affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

08 settembre, 2022

Matrimoni alla Scala

Off-topic: tanto per semplificare la vita al pubblico pagante, il Teatro – a partire da questo settembre – si serve di due diversi provider per la vendita (online ma non solo) dei titoli di ingresso:

- Ticket1 per i biglietti (di opera, balletto e concerti);

- Vivaticket per tutti gli abbonamenti.

La piattaforma Vivaticket ritorna quindi (per ora in… concubinaggio) come fornitore del Teatro dopo esserne stata allontanata alcuni anni fa, quando fu sostituita (dopo travagliato passaggio con ripetute false partenze e rinvii) appunto da quella di Ticket1.

Ovviamente le due piattaforme non si parlano e quindi i dati anagrafici (password incluse) vanno aggiornati separatamente a cura dell’utente.

Si stenta a credere che tale Jeff Bezos non abbia ancora messo gli occhi su questo lucroso business, offrendo biglietti e abbonamenti corredati (sinergie sponsorie) da ricche parure per le ladies e preziosi orologi per i gentlemen accompagnatori.
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Dopo soli (!) 42 anni il Teatro ripropone l’opera più famosa di Domenico Cimarosa, Il matrimonio segreto. La prima recita è stata sottratta (senza diritto a sconti, hahaha) agli abbonati delle… prime dall’anticipo al 5 settembre della recita Under30 (programmata in origine come ultima, il 22/9): un po’ come si fa a SantAmbrogio, ecco…

La penultima (a questo punto) recita del dramma giocoso risaliva a venerdi 6 giugno 1980, con la regìa di Lamberto Puggelli e la bacchetta di Bruno Campanella. Dal ‘49 al ’63 la regìa era stata del grande Giorgio Strehler. A partire dal 1955, l’opera era stata ospitata dall’allora nuovissima (e ahinoi defunta nel 1983 e mai abbastanza rimpianta) Piccola Scala.

Il Teatro affida questa ripresa al Progetto Accademia, dando così modo a giovani cantanti e strumentisti di rompere il ghiaccio con il vasto pubblico. L’unico fuori-quota (per le due prime recite) è il veterano Pietro Spagnoli, nei panni del presuntuoso (e pure sordo) padrone di casa. Sul podio (e al continuo) va il collaudato Ottavio Dantone, mentre la regìa è affidata alla parigina - figlia d'arte - Irina Brook.

Pubblico non oceanico, ma abbastanza ben disposto ad apprezzare i futuri talenti sfornati dall’Accademia: tutti i numeri dell’opera (16, esclusi i finali) e la sinfonia hanno ricevuto applausi di consenso, che alla fine si sono ulteriormente irrobustiti.

Personalmente associo tutti i cantanti in un unico giudizio positivo e… incoraggiante, segnalando un mia predilezione per la Carolina di Aleksandrina Mihaylova e il Conte di Jorge Martinez.

Dantone ha guidato da par suo (anche dalla tastiera, affiancata da quella di Eric Foster) i cantanti sul palco e – in buca - l’accademica Orchestra che si è distinta per il suono trasparente e di colore davvero settecentesco, con stilemi e contenuti che richiamano scopertamente Mozart (più che Gluck…) e anticipano il primo Rossini (che emetteva i primi vagiti precisamente 22 giorni dopo il trionfo viennese del Matrimonio…)
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Spettacolo di alto, se non altissimo, gradimento. La Brook (che inspiegabilmente non è uscita - nonostante Spagnoli si sbracciasse a chiamarla - a raccogliere quelli che sarebbero stati meritatissimi applausi) ha proposto un’ambientazione moderna (smartphone e tablet, per dire, con una moderata razione di Kitsch) grazie a scene spartane e costumi appariscenti di Patrick Kimmonth, ben illuminati da Marco Filibeck.  

Qualche… ehm, caduta di stile in un paio di scene osè (per educande) le può essere perdonata. Così come la dubbia efficacia della presentazione - durante l’esecuzione della Sinfonia - di antefatti (vedi il rapporto Paolino-Carolina) o… postfatti (Conte-Elisetta).  

Insomma, a conti fatti mi pare una proposta più che dignitosa per ripartire dopo le ferie: ci aspettano ora una Fedora (dopo 18 anni…) e uno Shakespeare rivisitato in chiave moderna. Poi sarà ancora SantAmbrogio, con Musorgski (CoPaSiR permettendo…)

21 agosto, 2022

ROF-43 live: Otello

In una Vitrifrigo-Arena con almeno il 20% di poltrone vuote (ahi ahi…) il cartellone principale del ROF-XLIII ha emesso ieri sera il suo ultimo vagito, con la quarta recita di Otello, nuova produzione curata dalla coppia Cucchi-Abel. Qui il video della precedente realizzazione del 2007. Qui invece l’audio della prima dell’11 scorso.

In una stringata paginetta sul programma di sala, Rosetta Cucchi individua lucidamente i due pilastri sociologici della tragedia di Shakespeare, pur maldestramente adattata dal gallico Jean-François Ducis per il mercato francese e a ruota dal nobile librettista partenopeo, il Marchese Francesco Berio di Salsa (in origine Salza) al servizio del giovane e rampante Gioachino.

E i due pilastri sono le personalità (gli stereotipi, potremmo dire) di Otello e Desdemona. Sì, perché la tragedia del bardo di Stratford-upon-Avon titola The Tragedy of Othello, the Moor of Venice ma è in realtà la storia di Othello and Desdemòna. Proprio Desdemòna, con l’accento sulla… mòna, come soleva sottolineare argutamente il venerabile professor Carlo Bo nelle sue lezioni di inglese all’Università Commerciale Luigi Bocconi (quando ancora vi si sfornavano laureati in lingue e letterature straniere… mica solo i futuri finanzieri alla Draghi o gli economisti da strapazzo alla Giorgetti!)

