione della sua irruzione. Tristan risponde di esser lì per prendere una fanciulla di cui è innamorato. Il RE gli rivela che lei è proprio la stessa persona che gli era destinata in sposa e che lui aveva scritto di non voler accettare: sua figlia Jolanthe!
Scena 7
Torna Ebn Jahia con Jolanthe, che mostra di aver riacquistato la vista. Lei però stenta a riconoscere persone e luoghi, si sente smarrita, poi pian piano, aiutandosi con il tatto, riconosce il padre e Tristan. Quindi si convince e si abbandona, insieme a tutti, alla felicità ritrovata.
Scena 1
Iolanta, Marta, Laura e Brigitta sono in giardino a raccogliere fiori. La giovane trova strano il comportamento veggente di Marta.  
Scena 2
Ancora canti anche di un coro femminile.
Scena 3
Ancora canti finchè Iolanta si assopisce.
Scena 4
Arriva Alméric, ricevuto da Bertrand e Marta, che lo ragguagliano sulla cecità, dalla nascita, di Iolanta. Ignora la sua cecità e la regale identità del padre. É  destinata in sposa a Robert, duca di Borgogna. Il RE porterà un dottore mauritano per affidare la figlia alle sue cure.


Arrivano il RE e Ibn-Hakia. Il RE si pente dei suoi peccati, ritenendoli la causa della cecità della figlia.
Scena 5
Ibn-Hakia detta la sua condizione per curare Iolanta: notificarle la sua cecità. Il RE si oppone.

Scena 6
Arrivano Robert e Vaudemont. Robert non gradisce più in moglie Iolanta, che mai ha visto, essendo innamorato dell’esuberante ed eccitante Matilde. Vaudémont sogna invece una donna eterea e angelica.
Scena 7
Vaudémont scopre Iolanta e ne resta colpito. Iolanta li raggiunge e offre loro del vino. Robert pensa ad un tranello e parte a cercare rinforzi. Vaudémont e Iolanta si incontrano, il giovane si accorge della di lei cecità e gliela descrive, parlandole della luce creata da Dio. I due si abbandonano inebriati a lunghe e commosse lodi al Creatore. 





 Scena 8
Arrivano tutti gli altri e scoprono che Vaudémont ha rivelato a Iolanta la sua cecità. Lo minacciano di morte per quanto ha fatto. Ma Ibn-Hakia ora sa di poter curare la ragazza, che accetta la cura, ma solo per compiacere il padre che glielo chiede. Ibn-Hakia avverte il RE che sua figlia non guarirà se non le verrà dato un valido motivo. Il RE ha l’idea vincente: minaccia ancora Vaudémont di morte se Iolanta non dovesse acquistare la vista e Vaudémont si dichiara dispiaciuto e contrito per ciò che ha fatto. Iolanta è atterrita all’idea che Vaudémont possa essere giustiziato, lui le dichiara il suo amore e la sua decisione di affrontare anche la morte per lei. Il dottore e il RE comprendono che la volontà di Iolanta di evitare la morte a Vaudémont è la molla che le consentirà di guarire. Ibn-Hakia porta Iolanta con sè per la seduta terapeutica.
Scena 9
Il RE rivela a Vaudémont il suo stratagemma: non ha alcuna intenzione di punirlo se Iolanta non tornasse guarita. Vaudémont declina le sue generalità e si dichiara deciso a sposare la fanciulla anche se dovesse rimanere cieca. Il RE lo disillude: sua figlia è promessa ad un altro. 

Arriva in quel momento Robert con altri armigeri, si stupisce di trovarsi di fronte al RE, che lo indica a Vaudémont come lo sposo destinato a Iolanta. Vaudémont chiede all’amico di comunicare al RE il suo rifiuto di sposarne la figlia, che lui intende prendere in moglie. Robert, dapprima riluttante, lo fa, apprendendo solo ora che Iolanta è cieca. Bertrand, che assisteva alla seduta terapeutica, torna sconvolto: Iolanta sembra guarita! 



Torna Iolanta dopo la seduta con il medico: stenta a riconoscere persone e luoghi, si sente smarrita, poi pian piano, aiutandosi con il tatto, riconosce il padre e Vaudémont e infine mostra di aver acquistato pienamente la vista. Grande e generale moto di ringraziamento a Dio.

Partiamo dai personaggi. Al di là della diversa forma grafica dei nomi, legata ai passaggi dal danese al russo e dall’alfabeto cirillico a quello latino, la principale e clamorosa differenza fra Hertz e Ciajkovski risiede nell’identità e nei comportamenti dei due amici che capitano nella fantastica dimora dove il Re René ha di fatto occultato la figlia Iolanta, purtroppo cieca, per evitarle contatti con il mondo esterno in attesa di poterla vedere guarita.

