affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

06 febbraio, 2017

Alla Scala sbarca il Falstaff triste di Michieletto

 

Altro esempio di acquisto in casa propria (Salzburg 2013) del soprintendente Pereira (oggi però i conflitti di interesse che tengono banco sono quelli di tale Raggi...) ecco arrivare in Scala, ieri sera alla seconda recita, il Falstaff di Damiano Michieletto, che segue la precedente e fortunata produzione di Carsen (2013 con Harding e 2015 con Gatti).

Comincio dalla musica che – sono certo Boito non me ne vorrà – è di gran lunga l’ingrediente principale dell’opera, per il suo carattere letteralmente rivoluzionario, che ne fa un unicum nella storia del teatro musicale. E che richiede, anzi pretende, la presenza di un concertatore coi fiocchi per essere resa al meglio. E qui siamo davvero in buone mani chè, dopo un giovane e un... diversamente giovane (entrambi all’altezza) arriva sul podio un arzillo nonnetto che va per gli 81 ma pare se la passi ancora alla grande, proprio come il Verdi che – a quell’età o giù di lì – componeva questo incredibile gioiello! Se si escludono un paio di circostanze in cui il Direttore ha sciolto un po’ troppo le briglie, con decibel eccessivi, mi pare di poter dire che la resa complessiva sia stata del tutto positiva, avendo messo in luce ogni minimo dettaglio di una partitura che è – appunto – una miniera d’oro e diamanti, che ad ogni ascolto non finisce di stupire. L’orchestra, giustamente ridimensionata nell’organico, soprattutto negli archi, per garantire quella purezza di suono che è la cifra principale dell’orchestrazione verdiana, ha risposto assai bene e si merita un incondizionato applauso.

Cast di sapore scaligero, se ben 5 dei 10 interpreti vengono dalla citata produzione carseniana: torna infatti, dopo aver saltato il turno precedente (ci fu Alaimo) il protagonista, Ambrogio Maestri, ormai avviato a diventare sir Ambrose Falstaff, viste le centinaia e centinaia di calate nei panni (per lui sempre più stretti!) del vecchio John. Passano gli anni, ma lui, proprio come il personaggio, sembra non accorgersene: forse l’assuefazione lo porta casomai a gigioneggiare più del necessario, con parlati che talvolta si sostituiscono al declamato, ma in complesso la sua è una prestazione degna della sua fama.

Con lui tornano dal 2013 anche Carmen Giannattasio, Francesco Demuro, Carlo Bosi e Massimo Cavalletti, questi tre ultimi ormai ospiti fissi dei Falstaff scaligeri, avendo cantato anche nel 2015. La prima mi pare aver acquisito maturità e miglior controllo dell’emissione, soprattutto negli acuti, in passato piuttosto urlati. Bosi sembra inossidabile e il suo Cajus continua a convincere. Anche Cavalletti, dopo tanta esperienza nel ruolo, dà di Ford un’interpretazione più che accettabile, superando si slancio anche le salite impervie che la parte gli impone. Demuro si merita ampia sufficienza, come in passato, ma mi pare non faccia ancora quel salto di qualità che sarebbe auspicabile.

Per il resto, dignitose le prestazioni del... Pistola (Gabriele Sagona) e di Francesco Castoro (Bardolfo) che illustra i meriti dell’Accademia scaligera dalla quale proviene.

Yvonne Naef è una intrigante (in tutti i sensi) Quickly, e mette in mostra la sua voce ben tornita e sempre ben controllata. Non così Annalisa Stroppa (Meg) che tende ad urlacchiare o a... non farsi udire. Infine, Giulia Semenzato impersona con discreto profitto una Nannetta disinvolta e sbarazzina.

Il Coro di Casoni non manca a sua volta di distinguersi, chiamato nelle due circostanze in cui interviene, a contrappunti davvero... bestiali, ma resi al meglio.

In conclusione, una piacevole performance, che conferma la qualità dei complessi scaligeri, che paiono tirar fuori il meglio di sè proprio in occasione di appuntamenti difficili come questo.
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Della regia di Michieletto si conosceva ormai tutto, e non solo riguardo i contenuti della messinscena, ma anche riguardo i giudizi di pubblico e critica: il bello e il brutto insieme di queste co-produzioni, o riciclaggi che dir si voglia, in tempi di web, blog, youtube, dvd, streaming e diavolerie assortite, è che si va a teatro già prevenuti, in un senso o nell’altro, e viene così a mancare l’effetto-novità o sorpresa.

Liquido con rito abbreviato (direbbe un leguleio) la scelta del regista di rappresentare le vicende dell’opera come un sogno del protagonista: idea in sè vecchia come il cucco, ma che non per questo è da biasimare a-priori. In fin dei conti il Falstaff sveglio (quello originale di Boito-Verdi) è un inguaribile sognatore ad occhi aperti, quindi fin qui tutto ok. Però, attenzione, il sogno dovrebbe mostrare il contenuto del soggetto, non ciò che si sogna... il regista!

Sono invece personalmente assai scettico sulla pertinenza dell’accostamento, tutto extramusicale, quindi per definizione sospetto - in quanto prescinde dall’unica fonte attendibile, testo-partitura - fra la composizione dell’opera e le vicende legate alla costruzione di Casa-Verdi, dal quale accostamento il regista ha preso spunto per porre al centro del suo Konzept una riflessione sui temi della malinconia, della vecchiaia e della morte (parole sue, riportate anche sul programma di sala): temi che effettivamente emergono in modo chiaro dal suo allestimento, ambientato appunto nella milanese casa di ricovero per artisti, dove vediamo circolare spesso e volentieri anziani e malati. (Detto di passaggio, Georges Wilson mise in scena un Falstaff triste già nel 1982 a Parigi, quindi anche qui siamo al riscaldamento di vecchie minestre... al quale peraltro si applica lo stesso ragionamento fatto sopra per il sogno.)

Ora, cosa Verdi avesse in testa nessuno può saperlo, ma ciò che è inconfutabile è che nel testo di Boito e nella musica del Maestro (che, lo ripeto, dovrebbero essere i soli elementi su cui basare la messinscena) nulla si ritrova del Konzept di Michieletto (a parte forse un po’ di malinconia, che per definizione non può mai mancare in alcun soggetto, anche il più leggero). E sarà solo un caso se tutta l’opera – escluse fugacissime apparizioni del minore – è in modo maggiore? E se principia e termina nel solare DO maggiore?

