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27 maggio, 2016

Il teatro di Ravel alla Scala

 

Dopo un paio di passi (Beffe e Fanciulla) se non proprio falsi certo non entusiasmanti (per me, ovviamente) la stagione della Scala ha ripreso il buon ritmo iniziale con questa gran bella proposta del dittico raveliano, ieri arrivato alla quinta delle otto recite, per la regìa di Pelly e la direzione di Minkowski: vengono infatti appaiate nella stessa serata, come si usa di frequente, le due uniche e brevi opere del musicista francese. Qui vengono eseguite nella sequenza di composizione (prima L’Heure del 1907, rappresentata nel 1911, e poi L’Enfant, iniziata nel 1919 e rappresentata nel 1925) il che permette anche di toccare con... orecchio l’evoluzione stilistica del compositore nel periodo centrale (dai 30 ai 50 anni) della sua attività artistica.

Curiosamente e assai modestamente Ravel non chiamava opere queste sue composizioni: L’Heure è sottotitolata Comédie musicale en un act e L’Enfant reca la dicitura Fantaisie lyrique en deux parties.

Con L’Heure espagnole Ravel si ripromette nientemeno che di colmare una grave lacuna in tutta la produzione musicale francese: l’opera buffa. Secondo lui (lo disse in un colloquio con René Bizet alla vigilia della prima del 1911 all’Opéra Comique) Offenbach aveva fatto in realtà una parodia dell’opera, ma la sua musica, per quanto gradevole, non faceva ridere. Invece Ravel sosteneva di aver cercato accordi volutamente balordi, ridicoli, spassosi, proprio una musica strampalata ed umoristica.

Spagna trasgressiva e orologi: ecco in sintesi tutto il DNA di Ravel - madre iberica e padre di ascendenza rossocrociata - emergere prepotentemente in questo bizzarro lavoro. Il soggetto – tratto da una pièce teatrale di Franc-Nohain (nickname di Maurice-Etienne Legrand) è tipicamente da farsa, essendo basato su un succedersi di situazioni improbabili di sapore boccaccesco, su continui sottintesi e malintesi e sul ribaltamento dei ruoli di tre dei cinque personaggi (i visitatori del negozio di Torquemada e Concepcion). Ecco, già i nomi dei due coniugi che mandano avanti il laboratorio di orologeria (ma anche di meccanismi da automa, stile dottor Coppelius) è tutto un programma: lui, Torquemada, nome terribile di inquisitore e fustigatore di costumi, è in realtà un gran cornuto! Sì, perchè la moglie Concepcion (hai presente l’immacolata? ecco, ci siamo capiti...) lo tradisce ogni santo (!) giovedi con un nuovo spasimante.

I 50 minuti scarsi volano via in un susseguirsi di 21 scenette (2 minuti e mezzo l’una, in media!) dove i 5 personaggi vanno e vengono con la rapidità del... suono. La tabella sottostante dà un’idea del tourbillon cui assistiamo (il simbolo [] accanto al personaggio indica che sta chiuso nella pendola, l’italico sul nome significa che non canta-parla):
   
scena
entrano
escono
in scena
1
Torquemada, Ramiro

Torquemada, Ramiro
2
Concepcion

Torquemada, Ramiro, Concepcion
3

Torquemada
Ramiro, Concepcion
4
Gonzalve
Ramiro
Concepcion, Gonzalve
5
Ramiro

Concepcion, Gonzalve, Ramiro
6

Ramiro
Concepcion, Gonzalve[]
7
Inigo

Inigo, Concepcion, Gonzalve[]
8
Ramiro

Inigo, Concepcion, Gonzalve[], Ramiro
9

Concepcion,  Gonzalve[], Ramiro
Inigo[]
10
Ramiro

Ramiro, Inigo[]
11
Concepcion

Ramiro, Inigo[], Concepcion
12

Ramiro
Inigo[], Concepcion
13
Ramiro, Gonzalve[]

Inigo[], Concepcion, Ramiro, Gonzalve[]
14

Ramiro, Inigo[]
Concepcion, Gonzalve[]
15

Concepcion
Gonzalve[]
16
Ramiro, Concepcion

Gonzalve[], Ramiro, Concepcion
17

Ramiro
Concepcion, Gonzalve[]
18
Ramiro, Inigo[]

Concepcion, Gonzalve[], Ramiro, Inigo[]
19

Concepcion, Ramiro
Inigo[], Gonzalve[]
20
Torquemada

Torquemada, Gonzalve, Inigo
21
Concepcion, Ramiro

quintetto

La trama si può riassumere come una serie di infruttuosi tentativi di Concepcion di amoreggiare con Gonzalve: nella scena 4 (in... scena); nella 10 (fuori scena, in camera); nella 14 (in scena) e nella 17 (in scena, con la rinuncia definitiva). Alla fine amoreggerà con Ramiro, nella scena 19, fuori scena (in camera). 

Una farsa, si diceva: i due spasimanti di Concepcion arrivano come... fornitori (di piacere peccaminoso) dell’insaziabile ninfomane e alla fine se ne vanno come clienti di Torquemada, che gli rifila le due capaci pendole dove avevano trovato rifugio. In compenso, il rude mulattiere Ramiro entra come cliente di Torquemada - per far riparare un orologio da taschino che lo zio torero indossava alla corrida (apperò!) e dal quale, in funzione di scudo anti-cornate, aveva avuta salva la vita – e se ne va come fornitore (sempre di carnali piaceri) della bella Concepcion.

In omaggio al teatro che la doveva ospitare (l’Opéra Comique) Ravel struttura la sua operetta quasi fosse un Singspiel: dove mancano del tutto numeri chiusi (poichè finirebbero per interrompere l’incessante flusso dell’azione) e dove ci sono molti parlati, sia pure sempre con accompagnamento musicale (qui il Debussy del Pelléas ha fatto scuola, evidentemente). Ecco cosa scrive espressamente Ravel in calce alla partitura:

Salvo il Quintetto finale, e, in maggior parte, il ruolo di Gonzalve, che è lirico e con affettazione, dire piuttosto che cantare (finali di frasi brevi, portamento di voce, ecc.) Si tratta, per quasi tutto il tempo, del quasi-parlando del recitativo buffo italiano.

Quanto alla strumentazione, è da grande orchestra, compreso un sarrusofono contrabbasso (specie di controfagotto a doppia ancia) e con corposa batteria di percussioni, fra le quali spiccano anche tre bilancieri da pendola, che si fanno sentire da subito, nell’Introduzione, ticchettando con tre velocità diverse: su un metronomo di 72, il primo batte 40, il secondo 100 e il terzo 232. Si odono anche delle campane di orologi che suonano le ore con ritmi ancora diversi, il jeux de timbres (una specie di xilofono pesante) e i carillon di alcune marionette e automi. Uno di questi suona la tromba (simulata da un corno naturale con suoni armonici); altri si muovono danzando, accompagnati da celesta, xilofono e arpe; il sarrusofono (qui suonato soffiando direttamente nell’imboccatura) imita un galletto meccanico, l’ottavino cinguetta come un uccello delle isole. Ravel trova poi intelligentemente il momento per far cessare tutta questa polifonia di suoni e rumori da orologeria: è quando Ramiro, subito all’inizio della prima scena, informa Torquemada che la sua cipolla ad ogni momento si ferma, ed ecco che anche i tre bilancieri, uno alla volta, a partire dal più veloce, si tacciono, dopodichè taceranno per il resto dell’opera. 