Nell’opera si tratta di Robert, duca di Borgogna, e di Gottfried di Vaudémont, conte burgundo. Il primo ancora bambino è stato destinato in sposo a Iolanta (che lui però non ha mai visto, nè sa essere cieca) ma è innamorato di Matilde di Lotaringia, donna sensuale e procace; il secondo è un sognatore che si innamorerà a prima vista di quella specie di angelo che è Iolanta. Alla fine Robert otterrà dal Re la dispensa dal suo impegno matrimoniale, mentre Vaudémont potrà coronare il suo sogno d’amore con la fanciulla, miracolosamente uscita dalla sua cecità.

Nel dramma di Hertz (che è più vicino, o meno lontano, dalla realtà storica, perlomeno nella definizione dei personaggi principali) i due amici girovaghi hanno nomi ma soprattutto comportamenti assai diversi, che coloriscono la vicenda di una tinta rocambolesca, con tanto di colpi di teatro davvero spettacolari, per non dire farseschi, che nell’opera (programmaticamente) si perdono. Lo sposo destinato a Jolanthe è Tristan di Vaudemont (il Frédéric storico) che mai si è incontrato con il Re (le loro sono casate storicamente avversarie e il matrimonio Tristan-Iolanthe doveva servire a siglare la fine della faida) e che viaggia in compagnia di un altro trovatore, Jauffred d’Orange, paladino del Re (storicamente sconosciuto). Tristan scopre Jolanthe e se ne innamora, senza sapere chi lei sia, poi scrive al Re la sua volontà di rinunciare alla figlia, ma quando torna per portarsi via la sua bella, viene affrontato proprio dal Re: i due si possono reciprocamente riconoscere poco dopo, all’arrivo di Jauffred, che il Re lo conosce bene. Il gran colpo di scena si ha quando il Re spiega a Tristan che la ragazza di cui lui si è innamorato e che vorrebbe portarsi via è precisamente... Jolanthe, che gli era stata destinata in moglie e alla quale, non conoscendola, stava per rinunciare! (Nel testo di Hertz non c’è traccia di alcuna Matilde o di altre donne di cui Tristan fosse innamorato.)
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Veniamo ora alla cecità di Iolanta, ai relativi metodi di cura e alle modalità della guarigione. Qui il testo del dramma e il libretto dell’opera presentano un curioso incrocio fra diagnosi e terapie. Intanto differiscono sulla condizione di cecità di Iolanta: dal libretto si evince che la fanciulla sia cieca dalla nascita, e quindi affetta da cecità congenita (forse curabile con farmaci e/o interventi chirurgici?) Invece nel dramma di Hertz veniamo a sapere che Jolanthe non era affatto nata cieca, ma lo era diventata in tenerissima età (da qui la sua incoscienza della sopravvenuta menomazione) a causa di un terribile shock, conseguente ad un incidente accaduto nel palazzo del padre, dove era divampato un furioso incendio da cui la piccola era stata salvata solo a prezzo di farle fare un volo dalla finestra della sua stanza al terreno sottostante, esperienza che evidentemente aveva avuto gravi conseguenze. Si fa quindi largo l’ipotesi che questo tipo di cecità possa essere curato/guarito con il ricorso a terapie di tipo psicologico più che farmacologico-chirurgico.

Quali sono i rapporti fra il dottore mauritano Ibn-Hakia e Iolanta? Nell’opera costui arriva alla dimora della fanciulla e lì la incontra per la prima volta, mentre nel lavoro di Hertz egli ha già in cura Iolanthe da molto tempo ed anzi si occupa di lei quasi come un istitutore, oltre che sottoporla a speciali terapie del sonno (con l’aiuto di un talismano che usa per addormentarla e risvegliarla) e addirittura sostiene che la guarigione potrà avvenire al compimento del 16° anno, data che cade precisamente nel giorno in cui è ambientato il dramma.

Il metodo impiegato dal medico islamico per cercare di guarire Iolanta è di tipo psicologico: nel libretto di Ciajkovski (monologo della scena 5) e nel testo di Hertz (scena 2) Ibn-Hakia spiega al Re che corpo e spirito formano un’unità indissolubile e solo quando lo spirito ne avrà consapevolezza, solo allora anche l’organo della vista comincerà a funzionare. Nel dramma di Hertz è poi la stessa Iolanthe (scena 5) a spiegare al padre come un essere umano non veda con l’occhio, che è un semplice mezzo fisico, ma con il cuore!

