affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

19 dicembre, 2019

Gardiner augura Buon Natale alla Scala


Il Concerto natalizio scaligero del 2019 (domani la prima, sabato la replica) è dedicato a Berlioz (di cui si celebrano i 150 anni dalla morte) con un titolo assai appropriato alla circostanza: L’enfance du Christ, diretta da Sir John Eliot Gardiner.

É una composizione della maturità (pubblicata nel 1855) che si discosta assai dagli stilemi caratteristici del Berlioz magniloquente e (almeno apparentemente) contorto di tanti lavori precedenti (che gli avevano attirato le critiche dei tradizionalisti parigini) essendo pervasa da grande lirismo coniugato ad un’estrema parsimonia di mezzi. La gestazione di questo oratorio in forma di trilogia (Sogno di Erode - Fuga in Egitto - Arrivo a Sais) era stata assai complicata, e corredata persino da un simpatico scherzetto organizzato dal compositore ai danni dei suoi detrattori in occasione di un concerto della Philarmonique, da lui stesso diretto.

In una delle sue tante lettere, Berlioz racconta di come martedi 14 novembre 1850 alle ore 20, nella sala Sainte-Cécile, fra altre composizioni presentate nel primo concerto della seconda stagione della grande Société philharmonique de Paris, venisse eseguita la prima sezione della Fuga in Egitto (Introduzione strumentale e Coro di pastori) che lui aveva sbozzato tempo addietro, annotandola su un pezzo di carta, mentre si annoiava a morte ad una serata in società dove non si faceva altro che giocare a carte. Ma la locandina del concerto la indicò truffaldinamente come opera composta nel 1679 da un fantomatico (perchè totalmente sconosciuto) maestro di cappella, Pierre Ducré, da Berlioz fortunosamente ritrovata in un polveroso archivio della Sainte-Chapelle e da lui orchestrata.

Ebbene: il brano riscosse un grandissimo successo proprio fra i detrattori del compositore, convinti che mai e poi mai uno come Berlioz avrebbe saputo comporre musica così mirabile... Quando poi la verità venne a galla, la rivincita di Berlioz fu solo apparente: poichè i suoi detrattori argomentarono che lui, se davvero aveva saputo produrre una tal musica, allora aveva sbagliato tutto nel comporre le sue opere precedenti, tiè!
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Il soggetto (qui il testo integrale, dello stesso Berlioz, francese-italiano) tratta delle vicende di Gesù situabili, più o meno, in 3-4 giorni dopo l’Epifania, quanti ne servirono a Giuseppe&famigliola per fuggire precipitosamente da Betlemme e rifugiarsi in Egitto (precisamente a Sais, distante 400Km circa) dopo l’angelico avvertimento riguardo le non proprio amichevoli intenzioni di Re Erode:



Così come negli oratori e nelle passioni bachiane troviamo la figura dell’Evangelista, che racconta la vicenda alternandosi con arie, cori e corali, anche qui c’è la figura del Narratore che serve ad introdurre e/o concludere le tre parti dell’oratorio.  

É lui che apre la prima parte (Le songe d’Hérode, ultima ad essere composta) facendone un breve sommario: Gesù è nato ma ancora non ha potuto manifestarsi; in compenso Erode è già in allarme, temendo la perdita del trono e medita azioni spaventose. Due militari romani si incontrano durante una ronda, e ci danno conferma dello stato alterato del Re; il quale si esibisce in un monologo disperato, esternando i suoi incubi; gli indovini giudei si riuniscono per cercare risposte alle allucinazioni di Erode: c’è lì da qualche parte un neonato che detronizzerà il Re e l’unico rimedio per neutralizzarlo - ignorandosene l’identità - è di toglier di mezzo tutti i neonati di Betlemme, Gerusalemme e Nazaret! A Betlemme Maria e Giuseppe gioiscono della nascita di Gesù, ma un angelo arriva ad annunciare disgrazie e a consigliare la fuga verso l’Egitto, seduta stante.

La seconda parte (La fuite en Egypte) è stata - come detto - la prima ad essere composta ed anche separatamente rappresentata. Dopo un’introduzione strumentale di sapore arcaico, il coro dei Pastori omaggia e saluta Gesù e i genitori, in partenza frettolosa verso l’Egitto. Il Narratore racconta adesso di una sosta ristoratrice della famigliola in un’oasi verdeggiante e ricca d’acqua fresca. Gli angeli si stringono adoranti attorno a Gesù.