Sul piano della rappresentazione dei personaggi, Ravel non impiega programmaticamente gli ormai classici (da Wagner a Debussy) Leit-Motive: l’opera è ovviamente ricca di spunti melodici, alcuni di carattee lirico, altri più parodistici, ma i personaggi si riconoscono più che altro dai ritmi e dai timbri orchestrali che li accompagnano. Così ad esempio il mulattiere Ramiro si caratterizza per un ritmo che evoca il passo faticoso delle bestie e dalla presenza di sonagli e frusta; ritmo che si modifica, appesantendosi, quando il poveraccio deve prendere in spalla le pendole occupate da... passeggeri. Gonzalve, poeta piuttosto vanesio e cui fa difetto qualunque concretezza, è quasi sempre accompagnato da evanescenti e iridescenti arabeschi dell’arpa (la lira del poeta) mentre il suo canto-recitato, con frequenti stucchevoli vocalizzi, poggia prevalentemente su classici ritmi spagnoleggianti. Ad Inigo sono effettivamente attribuite alcune cellule motiviche che ne evocano la personalità piuttosto dissociata fra l’ostentazione di potere (lui è un ricco e influente banchiere) e la consapevolezza della sua scarsa attrattività fisica (obesità ed età anagrafica). I due coniugi si muovono musicalmente sui bizzarri motivi uditi nell’Introduzione, che evocano la polifonica bottega e i suoi orologi.         
___
L’allestimento di Laurent Pelly viene direttamente da Glyndebourne-2012, ma remotamente da Parigi-2004 (qui quella produzione con Ozawa). Rispetto ad allora poche, anzi pochissime sono le differenze a livello esteriore.

Di quell’ormai lontano allestimento porta oggi la testimonianza alla Scala il Torquemada di Jean–Paul Fouchécourt, tenore-buffo (trial, come indicato in partitura, dal cantante settecentesco Antoine Trial, specialista in questi ruoli). Più che buona ancor oggi la sua prestazione. Certo, se un’opera musicale è programmaticamente orientata al dire piuttosto che al cantare, sarà poi difficile giudicare il canto! Comunque tutti han fatto del loro meglio: metterei al primo posto Vincent Le Texier, un solido Inigo; poi il Ramiro di Jean-Luc Ballestra e quindi i due mancati amanti Stèphanie D’Oustrac e Yann Beuron.

Dato che il protagonista musicale qui è l’orchestra, diamo atto a Marc Minkowski di averla guidata con sensibilità nel rendere al meglio l’impressionismo della partitura.

Calorosi applausi per tutti, da un teatro con i soliti buchi, ma non più del... solito.
___
L’Enfant et les sortilèges nasce dalla collaborazione fra Ravel e la scrittrice-danzatrice Colette (Sidonie-Gabrielle Colette). Costei, divorziata da Henry Gauthier-Villars nel 1906 e madre di una figlia avuta nel 1913 da Henry de Jouvenel, aspira a far rappresentare all’Opéra un balletto per la figlia (Divertissement pur ma fille) di cui aveva ideato la trama. Riesce quindi a convincere il Direttore del teatro, che propone l’ingaggio di Ravel – che lei già ben conosce - per le musiche, così lei si mette al lavoro sul testo (attorno al 1915). Ma il compositore è partito per il fronte e non potrà prenderne visione prima del 1917, ricavandone peraltro un’impressione non proprio entusiastica: si dice per la ragione che lui non aveva una figlia, ma probabilmente perchè era ancora sotto lo choc per la recente perdita della madre. Ma proprio il ruolo che la madre ha nel soggetto di Colette finisce per spingere Ravel ad accettare e addirittura a proporre un upgrade di genere: il balletto diventerà un’opera musicale con il titolo definitivo. Colette ne è entusiasta e Ravel comincia a pensarci fin dal 1919, ma assai a rilento, tanto che finirà il lavoro soltanto nel 1924. La sede della rappresentazione nel frattempo viene trasferita dall’Opéra di Parigi a quella di Montecarlo, dove la prima – un successo clamoroso! - avrà luogo sabato 21 marzo 1925, con Victor de Sabata sul podio. La ripresa a Parigi nel 1926 – con accoglienza peraltro meno calda - sarà ancora (come per L’Heure) all’Opéra comique

Il soggetto è sinteticamente inquadrabile come il processo di iniziazione del bambino al rispetto delle regole della società, anzi della natura, dopo la sua iniziale, violenta ribellione. Presa di coscienza che inizia già alla costernazione di fronte alla tazza cinese, da lui mandata in mille pezzi; poi prosegue con l’arrivo dei pastorelli, il cui mondo lui aveva devastato strappando la tappezzeria; poi con l’incontro con la Principessa, di cui lui ha distrutto l’esistenza, insieme al libro che ne ospitava la fiaba. Ma il percorso più duro arriva nel giardino, con l’incontro con l’albero, da lui ferito con il coltello; poi con la libellula in cerca dell’amata, da lui inchiodata contro il muro; poi ancora con il pipistrello, di cui il bambino ha ucciso la compagna, che ora non può più nutrire i piccoli; e con lo scoiattolo, da lui ferito nella gabbia in cui era rinchiuso. Alla fine, quando tutti gli animali e gli alberi si accaniscono sopra di lui per punirlo, ecco l’estremo gesto di umanità: il bambino fascia con il suo nastro la zampetta ferita di uno scoiattolo, così meritandosi il perdono e l’amore di tutto il creato. Maman è l’ultima parola che esala sul calare del sipario, SI-FA#, la quarta giusta che è un po’ la sigla dell’opera.  

A proposito di note, si diceva più sopra di un’evoluzione dello stile di Ravel rispetto a L’Heure, e L’Enfant ne è la chiara testimonianza. Si tratta principalmente del ritorno (non certo regressivo!) alla melodia e al dominio del canto (un’operetta all’americana la definì lui stesso). Per carità, non siamo certo alla riedizione dei numeri chiusi del ‘700-‘800, ma poco ci manca... Ravel impiega in quest’opera una ben rifornita cassetta degli attrezzi: si va dagli arcaismi del madrigale e del rigodon fino al moderno rag-time, passando per minuetto, valzer, marcia e polka, ma senza escludere persino un paio di arie, un lascivo duetto (di gatti in amore!) e le più virtuosistiche colorature-à-la-Rossini.

Il frontespizio del libretto reca la dicitura in due parti, che poi sarebbero: l’interno della casa e il giardino. Ma salvo la corona puntata che chiude la scenetta dei gatti, in effetti fra le due parti non c’è musicalmente soluzione di continuità, ed anche il cambio di scena, contemplato in partitura, consiste semplicemente nel far rimuovere le tre pareti della stanza in modo da trasformare il palcoscenico nel giardino antistante la casa. Il lavoro è internamente suddiviso in scene (anche se il termine tecnico non compare mai) secondo una struttura rappresentata qui sotto, che ne riporta i numeri di riferimento della partitura e le caratteristiche musicali salienti:    

scena/personaggi
tempo
genere/ritmo




bambino
2
tranquillo

mamma
3(+4)
più animato – allegro

bambino
7
presto - agitato

poltrona-divanetto
17(-4)
lento maestoso
minuetto
orologio
21
allegro vivo
ostinato
teiera-tazza
28
allegro non troppo
rag-time
fuoco
39
allegro - moderato
aria di bravura-coloratura
pastori-pastorelle
50
moderato – più lento
ostinato – pastorale - balletto
bambino-principessa
62
moderato – lento – animato - andante
recitativo (P) – aria (B)
vecchietto-cifre
75
presto - prestissimo
polka - canone
bambino-gatta-gatto
95
adagio – andante
duetto d’amore




giardino
100
andante

raganelle
101
andante

albero-alberi
103
andante

libellula
105
valse lente
valzer
libellula-sfingi
107
valse americaine
valzer
libellula-usignolo-raganelle
109
valse americaine
valzer
pipistrello
113
abbastanza vivo
valzer
raganelle (danza)
117
abbastanza vivo
valzer - balletto
scoiattolo-raganella
129
moderato – lento
valzer
bambino-scoiattolo
131
andante

scoiattolo-bambino
132
valse lente
valzer
animali-alberi
136(-3)
vivo
marcia
animali
140
lento

animali
142
meno lento – acceler.
rigodon
animali
150
andante
madrigale

L’orchestra è sempre quella ottocentesca, ma con corposa presenza di percussioni, fra le quali curiosamente compare – nella scena teiera-tazza - una grattugia per il formaggio (!) da suonare grattare con lo stilo del triangolo.