E infine, piuttosto diversi (almeno nella forma) sono anche i metodi impiegati dal padre per dare a Iolanta la giusta motivazione a guarire. Nell’opera il Re inventa un geniale stratagemma: resosi conto che la figlia è attratta da Vaudémont, minaccia il giovane di morte nel caso in cui Iolanta non dovesse guarire; ciò provoca nella figlia uno stato di tensione emotiva – il timore di perdere la persona di cui è di fatto innamorata - che contribuisce a responsabilizzarla e a infonderle la volontà di rimuovere il suo handicapNel testo di Hertz le cose vanno in modo francamente più ordinario: il dottore Ebn Jahia chiede al Re di spiegare alla figlia, con più dettagli di quelli usati da Tristan, la bellezza e l’importanza della luce e della vista. Così il Re rivela a Iolanta che lei perse la vista da piccola e che da allora tutti attorno a lei hanno cercato di limitare le conseguenze della disgrazia, ma che ora è giunto il momento fatidico della possibile guarigione. Ciò basta alla fanciulla per convincersi a fare tutto ciò che il guaritore le chiederà.             
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A livello di curiosità si può notare come venga diversamente presentato il riconoscimento della cecità di Iolanta: in entrambi i lavori a tradirla è il colore delle rose, che lei non è in grado di distinguere; ma nell’opera Iolanta offre a Vaudémont due rose bianche al posto delle rosse da lui richieste, mentre nel dramma di Hertz Tristan, dopo aver ricevuto la prima rosa bianca, gliene chiede un’altra dello stesso colore per guarnire il suo scudo, e invece Iolanthe ne coglie una rossa! 

Diversa è anche la scena (7 nell’opera, 4 nel dramma) dove Iolanta(Iolanthe) e Vaudémont(Tristan) restano soli e lei viene per la prima volta informata della sua menomazione: nell’opera si trasforma in una grande scena d’amore, pur particolare, in quanto i due esprimono amore per il Creatore dell’Universo; mentre nel dramma il rapporto fra i due si mantiene su un piano abbastanza formale.    

Quanto alla struttura, l’opera antepone a quelle dove si sviluppa l’azione del dramma ben tre scene che ci introducono il personaggio di Iolanta e l’ambiente familiare in cui la fanciulla vive, artificiosamente costruito per impedire che lei si renda conto della sua grave menomazione e possa soffrirne. E sono ovviamente tre scene che offrono a Ciajkovski l’occasione per esibire tutta la sua arte di acquarellista-in-musica (contemporaneamente a Iolanta stava componendo lo Schiaccianoci!)

Nella prima ci viene anche proposta (è un’invenzione dei Ciajkovski) in modo intelligente e discreto una piccola svista di Marta, che fa nascere in Iolanta un dubbio sulla sua condizione: è quando la fanciulla ha un momento di tristezza e versa silenziosamente qualche lacrima: Marta a sua volta piange palesemente, così Iolanta le si avvicina e le tocca il viso, rendendosi conto del suo pianto, di cui le chiede ragione. La governante risponde di piangere poichè anche lei piange. Ma io ho pianto senza darne altri segni, ribatte Iolanta, e tu non mi hai toccato il viso, così come sai che io piango? (per ora l’incidente pare non avere conseguenze: Marta cambia subito discorso.)

Per il resto invece l’opera semplifica assai l’azione piuttosto contorta del lavoro di Hertz (cassando l’andi-rivieni dei due cavalieri, l’arrivo della lettera e la citata scenetta degli equivoci) per dare il massimo spazio alla componente lirica e sentimentale del soggetto.
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Sono anche da da considerare gli aspetti legati alla presenza della cultura araba nell’opera e nel dramma di Hertz.

Tanto per cominciare, il libretto russo fornisce indicazioni equivoche riguardo il luogo dell’azione: nel frontespizio si parla della Francia meridionale (ergo: la Provenza di Re René) ma poi nel testo l’unico accenno a una località più o meno precisa è quello fatto da Vaudémont che dice di essersi perso vagando per i Vosgi (cioè dalle sue parti, parecchie centinaia di kilometri a nord della Provenza!) Ci viene anche presentata la dimora di Iolanta come circondata da un lussureggiante giardino-frutteto, ma senza specifiche caratterizzazioni. Ora, che il Re di Provenza nascondesse la figlia nei Vosgi parrebbe poco plausibile, così come sembrerebbe strana la presenza di un medico arabo da quelle parti.

Ecco invece cosa troviamo nel testo di Hertz: una localizzazione assai precisa, Vaucluse (di petrarchiana memoria!) in Provenza, e un giardino in cui crescono palme da dattero (i cui frutti sono fra quelli offerti da Iolanthe ai due cavalieri).




Non a caso trattasi di un’area che fino alla fine del 1400 era considerata parte di Al-Andalus, essendo stata a lungo occupata dagli arabi. Così si spiega (assai meglio di quanto non faccia il libretto russo) perchè fosse un arabo venuto da Cordova il medico curante e addirittura l’istitutore della figlia del Re.