Dunque: Otello, o l’incarnazione del diverso, un essere umano che a noi del Nord del mondo risulta abbastanza ripugnante, non fosse altro per il colore della pelle (nera-nera o anche solo olivastra, non fa differenza). Poi, se vince sotto le insegne tricolori qualche battaglia, oppure addirittura un’Olimpiade, sempre un alieno rimane.

La Desdemòna di Shakespeare incarna invece lo stereotipo della donna ridotta ad oggetto di consumo, cui si nega qualsivoglia autonomia e autodeterminazione. Se poi è una delle nostre che se la fa con il diverso, apriti cielo e pollice… verso!

Dunque, la Cucchi mostra di aver colto in pieno i due aspetti del dramma che lo rendono di assoluta attualità anche ai giorni nostri, caratterizzati da proclami para-razzisti di chi vorrebbe buttare a mare chiunque si avvicini a Lampedusa e femminicidi dilaganti, in nome del diritto di possesso del maschio: i ritagli di giornale proiettati mentre Ives Abel dirige passabilmente bene la Sinfonia ce ne danno prova.

Quindi: tutto a posto? Mah, la corretta analisi che la regista fa del soggetto, nella sua sostanza, viene in buona parte contraddetta dalla forma impiegata per portarlo sulla scena. Sì, perchè un’opera teatrale, oltre che presentare contenuti più o meno pertinenti con la realtà in cui vive lo spettatore, si caratterizza anche (e soprattutto) sotto aspetti che riguardano strettamente l’Autore (o gli Autori) dell’opera medesima e la loro concezione (sotto il profilo letterario e musicale) artistica ed estetica. Non a caso, tanto per schematizzare al massimo, si parla, nel teatro musicale, di classicismo, di romanticismo e di verismo, approcci artistico-estetici assai diversi fra loro (soprattutto nei contenuti musicali!) e piuttosto chiaramente associabili a periodi storici e alle relative produzioni. 

Ora vengo al dunque: Rossini come lo definiamo? Non certo romantico (o al massimo proto-romantico) né tanto meno verista. Peccato che la Cucchi abbia invece inscenato l’Otello di Rossini come un’opera di teatro squisitamente verista! E siccome – per nostra fortuna – Abel e tutte le voci impegnate sul palcoscenico hanno suonato e cantato il Rossini autentico (classico, come lui stesso  ebbe ad autodefinìrsi su Otello) ecco che si è creata una frattura quasi insanabile fra ciò che si sente (testo&musica) e ciò che si vede! Insomma: l’errore della Cucchi è lo stesso, ma proprio identico, a quello – tanto per fare un esempio ancora caldo – commesso da Mario Martone con il suo Rigoletto scaligero: tradire cioè alla radice l’approccio estetico dell’Autore.

Il primo atto è ambientato in una grande sala da pranzo con attiguo foyer dove gli invitati, fra i quali lo stesso Otello (?!) vagano chiacchierando amabilmente in attesa di accomodarsi alla lunghissima tavola e fregandosene del merito dell’evento e del premiato. Poi si accomodano a tavola e lì restano a pasteggiare ignorando, nell’ordine: l’esternazione e la cavatina di Otello, l’incontro Elmiro-Rodrigo e il successivo duetto Rodrigo-Iago. Insomma, una scena lontana le mille miglia dalla solennità dell’evento e della musica che lo sottolinea.

Il second’atto è ambientato nel guardaroba attiguo al salone, dove si aggirano inservienti che hanno il solo scopo di distrarre l’attenzione dello spettatore dal drammatico confronto Rodrigo-Desdemona e dalla confessione di quest’ultima ad Emilia. Verismo misto a comicità nella scena del diverbio Otello-Rodrigo, con i due che si sfidano alla roulette russa con un revolver che fa regolarmente cilecca, mentre per nostra fortuna i DO e i RE sovracuti sparati dai due vanno perfettamente a segno! Poi Desdemona, invece di svenire, casca al suolo maltrattata con crudo verismo da Rodrigo (ma ovviamente anche Iago con le femmine che gli capitano a tiro non scherza, in fatto di sexual harassment…) La scena di Emilia che soccorre la padroncina è anch’essa funestata dalla gratuita e disturbante presenza di comparse. Poi nel finale le damigelle del coro appaiono tutte macchiate di sangue, per ricordarci che sono… carne da macello.

Nel terzo atto, invece dell’intimità della camera da letto di Desdemona, torna in primo piano la gran tavola da pranzo, attorno alla quale la povera donna si dispera, poi ascolta il gondoliere, canta meravigliosamente le sue canzoni e infine vi si addormenta sopra, raggiunta poi da Otello che la finirà (forse) per shakespeariano soffocamento, strangolata con la di lei sciarpona. Si riapre alle spalle la vista sul foyer, dove ad un’altra tavola stanno banchettando gioiosamente gli invitati, tutti felici e contenti per lo scioglimento del dramma e il prossimo lieto fine (quello del 1820 a Roma?!) Ma Otello – non si sa con quale strumento – li delude, chiudendo l’opera come si deve.