L’opera contempla una miriade di personaggi principali: sono ben 21, più 10 cantati dai cori. 16 dei 21 principali sono interpretati da 7 cantanti, che assumono 2 o 3 ruoli diversi, come si evince dalla tabella sottostante, che mostra anche le poche e piccole deviazioni praticate in questa edizione alla Scala:

Ravel
Scala
Fuoco
Principessa
Usignolo

tassativamente (soprano leggero)
=
=
=
Aritmetica (il Vecchietto)
Raganella

tassativamente (tenore)
=
=
+ Teiera
Mamma
Tazza cinese
Libellula

opzionalmente (contralto)
=
=
=
Poltrona Bergère
Gufo
opzionalmente (soprano)
=
Pipistrello
Gatta
Scoiattolo
opzionalmente (soprano)
=
=
Orologio a colonna
Gatto
opzionalmente (baritono)
=
=
Divanetto
Albero
opzionalmente (basso)
=
=
Bambino
mezzo-soprano
=
Pipistrello
soprano
Gufo
Pastorella
soprano
=
Pastore
contralto
=
Teiera
tenore
con Vecchio e Raganella

___ 
L’allestimento di Pelly, sempre ripreso da Glyndebourne, è assai accattivante, nel rispetto quasi assoluto del libretto e delle didascalie: scene con suppellettili sempre ingigantite, come cioè viste da un bambino di 6-7 anni, e costumi e luci assai efficaci a scolpire i diversi personaggi e soggetti antropomorfi che si agitano in scena. Assai poetico il finale con animali (e anche alberi, con uno strappo al libretto) che riabilitano il bambino ribelle sotto gli occhi della mamma.

Minkowski ha tolto le briglie all’orchestra, mettendo in risalto la lussureggiante strumentazione raveliana e le mille diverse sfumature che caratterizzano i sortilegi di cui il bimbo protagonista è circondato.

I cori hanno una parte di primo piano e a Mario Casoni va il merito di averli preparati a dovere: una menzione particolare va ai piccoli dell’Accademia, che si sono affiancati ai grandi del complesso principale, bravissimi in special modo nell’impersonare le cifre nella scenetta dell’aritmetica.

Tutte da elogiare le voci soliste, a partire da quella della protagonista Marianne Crebassa, interprete ideale del piccolo ribelle. Poi a quella di Armelle Khourdoïan, splendida Principessa, ma anche vivacissimo e virtuosistico Fuoco.  
  
Jean–Paul Fouchécourt ha rivestito delle sue doti di tenore buffo la spiritata apparizione dell’aritmetico Vecchietto, dopo quella della minacciosa quanto ridicola Teiera albionica. Delphine Haidan è stata un’efficace e patetica Libellula, oltre che una severa Mamma e una risentita Tazza.

Jean-Luc Ballestra e Stéphanie D’Oustrac hanno impersonato la coppia di felini, davvero divertenti nei loro miagolosi approcci; lui ha anche impersonato l’Orologio e lei è stata commovente come Scoiattolo. Altrettanto strappalacrime il Pipistrello di Anna Devin, che in precedenza si era travestita da... poltrona Bergère, in coppia con il Divanetto di Jerôme Varnier, tornato poi come patetico Albero.

Le tre soliste dell’Accademia (Fatma Said, Chiara Tirotta e Elissa Huber) si sono ben disimpegnate nei rispettivi ruoli. Così come i sei solisti del Coro (due soprani, un mezzo, un contralto, un tenore e un basso) che cantano parti piccole ma in primo piano, come animali, nella penultima scenetta.

Al termine convinti applausi per tutti indistintamente, a degno coronamento di una bella e divertente serata.

21 maggio, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°18


Questa settimana riserva una novità assoluta per i complessi vocali e strumentali de laVERDI: il monumentale Stabat Mater di Antonin Dvořák, diretto da Claus Peter Flor, che dopo la parentesi malese ritornerà spesso sul podio dell’Auditorium, da lui lungamente calcato in passato. 

È uno Dvořák cui il destino ha riservato prove tremende (la perdita dei figli) proprio nel periodo che dovrebbe essere quello della pienezza della vita (aveva 36 anni, lo Stabat si colloca fra la sua quinta e sesta sinfonia). E il compositore risponde a questi colpi con un’opera colma di dolorosa, accorata ma anche serena rassegnazione alla volontà divina. In tutto lo Stabat troviamo soltanto un gesto di (comprensibile) sconforto: quell’esplosione del RE in settima diminuita che si ode a battuta 43 dell’introduzione in SI minore (dopo l’iniziale immobilità del FA# e il crescendo ondeggiante e bruckneriano che la segue) e che verrà successivamente ripresa e reiterata dal coro, drammaticamente sul lacrimosa. Poi ci sarà solo spazio per la pietas e per un dolore accettato con grande nobiltà, fino alla mirabile conclusione, dove (nel decimo e ultimo numero della partitura) Dvořák riprenderà ciclicamente il tema dell’introduzione, ma ora il coro al termine di quel crescendo esploderà, sulle parole paradisi gloriainvece che nella straziante settima diminuita, in un giubilante accordo plagale, subito risolto sul luminoso RE maggiore che poi supporterà l’Amen, speranza ed attesa della resurrezione.  

1. Quartetto e Coro – Andante con moto, SI minore, 3/2 – Stabat Mater...
2. Quartetto - Andante sostenuto, MI minore, 3/4 – Quis est homo...
3. Coro - Andante con moto, DO minore, 4/4 – Eja, Mater, fons amoris...
4. Basso solo e Coro - Largo, SIb minore, 4/8 – Fac, ut ardeat cor meum...
5. Coro - Andante con moto, quasi allegretto, MIb maggiore, 6/8 –Tui nati vulnerati...
6. Tenore solo e Coro - Andante con moto, SI maggiore, 4/4 – Fac me vere tecum flere...
7. Coro - Largo, LA maggiore, 2/4 – Virgo virginum praeclara...
8. Duo (soprano-tenore) - Larghetto, RE maggiore, 4/8 - Fac, ut portem Christi mortem...
9. Alto solo – Andante mestoso, RE minore, 4/4 – Inflammatus et accensus...
10. Quartetto e Coro – Andante con moto, SI minore, 3/2 – Quando corpus morietur...
                                  - Allegro molto, RE maggiore, 3/2 – Amen.

È un’opera grandiosa quanto difficile da suonare/cantare (ma anche da ascoltare!) e in Italia mi risulta che solo la Scala, la SantaCecilia e la OSN RAI ci si siano cimentate negli ultimi 20 anni: perciò tanto più meritevoli sono i complessi de laVERDI e i quattro solisti (Sabina von Walther, Bettina Ranch, Martin Šrejma e Istvan Kovacs) diretti da Flor e Gambarini per avercene dato un’interpretazione ed un’esecuzione a dir poco straordinarie.  

19 maggio, 2016

La Fanciulla (ormai) definitiva di Chailly-Carsen (2)

 

Eccomi a riferire della quinta recita di questa Fanciulla dalla vita assai stentata e travagliata (proprio come quella della protagonista dell’originale di Puccini!) Dato che dalla fabbrica non arriverà più l’ultimo componente standard dello spettacolo (la Westbroek, che ha definitivamente buggerato tutti) è e sarà sempre Barbara Haveman a sostenere stoicamente il ruolo della Fanciulla, di cui lei ha dovuto studiare in fretta e furia le (due) parti che nessun soprano conosce, essendo assenti dalle edizioni dell’opera che circolano nei teatri e nelle sale di incisione.

La ripresa televisiva della terza recita aveva permesso di farci un’idea abbastanza precisa dell’allestimento di Carsen: la visione in teatro accentua ancor più (se possibile) le caratteristiche di eccessiva spettacolarizzazione di quest’opera che è forse la più verista uscita dalla penna di Puccini, e che qui invece scade spesso e volentieri nel musical, per quanto di buona fattura. Ma alla fine si sfiora davvero il Kitsch... Il fatto che – sul piano musicale – la Fanciulla abbia fatto scuola nel western venuto dopo di lei non giustifica il retrofitting di alcuni discutibili stilemi di quest’ultimo nell’opera. 
___  
Ciò che le riprese video e audio potevano per definizione soltanto surrogare è invece la prestazione musicale, che si può compiutamente valutare con l’ascolto dal vivo.