Ecco, mentre in Hertz il tema dei rapporti inter-culturali fra Occidente e Islam sembra occupare una posizione di assoluto rilievo, nell’opera dei due Ciajkovski quella problematica rimane confinata esclusivamente alla figura del medico mauritano Ibn-Hakia (di cui peraltro non si cita la provenienza) che impersona la secolare tradizione di scienza e di esperienza che gli arabi avevano nel campo dell’oftalmologia. 
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Da ultimo val la pena almeno accennare alle possibili meta-interpretazioni del dramma e in particolare poi dell’opera. Che hanno sicuramente contenuti di tipo simbolico più o meno scoperto. La cecità di Iolanta e la sua segregazione, che l’amore puro riesce a superare e a rompere; il complesso rapporto tra figlia e padre-padrone; la teoria della complementarità tra lo strumento materiale di trasmissione dei segnali visivi (occhio e relativo apparato) e le funzioni cerebrali che quei segnali elaborano. Ma poi, nel caso di Ciajkovski, la possibile relazione fra la condizione di Iolanta, la cui menomazione viene tenuta tassativamente nascosta da una società piena di pregiudizi, e la propria condizione di diverso, che il compositore visse sempre con grande sofferenza; un parallelo che potrebbe benissimo spiegare la grande attrazione che il soggetto ebbe su di lui e l’amore con il quale lo musicò.
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(1. continua

23 aprile, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°15


L’appuntamento n°15 della stagione vede il ritorno sul podio di Roberto Polastri, che dirige un programma assai impegnativo.

Amleto è un soggetto che Shostakovich trattò più di una volta, a partire dal 1932, quando compose musiche di scena per una rappresentazione teatrale della tragedia shakespeare-iana. Un paio d’anni fa Polastri ha ricostruito lo spettacolo a Bologna (con l’Orchestra del Comunale dove lui è di casa) ed ha pure scritto un libricino dove spiega i problemi affrontati nel rimettere in relazione il testo, curato da Akimov, e la musica del giovane Dimitri (che nella fattispecie impiega un complesso cameristico).

Qui in Auditorium invece Polastri si cimenta con una un composizione della maturità del musicista, la Suite dal film Hamlet del 1964, una musica destinata a colonna sonora del film di Kozincev, musica che impiega un’orchestra di dimensioni tardo-romantiche. Gli 8 numeri che danno corpo alla Suite accompagnano le principali vicende del film, dal ballo al fantasma, dall’avvelenamento ad Ofelia, fino al duello e alla morte di Amleto. I temi che prevalgono nel lavoro sono quelli dei tre protagonisti del film: Amleto, il Fantasma del Re (che nel film non appare e quindi dev’essere solo la musica ad evocare) e Ofelia, ma altri lo arricchiscono (la Morte, il Dubbio, l’Avvelenamento) sempre sapientemente intrecciati. È questo un lavoro che meriterebbe di avere più spazio nei programmi concertistici, un pezzo davvero rimarchevole che laVERDI – alla sua prima esecuzione - ha reso con grande efficacia, nelle crude sonorità dell’intera orchestra, come negli squarci lirici e intimistici.      
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Dopo la pausa ecco il celebre Don Quixote di Richard Strauss, che impegna nelle parti soliste di violoncello e viola due... prime parti de laVERDI: Tobia Scarpolini e Miho Yamagishi. A dir la verità i due ragazzi hanno fisicamente poco o nulla a che vedere con i fantastici personaggi di Cervantes: lui è un Don brevilineo e piuttosto in carne; e lei più che in quelli del Panza starebbe divinamente nei panni di... Dulcinea!

Strauss ideò il Don Quixote (op.35) praticamente in parallelo con l’autobiografico (pubblicato successivamente, come op.40) Ein Heldenleben e consigliava addirittura di eseguirli nella stessa serata: forse anche lui si sentiva un po’ come un combattente contro i mulini a vento...

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Seguiamone le avventure aiutandoci con i 14 sottotitoli (la traduzione è mia, volutamente semiseria) predisposti da Strauss (ma non riportati in partitura, ad eccezione di quelli – 2 e 3 - riferiti ai temi del Don e di Panza) e con l’esecuzione ormai storica della premiata coppia Karajan-Rostropovich (più Ulrich Koch alla viola) con i Berliner (1975).