La terza ed ultima parte (L’arrivée à Sais) è aperta ancora dal Narratore, che ci ragguaglia sulle drammatiche difficoltà del lungo viaggio nel deserto e dell’approssimarsi di Giuseppe&famiglia alla loro destinazione: Sais, una città romanizzata ed abitata da gente superba e inospitale. Per ben due volte Giuseppe bussa alla porta di case di Sais per chiedere aiuto e ospitalità, e ne viene brutalmente respinto da occupanti romani intolleranti (forse emuli dei Faraoni che avevano vessato Mosè...); ma al terzo, disperato tentativo, fatto insieme alla sua Maria, ecco che il miracolo si compie: è una famiglia ismaelita quella che li accoglie come fratelli e li fa davvero sentire a casa propria, intonando per loro un mirabile trio (due flauti e arpa) che lascia senza fiato per l’emozione! Mentre i profughi, fisicamente spossati ma finalmente felici, vanno a prendere il meritato sonno, è ancora il Narratore (spalleggiato dal coro) ad inneggiare all’amore! 
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Un corposo studio su L’Enfance du Christ comparve nel 1898 dalla penna di Jacques-Gabriel Prod’homme, e vi si trova - oltre alla storia piuttosto bizzarra della composizione, alla sinossi del libretto e all’interessante resoconto delle reazioni della critica - anche un’approfondita e acuta analisi musicale, che mette in evidenza le peculiarità di quest’opera forse ancor oggi non valorizzata come meriterebbe, almeno quanto a pubbliche esecuzioni (le incisioni invece non mancano di certo).

Alla Scala si ricorda, nel dopoguerra, una sola esecuzione integrale, diretta da Peter Maag, avvenuta sotto Natale (12-13-17 dicembre) del 1980 nella Basilica di Santo Stefano e - una novità, per quei tempi - in forma scenica. Poi, il 20 dicembre 2012, Robin Ticciati propose la sola Fuga in Egitto, dopo la Fantastique.
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Il baronetto Gardiner, rinomato specialista di musica antica e barocca, ma anche di Berlioz (e già interprete di quest’opera) garantisce un Buon Natale di gran qualità. Radio3 trasmette il primo dei due appuntamenti, domani 20 ore 20.    

13 dicembre, 2019

laVerdi-19-20 - Concerto n°10


Doveva essere la prima volta (credo) di Diego Matheuz con laVerdi, ma qualche contrattempo di stagione ha rimandato l’incontro, così è diventata comunque la prima volta di Jaume Santonja, un percussionista spagnolo passato alla direzione d’orchestra. Che ci ha proposto una speciale edizione del balletto ciajkovskiano La bella addormentata.

Perchè speciale, lo vediamo fra poco, ma prima faccio un discorso più generale: salvo casi davvero rari (uno dei pochissimi è Romeo&Giulietta di Prokofiev) le musiche per balletto mal si prestano ad esecuzioni integrali senza il... balletto. E Ciajkovski non fa eccezione, nemmeno con questo, che è di certo il suo più ispirato. Troppi sono i passaggi che si giustificano esclusivamente con la visione della danza, dei danzatori e delle scenografie, mentre davvero lasciano il tempo che trovano se eseguiti come musica pura.

Per averne conferma basta ascoltare una registrazione integrale come questa con Previn. E persino Gergiev con lo squadrone del Marinsky in questa pur sontuosa produzione (sugli originali di Petipa) si permette qualche taglio: alcuni di poco conto, ma uno addirittura clamoroso, come quello che cassa buona parte del celeberrimo Panorama (1h28’56”).

Insomma, non per nulla dalle musiche per balletto si sono sempre ricavate delle Suite (di durata massima 30’) accorpando, anche in sequenza diversa da quella della trama, alcuni dei brani più interessanti. Così è per quella della Bella addormentata, di una concisione estrema ed efficacissima.
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In questo concerto si è pensato di addolcire la pillola, oltre che con una buona mezz’ora di tagli, anche mediante l’impiego di strumenti tecnologici particolari: così sopra l’Orchestra è stato posto uno schermo gigante (usato anche per le proiezioni di film accompagnate dal vivo) sul quale un’applicazione informatica predisposta dallo Studio Antimateria ha proiettato immagini prodotte al computer in tempo reale, catturando i suoni delle diverse sezioni dell’Orchestra.

In sostanza la musica è stata accompagnata di continuo da immagini che - pur prodotte dai suoni - nulla a che vedere hanno con il soggetto reale nè con una sua idealizzazione metafisica. In fin dei conti, ciò che appariva sullo schermo era una sequenza di quelli che sono - per un normale computer - i cosiddetti screen-saver, che si possono far comparire sullo schermo quando il computer resta inattivo.

Insomma, una cosa parecchio deludente, che assai opportunamente avrebbe potuto essere rimpiazzata dalla proiezione - sui due schermi più piccoli posti in alto, ai lati del palco - dei titoli dei brani del balletto e magari delle didascalie presenti sulla partitura.
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Jaume Santonja, forse portatovi dal suo ruolo originario di percussionista, ha tenuto sempre altissimo il volume dell’Orchestra, la quale si è peraltro distinta per grande compattezza e splendide sonorità. Luca Santaniello non solo l’ha guidata da par suo, ma si è anche distinto nei passaggi squisitamente virtuosistici che la partitura dedica al violino di spalla: Variation d’Aurore (N° 8c) e Entr’Acte (N° 18). Da incorniciare anche il N° 15, Pas d'action, dove Tobia Scarpolini ha esposto la mirabile melodia del violoncello che viene - sapientamente variata - dall'Andante cantabile della Quinta, quasi contemporanea al balletto.  

Che dire: una proposta che poteva essere meglio articolata.