Il pubblico di ieri sera ha accolto la Rosetta solo con applausi, depurati da mugugni e dissensi che si erano chiaramente uditi alla prima. Evidentemente viene confermato il moderno andazzo di giudicare prestazione musicale e presentazione scenica come due compartimenti stagni del tutto indipendenti, dimenticando di valutare – sul piano estetico - la coerenza tra le due componenti essenziali del teatro musicale.
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Detto dell’allestimento, non mi resta che accomunare in un giudizio di assoluta positività l’intera compagnia di canto (solisti e il coro di Farina) e i Musikanten della OSN-RAI, diretti con salda autorevolezza dal veterano Abel. Punte di eccellenza per i due protagonisti, Eleonora Buratto (una Desdemona vocalmente perfetta) ed Enea Scala (più tenore che bari-tenore, ma ci sta). Ma sugli scudi anche Dmitry Korchak (che farebbe bene a ri-dedicarsi solo al canto, lasciando le velleità di Kapellmeister ad un lontano futuro…) e Antonino Siragusa. Evgeny Stavinsky mi ha lasciato ancora qualche perplessità, per alcune forzature vociferanti, mentre più che discretamente ha fatto Adriana Di Paola come Emilia. Julian Henao Gonzales ed Antonio Garès hanno completato dignitosamente il cast.
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Il ROF-XLIII chiude i battenti questa sera con il Gala per i 40 anni pesaresi di Pier Luigi Pizzi. Dato che io ho un filino di idiosincrasia per questo tipo di spettacoli, non sarò alla famigerata Vitrifrigo Arena, ma nel cuore della città, a seguirlo in mezzo alla ggente di Piazza del Popolo, dove come sempre verrà irradiato su schermo gigante a cura del Comune.

Poi, arrivederci – Meloni permettendo, hahaha! - al 2023, quando finalmente il Festival toglierà anche l’ultimo zero dal suo glorioso tabellino: Eduardo&Cristina

17 agosto, 2022

ROF-43 live: Le Comte Ory

Terza recita, ieri sera alla Vitrifrigo Arena, de Le Comte Ory, nella nuova produzione targata DeAna-Matheuz. Qui l'audio della precedente realizzazione del 2009. Qui invece l’audio della prima del 9 scorso.

Vitrifrigo Arena non propriamente esaurita, ma abbastanza densamente popolata da un pubblico ben… caricato.

Che cosa sia, in termini di genere, quest’opera è cosa a prima vista inafferrabile, tanto che musicologi e critici si sono spesso divisi su come battezzarla. Due eccellenti saggi (a firma di Emanuele Senici e Mark Everist) comparsi sul programma di sala del ROF ci aiutano a districarci in questa specie di labirinto.

Intanto: l’Ory, pur essendo stato espressamente commissionato e messo in scena dall’Académie Royale (aka l’Opéra) manca dei principali requisiti imprescindibilmente prescritti dal capitolato tecnico del Teatro in fatto di GrandOpéra: è in soli 2 atti (anziché 4 o 5); non prevede alcun balletto; ed infine ha un soggetto lontano le mille miglia da quello (a sfondo storico-epico) tipico di questo genere e più vicino caso mai (per struttura e contenuti) all’Italiana o al Barbiere o al Turco...

E allora come si spiega l’arcano? Col fatto che a Parigi stava prendendo piede, accanto al GrandOpéra, anche il PetitOpéra! Magari ottenuto per spacchettamento (via i balletti) di opere esistenti o, come nel caso dell’Ory, per riproposizione di musiche composte per altre opere (qui Il Viaggio a Reims) per supportare nuovi soggetti, facendone quindi la parodia. Opere quindi relativamente brevi che venivano poi rappresentate in abbinamento a balletti totalmente indipendenti nel contenuto: tutte le recite dell’Ory del 1828 (la prima e 9 repliche) furono immancabilmente appaiate a (6 diversi!) balletti.

Quanto al concetto di parodia, esso era inteso nel duplice significato di rivisitazione del contenuto musicale e di sdrammatizzazione o dissacrazione del soggetto. E l’Ory altro non è che una grandiosa parodia: travestimenti (Ory per primo, poi tutti i suoi compari); scambi di persona e qui-pro-quo (il terzetto finale) che sono elementi tipici della farsa; banalizzazione e ridicolizzazione di situazioni drammatiche (l’esplorazione dei sotterranei del castello da parte di Raimbaud, che ha contorni spaventevoli ma porta alla scoperta di una catasta di fiaschi e bottiglie di vino); comportamenti totalmente difformi dalle esternazioni dei personaggi (primo fra tutti, la Comtesse, ma anche il Gouverneur e Ragonde…)

Bene, a che scopo tutto ‘sto po’po’ di tormentone? Per definire non meno che geniale l’impostazione registica del mitico Hugo De Ana!

Che ha colto in pieno l’intima essenza e lo spirito dell’opera, restituendocela in tutto il suo irresistibile fascino. Si è ispirato per le scene (e in parte i costumi) al celebre trittico di Hieronymus Bosch del Giardino delle delizie, del quale compare subito in formato gigantesco il pannello di sinistra mentre la scena è occupata più spesso da elementi della parte mediana del pannello di destra (l’Inferno musicale, non a caso) ma anche di quello centrale.

Il trittico è una rappresentazione, dei concetti di ogni religione che si rispetti, oltre che della musica secolare e profana. Non è fuori luogo considerarlo una (involontaria?) parodia delle vicende umane e calza quindi come un guanto sul soggetto dell’Ory.

Il Conte, travestito da eremita, mostra in testa un paio di cornetti da diavolo; al momento del riconoscimento, scoprirà il suo vero abbigliamento da satana tentatore; poi catechizzerà Isolier munito delle due tavole mosaiche della legge, con i 10 comandamenti che si illuminano a comando.