1. Introduzione: Tempo moderato (cavalleresco e galante). Don Chisciotte va fuori di melonera per overdose di letture di romanzi cavallereschi e decide di diventare un cavaliere errante.
(3”) Oboi e flauti introducono in RE maggiore un clima cavalleresco (un motivo che prefigura le letture che daranno alla testa al Don) dal quale emerge (14”) un tema galante, esposto da violini secondi e viole a canone, che si impenna per tre volte e poi scende modulando cacofonicamente (un tritono, che di per sè non annuncia nulla di buono) dal RE al LAb maggiore. Da qui (14”) viene ripreso dai primi violini e riportato al RE maggiore. A 44” i clarinetti chiudono la frase con due successive discese dal piglio alquanto vanesio. (Scopriremo più tardi che questi sono i tre motivi che caratterizzano il Don). Ora inizia la lettura che farà uscir di senno il nostro hidalgo: sono le viole (1’07”) a proporcene il motivo (derivato da quello dell’esordio) qui ancora in RE, che tornerà spesso e volentieri nel seguito, come un canovaccio che tiene insieme l’intera opera. Da esso emerge (1’28”) in SOL maggiore, nel primo oboe, il tema di Dulcinea del Toboso, che sarà al centro di tutta l’avventurosa e rocambolesca vicenda e che ora chiude mestamente (un presentimento?) in FA# minore. Subito (2’03”) la mente del Don è scossa da fortissimi fremiti e immagini di battaglie furibonde (evocati negli ottoni con sordina da un motivo derivato ancora da quello della lettura) che portano alla riproposizione (in FA# maggiore) del tema di Dulcinea (2’21”) ora contrappuntato da quello della lettura, fino a sfociare (2’41”) nel MIb maggiore con il quale i corni espongono il tema cosiddetto della devozione, che è una miscela di quello di Dulcinea e della chiusa della frase iniziale, seguito da un’eroica discesa dal MIb. Torna (3’25”) il tema delle letture, che prelude (3’41”) ad un surriscaldamento dell’atmosfera, con un motivo il cui incipit tornerà a partire dalla variazione IV e sempre con connotati negativi, mentre il tema della lettura fa da sfondo all’agitarsi di quello della devozione. Due schianti (4’16”) subito ripetuti segnalano il progressivo eccitarsi della mente del Don e si ode in trombe e tromboni (4’36”) una variante allargata e proterva del tema della lettura, che sta ormai travolgendo gli argini e (5’49”) con un ultimo poderoso assalto conduce il Don (5’57”) alla follia, testimoniata da due ricorrenze del bizzarro inciso discendente che aveva chiuso la prima esposizione del tema galante. Un LA fortissimo e dissonante (con MIb, DO# e SIb) dell’orchestra chiude l’introduzione (6’23”). 
 
2. Tema: Moderato. Don Chisciotte, il cavaliere dalla magra figura.
È il violoncello - che si incarica (d’ora in poi, principalmente) di interpretare la figura del Don - che ce ne espone i temi, già anticipati del resto nell’introduzione. Quello cavalleresco (6’25”) adesso è più sviluppato e principia in RE minore; poi ecco quello galante (6’40”) che ora è in DO maggiore, ripreso poi in FA; e infine (7’12”) quello che ho definito vanesio che modula verso il RE.  

3. Maggiore (tonalità, ndr): Sancio Panza.
Anche il rotondo scudiero viene dipinto in musica con tre temi: il primo (7’31”, clarinetto basso e tuba tenore) pare evocare l’incedere non proprio atletico del nostro; il secondo (7’42”, nella viola, strumento principalmente associato a Sancio) ricorda la sua parlantina impertinente; il terzo (8’00”, dopo una fugace ricomparsa del primo) ci presenta la bizzarra prosopopea che ne caratterizza l’interloquire (come si udrà nella terza variazione) con la pedante chiusa sugli arpeggi ascendente e discendente di FA maggiore. Il primo tema (8’30”) chiude, con una specie di sberleffo, la presentazione delle carte d’identità.

4. Variazione I: Comodo. Partenza della coppia per compiere imprese in nome di Dulcinea. Avventura con i mulini a vento. (Libro I, Capitoli VII-VIII).
Il Don (8’44”) è il primo a muoversi, accompagnato da una variazione dell’incipit del suo tema cavalleresco, nel violoncello. Subito lo segue Sancio, con il primo dei suoi temi (clarinetto basso). A 9’07” compare il tema galante del Don, e c’è un preciso motivo: un istante dopo ecco flauto ed oboe esporre in DO maggiore il tema di Dulcinea! La quale è con tutta evidenza la musa ispiratrice delle imprese che l’eroe si appresta a compiere. Il Don si riveste tosto del suo tema cavalleresco e, sempre seguito dal fido Sancio, si appresta ad affrontare i giganti (mulini a vento) che (9’43”) gli si parano davanti. Lui si scaglia contro uno di loro (9’56”) ma lo schianto gli è fatale (10’13”). Il poveretto è ridotto male, ha pure perso la lancia, frullata dalle pale del mulino, e il tema di Dulcinea (10’31”) sembra esalare dolorosamente e vergognosamente dalle sue ferite. Ma lui non molla e (10’55”) il suo tema galante torna a farsi udire in DO maggiore, poi in SI - mentre la tromba ci ricorda le sue letture - seguito da quello vanesio (11’17”) che ci assicura che il nostro è più che mai... in sella!

5. Variazione II: Battagliero. La lotta vittoriosa contro un gregge di pecore l’esercito del grande imperatore Alifanfaron e di Pentapolin, Re di Garamantas. (Libro I, Capitolo XVIII).
Per confermarci che il Don è al massimo della prestanza fisica, il suo tema cavalleresco, nello splendore del RE e opportunamente irrobustito, viene esposto (11’25”) da ben tre violoncelli solisti; e si arricchisce (11’32”) di una variante invero eroica! Ed ecco che (11’44”) il temibile nemico si presenta in tutta la sua... belante baldanza. Mentre le viole sembrano evocare il polverone sollevato dai quadrupedi, sono i fiati (gli ottoni tutti con sordina) a dipingere mirabilmente – attraverso l’emissione del suono mediante oscillazione della lingua - la scena del gregge di pecore belanti che si avanza verso i nostri eroi. Con una chiara allusione al Tell (12’03”) i legni espongono semiminime alternate a terzine con andamento fortemente ondeggiante: l’esercito è ormai a tiro e il tema cavalleresco del Don (12’31”) lo affronta in campo aperto. La battaglia è dura, dato l’impari rapporto di forze, il belare delle bestie diventa parossistico, ma alla fine (12’48”) l’eroe ottiene la prima delle due sue sole vittorie, suggellata dal suo terzo tema, chiuso poi da un’enfatica cadenza attorno alla tonica RE.    