11 dicembre, 2019

La Tosca in teatro: luci e ombre


Dico subito che i miei timori si sono materializzati: lo spettacolo è di alto livello, per carità, ma è fatto per il cinema (compresa la sorellina minore, la TV) e per i DVD. In teatro perde molto del suo fascino ed anzi finisce quasi per deludere. Perchè l’attenzione del pubblico viene catturata dall’opulenza della scenografia e distolta dalla componente principale dell’opera, la musica!

La ripresa TV (se fatta sapientemente, come accade abbastanza in questa occasione) riesce a coniugare le esigenze visive con quelle uditive, poichè raramente, e solo nei frangenti che lo richiedono, mostra - fissa - l’intera inquadratura dell’enorme palcoscenico. Per il resto segue da vicino, o da vicinissimo, in primo piano, e da prospettive insolite e precluse allo spettatore in sala, i protagonisti dell’azione, permettendo così a chi assiste di focalizzarsi sull’essenziale, immagine e suono. É precisamente il concetto-base del cinema, dove tutto deve congiurare a orientare l’attenzione dello spettatore sull’essenza del soggetto rappresentato.   

Caratteristica che è poi stata fatta proprio dalle riprese televisive, come quelle di un incontro di calcio, dove quasi mai viene mostrata l’inquadratura fissa dell’intero campo (quella che vede lo spettatore dagli spalti) bensì la (piccola) parte del terreno, quella dove si svolge l’azione, e magari con replay da mille diverse direzioni e angolazioni, per arricchire lo spettatore di informazioni e dettagli invisibili ad occhio nudo. E il bello è che le immagini televisive vengono oggi proiettate anche negli stadi, su schermi giganti, in modo da fornire allo spettatore dal vivo ciò che altrimenti sarebbe patrimonio solo di quello seduto in poltrona a casa sua.

Ma ora sorge la domanda: vogliamo trasformare anche i teatri in stadi, dotandoli di schermi dove proporre i close-up o i replay dell’azione (?!) Se la risposta è , bene, allora si provi a farlo, se ci si riesce... Se invece è no, allora bisogna prendere atto che l’impiego di strumenti nati con altri scopi non è compatibile con il teatro che si fa in teatro (non sullo schermo, maxi o mini).

Altro problema. Purtroppo il teatro-di-regìa non contempla alcuna staticità (siccome vuole appunto fare teatro prima che musica!) e quindi tende a movimentare di continuo la scena, anche dove ciò sarebbe da evitarsi, finendo così per disorientare lo spettatore, che fatalmente sposta l’attenzione dal contenuto essenziale (il principio attivo, direbbe il farmacologo) all’invadente eccipiente. Insomma, è l’esteriorità dello spettacolo (magari interessante e sontuoso in sè) a prendere purtroppo il sopravvento.

Esempi relativi a questa Tosca: la presenza ingiustificata e quasi continua di personaggi alieni (ma a volte anche pertinenti!) al soggetto. Qui basta ricordare le suorine che nella chiesa vanno e vengono, spostando trespoli porta-candele, da destra a sinistra e da sinistra a destra; o la folla che occupa l’ufficio di Scarpia, comprese le domestiche-religiose che gli apparecchiano e sparecchiano la tavola; il continuo spostamento di parti della scenografia (colonne o affreschi che salgono-scendono, oggetti d’arredamento o intere parti di edifici che si spostano da sole o perchè spinte da figuranti, il torrione con l’alona del santangelone che gira incessabilmente su se stesso, come una giostrina per bambini, tableau-vivant che si animano impercettibilmente - ma solo per gli spettatori che entrano in Scala dal foyer al piano terra, quelli che entrano da Largo Ghiringhelli vedono solo... i piedi, o nemmeno quelli). Ma anche dettagli pertinenti al soggetto, ma che dovrebbero restare invisibili all’occhio, proprio come lo sono ai personaggi in scena: la sala della tortura di Cavaradossi, di un realismo davvero controproducente!

Insomma, pare che l’obiettivo della messinscena sia quello di mostrare le meraviglie dei potenti mezzi di cui la Scala si è dotata dal 2005, in modo da stupire lo spettatore (come accadeva nel barocco del ‘700 con l’impiego di strabilianti macchine ed effetti speciali... ma lì erano parte integrante dell’opera!) e pazienza se l’intimo contenuto del soggetto rischia di passare in secondo piano. Insomma: la forma prevale sulla sostanza (leggi: la musica). Non si è sempre criticato il grande Zeffirelli per l’ipertrofia, la sovrabbondanza e l’eccesso di effetti scenografici? Ecco, questa Tosca sembra inscenata da uno Zeffirelli_2.0!