Chailly parlava (a proposito della strumentazione originale di Puccini) di una Fanciulla più tenera e sfumata (rispetto a quella appesantita da Toscanini per il MET ma poi universalmente adottata). Beh, confesso di faticare a cogliere queste sottili distinzioni: saranno pure 1000 gli interventi sulla partitura, ma credo che anche orecchi preparatissimi fatichino a cogliere una sfumatura legata ad un mancato raddoppio di corni in tre battute, ecco. Detto ciò, tanto di cappello all’interpretazione del prossimo Direttore musicale, che mi è parsa curatissima su ogni dettaglio, compresi i dovuti fracassi che – raddoppi o meno – sono parte irrinunciabile dell’opera. E l’Orchestra ha risposto al meglio, dalle possenti cavate dei contrabbassi agli ottoni squillanti, ai legni sempre morbidi e per finire alle percussioni, parte fondamentale in questa partitura che ancor oggi lascia di stucco per innovatività e genio.

Ottima la prestazione dei ragazzi del coro di Casoni, messi a dura prova anche dall’esigente regìa di Carsen. Toccante in particolare il finale lamentoso del mai più.  

Le voci forse non sono il massimo di ciò che si richiederebbe per Fanciulla, ma è già qualcosa che abbiano almeno superato il minimo, ecco. Su tutti metterei Roberto Aronica, che ha sfoggiato una bella voce corposa e squillante, forse mancando un filino nei passaggi che richiedono maggiore espressività: comunque una prestazione di buon livello.

La Haveman, che ascoltavo dal vivo per la prima volta, non mi ha certo entusiasmato: la voce è deficitaria nell’ottava bassa e un poco stimbrata in alto, anche se gli acuti spinti le riescono abbastanza efficaci. In complesso, per lei una chiara sufficienza, ma non molto di più.

Claudio Sgura proprio non mi ha convinto, sorry: tanto autoritario nella presenza scenica (e qui di sicuro da Carsen deve aver imparato parecchio) quanto deficitario in quella vocale, caratterizzata da sgradevole timbro e da schiamazzi sguaiati ogni volta che saliva sopra il DO. Credo che Jack Rance si meriti molto di meglio.

A Carlo Bosi va un plauso per la voce più penetrante udita in teatro. Tutti gli altri su standard accettabili.

Teatro con svariati vuoti e poco entusiasmo: quattro clap dopo i primi due atti e moderati applausi alla fine.
___       
(2. fine)

Ieri pomeriggio il Piermarini era aperto anche per la presentazione ufficiale della stagione 16-17 (del resto già ampiamente anticipata nelle scorse settimane). Alex Pereira ha tenuto banco (senza banco, ma con leggio da... Kapellmeister) con la sua consueta verve (un misto di affabilità e di spocchia) magnificando le sue scelte come nemmeno il più immaginifico venditore di piatti e pentole saprebbe fare: si vede che lui è proprio un uomo di teatro marketing!

Dopo La Fanciulla come nemmeno Puccini ascoltò mai avremo La Butterfly come Puccini ascoltò solo una volta, alla disastrosa prima alla Scala, per poi rimaneggiarla da cima a fondo. Filologia o masochismo? Lo giudicheremo il prossimo 127. Quasi stesso discorso per il DonCarlo in 5 atti in italiano, versione che Verdi si limitò a tollerare: anche qui la filologia a buon mercato non manca, con la riapertura del cambio d’abito (Elisabetta-Eboli) e del Lacrymosa.

Personalmente sbavo per i Meistersinger, che finalmente tornano qui con Gatti, e aspetto con interesse il Freischütz, Hänsel, Gazza e Tamerlano. Tramontata (definitivamente?) la primizia di Kurtág, vedremo in cambio cosa ci propinerà la coppia Sciarrino-Flimm.  

Chiusa l’auto-incensante presentazione, Pereira ha lasciato spazio a domande. E subito una signora ha vivacemente contestato il famigerato 20% di prelazione per il rinnovo degli abbonamenti, ricevendo una risposta gattopardesca a dir poco (del tipo: io detesto quel 20%, e lo abolirò... a babbo morto). Al proposito mi sono sempre stupito della scarsa propensione al business che anima i tesorieri del Teatro: che senso ha aprire il 18 maggio il rinnovo degli abbonamenti, quando la prelazione garantisce all’abbonato il suo posto fino al 16 settembre? Chi è quel masochista che corre subito a rinnovare, sganciando somme importanti, quando sa che può aspettare altri 4 mesi senza perdere il suo posto? Anche un neofita in economia e finanza sa che uno scaglionamento nel tempo della percentuale dovuta come diritto di prelazione (es: 5 entro maggio, 10 entro giugno, 15 entro luglio e 20 entro la scadenza finale) incentiverebbe molti ad anticipare il rinnovo, facendo affluire in cassa un po’ meno quattrini sì, ma fin da maggio, invece che più quattrini ma concentrati a settembre... Oh già, che ingenuo, dimenticavo che siamo alla Scala!

16 maggio, 2016

Donizetti ai confini della realtà (3)


Ieri pomeriggio alla Fenice (sala con parecchi vuoti) terza delle cinque recite de La Favorite. In sintesi: come fare di un Grand’Opéra una petite chose. Ci si è messa d’impegno principalmente la regista Rosetta Cucchi (che si serve delle scene di Massimo Checchetto, dei costumi assai curati di Claudia Pernigotti e delle luci sempre efficaci di Fabio Barettin) che ha usato testo e colonna sonora dell’opera di Donizetti per supportare un suo incredibile soggetto che, se proposto nel 1840 all’Opéra di Parigi, le avrebbe direttamente procurato un ricovero al manicomio. Ma essendo passati 175 anni (il progresso, gran cosa!) ecco che la sua straordinaria idea viene accolta come una manna dal cielo (!?)

In che consiste la pensata della Rosetta? Quando ho visto l’austero Convento di SanGiacomoDiCompostella trasformato nel caveau di una setta di monaci-stranamore del quarto millennio che ci conservano in enormi provette esemplari di flora (e fauna?) in via di estinzione e poi le donne che vengono trattate dai maschi come esseri subumani, non ho potuto far a meno di pensare a Giorgio Bracardi, il demenziale professor Spadone, farmacista di alto gradimento!

Insomma, un clichè (sette religiose dedite a riti esoterici e femmine bistrattate) che è buono per tutte le stagioni e per almeno un centinaio di melodrammi. Qui vediamo già nel prologo una specie di santo-gral-dei-poareti con il quale il fragile Fernand abbevera una schiera di novizie, ultima delle quali è la pia Léonor, che subito gli cade tra le braccia: così noi distratti non dobbiamo faticare qualche minuto dopo a comprendere la confessione del giovane al santone Balthazar.

L’Île-de-León ci dà subito l’idea della sottomissione delle donne: fanciulle completamente velate (oh, lì prima di Alphonse XI c’erano i musulmani, che lui aveva cacciato, ed evidentemente avevan fatto scuola!) in un ambiente che pare un harem collocato in una spa. E nel second’atto (all’Alcazar di Siviglia, non so se mi spiego) ecco ricomparire... le provette, anzi, che dico, un unico gigantesco provettone (6m di diametro per 10 di altezza, poichè anche il potere temporale non vuol esser da meno di quello spirituale) nel quale vengono ammassate le cortigiane del Re, che si presenta con tanto di manica e guanto da falconiere, perchè a nessuno sfugga la natura del suo ruolo! E nel quale si rappresenta anche il sontuoso balletto in onore della favorita: 2-danzatrici-2, qui mica siamo l’Opéra, dobbiam far le nozze con... le fiche secche (oh, sia detto con tutto il rispetto per la professionalità di Luisa Baldinetti e Sau-Ching Wong!) che a fine ballo esalano l’ultimo respiro e son trascinate come bestiole morte fino al proscenio dove rimangono fino a fine atto (così i poveri bocia del locale JockeyClub restano pure a bocca asciutta).