Nel testo troviamo soltanto due accenni alla vecchiaia e alla morte: il primo (atto II) quando, incontrando Alice, Falstaff proclama che potrà morir contento, dopo un’ora d’amore con lei. Una specie di meglio un giorno da leone... francamente di nessuna particolare profondità (e infatti il regista ci passa sopra disinvoltamente). Il secondo (inizio atto III) quando il povero pancione, ancora inzuppato d’acqua, sembra rassegnato a farla finita con un mondo in declino. Qui Michieletto tira in ballo proprio Verdi in persona, quando Falstaff stacca dal muro un quadro con la famosa effigie del Maestro ottuagenario, e la cosa ci può anche stare ma, appunto, è un momento fugace di malinconia che subito il grassone impenitente supera con un bicchiere di vin brulè che lo fa tornare più arzillo, credulone e incosciente di prima!    

Per il resto, Falstaff pensa e si comporta come uno che crede (di certo non lo è, ma lo crede, o lo sogna) di essere ancora un gran dongiovanni (Io sono ancora una piacente estate di San Martino); che ancora ha in testa progetti per il futuro (Questo è il mio regno. Lo ingrandirò !) Si tratta appunto di sogni ad occhi aperti, che la realtà distrugge sistematicamente ed impietosamente (un po’ come succede anche al dapontiano DonGiovanni, in fatto di conquiste mancate...) ma che non sembrano portare Falstaff (così come il Don) a serie meditazioni per trarre insegnamenti dai casi della vita. E così, dopo la tragicomica esperienza nel cestone del bucato con bagno finale nel Tamigi, lui è prontissimo a dimenticare tutto, tanto da ringalluzzire subito di fronte alla prospettiva della nuova avventura notturna. E nemmeno l’umiliante sputtanamento sotto la quercia di Herne lo porterà a meditare su vecchiaia e morte, al contrario: quando le tre comari implorano Fallo pentito Domine! lui ribatte, in perfetta rima: Ma salvagli l’addomine! (puro humor boito-albionico, altro che meditazioni michielettiane sulla morte!) E che dire della sua reazione al beffardo Cavaliero di Quickly con un fantastico Reverenza!

Anzi, il vecchio John mostra d’esser il più giovane di tutti (gente dozzinale) quando si attribuisce il merito della loro arguzia. E alla fine lui si sentirà ancora talmente giovane da prenderla sul ridere, e chiudere l’opera aizzando tutti gli altri a quello strepitoso, ottimistico quanto irresponsabile Tutto nel mondo è burla! (un’esilarante e strepitosa parodia del wagneriano, seriosissimo e pedante Wahn, Wahn, überall Wahn di Sachs.)

Insomma, a me pare che Michieletto, per giustificare la sua impostazione di fondo, abbia surrettiziamente introdotto elementi estranei al soggetto del Falstaff, senza apportarvi particolare valore aggiunto, anzi privandolo (non del tutto, certo) della sua freschezza quasi innocente; in compenso, alcune trovate volte a caratterizzare l’aspetto onirico della sua concezione mi sono parse francamente eccessive, volgari e perniciose: le donne che prendono d’assalto Falstaff con moine di ogni tipo, le fate che restano in sottoveste, Nannetta che scopriamo ninfomane, il funerale con i protagonisti maschi trasformati in religiosi...

Invenzione già... inventata è anche la trovata di far comparire in scena personaggi che lì non dovrebbero stare, ma ai quali alludono o fanno riferimento i personaggi che in scena ci sono in forza del libretto: il presumibile intento didascalico che sottende questa idea viene solitamente annullato dalla confusione che si ingenera nello spettatore.  

Dopodichè: tanto di cappello alla professionalità e alla cura con cui lo spettacolo viene presentato, ma ahinoi si tratta di condizioni necessarie, ma mai da sole sufficienti a garantire l’eccellenza di un prodotto. 

Piermarini con parecchi vuoti in ogni settore (gallerie comprese) e pubblico che non ha mancato di manifestare apprezzamento per tutti, Maestri e... Maestro in primo luogo! 
       

04 febbraio, 2017

2017 con laVerdi – 6


Claus Peter Flor resta sul podio anche per il sesto concerto stagionale de laVerdi (lui ne ha diretti fino ad ora la metà, poi per rivederlo aspetteremo fino a novembre...) Un programma che spazia su tre secoli, avendo come baricentro l’ultra-borghese Brahms e come estremi l’imparruccato Haydn e il sovietico Shostakovich.

E per la verità un sia pur labile fil rouge fra le tre composizioni lo si può anche individuare, proprio nel Musikant degli Esterházy. Dunque: Brahms si rifà ad Haydn (anche se è un Haydn probabilmente apocrifo) e poi Shostakovich scrive di getto, a metà del secolo ventesimo (!) una sinfonia che quasi quasi si potrebbe attribuire al simpatico Josephus!

Su un motivo del quale (ma pare proprio... di no, essendo più plausibilmente attribuibile al suo allievo Ignatz Joseph Pleyel) Johannes Brahms compone, nel 1873, le Variazioni op. 56a, ultimo suo lavoro orchestrale prima del gran debutto in Sinfonia.

Tutto deriva, per le prime 8 Variazioni, dalla sapiente manipolazione del Tema (uno strano tema costituito da due gruppi di 5 battute!) e, nel Finale, da una serie di 16 micro-variazioni su un basso ostinato – sempre di 5 battute - di passacaglia, costruito con note della prima parte del tema:

L’intero lavoro è nella tonalità del tema principale: SIb. Le otto variazioni che seguono l’esposizione del tema (cinque in modo maggiore e tre – 2-4-8 - in minore) ne sviluppano tutte le potenzialità, o ne derivano altri motivi a mo’ di reminiscenza. La struttura interna ha una meticolosa regolarità: così come il tema originale è costituito da due sezioni di 10 e 19 battute ciascuna, anche tutte le 8 variazioni sono precisamente costruite in quel modo e con quelle stesse proporzioni!   
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Affidiamoci a Leonard Bernstein e ai viennesi per seguire le tappe di questo vero e proprio gioiello.