La fedeltà alla partitura (le indicazioni didascaliche) tanto sbandierata da Livermore/Chailly è un concetto assai elastico: ne è lampante prova il finale dell’atto secondo, dove l’intera sequenza dell’allestimento - da parte di Tosca - della camera ardente per Scarpia (è Kitsch solo se fatta in modo trasandato, altrimenti è proprio parte integrante del quadro della personalità della protagonista) viene tranquillamente rimossa, per lasciar spazio a Freud. Ironia della sorte, la responsabilità è di Chailly, che ha ripristinato la posizione del verso E avanti a lui tremava tutta Roma, che comporterebbe che quell’esternazione venisse fatta da Tosca con due candele in mano, una cosa da avanspettacolo. Ma anche il finale dell’atto terzo, con la ridicola passeggiata nello spazio della controfigura di Tosca, è opera di Chailly, che ha voluto esser da meglio di Puccini, ripristinando il pleonastico finale (al posto di Livermore, avrei fatto abbassare il sipario nero e lasciato Chailly da solo a menare il torrone sinfonico di questa chiusura pacchiana). 

Che dire poi di Tosca che entra in chiesa a mani vuote e poi ruba i fiori di qualcun altro per omaggiare la Madonna (Bel rispetto - per Puccini - direbbe Scarpia)? O delle tre coltellate a Scarpia, più strangolamento (per sicurezza) dove Livermore ha rivaleggiato con l’orrendo Bondy? E della lugubre ambientazione del terz’atto, con plumbeo cielo da temporale, che fa totalmente perdere allo spettatore il lancinante contrasto fra l’idilliaco risveglio della natura e la catastrofe che si materializzerà di lì a poco?     

Insomma, una sovrabbondanza di orpelli e trovate genialoidi che sembran fatte apposta per catturare a buon mercato l’approvazione del pubblico. Di sicuro quella di Livermore è però una regìa che ci racconta precisamente la storia di Tosca, e non quella di Lulu, ed è già una gran consolazione, con i tempi che corrono...
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Molto meglio che alla prima (personalmente seguita in TV) sono andate le cose sul fronte dei suoni: evidentemente una prova (!) in più è servita. E non solo per evitare false partenze (seconda uscita di Angelotti) o improvvise amnesie (Netrebko, atto secondo). Mi pare che Chailly abbia rimediato all’approccio eccessivamente sostenuto mostrato a SantAmbrogio (anche qui, le prove servono...) e abbia dato maggior fluidità alla sua direzione. L’orchestra si era già comportata bene e ha fatto, se possibile, ancor meglio (memorabile il dispiegarsi della melodia - richiama Ciajkovski e anticipa Mahler - che accompagna lo scampanìo del risveglio della città). Inappuntabili i cori di Casoni e De Gaspari (che ha fornito anche il personaggio del Pastorello, il bravissimo Gianluigi Sartori).

Anna Netrebko, a parte aver rimediato i due erroracci (l’attacco del Vissi d’arte e il secondo Chi m’assicura?) ha sciorinato le sue grandi doti naturali, la splendida qualità della sua voce e la capacità di esprimere sentimenti, atteggiamenti e pulsioni d’animo di questo complesso personaggio che è Tosca. Il lato attoriale non è il suo forte, si sa, ma io (con buona pace di chi mette il teatro prima della musica) confermo di preferire una cariatide che canta come si deve ad una Eleonora Duse che gracchia e pigola.

Francesco Meli non è forse il Cavaradossi ideale (altrimenti Pereira non avrebbe avuto esitazioni ad annunciarlo in programma già lo scorso 27 maggio) ma si fa perdonare con la sua voce pulita e accattivante, in aggiunta alle mezze-voci (preferisco i suoi falsettini alle ingolature di tale Kaufmann). Lui è anche un ottimo attore, il che ovviamente non guasta.

Luca Salsi mi pare il migliore del terzetto per autorevolezza. E intendo autorevolezza vocale, timbro brunito, potenza in tutta l’estensione, sfumature efficaci (l’Ebbene? sussurrato a Tosca si è perfettamente sentito dal loggione). Se invece devo giudicare il suo approccio alla personalità del Barone, allora mi vien da dire che sia più lo Scarpia di Sardou che quello di Puccini... Cioè: un individuo depravato sì (Sardou) ma non una vera bestia quale lo scolpisce Puccini.

Efficacissimo il Sagrestano di Alfonso Antoniozzi, una macchietta che è stata interpretata con la giusta misura, senza mai scadere in volgare avanspettacolo. Altrettando dicasi di Carlo Bosi, la cui voce petulante ha reso al meglio il personaggio dello sbirro di Scarpia. Anche Carlo Cigni mi è parso più efficace e rinfrancato rispetto alla prima: deve rompere il ghiaccio e questa non è mai una cosa facile, ma ieri il suo Angelotti ne è uscito assai bene. Ernesto Panariello (lui è come il prezzemolo, alla Scala) ha svolto con la consueta professionalità il suo compitino di carceriere. Guido Mastrototaro è stato un dignitoso Sciarrone.

Per tutti ovazioni ed applausi (forse non si è battuto il record di durata del 7/12, ma ci si è avvicinati) con punte per Netrebko e Salsi. 

08 dicembre, 2019

La Tosca in TV


In attesa di assistere di persona allo spettacolo, avanzo qualche prima impressione ricavata dalla ricezione televisiva. Come sempre, già  ieri Amfortas aveva pubblicato il suo commento (che condivido in larga misura) a tempo di record. 