La Comtesse esprime concetti quali fedeltà, rigore morale, austerità, sobrietà… nel mentre si comporta come una donna in cerca di… manico, con atteggiamenti ed abbigliamenti allusivi e provocanti (persino un accenno di pole-dance per Ory). Non parliamo della Ragonde, custode del castello e delle sue virtù, che invece organizza pellegrinaggi dal falso eremita per le mogli e fidanzate dei crociati lontani, in cerca di piaceri secolari.

Il Gouverneur si presenta come severo tutore del Conte, facendo fallire il suo primo approccio verso la Contessa; ma poi lo scopriamo in mezzo alla banda dei gaudenti amici di Ory nell’assalto alle donne del castello.

Il primo atto si svolge in un’atmosfera esilarante, occupato da masse femminili in costumi dai colori sgargianti, che si muovono (vedi la polonaise) in un giardino di delizie fatto di ortaggi e altre cibarie, messe in carrelli del vicino Spazio Conad…  

Il secondo atto si distingue per le scene dei bagordi di Ory&soci, interrotte dall’arrivo di Ragonde, che provoca la sparizione istantanea di bottiglie e fiaschi e la comparsa di luminose aureole sul capo delle finte monache.

Che dire del famoso trio? Lo vediamo in piena luce me le mosse dei tre protagonisti sono proprio quelle che si possono facilmente immaginare data la situazione di totale oscurità prevista dal libretto: con il povero Ory che è preso in mezzo da due donne (sì, perché anche Isolier lo è nella realtà anagrafica…) il che rappresenta il culmine della parodia!   

Insomma, tutta la messinscena merita una lode incondizionata, per il gusto e il garbo che mai scadono a volgarità (ricordo con ribrezzo una produzione di Pelly passata anche in Scala anni orsono) e sono certo che gli applausi del pubblico siano andati virtualmente anche al regista, pur assente alle chiamate finali.
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Anche sul fronte sonoro-canoro, buone se non ottime notizie. A cominciare da Matheuz, che alla radio mi era parso un tantino pesantuccio e che invece ieri ha ottenuto dai professori della OSN-RAI un risultato di tutto rispetto, per varietà di sfumature e adarenza allo spirito scanzonato della partitura. Il Coro del Ventidio Basso di Giovanni Farina ha da parte sua movimentato le brillanti scene d’insieme che costellano la partitura con apprezzabile qualità.

JDF è prevedibilmente stato il mattatore della serata: la voce cambia (non necessariamente in peggio) con gli anni e… il repertorio, ma insomma il nuovo Direttore artistico del ROF ha dimostrato di aver ancora molto, moltissimo da dire cantare anche in futuro!

Accanto a lui Julie Fuchs ha confermato in pieno (ed anzi in meglio) ciò che di buono aveva sciorinato alla prima: a teatro si sono potute ammirare ed apprezzare anche le sue innegabili doti di attrice, perfetta nella parodistica interpretazione della donna pia che nasconde un’eccezionale carica sensuale.  

Monica Bacelli poco meno che perfetta in Ragonde, e non solo per la presenza scenica, ma anche per la voce, che evidentemente non conosce età…

La travestita (come Isolier) Maria Kataeva ha ricevuto meritati consensi del pubblico, che l’hanno ripagata di una prestazione davvero all’altezza, un perfetto connubio di vocalità e presenza scenica. Anna-Doris Capitelli ha dato il suo piccolo ma importante contributo al successo dello spettacolo.  

Resta da dire dei due bassi della compagnia. Entrambi da elogiare, il Raimbaud di Andrzej Filonczyk, convincente in particolare nella sua esternazione del second’atto; e Nahuel Di Pierro, un Gouverneur che ieri mi è parso più a punto rispetto alla prima udita in radio.
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Concludo ribadendo il giudizio complessivamente positivo sulla serata, 10 e lode a De Ana e voti comunque alti a tutti gli altri protagonisti.

16 agosto, 2022

ROF-43 live: La Gazzetta

Rieccomi sulla riviera adriatica (dove all’apocalisse pronosticata da sedicenti saggi in conseguenza della caduta di supermario nessuno sembra far caso) per il mio personale esordio (come spettatore, s’intende) al ROF-XLIII. Assistendo alla terza recita de La Gazzetta, una ripresa rivisitata della fortunata produzione di Marco Carniti del 2015, che fu anche da me a suo tempo ammirata.

Dico subito che la serata è iniziata in tono minore, poi vivacizzatasi man mano: forse condizionata, chissà, dalla scarsità (molte, troppe poltrone vuote in platea e nei palchi) e iniziale freddezza del pubblico. Sta di fatto che il primo atto ha cominciato a prender quota solo al momento del famoso (perché ritrovato da pochi anni) quintetto Già nel capo un giramento Insomma, dopo l’ascolto della prima del 10 agosto in radio mi ero fatto aspettative migliori, ecco.    

Com’è noto, l’opera rappresentò l’esordio di Rossini in territorio buffo a Napoli, la capitale italiana (e forse europea, ai tempi, 1816) del teatro musicale. Ebbene: due napoletani veraci, Carlo Lepore e Maria Grazia Schiavo, hanno impersonato qui la coppia padre-figlia, Prosdocimo-Lisetta, in viaggio di piacere-interesse a Parigi, dando così anche un tocco di realismo alla vicenda improbabile che un altro napoletano, Giuseppe Palomba, aveva inventato (beh, insomma, facendosi aiutare da… Goldoni) per la speciale occasione.