12” esposizione del Tema principale (Andante, 2/4) e sua ripetizione (33”);

53” esposizione del controsoggetto e sua ripetizione (1’36”);

2’21” Variazione I (Poco più animato) prima sezione e sua ripetizione (2’36”); seconda sezione (2’46”) e sua ripetizione (3’11”);

3’39” Variazione II (Più vivace) prima sezione e sua ripetizione (3’48”); seconda sezione (3’56”) e sua ripetizione (4’13”);

4’33” Variazione III (Con moto) prima sezione (fiati); 4’51” prima sezione (archi); 5’09” seconda sezione (fiati); 5’47” seconda sezione (archi);

6’32” Variazione IV (Andante con moto, 3/8) prima sezione (fiati); 6’54” prima sezione (archi); 7’15” seconda sezione (fiati); 7’59” seconda sezione (archi);
 
8’44” Variazione V (Vivace, 6/8) prima sezione (fiati); 8’53” prima sezione (archi); 9’01” seconda sezione (fiati); 9’17” seconda sezione (archi);

9’36” Variazione VI (Vivace, 2/4) prima sezione e sua ripetizione (9’50”); seconda sezione (10’04”) e sua ripetizione (10’28”);
 
10’58” Variazione VII (Grazioso, 6/8) prima sezione e sua ripetizione (11’30”); seconda sezione (12’02”) e sua ripetizione (13’05”);

14’19” Variazione VIII (Presto non troppo, 2/4) prima sezione; 14’39” seconda sezione e sua ripetizione (14’58”);
 
15’20” Finale (Andante, 4/4 alla breve). È in se stesso un tema con 16 variazioni, che poggiano tutte (tranne la XII) su un basso di passacaglia di 5 battute che è affidato inizialmente ai contrabbassi;
15’32” Variazione I (basso in contrabbassi e controfagotto);
15’44” Variazione II (basso in contrabbassi e controfagotto);
15’55” Variazione III (basso in contrabbassi e controfagotto);
16’05” Variazione IV (basso in contrabbassi e controfagotto);
16’14” Variazione V (basso in contrabbassi e controfagotto);
16’24” Variazione VI (basso in contrabbassi e controfagotto);
16’36” Variazione VII (basso in contrabbassi e controfagotto);
16’46” Variazione VIII (basso nei contrabbassi);
16’56” Variazione IX (basso nei violoncelli);
17’05” Variazione X (basso nelle viole);
17’15” Variazione XI (basso nel corno);
17’25” Variazione XII (senza basso ostinato);
17’34” Variazione XIII (basso negli oboi);
17’43” Variazione XIV (basso in oboi e flauti);
17’52” Variazione XV (basso nei corni);
18’01” Variazione XVI (basso in corni e violoncelli); da qui e fino alla fine entra in azione anche il triangolo;
18’10” Ripresa del tema principale, prima sezione; 18’33” seconda sezione (parte finale);
18’40” Coda, con molto ritardando...; ...in tempo (18’56”) Cadenza finale.
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Encomiabile la prestazione dei fiati che – in omaggio all’origine bandistica del tema -  sopportano il peso principale del brano. Ma in complesso è stata un’esecuzione rigorosa e tutta l’Orchestra (anche questa volta disposta con violini secondi al proscenio e bassi a sinistra) ha confermato la sua compattezza e la ormai proverbiale dimestichezza con questo tipo di repertorio.
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Ma ecco ora Haydn in prima persona! La Sinfonia numerata come 94 (non cominciamo ora a discettare sulle numerazioni, please, lasciamo fare a tale Hoboken e mettiamoci una pietra sopra) è universalmente (tradotto in cifre: poche migliaia di persone nell’intefo pianeta) nota come La sorpresa, oppure, più materialisticamente, come il botto del timpano (traduzione casereccia dal crucco Paukenschlag) che è causa, appunto, della sorpresa (anzi, del risveglio di soprassalto) nell’ascoltatore che, dopo esser stato tenuto ben sveglio dal Vivace assai di apertura, rischiava magari l’appisolamento alle prime 15 battute di tran-tran dell’Andante:


Ora, datosi che questa sinfonia non fu composta per quattro babbioni nobilastri della cerchia degli Esterházy, bensì per il ben più ampio, raffinato e pure schizzinoso pubblico della Londra già imperiale (dove l’orchestra messa a disposizione di Haydn era di organico addirittura triplo di quello a lui disponibile nella bucolica Esterháza) la cosa sta presumibilmente a significare che il buon Haydn non si fidasse poi troppo delle attitudini dei londinesi e/o delle mirabili qualità della sua stessa musica (!) Seguiamone un’interpretazione del grande Lenny con i mitici Wiener:
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Anche in Albione Haydn non rinuncia alle sue radicate abitudini, e quindi la Sinfonia – in SOL maggiore - principia con un’Introduzione in Adagio cantabile, 3/4, aperta dai legni che poi dialogano con gli archi per 17 battute (quindi, abbastanza contenuta, rispetto ad altre quasi interminabili). A 1’44” attacca sommessamente negli archi il Vivace assai, in 6/8, che si presenta in una forma-sonata piuttosto spuria, con una mezza battuta che espone l’incipit del primo tema; dopo altre tre battute piene, ecco (1’50”) uno scoppio dell’intera orchestra che sviluppa il tema, sempre in dinamica forte, con veloci semicrome di violini e poi viole contrappuntate dalle note più lunghe dei fiati e del resto degli archi. Un breve ponte, più delicato (basato sull’incipit del tema) e suonato piano dai violini subentra a 2’10”, e porta alla riproposizione (2’16”) del tema, questa volta con lo scoppio meno... scoppiettante.

La transizione verso il secondo tema è piuttosto elaborata e testimonia dell’inventiva di Haydn: si abbassa la tonalità di un tono intero, riesponendo (2’36”) l’incipit del primo tema in FA maggiore, da qui si vira (2’42”) alla relativa RE minore e finalmente si approda al canonico RE maggiore. Ma a differenza di ciò che verrà quasi codificato poi da Beethoven (e ignorato da Schubert) i due temi dell’esposizione non hanno caratteristiche marcatamente contrastanti (maschio-femmina o eroico-elegiaco) ma appaiono uno come il controsoggetto dell’altro, e ciò che li differenzia all’orecchio è poco più che il salto di tonalità. Così il secondo tema (2’51”) continua su ritmo e atmosfera invariati rispetto al primo, con le volate di semicrome dei violini e dei flauti, fino ad una cadenza più moderata (3’16”) caratterizzata da intervalli discendenti di settima (RE-MI) che conducono verso la chiusura dell’esposizione (3’30”) avviata da un lungo trillo dell’oboe che prepara il ritorno al SOL maggiore (3’51”) per il classico da-capo, che a quei tempi serviva a far entrar bene nel capo dell’ascoltatore i due temi che successivamente andavano ad incontrarsi, talvolta scontrarsi, nello sviluppo.    