Dico subito (e spero proprio di non essere smentito fra breve): spettacolo di buon livello, in tutti i sensi. Preceduto da un altro spettacolo invero rincuorante: l’interminabile applauso che ha accolto l’arrivo del Presidente della Repubblica! (Dico, c’è da rabbrividire pensando che fra un anno dal Palco Reale potrebbe affacciarsi Salvini...)

Ispirata, ma non inappuntabile la direzione e concertazione di Chailly, per lo meno per ciò che si può giudicare dall’ascolto tecnologico: agogica e ritmo dell’azione a volte un pochino trattenuti, vedi le stesse tre battute di attacco (sulle dinamiche... aspettiamo di ascoltare suoni e non... bit). Orchestra in gran spolvero, senza sbavature, dettagli sempre ben in evidenza.

Il trio Netrebko-Meli-Salsi abbastanza convincente (Salsi su tutti) nella resa delle personalità dei protagonisti (sulle voci, stesso discorso di prima, vedremo dal vivo...) Perdonabile il lapsus della Netrebko, cui Salsi ha risposto... per le rime. Ma bene anche i comprimari (Antoniozzi, Bosi, Mastrototaro, Panariello, Sartori). Coro di Casoni efficacissimo e compatto nel TeDeum, come pure nel breve inserto da lontano, dalla festa del second’atto.

Livermore, volendo rispettare anche la lettera del libretto, mette in piedi uno spettacolone zeffirelliano per grandiosità (e pure per sconfinamenti nel Kitsch...) che forse in TV (ed eventualmente in un DVD) rende meglio, immagino, che in teatro.

Si può già concludere comunque che chi si mostrava scettico sulla proposta per questo SantAmbrogio sia stato ampiamente smentito.  
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Ma proprio sull’oggetto materiale della proposta mi permetto di ritornare (proprio... in corpore vili) prendendo in considerazione le 9 (nove) novità costituite dal ripristino della partitura originale del 14 gennaio 1900, che Puccini subito dopo modificò per mai più tornarci sopra. Per 8 dei 9 casi propongo (in rosso e riquadrato) il testo ripristinato da Chailly e l’ascolto della versione che tradizionalmente si rappresenta (quella appunto predisposta da Puccini dopo la prima romana) a confronto con quella che Chailly impiega qui oggi, artigianalmente registrata dalla TV (della qualità delle registrazioni mi scuso in partenza).    

1. Atto I - Duetto Cavaradossi-Tosca (5 battute ripristinate): 

Tosca (rapita, appoggiando la testa alla spalla di Cavaradossi)
Oh come la sai bene
l’arte di farti amare!...

Cavaradossi
Non è arte
è amore,
è amore,
è amore.

Tosca
Sì, sì, ti credo.

(maliziosamente)
Ma... falle gli occhi neri!

Versione ultima - Versione Chailly (ripristino da 14” a 37”)
  
2. Atto I - TeDeum (coro a cappella)

Scarpia
(riavendosi come da un sogno)
Tosca, mi fai dimenticare Iddio!
(s’inginocchia e prega con entusiasmo religioso)

Scarpia, ragazzi e folla
Te aeternum Patrem
omnis terra veneratur!

(cala rapidamente il sipario.)

Versione ultima - Versione Chailly (coro a cappella da 15” a 40”)
 
Certo, efficace il coro con le sole voci. Ma anche la versione ultima lascia gli ottoni da soli in unisono con le voci, niente archi, quindi la differenza non mi pare così clamorosa.

3. Atto II - Giaculatoria di Spoletta (2 battute ripristinate)

Spoletta (brontolando in attitudine di preghiera)
Judex ergo cum sedebit
quidquid latet apparebit,
nil inultum remanebit.

(Scarpia, approfittando dell’accasciamento di Tosca, va presso la camera della tortura e fa cenno di ricominciare il supplizio)

Quid sum miser tunc dicturus
quem patronum rogaturus
cum vix justus fit securus.

Cavaradossi (straziante grido acuto e prolungato)
Ah!

Versione ultima - Versione Chailly (ripristino da 31” a 45”)

4. Atto II - Dopo “Vissi d’arte” (1 battuta ripristinata)

Tosca
...
Nell’ora del dolor
perché, perché, Signor, ah,
(singhiozzando)
perché me ne rimuneri così?

Scarpia (avvicinandosi di nuovo a Tosca)
Risolvi!

Tosca
No!

Scarpia
Bada... il tempo è veloce!

Tosca
Mi vuoi supplice ai tuoi piedi?
(S’inginocchia davanti a Scarpia)
Vedi,
(singhiozza)
le man giunte io stendo a te!

Versione ultima - Versione Chailly (ripristino da 34” a 1’05”)

Diciamo la verità: a meno che il soprano non sia un’oca starnazzante, qui è matematico che, dopo il ...così e senza dar tempo all’orchestra (arpa, fagotti, corni, archi) di esalare due mestissimi accordi, il pubblico scoppi in un applauso più o meno lungo. Alla ripresa, di norma si tagliano anche il Risolvi! di Scarpia e il Mi vuoi supplice ai tuoi piedi? di Tosca, che riparte dal Vedi... Ora, che senso ha invece riaprire una (!) battuta del tutto pleonastica per poi fermare l’orchestra per consentire l’applauso?