Ecco, poi il resto avviene in questi ambienti e su questa falsariga: una concettualizzazione piuttosto velleitaria, degna del più abusato Regietheater.
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Meglio sono andate le cose sul fronte dei suoni, dove Donato Renzetti ha solo un po’ esagerato con i decibel (ma ad onor del vero senza mai coprire le voci): per il resto ha diretto e concertato con la consueta sobrietà di gesto, ottenendo dall’agguerrita orchestra della Fenice (e dai singoli, come nel bellissimo attacco dell’atto quarto, con il dialogo fra l’organo e il violoncello) una bella resa delle atmosfere romantiche che caratterizzano questa partitura. Comunque a qualcuno non è piaciuto del tutto, a giudicare da qualche (timido) dissenso all’uscita finale. E bene si è portato il coro di Claudio Marino Moretti, che ha una parte di rilievo (monaci, cortigiani e cortigiane) in tutti i quattro atti.

Veronica Simeoni ha confermato le sue ottime doti di interprete, sul piano attoriale, e ha offerto una prestazione più che discreta su quello vocale, che ha una tessitura abbastanza impegnativa per un mezzo, andando dal LA sotto il rigo al SIb acuto.

John Osborn ha offerto il meglio di sè sui passaggi impervi (il DO# e i DO che abbondano) mentre non altrettanto convincente è stato su quelli più intimistici, resi con eccessivi ingolamenti della voce: ha ricevuto applausi a scena aperta dopo tutti i suoi numeri (singoli o in duo) e dopo la famosa Ange si pur (Spirto gentil) le ovazioni si sono protratte per un paio di minuti. Ma all’uscita singola due secchi buh dal loggione hanno probabilmente voluto sottolineare l’incompiutezza della sua prestazione.

Più che buono, a mio parere, il Balthazar di Simon Lim, voce robusta che ben si adatta al ruolo, e intonazione sempre corretta. Come già all’ascolto radiofonico, VIto Priante mi è parso poco penetrante e il suo Alphonse sa più di... Rossini che di Donizetti, anche se è giusto riconoscergli un’ottima presenza scenica e capacità di esibire sia il lato autoritario che quello magnanimo del carattere del Re.

Molto bene Ivan Ayon Rivas, che per radio non mi aveva impressionato più di tanto: invece dal vivo la sua voce squilla che è un piacere, anche nei concertati più fracassoni.

Pauline Rouillard ha una vocina che sarà anche adatta ad un ruolo di ancella servizievole, ma qui si esagera un po’ troppo con i piagnucolii, ecco. Salvatore De Benedetto ha svolto onestamente la sua particina.
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Comunque dirò che, nonostante tutto, valeva la pena di una gitarella in laguna, anche perchè, come ha osservato il venetiofobo Amfortas che ha visto la prima, i gabbiani sono tornati in letargo.

(3. fine)

14 maggio, 2016

La configurabile Fanciulla di Chailly-Carsen (1)

 

Questa Fanciulla viene gentilmente offerta dal Teatro alla Scala in diverse varianti e configurazioni (come si fa con una Panda, per dire):

a. (3 e 6 maggio) versione Toscanini-Chailly (quella della prima del MET nel 1910 depurata di alcune, ma non tutte, le modifiche di Toscanini) cantata da Barbara Haveman;
b. (10, 13 e 18 maggio) versione Chailly (sedicente originale pucciniano) cantata da Barbara Haveman;
c.  (21, 25 e 28 maggio) versione Chailly cantata da Eva Maria Westbroek

Inutile dire che quest’abbondanza di versioni non è dipesa in realtà da un eccessivo scrupolo filologico del Teatro (chè allora si sarebbe dovuta dare in partenza allo spettatore la possibilità di scegliere fra le tre opzioni) ma da immancabile quanto puntuale indisposizione della protagonista titolare, sostituita all’ultimo momento da altra cantante totalmente impreparata (lo si è scoperto con grande sorpresa... ma guarda un po’) sulla versione-Chailly, da lei studiata in-fretta-e-furia fra la seconda e la terza recita. Così, chi aveva ordinato la Panda 4x4 ultimo-grido (promessa per tutte le 8 date) se è capitato nelle prime 2 ha ricevuto una Panda quasi normale e pure di seconda mano; se arriva nelle successive 3 si becca la Panda 4x4 ultimo-grido ma ancora con targa-di-prova; e finalmente i fortunati delle ultime 3 date avranno (salvo ulteriori imprevisti!) il trabiccolo che avevano profumatamente pagato. Beh, come risultato pratico di un forsennato battage (almeno una mezza dozzina di eventi programmati a Milano) per la Panda 4x4 ultimo-grido (slogan: la Fanciulla come nemmeno Puccini potè ascoltare...) non c’è davvero male.   

In attesa di assistere dal vivo (il sottoscritto è capitato nel secondo gruppo) si sono potute visionare e ascoltare due recite della variante b. Giovedi 12 RAI5 ha infatti trasmesso in differita la rappresentazione del 10 e venerdi 13 Radio3 ha trasmesso in diretta la quarta recita, al posto della prima, soppressa per ragioni di... pudore (così ci si è giustificati). Queste due trasmissioni hanno consentito di apprezzare – sul piano musicale – alcune delle differenze fra la versione tradizionale e la versione-Chailly; e - sul piano dello spettacolo - l’allestimento di Carsen.

Cominciamo dalla musica. La direzione e concertazione di Chailly (specie il 13) mi sono sembrate assolutamente all’altezza: stacco di tempi, messa in risalto di particolari, attacchi precisi (soprattutto al coro che quasi sempre deve fare autentiche e ripetute irruzioni, dove è facile mancare un appuntamento). Si capisce come il Maestro senta in modo particolare questa musica, e la sappia valorizzare al meglio. Le voci (a partire dalla onesta Haveman) mi son parse di livello discreto ma nulla più, certo sarà meglio giudicarle dal vivo.

Quanto invece alla versione (Chailly) così insistentemente pubblicizzata, le clamorose novità si riducono poi ad un paio di riaperture di tagli. La prima riguarda le 60 battute del siparietto di Minnie con Billy (metà del primo atto). Sapete come lo definisce uno che se ne intende, Julian Budden (qui il testo inglese)? Un episodio di cattivo gusto! E molto prima di lui dovette accorgersene Puccini, visto che (qui Toscanini c’entra relativamente) lo cassò senza pietà e senza rimpianti. Nella sua prolusione agli studenti riuniti al Piermarini (e ritrasmessa giovedi prima dell’opera da RAI5) e in un’intervista per Radio3 il Direttore principale incolpa del taglio esclusivamente Toscanini e ci adduce pure la motivazione: evitare che si ascoltasse anzitempo il tema esatonico (RE-MI-SIb-LAb-FA#-MI-RE-MI-FA#-DO) che Puccini affibbia all’indiano Billy. Un Leit-Motif, lo battezza Chailly, per la verità dandogli eccessiva importanza, visto che non torna mai più nel prosieguo... E anche i 16 versi che Minnie e Johnson cantano verso la fine di quell’atto (fra dovrà uccidermi qui e Povera gente!) furono tagliati con buone ragioni, e il loro ripristino non giustifica entusiasmi, nè può attirare meriti particolari sul ripristinatore. Che invece non ha avuto il coraggio (leggi: pietà verso gli interpreti o sfiducia negli stessi?) per farci ascoltare le 16 battute aggiunte di suo pugno da Puccini (!) al duetto Minnie-Dick del second’atto (dopo Eternamente) per una recita a Roma nel 1922, un passaggio effettivamente massacrante (e criticato pure da Budden, ad onor del vero) che culmina in un DO acuto per entrambi.