Sviluppo che in questo caso non è canonicamente distinto dalla ricapitolazione, per cui si potrebbe parlare di sviluppo-ripresa dei due temi. Troviamo a 5’58” una riapparizione del primo in DO maggiore, poi (6’21”) un brusco contrasto (RE minore) e un lungo passaggio con reiterate figurazioni in metro trocaico. A 7’02” il primo tema riappare (come fosse l’inizio della ripresa) e poco dopo ecco l’ubbidiente adeguamento (7’43”) del secondo alla tonalità del primo, SOL maggiore. (Cessa quindi il dominio della dominante, e in ciò qualcuno ci vede nientemeno che il calar d’ali - e di braghe - della dominante nobiltà nei confronti della rampante borghesia!) Tuttavia il movimento ancora non si conclude, poichè (8’05”) si ripresentano spezzoni del primo e del secondo tema (quasi un secondo sviluppo) che portano finalmente (9’15”) alla cadenza di chiusura del movimento.   

L’Andante, in DO maggiore, 2/4, principia (9’38”) in modo a dir poco... pedante, forse in omaggio ai reali britannici (Pomp&Circumstance): triade in salita e successiva discesa per terze alla dominante SOL, un tema che definire scolastico è fargli un complimento. Ma qui (10’12”) alla 16ma battuta, dopo la riproposizione del soggetto, proprio per evitare inopinate cadute in letargo fra il pubblico, ecco la sorpresa di Haydn, il fortissimo orchestrale ulteriormente appesantito dal secco SOL del timpano (e nel seguito ne arriveranno altri!) Seguono altre 16 battute in cui viene esposto due volte il contro-soggetto, leggermente più mosso.

Ecco, l’intero movimento è costruito come una serie di variazioni su questi semplici (o sempliciotti...) motivi. Si comincia (10’47”) con un altro richiamo all’ordine (timpano incluso) e con il soggetto nei secondi violini e viole, abbellito da svolazzi dei primi e poi del flauto (il tutto ripetuto); quindi (11’20”) ecco il controsoggetto, sempre nei secondi violini con abbellimenti di violini primi e viole (ripetuto). Ancora (11’53”) con tanto di indicazione esplicita (Minore) il soggetto viene esposto in DO minore, con cadenza a LAb e chiusa sul MIb (ripetuto). Ora un’ampia sezione, sempre di DO minore (12’27”) dove il soggetto è esposto dai bassi e abbellito da archi e legni: dopo un tumultuoso animarsi dell’intera orchestra, sono i violini (12’55”) a riportare la tonalità a DO maggiore (anch’esso esplicitamente indicato sulla partitura, per gli esecutori distratti... -  ma anche Beethoven farà lo stesso nella Marcia funebre dell’Eroica) dove il tema viene umoristicamente esposto (13’04”) in veloci e staccate semicrome dall’oboe, sostenuto dal ritmo di altre semicrome degli archi. In seguito si aggiunge il flauto ad impreziosire il tema con il suo suono suadente.

Altro perentorio schianto generale (14’10”) per la ripresa stentorea ed enfatica del tema nell’intera orchestra. Poi (14’27”) ecco una variante comoda e riposante negli archi, prima di un nuovo fracasso (15’01”) sul controsoggetto, dopodichè ci si avvia alla conclusione, introdotta (15’24”) da una fermata sul MIb, del tipo normalmente impiegato nei concerti solistici per introdurre la cadenza virtuosistica. Qui invece ne abbiamo una, davvero stupefacente, dell’orchestra, che ripete il tema nei legni – sui rintocchi e sul rullo, sommessi stavolta, del timpano – abbrunandolo con dei SIb e poi REb negli archi, il che crea un’atmosfera notturna di grandissimo fascino (chapeau!)    

Ecco poi il Menuetto (Allegro molto, 3/4) che non potrebbe essere più classico nella forma (due sezioni, Trio pure in due sezioni e ripresa del Menuetto); viceversa il tema principale è anche qui di un’estrema prosopopea, scandito in battere da timpano e trombe, e in levare dai corni. La prima sezione (16’22”) è di 18 battute, suddivise in 8-10: dapprima le due parti del tema (4+4 che sboccano su sottodominante e tonica) e quindi (16’32”) la cadenza asimmetrica (4+6) che chiude sulla dominante RE. Il tutto ripetuto (16’44”).

La seconda sezione (17’07”) è assai più corposa ed articolata, prevedendo una teatrale fermata con impertinente svolazzo di strumentini (17’31”) e sussiegosa quanto goffa risposta di fagotto e cello nel silenzio generale e poi la ripresa del tema principale con una cadenza più ampia (17’47”, oboi e fagotti per terze) che porta alla chiusa. La sezione viene ripetuta (18’05”).

Il Trio (19’05”) è composto da una prima sezione di 8 battute (4+4) che chiude sulla dominante RE (sezione ripetuta a 19’16”) e poi da una seconda (19’27”) che inizia svariando plagalmente a DO ma torna subito al SOL per chiudersi (sezione ripetuta a 19’51”). Infine, ripresa delle due sezioni del Menuetto (20’16”) senza ripetizioni.    

È un Allegro di molto, SOL maggiore, 2/4, a chiudere la Sinfonia (21’48”). Il tema principale (che la farà da padrone... quasi come in un Rondo) esposto dagli archi occupa le classiche otto battute, e viene tosto (21’55”) ripreso anche dal flauto. Lo segue (22’01”) un controsoggetto che si muove lungo la dominante, per poi lasciare spazio (22’12”) ad un ritorno variato e abbreviato del tema. Ora i violini (22’19”) si imbarcano in lunghe volate di semicrome scandite dalle crome degli altri strumenti, che preparano la modulazione a RE maggiore. Una pausa abbastanza lunga (22’48”) prelude all’entrata del secondo tema, appunto sulla dominante. Ancora i violini a sbizzarrirsi con le semicrome, fino alla chiusa del secondo tema sulle triadi di RE maggiore (23’08”).