5. Atto II - Morte di Scarpia (14 battute ripristinate)

Scarpia (con voce strozza)
Aiuto! Muoio!
(barcollando cerca d’aggrapparsi a Tosca che indietreggia terrorizzata)
Soccorso! Muoio! Ah!

Aiuto! Aiuto!

Tosca (con odio a Scarpia)
Ti soffoca il sangue?...

Versione ultima - Versione Chailly (ripristino da 11” a 21”)

Difficile dire quale sia la più... realistica.

6. Atto II - Finale

Questa variante riguarda la famosa esternazione di Tosca (sono le ultime parole che canta nell’atto II) E avanti a lui tremava tutta Roma! É collocata in un punto ben preciso della partitura, una battuta prima della cifra 64 di lettura. Nell’originale invece era spostata in avanti, alla cifra 65.

Non la faccio lunga, ma se si dovessero rispettare rigorosamente le didascalie, Tosca dovrebbe cantare quella frase con le due candele in mano, prima di collocarle ai lati del capo di Scarpia (!) Bene ha fatto quindi Puccini a modificare, anticipando la frase; e benissimo ha fatto Livermore a cassare del tutto l’allestimento dell’altarino improvvisato!

Versione ultimaVersione Chailly (spostamento da 1’20” a 2’00”)

7. Atto III - Morte di Cavaradossi (5 battute ripristinate)

Tosca
...
(corre al parapetto, e cautamente sporgendosi, osserva di sotto; mentre si avvicina a Cavaradossi)
Presto, su! Mario! Mario! Su, presto!
Andiam!
(toccandolo, turbata)
Su! su!
(scuoprendolo)
Mario! Mario!
(grido)
Ah!
(con disperazione)
Morto!... Morto!... Morto!...
(fra sospiri e singhiozzi)
O Mario... morto... tu?... così!
(gettandosi sul corpo di Cavaradossi)
Finire così!!
(abbracciando la salma di Cavaradossi)
(piangendo)

Mario... povera Floria tua!
O Mario mio,
tu finire così!

(si abbandona, piangendo disperatamente, sul corpo di Cavaradossi)

Versione ultima - Versione Chailly (ripristino da 21” a 43”) 

Inutile lungaggine, poco da dire.

8. Atto III - Cadenza finale (6 battute ripristinate)

Tosca
...
O Scarpia, avanti a Dio!!

(si getta nel vuoto. Sciarrone ed alcuni soldati, saliti confusamente, corrono al parapetto e guardano giù. Spoletta rimane esterrefatto, allibito. Sipario rapido.)


Che dire? Come non dar ragione all’ultima scelta di Puccini? L’opera è finita, il pubblico è letteralmente stremato per la tensione accumulata, già si lascia andare all’applauso liberatorio... mentre l’orchestra deve proseguire per altri 40 secondi? Sarà certo grande musica, ma qui del tutto fuori posto, una lungaggine insopportabile, di cui il compositore si dev’essere accorto subito a Roma. E così il povero Livermore si è pure dovuto inventare, per tirarla in lungo, una controfigura di Tosca che fa una passeggiata nello spazio!

C’è infine una piccolissima variante, che non fa nemmeno conto confrontare: quando Tosca, dopo la confessione e la proposta di Scarpia di... favellare, chiede: Il prezzo! In partitura leggiamo: quasi parlato, sulla sequenza ascendente (croma-semiminima-semiminima) MI-LA-LA. Chailly ripristina l’originale, cantato in tessitura più alta (arriva all’ottava superiore). Ma francamente che senso ha pretendere una fedeltà assoluta allo spartito originale, quando è del tutto normale che, in un caso così particolare come questo, sia l’interprete, con la sua sensibilità o su imbeccata del regista, a decidere come pronunciare quelle due parole?
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In conclusione, ribadisco: la ricchezza (che va riconosciuta, insieme a poche... povertà) di questa produzione poco o nulla ha a che vedere con la riapertura dei tagli e il ripristino delle indicazioni originarie, tutti aspetti assolutamente marginali, che invece - anche nell’incontro del 6 dicembre con l’Assessore Del Corno - sono stati oggetto, da parte di Chailly, ripreso poi supinamente dalla stampa, di esagerata enfatizzazione.  

(appuntamento a mercoledi)

04 dicembre, 2019

La Tosca presa alla... lontana (7)


Ormai il fatidico d-day si avvicina (c’è già stata la generale e questa sera va in scena la primina) e quindi anche i massimi protagonisti della Tosca del millennio possono respirare un po’ e trovare qualche mezzoretta da dedicare alla divulgazione.

Così dopodomani, proprio alla vigilia, Chailly farà l’annuale chiacchierata con l’Assessore alla Cultura del Comune (Filippo Del Corno, che - detto di passaggio - di musica ne sa più di tanti musicisti e musicologi) mentre ieri sera è stata la volta di Davide Livermore a fare una chiacchierata - moderata da Gaia Varon - con un altro Del Corno, Nicola, storico dell’Università Statale.