Lepore è un perfetto Prosdocimo Storione, una specie di prototipo di personaggi cui darà vita il grande Totò, del quale non per nulla vengono richiamate alcune gag passate alla storia. Oltre che cantare da par suo, eccelle ovviamente nei frequenti parlati in partenopeo, che esigono nativa, quindi assoluta dimestichezza con quel dialetto. 

Lisetta, che il librettista presenta in modo (almeno apparentemente) contraddittorio, affibbiandole l’epiteto francamente equivoco di donzella scaltra e baggiana (!?) è resa in modo apprezzabile dalla Schiavo, che mette la sua abilità vocale nella coloratura al servizio della natura bifronte del personaggio. E inoltre la sua voce acuta e penetrante svetta sempre nei duetti e concertati.   

Fra gli altri protagonisti emerge prepotentemente, per vocalità e presenza scenica, Giorgio Caoduro, che passa autorevolmente dalla sua identità reale (Filippo, il locandiere) a quelle virtuali di quakero e turco. Qualche eccesso di forzatura nella parte acuta della tessitura non inficia il giudizio positivo sulla sua prestazione, confermato dalle ovazioni ricevute alle uscite finali, oltre che agli applausi a scena aperta dopo il duetto con Lisetta e la sua aria Quando la fama altera

Pietro Adaìni impersona un Alberto convincente, voce squillante e omogenea in tutta la gamma: dopo un esordio un poco trattenuto (Ho girato il mondo intero) anche lui è cresciuto meritando applausi con l’aria O lusinghiero amor.

Doralice è Martiniana Antonie, che mette in bella mostra la sua voce corposa di mezzosoprano, che dopo l’aria (di mano aliena, peraltro) Ah, se spiegar potessi, avrebbe anche meritato un applauso che invece il pubblico ancora freddino le ha negato. Prezioso anche il suo contributo ai concertati.

Con lei bene ha meritato l’altra mezzo, Andrea Niño, efficace Madama La Rose, vocalmente e scenicamente.

Alejandro Baliñas (Anselmo) e Pablo Gàlvez (Traversen) hanno onorevolmente completato la squadra delle voci.

Mirca Rosciani ha ben guidato il Coro (qui di soli maschi) del Teatro della Fortuna, componente non marginale dell’opera.  

Lodevole la direzione e concertazione del veterano Carlo Rizzi, bacchetta ambidestra... che ha ottenuto dalla Sinfonica Rossini (con la Filarmonica, una delle due belle realtà locali) un risultato di tutto rispetto: freschezza e trasparenza del suono, precisione negli attacchi, compattezza nei passaggi d’insieme.
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Come prevedibile, confermato il successo del 2015 per la proposta registìca di Marco Carniti, coadiuvato dalla sua squadra composta da Manuela Gasperoni per le scene, Maria Filippi per i costumi e Fabio Rossi alle luci.

Da ultimo lascio l’unico superstite (fra coloro che escono in scena) del 2015, Ernesto Lama, il Tommasino (quasi) muto che qui assume il ruolo del catalizzatore nelle reazioni chimiche: e anche ieri ha simpaticamente contribuito ad aggiungere verve a questo godibile spettacolo.       

10 agosto, 2022

ROF-43: le tre prime da Radio3

Una nuova produzione de Le Comte Ory ha aperto il 9 agosto a Pesaro (Vitrifrigo Arena) la 43esima edizione del ROF. Per quel che posso giudicare dall’ascolto radiofonico, una partenza decisamente positiva.

Cast ben assortito, capeggiato dall’inossidabile JDF, la cui voce non ha perso lo smalto di un tempo, resistendo bene all’inevitabile usura legata all’ampliamento del repertorio che ha caratterizzato questi ultimi anni del tenore peruviano.

Per me è stata una bella sorpresa la Contessa di Julie Fuchs (che prima avevo solo ascoltato in spezzoni del DVD del 2017 disponibili in rete): praticamente perfetta, timbro chiaro e pulitissimo, colorature impeccabili, voce svettante nei concertati, sensibilità espressiva sempre adeguata alla psicologia del personaggio.

Da apprezzare Maria Kataeva, che fra l’altro ha brillantemente contribuito, come Isolier, al mirabile quanto equivoco terzetto al buio del second’atto.  

Bene anche le due comprimarie: la veterana ma sempreverde Monica Bacelli e la giovane Anna Doris-Capitelli (uscita dall’Accademia).

All’altezza dei rispettivi compiti Andrzej Filonczyk e (un filino sotto) Nahuel Di Pierro. Così come il Coro del Ventidio Basso di Giovanni Farina, che ormai da qualche anno coabita con quello della Fortuna sulle scene pesaresi.  

Diego Matheuz ha guidato da par suo la ritrovata OSN-RAI, forse eccedendo nella corposità di suono (ad esempio nella polonaise del primo atto). Ma può essere impressione mia legata alla ripresa audio.

Successo pieno, si direbbe, anche se gli applausi mi pare non abbiano superato i 5 minuti… 
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La Gazzetta (ripresa/rivisitazione della produzione del 2015) è andata in scena il 10 agosto al Teatro Rossini, con un cast completamente rinnovato rispetto a 7 anni orsono (un’eternità, se si pensa che a Palazzo Chigi c’era tale Matteo Renzi al culmine della sbornia da successo, oggi mutatasi in disperata ricerca di un qualunque mezzuccio Calenda per evitare il definitivo trasloco nell'arido paese del nuovo rinascimento…)

Carlo Rizzi ha guidato la Sinfonica Rossini (che da qualche anno si alterna con l’omonima… Filarmonica come seconda orchestra del cartellone principale) in questa sbarazzina opera comica, mettendone in luce la freschezza dell’ispirazione rossiniana (genuina ma con spruzzate, anche abbondanti, di auto-imprestiti) coniugata con l’impronta napoletanissima del libretto di Giuseppe Palomba.

