Chissà se Ioan Holender, Direttore della Staatsoper di Vienna, alludeva a Stefan Herheim,
allorquando ha affermato che Bayreuth, per risollevare il suo declinante livello artistico, dovrebbe affidare le messeinscena a dei registi professionisti e non a sperimentatori che possono al più interessare qualche giornalista specializzato...
Il regista norvegese ha già fatto scandalo più volte, specialmente con un
Ratto presentato anni fa a Salzburg, che ha anticipato le scempiaggini di quello di Calixto Bieito.
L’anno scorso ad Essen ha ambientato il
Don Giovanni in una
Chiesa, con gente che amoreggia nei confessionali, dopo la comunione (e fermiamoci pure qui con i piccanti particolari...)
Intendiamoci: il nostro è di un’intelligenza sopraffina, e soprattutto di una fantasia davvero fuori dal comune, un vero vulcano di idee, una più brillante dell’altra.
Dice infatti: “Il potere della musica e l’aura che emana da un’opera evoca in me immagini ed idee che poi io rafforzo attingendo ad un sacco di letteratura”.
In sostanza, il genio procede pressappoco su questo iter:
1. ascolto della musica, in cerca di cesure (sic) da cui trarre ispirazione, e ingestione di un bel po’ di letteratura, tanto per farsi un’idea del soggetto dell’Opera;
2. trasposizione - arbitraria e fantastica - del soggetto in chiave moderna, o futuribile, o con riferimenti all’attualità, o a filosofie e ideologie le più svariate, derivandone una personale concezione (Konzept), in sostanza un proprio messaggio da trasmettere allo spettatore (messaggio che quasi mai ha a che fare con il soggetto originale dell’Opera);
3. invenzione di sana pianta di un’ambientazione (addirittura dei dialoghi, nel caso del Ratto!) coerente con il soggetto così trasposto (non con quello originale) e possibilmente infarcita di sesso e violenza, ingredienti che oggigiorno pagano regolarmente.
Un aspetto peculiare dell’approccio di Herheim (e dei suoi amici che fanno fortuna con il Regietheater) è quello di porsi come maieuta dell’umanità. Proprio così: il regista, inscenando l’Opera (non sua, si badi bene, ma di altri e più famosi autori) deve insegnarci qualcosa. Perchè lui è il maestro e noi siamo il popolo bue cui il maestro si degna di aprire gli occhi. Riguardo al suo Ratto, con quest’opera lui ci vuole mostrare che “...la vita è un labirinto sensuale ed emotivo” (e quale mezzo migliore di un atto di fellatio può efficacemente spiegarci tale concetto?)
Ed ancora (sui confini e i limiti della libertà del regista) il nostro così pontifica:
“Il confine per me sta dove non posso più vincere l’intima resistenza di un pezzo, per teatralizzarlo come forma educativa e con ciò suscitare nell’Uomo di oggi una reazione che vada al di là del puro divertimento, ma che abbia a che fare con domande etiche e filosofiche, e anche con problemi riguardanti la coscienza, il coraggio civile e la responsabilità storica. Si deve cogliere la possibilità di portare nel mondo qualcosa, non necessariamente di politico, che poi si agiti nella testa dello spettatore.”
Sono quasi le stesse parole che usa il suo antesignano yankee
Peter Sellars:
“Ogni mio spettacolo nasce come riflessione su una problematica particolare, o come scoperta di certe implicazioni di cui non si discute abbastanza. L’estetica non mi interessa ci sono prima delle questioni etiche, politiche, economiche; ogni mio lavoro tocca temi che rimettono profondamente in discussione. È questo che dà senso al teatro, perché il teatro è il luogo per affrontare le discussioni che la gente rifiuta nella realtà.”
Chiaro abbastanza, no? Qui è racchiusa tutta la verità sul fenomeno che va sotto il nome di Regietheater, una serie di equivoci e di mistificazioni, che nascono fondamentalmente da tre fattori: la totale mancanza di rispetto per ciò di cui ci si occupa, l’idea che l’opera d’arte altro non sia se non uno strumento da usarsi (e manipolarsi) a “fini educativi”, il tutto condito da un esaltato egocentrismo (io, regista, sono l’unico furbo, capace di spiegare le recondite implicazioni dell’opera ad una massa di sprovveduti... voi, che per questo pagherete il biglietto).
Ora, se si pensa a
Parsifal, c’è da rabbrividire solo ad immaginare tutte le possibili
idiozie che se ne possono derivare, con un minimo, ma proprio minimo, di fantasia. E Stefan Herheim di fantasia ne ha fin troppa! Così pare abbia cominciato col pensare al
conflitto di civiltà Islam-Occidente, che può da solo ispirare mille geniali trovate (che ne dite di Parsifal-Bush che spiana Klingsor-Osama con una lancia a testata nucleare?)
Altri invece ci informano che il 25 luglio sul palco del Festspielhaus compariranno - a spiegarci cosa sia il
Gral e a cosa servano i suoi cavalieri - personaggi che negli anni ‘40 sedevano sulle scomode poltrone della degradante platea, impettiti nelle loro
brune uniformi. Indirettamente ce lo conferma
Daniele Gatti: «Posso anticipare che l'idea è di un viaggio attraverso il mito tedesco, dal tempo della «prima» del Parsifal nel 1882, poi la prima Guerra mondiale, Weimar, l'avvento del nazismo. Un percorso di 50 anni».
Quindi, dobbiamo aspettarci un Gurnemanz che nel terzo atto compare nelle vesti di
Heinrich Himmler? E Parsifal che - in pieno
Karfreitag - impersonifica il
Führer (magari sulla scia delle caricature anni ’20 che raffiguravano Hitler bardato da Siegfried)? Se fosse così, il
Konzept di Herheim piacerebbe molto a Gottfried Wagner, che da quando fu cacciato da Wahnfried non fa che sostenere la
responsabilità oggettiva del bisnonno nei crimini del nazismo, olocausto incluso.
Insomma, aspettiamo senza ansia questa probabile ennesima parodia
nach Wagner (qualcuno sostiene che sarà comunque dura
far meglio di
Schlingensief).
Per il resto, raccomandiamoci al Daniele... che faccia almeno il bravo lui con la musica!
(continua)