Si ritorna tosto al SOL maggiore e al primo tema, esposto dal fagotto. Altra travolgente galoppata dell’orchestra, che sfocia in un momento di rarefazione sonora (23’43”) dove i violini quasi stentatamente (sulla relativa SI minore) introducono una nuova comparsa (23’46”) del primo tema, che viene ripetuto (23’53”) in tonalità minore, seguito da altre scorribande in semicroma degli archi. Ancora una riproposta (24’16”) del primo tema in flauto e fagotto, che porta ad una nuova lunga pausa (24’40”). Qui il secondo tema ricompare nella tonalità di impianto (come si vede anche questo movimento ha caratteristiche di forma-sonata). Spezzoni dell’incipit del primo tema (24’53”) danno inizio ad una coda piuttosto energica che sfocia in fortissimo per la cadenza finale, interrotta da due battute impertinenti dei legni, prima dei due smaccati accordi conclusivi.   
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Pregevole la prestazione dei ragazzi, e convincente la lettura di Flor, a partire dallo stacco dei tempi. Un esempio per tutti: il Menuetto, che lui attacca con passo da bersagliere; chi ha ascoltato Bernstein troverà una differenza abissale con il suo tempo letargico. Ma l’agogica parla chiaro: Allegro molto, e ciò dà torto a Lenny, che fa un Menuetto per i flemmatici viennesi mentre Haydn, come sappiamo, lo scrive per l’esigente pubblico della City. E per accontentare quel tipo di pubblico, Flor esegue il ritornello della seconda sezione del Menuetto anche nella ripresa dopo il Trio!

Poco prima, nell’Andante, per accentuare ulteriormente il contrasto che porta alla sorpresa, aveva fatto suonare il tema praticamente al solo Santaniello. Insomma, una gran bella esecuzione, giustamente accolta da lunghi applausi.
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La Nona di Shostakovich ha risuonato qui in Auditorium nemmeno un anno fa sotto la bacchetta di Ceccherini (chiamato peraltro in tale circostanza a sostituire l’indisposto Axelrod) e quindi quei suoni devono ancora vibrare nelle corde e nelle canne degli strumenti, basta lasciarli suonare da soli (e’sticaz... direbbe uno qualunque dei ragazzi che per farli suonare come si deve ci mettono l’anima, oltre che il corpo!)

Shostakovich fa parte del midollo spinale dell’Orchestra (una delle poche, non dimentichiamolo, ad aver inciso l’intero ciclo delle 15 sinfonie del russo, con Caetani) che non si smentisce di certo nemmeno stavolta. Momenti di gloria per Andrea Magnani, che con il suo magico fagotto ha illustrato al meglio il Largo, sostenendo da par suo il confronto con i pesanti interventi degli ottoni gravi.

Ma tutti si sono meritati calorosi applausi, da un pubblico non oceanico ma evidentemente soddisfatto. 
     

27 gennaio, 2017

2017 con laVerdi – 5


Accoppiata tipica per laVerdi nel 5° concerto della stagione, diretto da Claus Peter Flor, un vero e proprio testa-coda dell'800!

Si parte con il beethoveniano Imperatore, interpretato da Gabiele Carcano, tornato per l’occasione a far visita all’Auditorium dopo quasi due anni. Il quale, a 32 anni, conferma di essere entrato nella piena maturità con un’interpretazione rigorosa, priva di deviazioni abitrarie, insomma... severamente beethoveniana al 100%. Qualche rara imprecisione nei passaggi più scabrosi non intacca l’eccellenza della sua prestazione, coadiuvata dalla gran forma dell’orchestra (che Flor, come sua consuetudine per questo repertorio, schiera in formazione tedesca, con i secondi violini al proscenio e i bassi a sinistra).

Così il riservato ragazzo torinese ci propone come bis una sonatina di Domenico Scarlatti che qui ascoltiamo da un grande del quale gli auguriamo di seguire le orme!  
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Secondo piatto forte la Nona di Bruckner, che Flor aveva già diretto qui, e con gran successo, nel maggio 2012. Partitura sterminata (chissà cosa sarebbe stata se il pio Anton avesse avuto tempo per completare anche il Finale!) e straordinariamente difficile, per gli esecutori e per il Direttore. La partenza del Feierlich mi è parsa un filino contratta, ecco, forse Flor ha ecceduto in sostenutezza, poi però le cose sono andate decisamente meglio, e questa poderosa cattedrale barocca ha potuto ancora una volta ergersi in tutta la sua magnificenza, che alle prime lascia davvero sconcertati. Nello Scherzo si sono riprodotte le barbare sonorità che anticipano e allo stesso tempo ridicolizzano quelle pur scandalose del Sacre! Nell’Adagio che chiude questo torso (comunque un’ora piena!) di sinfonia si anticipa il Mahler di un’altra celebre nona che Flor dirigerà più avanti nella stagione (mentre già la prossima settimana se la vedrà con una nona... sovietica).

Auditorium non proprio preso d’assalto (certo con la settima di Beethoven, per dire, al posto dell’ostico Bruckner si sarebbe fatto il pieno...) ma prodigo di applausi per i ragazzi: il solo saperla fare, e bene, questa musica, è già meritevole di elogio incondizionato.

21 gennaio, 2017

2017 con laVerdi – 4


Il nuovo Direttore Principale Ospite, Patrick Fournillier, torna dopo meno di un anno in Auditorium con un programma – noblesse oblige – tutto francese. Salito sul podio, si volta verso il pubblico per commemorare la figura di Georges Prêtre, con il quale si è detto onorato di aver avuto stretti rapporti (e direi proficui, a giudicare dai risultati...)

Poi attacca la versione orchestrale del Tombeau de Couperin di Maurice Ravel. Che era stato composto durante la Grande Guerra (Ravel si era volontariamente arruolato, 39enne, come autista di ambulanze) per il pianoforte solo e constava di 6 brani, proprio a mo’ di una Suite barocca, in omaggio al grande musicista francese, autore di ben 27 Ordres (Suite) per clavicembalo (in 4 libri, fra il 1713 e il 1730) ma anche in memoria di sei commilitoni, con i quali Ravel aveva rapporti stretti, caduti nella guerra. E fu Marguerite Long, moglie di uno di costoro (il musicologo Joseph de Marliave) ad interpretarla per la prima volta nel 1919. L’anno successivo Ravel approntò due nuove versioni del Tombeau: la prima (che si ascolta qui) è una trascrizione per orchestra di 4 dei 6 brani dell’originale; la seconda è una parte di questa trascrizione (3 brani) destinata ad accompagnare un balletto della compagnia svedese di Jean Borlin.

Qui un quadro riassuntivo dell’opera nelle sue tre versioni:

originale per pianoforte
versione per orchestra
versione per balletto
I – Prélude
I – Prélude
I - Forlane
II - Fugue
II - Forlane
II - Menuet
III – Forlane
III - Menuet
III - Rigaudon
IV – Rigaudon
IV - Rigaudon

V - Menuet


VI - Toccata



Come si nota, la versione orchestrale manca dei due movimenti più marcatamente caratteristici della tastiera (Fuga e Toccata); quella per il balletto è di fatto la versione orchestrata priva del Preludio. Nella versione per orchestra Menuet e Rigaudon si scambiano il posto, in modo che il brano si chiuda (in assenza della Toccata) con un movimento vivace.