E il partenopeo Carlo Lepore ne è stato il protagonista assoluto, calandosi anche (complice Marco Carniti) nei panni del grande Totò, di cui ha citato testualmente alcune battute della famosa lettera dal film Totò-Peppino-Malafemmena

Come lo era stata Julie Fuchs per l’Ory, anche qui la protagonista femminile Maria Grazia Schiavo ha meritatamente guadagnato gli applausi del pubblico interpretando una Lisetta davvero convincente, per timbro di voce, varietà di virtuosismi ed espressività.

Sugli scudi anche Giorgio Caoduro, autorevole Filippo e Pietro Adaìni, un Alberto convincente e applaudito in particolare nell’aria del second’atto.

Gli altri interpreti tutti su un più che discreto standard, a partire dalle due voci femminili, la Doralice di Martiniana Antonie e la Madama La Rose di Andrea Niño; così come onorevoli mi son parse le prestazioni di Alejandro Baliñas (Anselmo) e Pablo Gàlvez (Traversen).

Apprezzabile infine l’apporto del Coro del Teatro della Fortuna di Mirca Rosciani che ha contribuito alla generale godibilità della serata.
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Otello (nuova produzione affidata alla pesarese Rosetta Cucchi) ha chiuso l’11 agosto (Vitrifrigo Arena) il primo dei 4 cicli di rappresentazioni del cartellone principale del ROF-43.

Un’edizione che sul piano musicale - almeno a giudicare dall’ascolto radiofonico e dall’accoglienza del pubblico – si direbbe sia di un livello più che apprezzabile, il che costituisce un buon viatico per chi come il sottoscritto si prepara a seguirla dal vivo nei prossimi giorni.

E una costante emersa dalle tre serate pare proprio essere l’affermazione delle altrettante protagoniste femminili di questo Festival: anche in Otello ha particolarmente brillato la Desdemona di Eleonora Buratto, trionfatrice della serata.

Accanto a lei i tre tenori protagonisti, tutti veterani del ROF – Enea Scala nel ruolo del titolo, Dmitry Korchak (Rodrigo) e Antonino Siragusa (Jago) – hanno completato un cast ben assortito e capace di valorizzare una partitura che è a torto troppo spesso sottovalutata, messa fatalmente in ombra dall’avvento della coppia di tali Verdi&Boito

Evgheny Stavinsky (un Elmiro un po’ troppo vociferante), Adriana Di Paola (un’onesta Emilia) e gli altri due tenori (Julian Henao Gonzales, apprezzabile Gondoliere e il Doge di Antonio Garès) hanno dato il loro onesto contributo alla riuscita dello spettacolo.

Ovviamente insieme al Coro del Ventidio Basso di Giovanni Farina e all’impeccabile OSN-RAI sotto la guida del solido Ives Abel, altro veterano avendo diretto a Pesaro fin dal 1995.

La radio ci ha portato anche reazioni del pubblico alle regìe, positive per Ory e Gazzetta e contrastate per Otello: vedremo poi dal vivo.


02 agosto, 2022

Arriva il ROF-43

Pesaro si prepara ad offrirci la 43esima edizione del suo Festival rossiniano, che può vantare il primato di non aver ceduto, nemmeno nell’annus horribilis 2020, al Covid (lo sbifido virus che spezzò le reni nientemeno che a Bayreuth, non so se mi spiego…)

Pur continuando a cantare (sarà protagonista nel Comte Ory) Juan Diego Florez da quest’anno è anche Direttore Artistico del Festival, il cui cartellone principale (ormai stabilmente strutturato su 3 titoli presentati 4 volte) va da martedi 9 a sabato 20 agosto. Il 21 seguirà la chiusura con un Gala in onore dei 40 anni di ROF di Pier Luigi Pizzi. Ma come sempre il programma presenta anche una lunga serie di eventi musicali.

Rimandato per l’ennesima volta il ritorno al vecchio, glorioso (e perennemente ristrutturando) Palafestival, gli spettacoli sono ospitati (Ory e Otello) alla Vitrifrigo Arena e (Gazzetta) allo storico Teatro Rossini, sistemato giusto in tempo…

Ory e Otello (due nuove produzioni, entrambe alla quinta presenza al ROF) e il Gala impegneranno la OSN-RAI, ormai stabilmente ospite del Festival, mentre La Gazzetta (quarta presenza al ROF, riallestimento dell’edizione 2015) vedrà in buca la Sinfonica Rossini. I Cori sono quelli locali del Teatro Ventidio Basso e del Teatro della Fortuna.

Radio3 – snobbata non senza buone ragioni l’apertura del caravanserraglio wagneriano per poi trasmettere (ma in diretta-differita) il primo ciclo del Ring - conferma la sua storica presenza e trasmetterà le tre prime (9-10-11 agosto, ore 20). Seguiranno (qui) sommari commenti dopo tali prime radiofoniche e qualche impressione più circostanziata dopo esperienza audio-visiva in loco. 

22 luglio, 2022

Muti chiude il Ravenna-Festival con la sua Cherubini

L’ultimo appuntamento del Ravenna-Festival 2022 (poi ci sarà la stagione operistica autunnale) è stato riservato al consorte della padrona di casa (aka Riccardo Muti) reduce dall’ormai tradizionale puntata delle Vie dell’Amicizia che quest’anno lo ha portato a Lourdes e a Loreto con la sua Cherubini e – doveroso rispetto all’attualità e al gemellaggio Ravenna-Kiev del 2018 – a componenti di Orchestra e coro dell’Opera Nazionale Ukraina, con un programma significativamente imperniato su Vivaldi-Mozart-Verdi ma con inserti ukraini e baschi nelle due tappe.