6. Variazione III: Tempo moderato. Dialogo fra il cavaliere e il suo tirapiedi. Pretese di Sancio e promesse di Chisciotte. (Libro I, Capitoli X-XVIII-XIX).   
È la variazione più corposa dell’opera e si divide chiaramente in due parti: il dialogo fra i due protagonisti e poi la vision del Don scaturita dalle sue letture. È Sancio (13’03”, tuba e clarinetto basso, come subito dopo) che pare chiedere la parola, con il suo primo tema; il Don gli risponde (13’09”, flauti e oboi) con il tema cavalleresco. Ancora Sancio (13’17”) e nuovamente il Don (13’23”) questa volta con il tema galante. Adesso (13’30”) Sancio comincia ad agitarsi (è la viola che espone il suo secondo tema petulante) e il Don ribatte (13’35”) con il suo terzo tema. Il tutto si ripete ancora più volte, con una insistente accelerazione di Sancio, che culmina a 14’13”. Qui il Don interloquisce con il suo tema cavalleresco (variato in minore) e poi (14’32”) con quello galante, in DO. Ora Sancio si fa più impertinente e il Don fatica a tenergli testa (è il suo terzo tema che ci prova). Sancio si imbarca poi (15’21”) in un vero e proprio discorso che culmina (15’48”) nel pedante saliscendi sull’arpeggio di RE maggiore. E da qui il nostro si lancia in nuove disquisizioni (16’03”) e con altri importanti argomenti (16’21” e poi 16’34”) forse volti a dissuadere il Don dalle sue velleità, fino a saturare la pazienza del padrone, che reagisce (16’42”) in modo quasi violento, con il suo terzo tema, che ora si sfoga fino a chiamare in causa le sue dotte conoscenze (16’52”, tema enfatico delle letture). Ed ora Sancio stia un po’ zitto, poichè il padrone sta per impartirgli un’autentica lezione sulle imprese cavalleresche! Inizia qui (17’08”) la seconda parte della variazione, una terza piena (FA# maggiore) sopra la tonalità di base (poichè ci si sta elevando a nobilissime altezze). È occupata dalla visione di un fantastico viaggio verso la gloria, che il Don ci espone appoggiandosi al tema delle sue letture. Il quale si ripresenta, maestoso e solenne, per ben 7 volte toccando ogni volta note sempre più alte: (mediante, dominante, tonica, mediante abbassata, dominante, sopratonica, mediante). Infine, quasi inevitabilmente (18’42”) si trasfigura nel tema di Dulcinea, poichè è la nobile dama l’oggetto e il fine delle imprese sognate dal Don. Tema che ricompare fugacemente (19’09”) in SOL maggiore, per poi (tornando al FA#) lasciare spazio (19’32”) ad un ritorno davvero imponente del tema galante del Don, che si innalza sontuoso e poi insiste con una lunga cadenza a lunghezze sempre più strette sulla mediante LA#, chiusa (19’59”) con una coda che lascia spazio (20’12”) ad un ultimo ritorno nel violoncello solo del tema delle letture, seguito a ruota (20’19”, in SOL maggiore, nell’oboe) da quello di Dulcinea. Adesso persino Sancio (20’31”, tuba tenore e clarinetto basso) pare lasciarsi convincere dagli argomenti del padrone! È ancora il violoncello (20’45”) a riproporre il tema delle letture, ripreso nella forma variata da trombe e tromboni. La variazione sembra chiudersi su un dolce accordo di FA# maggiore (21’24”) senonchè gli segue un ultimo apprezzamento di Sancio (nel clarinetto basso) a cui il Don risponde indispettito con il suo terzo tema, che porta direttamente alla successiva variazione.

7. Variazione IV: Poco più largo. Incontro sfigato con una processione di pellegrini banda di sequestratori. (Libro I, Capitolo LXII).
Il Don (21’47”) parte alla ventura, con il suo tema cavalleresco, ora in RE minore. Su ogni battuta di 4/4 il primo è di pausa, seguito da tre con terzine proprio scalpitanti (è Ronzinante che ha un passo evidentemente sghembo...) In lontananza (22’23”) si intravede una processione che reca la statua della Madonna. Sono trombe, tromboni e fagotti (strumenti da chiesa) ad esporre un mesto corale, mentre il clarinetto basso e poi l’oboe ripetono l’inciso già apparso e come incipit in un motivo dell’introduzione (a 3’41”). Il Don si mette in testa che si tratti di una banda di sequestratori che si portano via una dama, così (22’51”) passa all’attacco, ma subito (22’56”) viene abbattuto e stramazza rovinosamente al suolo. La processione si allontana (22’56”) lasciando l’eroe privo di sensi. Sancio (23’15”) lo crede forse morto, ma uno spezzone del tema cavalleresco lo convince del contrario, così lui si prepara a fare una bella dormita, accompagnato da due sonori sbadigli (23’32”) di tuba e controfagotto.    