Per essere un elogio funebre, è assai elogiativo e ban poco... funereo. A chi glie lo faceva osservare, Ravel rispondeva che quei poveracci avevano avuto abbastanza sfortuna, e che non era il caso di rincarare la dose.

Personalmente sono convinto che la strada più appropriata per conoscere quest’opera sia quella di approcciarne l’originale per pianoforte (qui propongo l’ascolto di una simpatica conoscenza de laVerdi, Angela Hewitt). La versione per orchestra (Ravel era uno strumentatore sopraffino, i Quadri sono lì a dimostrarlo!) è addirittura lussureggiante, ma forse proprio per questo perde un po’ della cristallina purezza dell’originale (proprio come accade a Musorgsky). Ecco qui un grande della musica interpretarla dirigendo altri grandi...

Il successo del Tombeau è stato tale che diversi musicisti si sono sbizzarriti a farne versioni cameristiche personalizzate; e qualcuno ha pure deciso di essere più smart dell’Autore e si è permesso di orchestrare anche i due movimenti che Ravel aveva deliberatamente lasciato alla sola tastiera. Fra i tanti un pianista e direttore d’orchestra, Zoltán Kocsis, del quale qui possiamo ascoltare la suite completa (con i brani nella sequenza dell’originale).    
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Seguiamo il Tombeau originale, sempre con la Hewitt.

Preludio (dedicato al tenente Jacques Charlot, musicista, parente dell’editore di Ravel, Jacques Durand). È in tempo di 12/16 (12 semicrome a battuta) con un metronomo davvero pazzesco: 92 semiminime puntate! Il che significa che l’esecutore deve suonare (mano destra e sinistra alternativamente) più di 9 note (semicrome) al secondo per quasi 3 minuti! Nella versione orchestrata il carico di... lavoro, invero massacrante nell’originale per tastiera, si distribuisce fra gli strumentini (oboe in-primis) e gli archi. Contrariamente alla struttura barocca, che prevedeva un brano monotematico, Ravel dà al Preludio una veste bi- (o addirittura tri-) tematica e una struttura vagamente sonatistica (esposizione col da-capo, sviluppo e ripresa). La tonalità (praticamente di tutta la suite, come da tradizione) è MI minore (e relativa SOL maggiore) ma in omaggio all’arcaismo dell’ispirazione il MI minore ha inflessioni modali (eolio) mancandovi sempre la sensibile RE#. Dopo un’introduzione di 4 battute, ecco (6”) l’esposizione del primo tema spiritato (MI minore modale) cui segue (29”) il secondo, più rilassato (SOL maggiore). L’esposizione viene ripetuta (47”) dopodichè inizia (1’28”) lo sviluppo, cui segue (2’06”) una specie di ripresa, che conduce alla conclusione, dopo un paio di battute di presa di respiro (2’51”) con un’esilarante volata, un tremolo e la croma finale sul MI.
   
Fuga (dedicato al sottotenente Jean Cruppi, la cui madre si era adoperata per la messa in scena di L’heure espagnole). È una fuga a tre voci, sempre in MI minore eolio, Allegro moderato e strutturata in modo tripartito: esposizione, sviluppo e coda. L’esposizione (3’11”) presenta il soggetto della fuga ripreso a due battute di distanza dalla seconda e dalla terza voce, mentre sulla seconda voce si ode un controsoggetto (3’21”) caratterizzato da una terzina che squilibra un po’ la regolarità del ritmo. L’esposizione riprende (3’34”) in forma variata e porta direttamente(3’51”) allo sviluppo. Qui Ravel impiega parecchi dei tradizionali artifici fiamminghi, come (4’12”) l’inversione, il pedale (4’35”) il canone stretto (5’04”) oltre a giocare con le tonalità. Lo sviluppo (5’51”) si chiude e lascia spazio per la conclusione, che sfocia (6’08”) in una coda assai lenta. È una quinta vuota (MI-SI) a por fine alla fuga, una mirabile mistura di tradizione e di modernità quasi impressionista.

Forlane (dedicato al tenente Gabriel Deluc, pittore basco che probabilmente aveva ispirato alcuni lavori di Ravel). Il quale aveva appena trascritto proprio una Forlane di Couperin (nemmeno a farlo apposta, in MI minore) dal quarto dei Concerts roayaux (1722) ed evidentemente se ne ricordò per la stesura di questo movimento della sua suite. Il tempo è Allegretto in 6/8 e la forma è di Rondo. Il ritmo prevalente è puntato (croma puntata – semicroma – croma). La struttura è rappresentabile dalla sequenza A-B-A’-C-A-Coda. A 6’39” ecco il ritornello A che si chiude a 7’52” per far spazio al primo episodio interno (B). A 9’04” abbiamo una fugace apparizione di A (ma si tratta proprio di un frammento di 8 sole battute) cui segue (9’17”) il secondo episodio (C) che si chiude a 10’20” per far posto all’ultimo ritorno di A. A 11’22” si modula a MI maggiore per la Coda, che ritorna presto (11’42”) al minore, per chiudere con una nuova quinta vuota (MI-SI) nel grave.    

Rigaudon (dedicato ai fratelli Pierre e Pascal Gaudin, amici di famiglia di Ravel). É un’antica danza popolare del sud della Francia, di dove erano originari i fratelli dedicatari del brano, disgraziatamente morti, uno al fianco dell’altro, precisamente nel primo giorno del loro arrivo a Oulches, sul fronte nordorientale, il 12 novembre del ’14. Tempo Assez vif, in 2/4, tonalità (una delle due eccezioni al MI minore nella Suite) di DO maggiore. La macro-struttura è A-B-A’, dove la prima sezione (12’24”) si presenta divisa in due parti, rispettivamente di 8 e 28 battute, entrambe da ripetersi (A a 12’32” e poi B a 12’40”-13’08”). Curiosamente le prime due battute sono quelle che assumeranno il ruolo di cadenza finale, sia dell’esposizione di A che dell’intero  movimento. Si noti (12’57” e poi ripetuto a 13’24”) un esilarante passaggio nell’acuto della tastiera, che porta alla conclusione della sezione A (poi ripetuta). La sezione centrale (B) si presenta con tempo Moins vif e vira a DO minore (13’37”). Riecco il DO maggiore e poi (14’25”) un passaggio che ricorda atmosfere gitano-spagnolesche, prima di un allargamento della melodia che porta al ritorno della prima sezione (A’) con il suo incipit crudo (14’53”): la differenza dalla prima comparsa risiede nella mancanza dei due da-capo, quindi in una maggiore stringatezza, e in un sottilissimo, ma significativo cambio di armonia (15’22”, una specie di cadenza plagale) che precede la chiusa. Il tutto fa rassomigliare il brano ad una specie di Scherzo (A) con Trio (B).