Ieri Muti si è invece esibito – al PalaDeAndré con la sola Cherubini (cui si sono aggiunti due strumentisti dell’Opera di Kiev, il primo oboe Dmytro Gudyma e la violinista Oleksandra Zinchenko) - in un concerto di insolita ma interessante impaginazione. Ha infatti aperto la serata la Sinfonia in DO maggiore di George Bizet, battezzata Roma perché colà composta in occasione della permanenza nella città eterna del vincitore del Prix-de-Rome del 1857. Rispetto a quella più sbarazzina del 1855, rivelata al pubblico a Bizet ormai scomparso da tempo, questa è un’opera più pretenziosa e cerebrale, che anticipa nella forma e nel contenuto il più famoso e posteriore Aus Italien di Strauss (brano prediletto dal giovane Muti in odore di… Scala): vi si evocano Roma (una caccia nella foresta di Ostia), Venezia, Firenze (una processione) e (proprio come Strauss) Napoli (carnevale).

Chissà se è l’ignoranza del pezzo ad aver portato il pubblico ad applaudirne regolarmente anche i tre primi movimenti. Va in ogni caso riconosciuto a Muti e ai suoi ragazzi di aver fato di tutto per… indorare la pillola, ecco!
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Dopo l’intervallo ecco un siparietto dedicato ad una premiazione: il Festival ha voluto così offrire un pubblico riconoscimento a Silvia Lelli che da 40 anni (con il compagno Roberto Masotti) fotografa artisti ed in particolare musicisti. Fra questi anche Muti, da lei seguito fin dai primi passi ed in particolare nei suoi anni di presenza alla Scala. Così il Maeschtre non ha perso l’occasione per suggerire al teatro che lo cacciò in malo modo di impiegare il materiale fotografico della Lelli per farci una mostra permanente…  
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Un brano che di solito apre la serata concertistica è stato invece qui eseguito per aprire la seconda parte del concerto: si tratta del brevissimo schizzo sinfonico (meno di 8 minuti, 82 battute in tutto) di Anatoli Ljadov, titolato Il lago incantato (ma anche Leggenda). Arabeschi dell’arpa e della celesta accompagnano le ondeggianti semicrome dei violini mutuate dal wagneriano Waldweben in un’atmosfera che non presenta nemmeno una piccola increspatura, terminando proprio come era iniziata e lasciando francamente perplesso l’ascoltatore che si aspettasse almeno un sussulto, non dico un temporale.

Anche qui facciamo i complimenti all’Orchestra per la raffinatezza e la trasparenza del suono, ingredienti indispensabili per non far scadere il pezzo nella banalità.
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Ha chiuso il concerto il celebre poema sinfonico di Liszt Les Preludes. Del quale ripropongo una succinta analisi pubblicata anni fa in occasione di un concerto de laVerdi.

Muti si è mantenuto fedele al suo approccio originale all’opera, approccio assai sostenuto e severo, come possiamo constatare in questa registrazione del 15 agosto 2012 a Salzburg con i Wiener. Ieri se possibile Muti mi ha dato l’impressione di calcare ancor più la mano in fatto di prosopopea e retorica.

Tanto per confrontare il suo approccio con uno assai diverso (che si materializza in quasi 2 minuti di durata in meno, su più di 17…) ecco come ci propose il brano Zubin Mehta con i Berliner, nel lontano 1995. Un’analisi più puntuale delle differenze mostra che esse non si distribuiscono uniformemente su tutta la durata del brano, il che porta a concludere che l’approccio di Mehta sia – nell’agogica quanto meno – assai più ricco di contrasti rispetto a quello di Muti.

Ma l’importante è che la Cherubini abbia confermato le sue ottime qualità (su quelle del Direttore-Fondatore non si discute…) che il folto pubblico non ha mancato di apprezzare distribuendo applausi e bravo! a tutti.

Altro intervento maieutico di Muti, che ha ricordato con colorite espressioni l’insipienza con la quale i nazisti impiegarono il tema principale dell’opera per farsi propaganda bellica… dopodichè ci ha lasciato con l’Intermezzo della Fedora, non senza una punta di bonaria polemica con i romagnoli, sedicenti esperti verdiani che però ignorano questa non disprezzabile musica di uno che veniva da… Foggia.
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Oggi sulle spiagge romagnole la vita riprende con il solito, sonnolento tran-tran: nessun sintomo (ancora) dell’apocalisse che si prevede scatenarsi sull’ingrato Paese reo di aver cacciato il suo magnifico quanto disinteressato benefattore…

18 luglio, 2022

Bayreuth di… piccolo cabotaggio?

A quanto pare il Covid, che aveva determinato l’annullamento della stagione 2020 e la ripartenza piuttosto asfittica del 2021, fa ancora sentire i suoi effetti, e anche l’edizione 2022 (n°110, a partire dal mitico 1876, che apre il prossimo lunedi 25) ne è vittima, con trafelati cambi all’ultimo momento. In ogni caso non è tale – almeno sulla carta – da destare grandissime aspettative.

Ci sarà il nuovo Ring, messo in scena da Valentin Schwarz, che fu appunto soppresso dal virus nel 2020 e poi ridotto nel ’21 alla sola Walküre (tre recite con allestimento semiscenico di Hermann Nitsch) e che doveva rivedere sul podio Pietari Inkinen, ora però covidizzato e sostituito da Cornelius Meister. Che sia un’edizione di passaggio era del resto chiaro in partenza a chiunque tenga presente che il (primo dei due) Ring del secolo XXI sarà ovviamente quello del 2026!