8. Variazione V: Assai lento. La veglia in armi, pensando a Dulcinea lontana. (Libro I, Capitolo III).
Il Don, evidentemente ancora intontito, adesso sogna (23’47”) una veglia in armi. È l’inciso non proprio consolante che accompagnava la processione che continua a occupare la sua mente, sviluppandosi in un lungo e struggente recitativo del violoncello, che all’inizio il corno contrappunta sommessamente con il tema della sua Dulcinea. Tema che poi ricompare (25’26”) ripetuto e poi letteralmente circonfuso (25’47”) di un’aureola celestiale. Il tema galante del Don (25’59”, molto appassionato) si ripresenta, sfumando (26’15”, in RE minore) ancora su Dulcinea; poi riprende il recitativo che culmina in una riapparizione (26’51”) del tema galante del Don seguito (27’29”) da quello, ora in SOL maggiore, di Dulcinea, dal quale si modula al RE maggiore per la sognante chiusura della variazione.      

9. Variazione VI: Veloce. Incontro con una bifolca che per Sancio sarebbe Dulcinea affatturata. (Libro II, Capitolo X).
Su un tempo di danza di 5/4 (2+3) i due erranti incontrano (27’55”) tre ragazzotte puzzolenti d’aglio a cavallo di asini e Sancio assicura il Don che una di loro è Dulcinea vittima di un malefico incantesimo. Il Don (28’05”) le porge omaggio, con ben tre esibizioni del suo tema galante, chiuse (28’18”) da altrettante perentorie scappellate. Adesso (28’22”) anche Sancio lo imita, apostrofando la bifolca (28’32”, nella viola) con il tema di Dulcinea. Lei però si spazientisce e se ne fila via lasciando i due con un palmo di naso, evocato (28’56”) da due ritorni del terzo tema (quello vanesio) del Don.

10. Variazione VII: Un poco più tranquillo di prima. La cavalcata fra le nuvole. (Libro II, Capitolo XLI).
Il Don e Sancio sono vittime di uno scherzo perpetrato da due nobili che li ospitano: per rendere giustizia ad una donna barbuta vengono bendati e messi su un finto cavallo alato sul quale dovranno percorrere 9681 leghe in aria. I due abboccano e qui (29’09”) inizia il finto volo, con impiego della macchina del vento. Sono 11 sole battute su un pedale fisso di RE di contrabbassi e timpani (come dire: il finto cavallo alato è ben fermo a terra!) sul quale i fiati gravi (corno inglese, fagotti, controfagotto, tromboni e tube) descrivono le ampie volute dell’immaginario ippogrifo, mentre gli altri strumenti espongono i temi della lettura, del Don e di Sancio che letteralmente volano nello spazio, in un’ubriacante passeggiata chiusa da un borbottio di fagotti e controfagotto.

11. Variazione VIII: Comodo. Viaggio sfigato sulla bagnarola incantata. (Libro II, Capitolo XXIX).
Il Don porta Sancio su una zattera che spinge nella corrente del fiume (30’25”) e il suo tema galante, in FA, continuamente ripetuto ad altezze diverse, lo segue nel suo viaggio verso immaginarie imprese, mentre archi e strumentini evocano il gorgoglio dell’acqua e i corni sostengono il ritmo di barcarola. Ma si arriva ad una diga che alimenta alcuni mulini (31’22”) e i nostri, per evitare di essere affettati dalle pale, si buttano in acqua, e vengono salvati da mugnai che il Don aveva scambiato per diavoli. Portati a terra (31’37”, la tonalità è passata a RE minore) li vediamo fradici e sgocciolanti (il pizzicato degli archi, dapprima sul tema delle letture e poi - 31’49” – dopo quello di Sancio). Un religioso corale in RE maggiore nei fiati (32’00”, sempre sul tema delle letture) evoca l’implorazione di Sancio a far finire questo supplizio.  

12. Variazione IX: Veloce e tempestoso. Lotta contro due supposti maghi monaci benedettini a cavallo di mule grosse come dromedari. (Libro I, Capitolo VIII).
Su un agitato RE minore, il tema cavalleresco del Don, divenuto quanto mai minaccioso (32’16”) si slancia per quattro volte verso due malcapitati monaci che cavalcano due grosse mule. Due fagotti (32’32”) evocano le giaculatorie dei religiosi, che il Don scambia per formule magiche e così si scaglia (33’20”) contro i due costringendoli ad una velocissima fuga, inseguiti dai suoi improperi (quattro schianti degli archi, 33’27”).