Livermore ha cominciato con una rivelazione, riguardante in realtà il suo Attila del 2018: lui aveva in mente un’ambientazione esplicita nei giorni della caduta del fascismo, con esaltazione della lotta partigiana (chissà se c’era anche piazza Loreto...) Ma qualcuno (non ha detto chi...) gli impedì di realizzare questa sua idea, e così dovette ripiegare su un’ambientazione nell’Italia distopica della prima metà del ‘900, con riferimenti cinematografici (Rossellini, Pasolini-Brass-Cavani) abbastanza annacquati al nazifascismo e alla lotta di liberazione. Beh, un’ammissione non da poco: di interferenze sulla sua libertà di espressione; ma anche di una sua, diciamo... capacità di adattamento, che lo portò evidentemente a fare qualcosa, per lui, di insincero (!)

Tosca. Livermore ha ribadito quanto già espresso in altre occasioni, cioè che lui considera Tosca un tipo e non un archetipo, e come tale da rappresentarsi proprio come da lettera del libretto e delle didascalie in partitura (pare di sentire Zeffirelli...) A differenza del suo scaligero Tamerlano, che lui ha tranquillamente trasferito nella Russia dei bolscevichi (con Stalin e Lenin a contendersi una delle figlie dello zar... ndr). Ma qui la simpatica Gaia lo ha però messo (di proposito?) in difficoltà, ricordando l’allestimento di Jonathan Miller a Firenze (1986) che guarda caso riambientava Tosca proprio come Livermore avrebbe voluto riambientare Attila! E aggiungendo - in indiretta polemica con il regista - come tale riambientazione (OVRA-partigiani = Scarpia-Angelotti&Cavaradossi) fosse perfettamente plausibile. E qui Livermore ha dovuto abbozzare, riconoscendo la maestrìa di Miller e non trovando di meglio, per difendere la sua tesi, che citare l’incongruenza del riferimento di Marengo con il 1945...

Per il resto, ha sottolineato le caratteristiche di cinematograficità della musica di Puccini, che di per sè indica chiaramente al regista le linee-guida della sua messinscena.

Quanto a Del Corno, ha dottamente sottolineato alcuni paralleli fra l’Italia dell’anno 1800 e quella dell’anno 1900: Scarpia e Beccaris, per dire... e gli scenari di rivolta verso regimi assoluti o repressivi. Tuttavia, secondo Livermore, il tempo della politica-nel-melodramma era finito con Verdi, e il teatro musicale aveva imboccato altre strade, che Puccini stava decisamente percorrendo, quelle dello spettacolo perfetto.

03 dicembre, 2019

La Tosca presa alla... lontana (6)


La perseveranza (ma mi verrebbe da dire: la pervicacia) con la quale il Maestro Chailly si ostina a riproporre (financo nei SantAmbrogio) versioni di opere (pucciniane, in particolare) che l’Autore aveva successivamente emendato, modificato, corretto e rivisto in modo da presentare al pubblico ciò che considerava il meglio del suo prodotto, è davvero degna di miglior causa. Non solo, rischia di provocare il classico effetto-boomerang, per evidenti ragioni.

Sarà una Tosca mai più riascoltata dal 14 gennaio 1900! 

Dico: fatti 100 gli spettatori di questa produzione, quanti saranno in grado di apprezzare la differenza fra il TeDeum definitivo (che si esegue normalmente, con accompagnamento di ottoni) e quello della prima di Roma (che è in parte a cappella)? O di accorgersi del diverso epilogo del Vissi d’arte? O di qualche battuta orchestrale, poi rimossa da Puccini, dopo l’accoltellamento di Scarpia? O dell’enfatica reiterazione del tema di E lucevan le stelle nelle ultime battute dell’opera? Escludendo musicologi super-cazzuti, praticamente nessuno! E allora, che senso ha sbandierare come un fatto storico qualcosa che riguarda un pugno di addetti-ai-lavori, mentre sfugge bellamente ai più?

E poi, comunque: anche quei pochi che hanno con l’Opera un minimo di dimestichezza, che ci vanno a fare a teatro? Per gustarne tutti i tesori, nella stesura che l’Autore ha faticosamente continuato a migliorare, o per farsi una cultura scolastica su qualche decina di battute che l’Autore per primo aveva rimosso o sostituito, poi riportate alla luce da qualche topo di biblioteca? 

Oh, sia chiaro: io non intendo con ciò irridere o sminuire il prezioso lavoro degli editori critici di partiture e libretti, tutt’altro. Le loro ricerche sono assolutamente lodevoli e hanno consentito e consentono a chi deve oggi allestire uno spettacolo di poterlo fare disponendo di tutto il materiale originato dall’Autore e poi arricchito dalla tradizione esecutiva. Ma un conto è presentare il Boris originale di Musorgski e non quello spurio di Rimski, o le Sinfonie di Schumann depurate dalle incrostazioni mahleriane; o mettere in scena opere di Rossini liberate da cachinni apocrifi... Altro è presentare al pubblico un’Opera in una forma che l’Autore in persona aveva ritenuto poi di migliorare, con successivi interventi, evidentemente fatti a ragion veduta.