Discorso a parte meritano (ma qui il giudizio presuppone l’ascolto dal vivo) le 1000 piccole (o meno piccole) varianti che il vandalo (!) Toscanini si era permesso di inventare, salvo poi essere fatte proprie in-toto dall’Autore, tanto che le edizioni ancor oggi normalmente circolanti nei teatri e nella sale di incisione sono proprio e solo quelle della versione per il MET. Stando a Chailly, la loro rimozione dovrebbe riconsegnarci una Fanciulla più tenera e sfumata. Che vuol dire? Forse renderla meno cinematografica (! smile !) di quelle cui siamo abituati? In ogni caso ci ha pensato Carsen a restituirle - e con interessi stratosferici – la cinematograficità!
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È un vero peccato che i programmi di sala e i booklet delle incisioni dell’opera non presentino quasi mai la Nota preliminare che accompagna la partitura, e che servirebbe moltissimo per farsi un’idea dell’ambiente immaginato dagli Autori e dei drammi che vi si vivono:


...costruirono il loro destino in modo che noi odierni non possiamo comprendere.

Ecco, questa frase del librettista sembra riassumere la distanza fra il soggetto dell’opera e questa sua messinscena. Che è – come tutte quelle del regista canadese – di indubbia qualità, regalandoci uno spettacolo che non può non colpire l’immaginazione. Ma è affetta da clichè che ormai sono entrati nel DNA di questo regista, come ad esempio lo sfondamento della barriera palcoscenico-pubblico: qui evocato già dalla primissima scena, dove – invece che i poveri, luridi, infangati e depressi cercatori d’oro del libretto, mirabilmente scolpiti in note da Puccini – troviamo... noi medesimi, borghesucci da strapazzo, qui tornati nei panni dei nostri bisnonni (o nonni, per i diversamente-giovani) a goderci un film western (d’autore, però!) scomodamente seduti sulle seggiole di uno dei primi cinema. E alla fine ad assistere ad uno spettacolo o ad un film di successo, dopo averne salutato i protagonisti, le due star che vestiranno al Lyric i panni di Minnie&Dick.

Ecco, questo significa precisamente non comprendere, e trasformare un dramma nella sua caricatura, un’opera seria in un prosaico passatempo leggero: è la rappresentazione plastica della sconfitta del teatro musicale di fronte all’assalto del cinema di massa, che impone i suoi stereotipi sostituendo la fiction al dramma. 

Le due entrate in scena di Minnie (primo e terzo atto, e conseguentemente quella di Dick nel primo) sono l’immagine plastica del degrado del dramma a puro quanto vuoto spettacolo. In entrambi i casi la protagonista arriva in scena in momenti di alta drammaticità: dapprima a sedare coraggiosamente una lite addirittura sfociata in sparatoria (!) e alla fine a salvare in-extremis l’amato ormai quasi appeso alla forca. Invece cosa ci viene propinato da Carsen? Nel primo caso la scomparsa (per sollevamento) della cartapesta dell’Irma di BuffaloBill, sostituita da un fondale tipo cinemascope della Monument Valley (della cui inconsistenza parlerò fra poco) davanti al quale compare una Minnie cow-girl con tanto di cinturone, cappello a tese larghe e Colt agitata in aria. Nel secondo, dell’apparizione miracolosa dell’ingresso del teatro di Broadway dove i personaggi del dramma tornano ad essere... noi borghesucci da strapazzo che sbaviamo con la lingua per terra per due divi del musical! Peggior servizio all’opera di Puccini non si poteva fare.      
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Altra questione: la natura è indubbiamente una protagonista di quest’opera, e allora sarà bene ragionarci un po’ sopra. Il luogo dove fu scoperto l’oro (e dove l’opera è ambientata) è Coloma (un centinaio di Km a nord-est di Sacramento) e si trova in mezzo a montagne verdeggianti (la Sierra) coperte da foreste e solcate da fiumi (l’American River) e torrenti e che d’inverno si ammantano abbondantemente di neve: 


É questo il west nel quale Minnie e Dick vivono la loro avventura esistenziale e che alla fine salutano quasi con strazio (addio mia dolce terra, addio, mia California, a due voci in MI maggiore, ppp perdendosi): proprio nulla a che vedere con lo stereotipo degli spettacolari panorami della desertica Monument Valley propostici da Carsen, che si trovano al confine fra Utah e Arizona, ad almeno 1.000 Km a est-sud-est in linea d’aria e dove non v’è la minima traccia di foreste ed alberi, come di fiumi, neve e, manco a dirlo, di oro...:



Invece è su di essi che il regista insiste pervicacemente (fanno da fondale per quasi l’intero primo atto!) aggiungendosi all’abbigliamento di Minnie, alla cartapesta dell’Irma e a qualche sequenza di arrivavano i nostri proiettata in un terz’atto gratuitamente immerso nella più nera oscurità, improvvisamente rotta dalle... mille luci di NewYork!

Insomma, mi pare che Carsen abbia esageratamente e quasi ossessivamente fatto leva su stereotipi e riferimenti ad un west-un-tanto-al-kilo, assai diverso da quello che aveva ispirato Puccini e prima di lui Belasco. Quella che ne esce è una Fanciulla francamente discutibile, poichè inquinata da troppi elementi estranei e peggiorativi: solo il secondo atto si salva, e probabilmente grazie alla sua stessa struttura drammaturgica, difficilmente intaccabile (ma anche qui non mancano le banalità, come l’ambiente desolatamente vuoto, senza il camino, o il soppalco a scomparsa totale o la copiosa colata di sangue). Comunque va riconosciuto al regista il merito di non aver preteso anche di intervenire sulla partitura per adattarla al suo... Konzept! Questa non è affatto una battuta esagerata: all’Alcina (che ha un lieto fine) Carsen non esitò a cancellare il coro finale in SOL maggiore per farla chiudere mestamente in SOL minore (avendo deciso di trasformare l’opera da barocco magico a dramma esistenzialista). Quindi... stiamo migliorando!  
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(1. continua)

07 maggio, 2016

Léonor di passaggio in laguna (2)

 

Telegrafiche note sulla prima de La Favorite, seguita ier sera su RAI5.

Renzetti ha rispettato quasi completamente la partitura, limitandosi a un paio di sforbiciatine: ha eseguito anche (quasi) tutto il balletto del second’atto. La sua direzione mi è parsa corretta nei tempi e nel sostegno alle voci: insomma, lui è un vecchio marpione che sa come portare a casa la serata.

Fra le voci, bene (non dico benissimo, per via dell’ascolto via etere - o cavo – che può sempre trarre in inganno) Osborn e benino la Simeoni. Priante ha fatto correttamente tutte le note, ma mi è parso mancare di spessore (la parte di Alfonso è quasi da baritono verdiano...) Darei una sufficienza ampia a Lim e più risicata a Rivas e alla pigolante Rouillard. All’altezza il coro di Moretti.

Sull’allestimento della Cucchi mi limito a constatare come si adatti altrettanto bene male a Parsifal (infatti qualcuno ci ha già pensato) e pure alla Forza del destino e financo ad Aida. Ergo: come ogni letto di Procuste che si rispetti, l’unica certezza che garantisce è di fare danni al corpo del malcapitato che ci viene steso sopra.

Prossimamente le sensazioni dal vivo.

(2. continua)

06 maggio, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°17


Ancora un pienone in Auditorium, garantito da un altro di quei programmi che attirano (chissà mai perchè?) le folle e non soltanto i patiti e gli snob: Concerto per violino e Quarta di Ciajkovski! Un maligno potrebbe anche pensare che la rediviva Xian si sia voluta garantire un facile successo con poca spesa, ecco...

Ma una grandissima e piacevole novità è stata la presenza di quell’autentico fenomeno che risponde al nome di Gennaro Cardaropoli, che ha lasciato tutti a bocca aperta (...per gridare bravo!) con una prestazione invero eccelsa. Il suo Carlo Ferdinando Landolfi ha inondato la sala di un fiume di note come neanche Ciajkovski si sarebbe immaginato. Ma non si è trattato di pura tecnica virtuosistica (quella l’ha sciorinata nello strabiliante bis di Paisiello-Paganini) perchè il ragazzo ha mostrato soprattutto una grande maturità interpretativa, coniugando un ferreo rispetto della partitura con la libertà (vigilata) che all’interprete è concessa ed anzi richiesta. Lo testimoniano la cadenza del primo movimento e i rubati della centrale Canzonetta.   