13. Variazione X: Molto più largo. Secondo combattimento contro il cavaliere della Bianca Luna. Chisciotte, sconfitto, si dà all’ippica alla pastorizia. (Libro II, Capitolo LXIV-LXVII-LXIX).
Dopo aver cercato senza successo (come Cavaliere degli Specchi) di convincere il Don ad abbandonare le sue fisime sui cavalieri erranti, il suo buon vicino Samson Carrasco torna alla carica (travestito da Cavaliere della Bianca Luna) e stavolta la spunta lui. La battaglia tra i due è evocata (33’29”) dal tema delle letture (tromboni e corni) cui seguono spezzoni dei tre temi del Don. Ancora le letture (33’39”) che introducono il tema brutale di Carrasco, mutuato da quello della processione (variazione IV) e della veglia (variazione V). Ed è questo tema ad imporsi selvaggiamente, sovrastando ciò che resta delle letture del Don e dello stesso eroe, con il violoncello ridotto a semplici balbettii. Così (34’14”) al Don non resta che la rinuncia e il ritiro in campagna. È una vera e propria (o... impropria) marcia funebre in RE minore quella che ascoltiamo, scandita dai secchi rintocchi in LA del timpano: vi distinguiamo ripetutamente il tema galante del Don, che però si affloscia sempre con mestizia, e l’immancabile motivo delle  letture. Poi ecco una prima apparizione di Sancio (34’46”, tuba tenore) e quindi una seconda (35’04”) finchè arriviamo al ritiro del Don a fare il pastore (35’29”, corni e poi corno inglese, sul già citato motivo rossiniano dal Tell). A quanto pare anche Sancio (35’40”) sembra gradire il ritorno alle... stalle, visto che le stelle son mancate! Ancora spezzoni dei temi del Don e delle letture, poi il timpano (36’32”) torna a martellare i suoi rintocchi a morto, mentre il secondo e terzo tema del mancato eroe sembrano proprio cadere sotto i colpi del destino. È proprio l’agonia di Chisciotte e l’atmosfera (37’00”) si fa sempre più rarefatta, il violoncello ancora esala stancamente poche note (LA-SIb, quasi un faticoso respiro) prima di chiudere la variazione, con violini e arpa, sull’accordo di dominante di RE. 

14. Finale: Assai tranquillo. Ritorno in sè. Vita contemplativa. Morte. (Libro II, Capitolo LXXIV).
Ma il nostro eroe non è ancora del tutto finito. Il suo violoncello (38’11”) sembra leggergli ancora le fantastiche avventure dei cavalieri erranti, ma adesso si tratta dell’avventura esistenziale del Don che arriva alla conclusione, mirabilmente espressa dalla lunga melodia in RE maggiore che sale progressivamente fino a toccare la dominante (LA acuto, a 39’11”, contrappuntato dalla tromba) da cui ripiega verso il basso, sfociando (40’06”) negli spasimi della morte, sottolineati dalle biscrome degli archi. Il motivo che per il Don rappresenta la sventura torna a farsi udire (40’21”) ma sfuma in quello cavalleresco, che subito dopo (40’57”) flauti ed oboi ripropongono ad accogliere (41’02”) il tema di Dulcinea. Ancora il tema galante (41’30”) in violini e viole torna ripetutamente, poi ecco di nuovo (42’26”) quell’inciso menagramo, quindi (42’37”) il terzo tema del Don, qui davvero nobilitato dal clarinetto. Torna il violoncello di Chisciotte a riproporre (42’49”) il tema ostile, ma infine (43’15”) il terzo tema del Don porta al celestiale RE maggiore conclusivo.
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L’orchestra è schierata con le viole al proscenio, così da mettere in primo piano la Miho, mentre Scarpolini è sistemato proprio dietro il podio, avendo alle spalle a sinistra i colleghi. Il suo strumento ha un suono molto scuro nei gravi e squillante negli acuti, quindi mi pare perfetto per impersonare un tipo come Don Chisciotte (e come l’ha dipinto Strauss). La parte è assai impegnativa (si usa dire che si tratta quasi di un concerto per violoncello e orchestra) e ciò aumenta i meriti di Scarpolini, che ha mostrato di averla assimilata al meglio.

La partitura è così ricca che oggettivamente non è facile far emergere tutti i minimi dettagli (temi spesso solo accennati, magari in mezzo a pieni orchestrali) e da questo punto di vista qualcosa può essere migliorato, tuttavia mi è parsa nell’insieme un’esecuzione più che dignitosa.

Era lodevole l’idea di proiettare sugli schermi le didascalie delle diverse sezioni dell’opera: peccato però che dalla variazione 3 si sia saltati direttamente alla 8, e così qualcuno nel pubblico non si sarà raccapezzato nella trama del racconto di Cervantes-Strauss (speriamo che domenica le cose funzionino a dovere).

Alla fine gran successo per i solisti e per l’intera orchestra, la cui sezione dei celli ha voluto omaggiare il suo alfiere (più la... Dulcinea Miho) accompagnandoli in un pregevole bis