E poi, a proposito di revisioni e ripensamenti, si deve sempre distinguere fra interventi che hanno un carattere strutturale da altri che invece toccano solo qualche particolare più o meno importante. Di Verdi abbiamo due Macbeth e due Boccanegra, che si presentano come oggetti separati, così come lo sono i due Boris di Musorgski. Lo stesso dicasi per versioni di un’opera realizzate per pubblici diversi (ancora Verdi, con i Vespri e il Don Carlo portati in Italia). In questi casi è perfettamente legittimo mettere in scena una delle due versioni (e non, come purtroppo si fa spesso, un minestrone delle due...) Ma il caso di Tosca è totalmente diverso: qui non siamo di fronte a radicali ripensamenti sulla struttura dell’Opera, ma a (reiterati) interventi migliorativi su un unico impianto di base.

Insomma, so di ripetermi, ma queste mi paiono operazioni pseudo-culturali, che non spostano un solo spettatore in più dai reality o dalle partite di calcio verso il teatro musicale, ed anzi - apparendo come operazioni super-elitarie, dai contenuti astrusi ed incomprensibili ai più - rischiano di disincentivare anche quei pochi che vorrebbero avvicinarglisi.

Invece, se l’obiettivo è di accontentare la curiosità (legittima e doverosa, ci mancherebbe...) degli addetti-ai-lavori, professionisti o dilettanti che siano (e mi metto anch’io fra questi ultimi) ebbene, sono oggi disponibili tutti gli strumenti idonei per raggiungerlo senza dover scomodare SantAmbrogio!

Che operazioni del genere siano state messe in atto in passato anche da altri (senza andar troppo indietro, mi viene in mente il Don Carlo di Gatti del 2008 con la scoperta del Lacrymosa...  o il Fidelio di Barenboim del 2014 con la Leonore-2 come sinfonia...) non giustifica in alcun modo Chailly per queste sue scelte che mi sento di definire narcisistiche. Sì, perchè anche lui, come molti altri suoi colleghi, ha evidentemente il vizietto di voler lasciare, dove passa, le sue pisciatine di cane... 

Si può star certi che se lo spettacolo avrà - come tutti ci auguriamo - un grande successo, ciò non sarà dipeso affatto dal carattere di primizia filologica della partitura adottata, ma dalle capacità e qualità di tutti, Direttore in primis, di presentarci al meglio questo splendido capolavoro.

(6. continua)

02 dicembre, 2019

La Tosca presa alla... lontana (5)


L’opera si apre con una perentoria sequenza di tre accordi, smaccatamente esposti dall’intera orchestra a tutta forza (fff):


Gli analisti hanno esaminato al microscopio quegli accordi, spiegandoci trattarsi di tre triadi maggiori rispettivamente di SIb, LAb e MI. E che fra la prima fondamentale (SIb) e la terza (MI) intercorre un intervallo di tritono, anticamente etichettato come diabolus-in-musica

Tuttavia quella sequenza discendente è percorsa solo dai bassi, come si può osservare sulla pagina di partitura alle linee di clarinetto basso, controfagotto, trombone basso, prima sezione dei violoncelli e seconda dei contrabbassi. Mentre in realtà la melodia che arriva alle nostre orecchie è, per così dire, pilotata dalla sequenza delle note più acute dei tre accordi, che sono rispettivamente RE-MIb-MI. Quindi noi ascoltiamo una sequenza cromatica ascendente con un’armonizzazione inconsueta, perchè determinata dalle diverse posizioni delle tre triadi maggiori, rispettivamente: secondo rivolto della triade di SIb (il RE); triade fondamentale di LAb (il MIb); e primo rivolto della triade di MI (il MI).

L’effetto che ne risulta non è precisamente di terrore, nè per la verità di ripugnanza o disgusto, ma più propriamente di sospetto: c’è qualcosa in quei suoni che non ci convince, che ci lascia una sgradevole sensazione di inaffidabilità, di falsa retorica e di volgarità mescolata a vacua magniloquenza. Insomma, ci evocano uno scenario inquietante.

Dovendoli poi associare alla personalità di un individuo, siamo portati a pensare a un tipo sfuggente, caratterizzato da subdolo perbenismo, da bigotteria e doppiezza; ma anche da oscuri complessi e da sete di dominio e di possesso: insomma, il perfetto ritratto di quel rappresentante del potere assoluto che risponde al nome di Vitellio Scarpia!

E non è un caso che quei tre accordi che aprono l’opera ritornino innumerevoli volte nel seguito, non solo per accompagnare la presenza in scena del Barone, ma più spesso e volentieri per evocare l’incombente minaccia, sua e del regime che egli rappresenta... che non cessa di aleggiare persino dopo che lo sbifido individuo è finito al cimitero! 

Tutto ciò è esclusiva prerogativa della musica... e assoluto merito del musico.

(5. continua)