La Quarta pare ormai uscire da sola dagli strumenti dell’Orchestra, basta che qualcuno (non per sminuire la Xian, sia ben chiaro...) prema il tasto di invio! Qui le note diventano un vero e proprio oceano in tempesta, ma un oceano perfettamente organizzato e controllato, dove nemmeno una crestina d’onda finisce fuori posto! Trionfo assicurato.

05 maggio, 2016

Léonor di passaggio in laguna (1)


Domani sera la Fenice ospiterà la prima de La Favorite di Donizetti, che si potrà seguire in audio su Radio3 e in video su RAI5.

Dato che in Italia ci si è abituati alla versione nostrana (La Favorita) sulla quale nel tempo si sono purtroppo depositate incrostazioni poco salubri, è tanto più meritoria la proposta del Teatro veneziano, che ci consente (si spera) di apprezzare questa grande opera in tutto il suo splendore.

Come accadeva non di rado nell’800, la genesi dell’opera fu piuttosto travagliata e legata a bizzarre circostanze. Donizetti fin dal 1830 era partito alla conquista di Parigi, impresa che gli riuscirà alla grande, tanto da suscitare nel 1840 le ire di tale Hector Berlioz, che non esitò a parlare di autentica invasione donizettiana (...manco fossero cavallette). La strategia di conquista impiegata dal bergamasco era quella già sperimentata da Rossini e consisteva nell’entrare sulla piazza con opere italiane, al Théâtre Italien. Dove nel 1831 si rappresentò Anna Bolena; nel 1835 la prima assoluta di Marino Faliero (che gli attirò le critiche e i risentimenti pure di Bellini, cui era stata scippata l’intera compagnia di canto trionfante nei Puritani); nel 1837 Lucia di Lammermoor; nel 1838 Roberto Devereux; nel 1839 L’elisir d’amore e nel 1840 Lucrezia Borgia (che suscitò le ire di Victor Hugo). Il secondo stadio della conquista consisteva nel proporre opere italiane ma in traduzione (e adattamento) francese. Così nel 1839 il Théâtre de la Renaissance ospitò la Lucia tradotta da Alphonse Royer e Gustave Vaëz (che ritroveremo ne La Favorite) e nel 1840 l’Opéra ospitò Les Martyrs, versione francese (di Scribe) del Poliuto di Cammarano abortito a Napoli. Ultima fase della strategia di conquista: opere in tutto e per tutto francesi. Il primo esemplare fu La Fille du régiment, trionfante nel 1840 all’Opéra Comique, cui dovevano affiancarsi (per il Théatre de la Renaissance) L’Ange de Nisida e (per l’Opéra) Le Duc d’Albe.

E questi ultimi due titoli furono, con ruoli diversi, i protagonisti della rocambolesca nascita de La Favorite. Cominciamo da L’Ange de Nisida, libretto della coppia Royer-Vaëz (quelli della Lucia francese). Donizetti a Napoli aveva composto musica per un titolo (Adelaide) mai rappresentato e pensò di impiegarne parte per la nuova opera, il cui soggetto si rifaceva vagamente a quello di Adelaide, che rimandava a sua volta ad un testo settecentesco (Les Amants malheureux, ou le comte de Comminges di François-Thomas-Marie de Baculard d'Arnaud) già musicato anche da Pacini col titolo Adelaide e Comingio. La vicenda de L’Ange è ambientata nel 1400 a Napoli e nell’adiacente isoletta di Nisida, dove il protagonista Leone de Castaldi, militare esiliato, si reca per incontrarvi una donna (Sylvia) da lui follemente amata. Non sa, il malcapitato, che Sylvia è in realtà la Contessa di Linares, favorita (!) del Re di Napoli (Fernand d’Aragon) che per sposare lei vorrebbe ripudiare la moglie, in barba a tutte le bolle e scomuniche papali. Così Leone (consigliato da Don Gaspar, tirapiedi del Re) va a Napoli dove incontra nuovamente Sylvia. Quando il Re apprende del rapporto fra i due, fa imprigionare il militare dal suo tirapiedi. Questi suggerisce al sovrano un bel trucco per risolvere il problema-Sylvia: farla sposare a Leone (così da sistemare i conti col Papa) ma poi spedirlo subito in Spagna come ambasciatore, in modo da lasciare la Contessa a... disposizione del Re! Appena scopre il tranello, Leone si incazza leggermente e manda tutti al diavolo, ritirandosi in convento. Dove viene raggiunto da Sylvia che gli muore di crepacuore fra le braccia.

A fine 1839 Donizetti ha completato l’opera e si prepara a metterla in scena alla Salle Ventadour, dove operava il Théâtre de la Renaissance. Senonchè la compagnia teatrale va in bancarotta e la rappresentazione va a meretrici, lasciando il povero Gaetano con una partitura di fatto inutilizzabile. E qui passiamo al Duc d’Albe, la cui composizione langue in mezzo a diatribe continue, tanto che l’Opéra si convince a rimpiazzare il titolo con altra opera di Donizetti: il quale non crede i suoi occhi di poter ammortizzare i costi e lo sforzo profusi ne L’Ange per portarlo – dopo Les Martyrs - nel più famoso teatro di Parigi. Peccato che il capitolato tecnico del teatro preveda clausole che L’Ange non rispetta: ad esempio ci manca un balletto (!) E poi il soggetto è considerato troppo debole, l’ambientazione napoletana troppo angusta e provinciale... e c’è anche da accontentare un tale Eugène Scribe, restato senza il su Duc; non solo, ma la protagonista sarà la Rosine Stoltz (favorita del Direttore dell’Opéra, Léon Pillet!) che è un mezzosoprano, per la quale andrà obbligatoriamente aggiustata la parte (di soprano) di Sylvia. E allora ecco la soluzione: si imbarca anche Scribe al fianco di Royer-Vaëz (ma gli si affideranno... i balletti!) e tutti sono incaricati di cavare da L’Ange un soggetto più degno del teatro; quanto a Donizetti, si darà da fare per adattare e completare la parte musicale di conseguenza.

Ecco quindi nascere La Favorite. L’ambientazione retrocede di un secolo (1300) e si sposta in Spagna, dove viene scovata una storia che vagamente richiama quella de L’Ange: il Re di Castilla-y-Leon (Alfonso XI) ha una favorita (Leonor de Guzman) per sposare la quale ripudia la moglie. Per la verità, la somiglianza con la trama de L’Ange è tutta qui: sì, perchè il buon Alfonso storico abbandona la moglie Maria (figlia del Re di Portogallo) e i due figli avuti da lei per mettersi con la sua Leonor da cui ha non meno di 10 figli! Invece ne La Favorite, accanto al Re Alphonse, vengono introdotti personaggi dall’opera preesistente, così ecco Fernand (ex-Leone) innamorato di Léonor; ecco Don Gaspar, tirapiedi infido del Re; ecco poi il nuovo arrivato Balthazar, Superiore del convento di SanGiacomo di Compostella; e infine Inès, confidente di Léonor. Ed anche la trama del dramma viene ripresa – con maggior corposità e con parecchie differenze - da quella de L’Ange: la scena iniziale al convento è nuova, come la figura del Superiore; il matrimonio Fernand-Léonor non è un trucco del Re, ma un suo atto dove si mescolano magnanimità e risentimento; il voltafaccia di Fernand è conseguenza del disonore da cui si sente investito il poveraccio al momento di conoscere la vera identità della sua amata. Persino i luoghi dell’azione si distanziano assai: invece di Napoli-Nisida (oggi si potrebbe fare a piedi!) qui c’è addirittura un’andata-e-ritorno che attraversa da nord a sud l’intera penisola iberica (Compostella-Cadice, via-Siviglia) di quasi 3.000 Km!

Sul piano musicale, Donizetti recuperò buona parte de L’Ange, completandolo poi con le aggiunte e modifiche del caso. In particolare adattò per il grande Gilbert-Louis Duprez l’aria Un ange, une femme inconnue, dove si tocca il DO# sovracuto. Altre parti della musica de L’Ange (e della precedente Adelaide) vennero poi utilizzate dal compositore in opere successive, come ha esaurientemente spiegato William Ashbrook nel suo fondamentale testo su Donizetti.