Menuet (dedicato a Jean Dreyfus, alla cui madre Ravel ea molto attaccato, e alla quale indirizzò una lunga corrispondenza). É l’altro movimento della Suite che devia rispetto al MI minore che la caratterizza: essendo nella tonalità relativa di SOL maggiore, con inserto centrale in RE minore. Il tempo è Allegro moderato, 3/4 e la struttura A-B-A-Coda. La sezione A (15’37”) è composta, come nel Rigaudon, da due parti, di 8 e 24 battute, entrambe da ripetersi (A a 15’54” e poi B a 16’10”-16’59”). La sezione B (Musette) è in RE minore (17’50”) ed è costtuita da due parti, di cui la prima si ripete (18’05”) e la seconda (18’21”) presenta un culmine (18’36”) in fortissimo per poi ritornare alla prima parte (18’54”) per la conclusione. Ricompare quindi (19’11”) la sezione A ma questa volta con la Musette che all’inizio l’accompagna nel basso. Si arriva quindi (20’16) alla Coda, che stempera ulteriormente (20’41”) i suoni in pianissimo e chiude su un Ralentir beaucoup e poi Très lent, esalando un tremolo sospeso su un rivolto dell’accordo di dominante.

Toccata (dedicato al capitano Joseph de Marliave, musicologo, per molto tempo amico di Gabriel Fauré, marito di Marguerite Long, prima interprete del Tombeau). Si tratta di un movimento assimilabile ad un Allegro di sonata. Il tempo è Vif, 2/4, MI minore. Anche qui il metronomo è da... brividi: 144 semiminime, peggio che nel Preludio! L’esposizione (21’26”) presenta in 9 battute ben 5 cellulle motiviche, che costituiranno i tasselli dell’intero movimento. Il primo gruppo tematico si estende fino a 22’13”, dove gli subentra il secondo tema (Un peu moins vif). L’esposizione si chiude a 22’40” per far spazio allo sviluppo, di proporzioni assai ampie, dove (22’48”) si modula inaspettatamente di un semitono in basso (RE# minore). A 23’29” torna il MI minore d’impianto per la chiusura dello sviluppo (24’33”) dove inizia una rapida ed eterodossa ricapitolazione, in MI maggiore, che ripropone, trasfigurato ed esultante, il secondo tema dell’esposizione, fino alla chiusa, su un’ottava di MI nel grave.
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Bene, ribadito che la versione orchestrale accontenta certamente più l’orecchio che... lo spirito, devo dire che Fournillier ha mostrato di padroneggiarla al meglio (l’esprit de finesse evidentemente non gli manca) e l’Orchestra lo ha in pieno assecondato. Sugli scudi, ça va sans dire, tutti i legni, fra i quali mi limito a citare, come vessillifero, l’oboe di Emiliano Greci.    
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Ecco poi Francis Poulenc e il suo Concerto per due pianoforti. Presentato qui quasi 4 anni orsono da Wayne Marshall e dal duo Lupo-Pedroni (di cui a suo tempo ho riferito). Questa vola c’è ancora una valida risorsa de laVerdi, Carlotta Lusa, ad affiancare il più navigato Orazio Sciortino, che alterna continuamente le sue prestazioni di solista al pianoforte con quelle di compositore (che con laVerdi ha già proficuamente collaborato).

Fournillier cerca di dare il massimo rilievo ai due solisti e così smagrisce la formazione degli archi rispetto alla tassativa prescrizione dell’Autore (8-8-4-4-4) riducendo... gli estremi, violini e contrabbassi (a suo tempo Marshall aveva fatto esattamente l’opposto). Anche i due solisti sembrano suonare... in punta di piedi e così ne esce una cosa assai gradevole, che anche il pubblico gradisce, ricambiato proprio con lo stesso bis poulenchiano proposto a suo tempo dalla coppia Lupo-Pedroni (questi polacchi esagerano per davvero e lo suonano con un’orchestra di 6 pianoforti e tanto di direttore!)
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Chiude la serata Georges Bizet con la sua Sinfonia in DO maggiore, composta quando ancora non erano arrivati sulla scena sinfonica Bruckner, Brahms, Dvorak e Ciajkovski... ma vi erano appena usciti (nel senso di... trapassati) Mendelssohn e Schumann. Quindi a chi poteva ispirarsi per una sinfonia un giovin musicista con chiare propensioni melodrammatiche? Non certo a Beethoven, ma più propriamente a Schubert.

Come quelli del viennese (della Piccola e pure della Grande, per parlare di DO maggiore) i temi sono tutti accattivanti, orecchiabili, lunghi e melodici, come si addice ad arie d’opera o romanze. Sinfonia?  Beh, diciamo una simpatica pastorale, ecco.

Fournillier la dirige a memoria, evita solo il da-capo dell'ultimo movimento (cosa condivisibile) e trascina il pubblico all’entusiasmo con un Finale travolgente. Peraltro la perla resta pur sempre l’Adagio, dove l’altra prima parte all’oboe (Luca Stocco) si merita due citazioni singole dal Direttore.

Beh, è musica che consola, e non è poco, in momenti in cui ci si domanda se davvero Dio esiste.

17 gennaio, 2017

Alla Scala torna il Don di Verdi (e di Abbado?)

  

Da questa sera torna alla Scala Don Carlo(s). Con la s o senza? Essendo in lingua italiana, senza. Però tradizionalmente Don Carlo fa pensare alla versione in 4 atti, quella stesa con grande cura da Verdi proprio per la Scala in vista delle recite del 1884 ed entrata, insieme all’originale parigino in 5 atti del 1867, nei repertori dei principali teatri.

Invece la versione presentata qui è sì in italiano, ma in 5 atti... ed è quindi diversa sia dall’originale parigino del 1867 che da quello scaligero del 1884, gli unici considerabili come authoritative. Perchè invece, se si censiscono tutte le diverse versioni dell’opera provate o messe in scena Verdi vivente, si arriva addirittura a sette, precisamente:

1. Partitura completata da Verdi nel 1866 in vista della prima parigina. Impiegata nelle prove, ma mai messa in scena.

2. Versione eseguita alla generale del 24/2/1867, che differisce dall’originale per cinque tagli, evidentemente apportati da Verdi dopo le prove. Qui però Verdi aggiunse il balletto del terz’atto La Peregrina (ancora assente nella partitura originale).