E non per nulla l’inaugurazione dell’edizione 2022 sarà affidata ad un nuovo Tristan, con regìa di Roland Schwab e diretto (in origine) da Cornelius Meister, il quale essendo però stato trasferito negli scantinati del Walhall lascia il posto allo svizzero (come attuale impiego) Markus Poschner. Produzione peraltro limitata a sole due recite, chissà se per la poca benzina rimasta a disposizione degli interpreti principali, tutti francamente in età pensionabile (della serie: tutto fa brodo…)

I collaudati Holländer (Oksana Lyniv), Tannhäuser (Axel Kober) e Lohengrin (Christian Thielemann) completano il cartellone, che comprende anche due concerti diretti da Andris Nelsons (antologie da Holländer, Tannhäuser e Tristan).

Le 5 recite di Lohengrin consentiranno a Thielemann (non più Direttore Musicale del Festival) di incrementare il suo primato di presenze sul podio, arrivate (a partire dall’esordio del 2000) a quota 184.

Il disinteresse per il Festival ha contagiato persino i patitissimi di Radio Clasica, che diserteranno anche la prima. Assente anche Radio3, mentre restano ovviamente sul pezzo i bavaresi 

04 luglio, 2022

Gidon Kremer a Ravenna con cambio di programma

Altro appuntamento di lusso al ravennate PalaDeAndré con la mutiana Orchestra Cherubini e due celebrità della musica sinfonica: Christoph Eschenbach e Gidon Kremer. Programma annunciato come tutto russo (alla faccia del CoPaSiR, haha) con un’opera di rara esecuzione di Mieczysław Weinberg e una di Ciajkovski che più inflazionata non si può.

Ma all’ultimo momento ecco la sorpresa: via il problematico Weinberg per far posto ad un raro Schumann della trascrizione dell’Op. 129. (Voci trapelate dal palco attribuiscono la causa a problemi fisici del violinista lettone.)  

Un vero peccato non poter ascoltare questo Weinberg, nato in Polonia (come tradisce il suo nome) nel 1919 ma poi emigrato in URSS nel ’39 per sfuggire al nazismo e che quindi oggi passa per compositore conterraneo di Shostakovich, da cui effettivamente ha mutuato parecchio dello stile, oltre ai fastidiosi problemini di… convivenza con lo stalinismo.

Il suo Concerto per violino è del 1959 e fu dedicato al sommo Leonid Kogan, che lo interpretò nel 1960 con la Filarmonica di Mosca diretta da Kirill Kondrashin. Poi però Weinberg cadde purtroppo nel dimenticatoio e fu proprio Gidon Kremer a resuscitarlo, riproponendone non solo i brani solistici, ma anche quelli orchestrali (con la sua Kremerata Baltica). Il Concerto è stato recentemente inciso da Kremer – in occasione del centenario della nascita di Weinberg - con la Gewandhaus di Lipsia diretta da Daniele Gatti e l’esecuzione è ascoltabile in rete.

Era una ragione in più (per me, ma credo per molti) per ascoltarlo dal vivo qui a Ravenna. Anche perché l’ascolto comparato dell’interpretazione originale di Kogan e di quella moderna di Kremer mette in evidenza una chiara (si potrebbe azzardare abissale) diversità di approccio interpretativo: assai asciutto e nervoso quello di Kogan (rispettoso dei metronomi di Weinberg e verosimilmente benedetto a suo tempo dall’Autore, presente a prove e prima) e molto più sostenuto e riflessivo quello di Kremer. Cosa testimoniata del resto dai quasi 7 minuti (sui circa 26 di Kogan) di differenza in più per il violinista baltico. 

Ma veniamo a ieri: Kremer ci ha presentato quindi una trascrizione del Concerto per violoncello di Schumann, che possiamo ascoltare qui in un’esecuzione di qualche anno fa. Però ha voluto farci anche un’altra sorpresa, iniziando con un… bis in omaggio alle sofferenze dell’Ukraina, suonando il Requiem per violino solo del compositore georgiano Igor Loboda, composto nel 2015 dopo i luttuosi fatti del 2014 che purtroppo sono oggi culminati in questa guerra insensata. La stessa cosa Kremer aveva fatto lo scorso maggio a Lubiana, come testimoniato da questo video, a partire dal minuto 4’33” (erroneamente il titolo di youtube lo cita come primo brano).

Ecco quindi questo inedito Schumann dell'ostico Concerto per violoncello trascritto per lo strumento principe degli archi. Cha Kremer ci ha porto con la raffinatezza che gli è propria, accolto da applausi e ovazioni del pubblico (per la verità non oceanico) al quale ha poi dedicato un altro breve encoreomaggio al… soppresso Weinberg, con il 5° Preludio per violoncello, dall’Op.100, che significativamente cita il tema del concerto schumanniano!

Bene, dopo questa prima parte del concerto ricca di imprevisti, ecco Ciajkovski con la sua celebre Quinta. Che ha permesso ai ragazzi di Riccardo Muti di sfoggiare tutta la loro bravura, sotto la guida vigile e sicura di Eschenbach. Quasi di prammatica un inizio di applauso già sui truci accordi di SI maggiore che precedono la coda Moderato assai e molto maestoso; applausi che poi sono piovuti copiosi e meritati sul conclusivo ta-ta-ta-taaa in Mi maggiore.

Insomma, una bella serata di musica che ci fa dimenticare per un attimo guerre, crisi e… siccità.