Anche Richard Wagner (che odierà Donizetti per pura invidia, la stessa che manifesterà sempre verso Meyerbeer) entrò nella squadra che lavorò per l’opera, producendone una (peraltro pregevole) trascrizione per voce-piano, oltre che brani trascritti per trombetta!
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Ma le disavventure dell’opera non finiscono qui. Come sempre, essa fu subito importata in Italia, quindi tradotta e pure re-intitolata, ma anche variamente inquinata, e non solo per compiacere le diverse censure. Così si ebbero a Padova Leonora di Guzman (1842, Francesco Jannetti) poi alla Scala Elda (1843, Calisto Bassi, traslocata in... Siria!) ripresa alla Fenice nel 1847; ed anche una Daila (1860 a Roma). Fra le modifiche più ridicole basterà ricordare come Baldassare (Superiore a Compostella) diventa padre di Fernando e pure della Regina (che storicamente era figlia del Re di Portogallo...) e così Alfonso e Fernando diventano cognati a loro insaputa (e il cognato del Re resta all’oscuro delle tresche di costui con Leonora!!!) Mamma mia, e pensare che l’opera in italiano spopolò per tutto il secolo scorso (e la traduzione di Jannetti con Alfonso e Fernando cognati fu impiegata da Ricordi per una ristampa dello spartito addirittura nel 1960!) Soltanto nel 1999 Fausto Broussard ha prodotto una versione ritmica in italiano più rispettosa dell’originale francese (qui da pagina 42).
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Come per altri casi analoghi, è invalso l’uso di tagliare i balletti che caratterizzano i grand-opéra. Ma dalla locandina del Teatro, che riporta la presenza di movimenti coreografici e di due danzatrici, si può ipotizzare che almeno una parte di essi venga riaperta, visto che il Kapellmeister Renzetti già li eseguì integralmente in questa edizione del ’91 a Bergamo. Come sempre impeccabile, per contenuti e tempestività, il programma di sala, già disponibile in rete.  

(1. continua)

01 maggio, 2016

Firenze fa tornare la vista a Iolanta (3)

 

Ieri pomeriggio seconda recita all’OF di Iolanta di Ciajkovski. Teatro con evidentissimi vuoti che veramente non fanno onore ad una proposta che meriterebbe più attenzione (ci sono ancora due repliche per chi l’ha finora snobbata).

Darei un gran bel voto a Stanislav Kochanovsky perchè mi pare abbia saputo rendere al meglio l’atmosfera agrodolce che caratterizza la partitura, dando sfogo a retorica e fracassi soltanto laddove... strettamente dovuto. Ad esempio ho apprezzato assai la leggerezza dell’accompagnamento del tema che accompagna Chudnyj pervenec tvoren’ja (derivato dal finale della Quinta sinfonia) e delle sue successive ricomparse; come il risalto dato a singole voci strumentali nei passaggi più espressivi della partitura.        

Fra le voci la palma del migliore la assegno senza esitazione a Vsevolod Grivnov, un Vaudémont impeccabile in tutte le sue diverse esternazioni: dalla toccante descrizione della sua donna ideale alle stentoree perorazioni legate all’esplodere del suo amore per Iolanta: voce superba e canto aperto (a qualcuno forse non piacerà...) di grandissimo effetto.

Dopo di lui il Re Ilya Bannik (che ha sostituito il titolare Alexei Tanovitksi, che canterà solo l’ultima) e il medico Elchin Azizov, assai bravi a caratterizzare le figure dei due sodali nell’impresa di far acquistare la vista alla cieca di Provenza.

Victoria Yastrebova è stata una Iolanta appena appena discreta: il timbro di voce non è dei più edificanti, in specie sugli acuti, che appaiono come sfuocati e privi di corposità. Le tre altre donne (Mzia Nioradze, Maria Stasiak e Irina Zhytynska) se la cavano dignitosamente. Così come gli altri maschietti (si fa per dire): Mateusz Zajdel e Federico Sacchi.

Chi mi ha invece deluso è Mikołaj Zalasiński, un Robert cavernosamente vociferante qual si direbbe un ubriacone in osteria: chissà non sia stato l’effetto della fiaschetta di vodka di cui il regista lo ha gratificato (stra—smile!)

Bene il coro di Lorenzo Fratini nella componente femminile (i maschietti per la verità hanno una parte circoscritta al finale).
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Mariusz Treliński firma un allestimento eccessivamente caricato di simbologie e freudianità assortite. La scena di Boris F. Kudlička è intelligentemente incentrata su una stanza girevole ad una sola parete, dove trovano posto i diversi ambienti della dimora di Iolanta. Ciò che la circonda fa parte invece della simbologia introdotta dal regista, il che contraddice totalmente la lettera del libretto: invece di una natura lussureggiante vediamo un bosco di alberi rinsecchiti o bruciacchiati, sollevati di parecchie spanne da terra in modo da mostrare anche le radici (che significhi per caso lo sradicamento della povera Iolanta dal resto della società?) E fuori dalla stanza regna un’oscurità quasi totale (Marc Heinz cura le luci). Certo la protagonista vive in uno stato di disagio e di ansia, ma il regista qui rischia di invertire il nesso causa-effetto: lui vorrebbe mostrarci in quella natura buia ed inospitale l’effetto della condizione psicologica di Iolanta, ma ciò che lo spettatore vede lo porta invece ad immaginare che le ansie della protagonista siano l’effetto dell’inospitalità della natura!

Ed anche i personaggi che abitano la dimora della fanciulla cieca sono dipinti più come carcerieri e addetti di un ospedale psichiatrico, che non come persone amorevoli che hanno il compito di rendere serena se non piacevole l’esistenza di Iolanta. Marta ha spesso atteggiamenti più da aguzzina che da nutrice, e le due ancelle sembrano mosse da ipocrisia e non da sinceri sentimenti (inutile dire che testo e musica dei Ciajkovski ci dicono l’esatto contrario). La figura del padre (il Re) è per me troppo sbilanciata sul negativo: lui è sì un padre-padrone, ma non perchè spinto da ottusi pregiudizi o da manìe di possesso nei confronti della figlia (che lui stesso ha destinata in sposa a Robert) ma perchè mosso da eccessivo zelo nel proteggerla e liberarla dalla sua menomazione, in modo da garantirle un futuro degno della sua nobile origine. Invece il regista ci mostra una specie di gerarca fascista (i costumi, moderni, sono di Marek Adamski) o direttore di un gulag sovietico, spogliato di ogni sentimento paterno, che pure testo e musica dei Ciajkovski sottolineano costantemente.

I personaggi dei due nobili trovatori hanno qualche vago tratto di... gay: sarà mica un velato riferimento alla condizione dell’autore (anzi, degli autori?) La scena della scoperta della cecità di Iolanta mi è parsa fin troppo drammatizzata, con Vaudémont che se ne va via quasi stizzito per aver scoperto la condizione della fanciulla, e lei che va fuori controllo travolgendo tavolo e sedie...  

Meglio centrate rispetto al libretto e alla musica sono le figure del medico islamico ,del custode Bernard e dello scudiero Alméric.

I video (di Bartek Macias) sono abbastanza criptici (i cerbiatti, che richiamano le teste di cervo che tappezzano la parete interna della stanza) o banali (il cupo fogliame mosso dal vento sullo sfondo della scena); le coreografie (di Tomasz Wygoda) non lasciano quasi il segno.

Insomma, una regìa un filino pretenziosa che sembra presupporre un pubblico perfettamente a conoscenza dell’originale in modo da cogliere tutti i sottintesi proposti dal regista. Purtroppo (ahinoi) il pubblico l’originale lo conosce pochissimo o nulla e chi vede per la prima (e unica?) volta questo spettacolo rischia di farsi un’idea piuttosto... ehm, strabica dell’originale.      
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Comunque, con tutte le riserve del caso sull’allestimento, questa proposta del Maggio resta assolutamente meritoria e speriamo apra la strada ad una più ampia diffusione del titolo nei teatri italiani. 

(3. fine)