3. Prima esecuzione a Parigi (11 marzo, 1867). Vi sono apportati ulteriori tre tagli, fra i quali la soppressione della scena iniziale dei boscaioli e il relativo Preludio.

4. Seconda esecuzione a Parigi (13 marzo): vi viene soppresso (in futuro, nel Requiem, diventerà il Lacrymosa) cordoglio di Filippo. Questa versione, tradotta in italiano, venne poi esportata a Londra, Bologna e Milano.

5. Versione di Napoli del 1872: è sempre la versione della prima parigina, tradotta in italiano, con però due varianti: modifica al duetto Filippo-Rodrigo del second’atto e taglio al duetto Carlo-Elisabetta dell’atto finale.

6. Versione di Milano del 1884. Talmente curata da Verdi che la definì come quella di riferimento. Vi troviamo la soppressione dell’intero primo atto e interventi su quasi tutto il corpo dell’opera. Il libretto fu predisposto (a partire dalla versione 4 di Parigi) in francese da duLocle e poi tradotto in italiano da deLauzières-Zanardini. Le principali varianti sono: Prima scena (Carlo, “Io l’ho perduta” con recupero di parti dell’atto soppresso); rimaneggiamento della scena Filippo-Rodrigo (atto II); soppressione dell’inizio atto III (Coro, travestimento Elisabetta-Eboli e Peregrina) sostituiti da un Preludio; finale rimaneggiato, senza il coro dei Frati.
    
7. Versione di Modena del 1886. Ripristina il primo atto, come nella versione 3 di Parigi cui fa seguire i quattro atti della versione scaligera (6).

Bene, ciò che (probabilmente) si ascolterà da stasera e nei prossimi giorni è qualcosa di diverso ancora dalle sette versioni citate. In omaggio alla tendenza al nuovo, che però nuovo non è, visto che già nel 1977-78 Claudio Abbado (qui con un signor secondo cast, per la teletrasmissione RAI) presentò una versione vicina a quella di Modena (7) ma con la riapertura di alcuni tagli fatti da Verdi rispetto alla partitura originale (la scena iniziale, Preludio incluso, dei boscaioli e il Lacrymosa) e l’impiego di parti della versione francese (il Coro e il travestimento Elisabetta-Eboli che aprono il terzo atto, il duetto Filippo-Carlo prima del Lacrymosa e il finale dell’opera con il coro dei Frati). Invece: per non far notte e risparmiare sui costi delle coreografie... niente Peregrina.

Ecco, Chung ci dovrebbe (meglio usare il condizionale) presentare qualcosa di simile, essendo la produzione quella di Salzburg di qualche anno fa, che seguiva la falsariga di Abbado-77. In fatto di applicazione della tecnica del meccano, non sarà mai peggio della penultima (ormai) comparsa del Carlo al Piermarini (Gatti, 2008).

14 gennaio, 2017

2017 con laVERDI – 3


Torna in Auditorium la Xian (Direttore emerito, la sua nuova carica in laVerdi) per dirigere una specie di ritardato Concerto di Capodanno

In mezzo ai più o meno tradizionali e conosciuti walzer, polke e operette degli Strauss (il più famoso Johann jr e il di lui fratello, di 10 anni più giovane, Eduard) e al sempre gradevole von Suppè di un’intera giornata a Vienna, abbiamo la simpatica intrusione di un altro viennese, del ‘900 peraltro, del quale il prossimo 27 gennaio ricorreranno i 17 anni dalla prematura scomparsa (aveva meno di 70 anni): Friedrich Gulda.

Che fu soprannominato terrorista per le sue dissacranti esecuzioni ed anche per certi suoi comportamenti provocatori. Trovandomi per lavoro in Germania, primi anni ’80, mi capitò di vedere in televisione una performance in cui lui e la sua compagna Ursula Anders si esibivano in completa nudità (no, veramente lui indossava la sua inseparabile kippah...): lui suonando peripateticamente il flauto (o qualcosa di simile) proprio come un autentico Pan... e lei accompagnandolo alle percussioni!

Di lui il trentenne scandinavo Andreas Brantelid ci presenta il simpatico Concerto per violoncello e fiati (ci sono poi anche una chitarra e un contrabbasso, più batteria). Ecco una sua interpretazione con accompagnatori connazionali. Qui invece vediamo l’Autore dirigere il suo Concerto con Heinrich Schiff, che ne fu anche il primo interprete, nel 1981.

Al proscenio fanno bella mostra di sè due diffusori di suono: è infatti prescritto da Gulda che la chitarra venga amplificata (insomma, come nelle jam-sessions che si rispettino) ma – sorpresa! – in 4 dei 5 movimenti (cadenza esclusa) lo deve essere anche lo strumento solista!

Si apre con Ouverture, che attacca con un tema squisitamente rock-jazzistico, nervoso, cui fa da contraltare (in stile forma-sonata) un motivo dal taglio contemplativo e dal sapore vagamente schubertiano. Ecco poi Idyll, introdotto da una dolce fanfara di corni, che a me ricorda Freischütz, alla quale risponde il violoncello, prima dell’arrivo di una sezione spiritosa dove oboi e chitarra trascinano il solista in una specie di valse triste. Ancora i corni e il cello chiudono l’idillio. Ora segue una lunghissima, estenuante Cadenza del solista dove troviamo di tutto, dal cantabile al virtuosismo più sfrenato. Ecco ancora Menuett, dal sapore orientaleggiante, con il suo trio dove dialogano amabilmente flauto e violoncello. Il Finale alla marcia pare uscito da una colonna sonora di Morricone per Fellini. Insomma, un pot-pourri di tutto lo scibile musicale!

Beh, ogni tanto un po’ di... distrazione dai soliti Beethoven e Bruckner non fa male! Però che contrasto con il Bach (Sarabanda dalla prima suite) che il disinvolto nordico – dopo aver fatto i complimenti a Milano e alla (mezza) Orchestra che lo ha accompagnato - ci propina come bis!

Per il resto, si scimmiotta (non è la prima volta qui in Auditorium) il Musikverein a Capodanno: chiuso il programma ufficiale, ecco arrivare, reduce dalla scoppola rifilata a noi poareti taliani, il feldmaresciallo Johann Josef Wenzel Anton Franz Karl Graf Radetzky, che chiude il concerto accompagnato dai battimani ritmati del pubblico.

Per la verità qui lo spettacolo era piuttosto... ehm... dimesso: perchè l’Auditorium era pieno (o vuoto, a seconda dei punti di vista) a metà.