ipocrisia pesciarolaia

vado a votare, ma non voto

02 ottobre, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 53


Il terzo concerto della stagione autunnale de laVERDI, diretto da Gustavo Gimeno (che torna in Auditorium dopo due anni) ha un’impaginazione insolita ed interessante. Peccato che ieri sera a goderne fossero proprio pochi intimi…

Dopo l’ennesima invenzione expositiva di Nicola Campogrande (con la Cina… vittima di turno!) ecco la schumanniana Ouverture dalle musiche di scena per il Manfred. Che è in realtà un compendio dell'intero dramma, quasi un poema sinfonico. Dopo l'introduzione lenta si presenta, in MIb minore, un tema agitato, che ben rappresenta l’instabilità psichica del personaggio di Byron. Esso si sviluppa poi nella relativa FA# maggiore, per introdurre il tema elegiaco, femminile, legato ad Astarte, l'amore proibito, origine di tutti i complessi esistenziali del protagonista (e, potremmo dire, pure dei suoi due autori!) Da qui in poi, secondo i canoni della forma-sonata, i temi si sviluppano, si intrecciano, si confrontano e scontrano, fino a quando il tema di Astarte, canonicamente scivolato nella tonalità di impianto – momentaneamente virata a maggiore - conduce ai lenti accordi di MIb minore della mesta conclusione.

L’attacco dell’Ouverture presenta una sola battuta (4/4) con agogica Rasch (Impetuoso) e metronomo 132 semiminime. Ciò significa che le tre strappate dell’orchestra (altrettante semiminime, in realtà coppie di crome legate) dovrebbero occupare meno di un secondo e mezzo. Dopo la corona puntata che chiude la prima battuta, si passa a Langsam (Adagio) con metronomo più che dimezzato (63). Bene, ora ascoltate come fa suonare quella prima battuta il sommo Furtwängler ai Berliner nel dicembre del 1949: il contasecondi di youtube ci dice: in 3 secondi! Cioè a 60 di metronomo. Insomma, il sommo ha bellamente ignorato il Rasch e ha fatto anche l’attacco in Langsam! Ohibò. (Però con i Wiener ha cercato di rimediare…)

Ora, dato che Gimeno ha più o meno (per far rima) rispettato il Rasch, dobbiamo concludere che è meglio di Furtwängler? Beh, di polenta ne deve mangiar molta ancora, però almeno non si diletta a correggere le partiture altrui! E così l’Orchestra gli ha fatto fare una bella figura.
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Rolf Martinsson, classe 1956, è già stato ospite qui in Auditorium all’inizio del 2014, quando Xian presentò la prima italiana di A.S. in memoriam. Da quel successo nacque l’idea de laVERDI di commissionargli (insieme alla Tonhalle-Orchester di Zurigo e ad altre orchestre) questo ciclo di Lieder (Ich denke dein…) su testi di Rilke, Eichendorff e Goethe. Il ciclo è dedicato al soprano Lisa Larsson, divenuta la musa del compositore, che lo ha presentato in prima a Zurigo lo scorso gennaio. Ecco qui la stessa Larsson in occasione della terza presentazione del lavoro, lo scorso marzo al Concertgebouw, con Albrecht sul podio: 1-LiebesLied, 2-BlaueHortensie, 3-DieLibendeSchreibt, 4-Mondnacht, 5-NäheDesGeliebten. Questa di Milano sotto la bacchetta di Gimeno (guarda caso c’entra un po’ anche lui con il Concertgebouw, avendovi suonato come percussionista) è la quinta uscita del ciclo, diretto già da Storgårds e Manacorda, oltre al citato Albrecht.

Non è dato sapere se è una novità assoluta, riservata agli amici milanesi, ma Martinsson ha deciso di cambiare la sequenza dei brani, portando in testa il rumoroso Nähe Des Geliebten e chiuso quindi con lo straussiano Mondnacht (con tanto di violino e violoncello solisti).

Che dire? Un salto all’indietro di almeno un secolo? A partire dai testi: Rilke (1907 e 1906); Eichendorff (1835) e Goethe (1807 e 1795). Alcuni dei quali (Eichendorff e Goethe) già più volte musicati da famosi romantici dell’800, a cominciare da Schubert e Mendelssohn. E nella musica in effetti c’è un po’ di Mahler, di Strauss, parecchio Schönberg, di cui Martinsson è cultore (qui però è uno Schönberg ancora non seriale!) e magari qualcosa di Scriabin, con ampi squarci di atmosfere nordiche, ma anche incursioni a… Broadway e Hollywood! Insomma, una specie di gradevole amarcord, che i maligni potrebbero derubricare a facile scopiazzatura, o considerare tuttalpiù adatto ad accompagnare qualche pretenzioso reality

In ogni caso si tratta di musica gradevole, che non ti esaspera e che puoi ascoltare quasi (ehm, sì, molto quasi) come fosse… i Ruckert o i Vier Letzte, ecco. Brava la Larsson, che esibisce una bella voce corposa e buon portamento (non per nulla è interprete apprezzata di Mahler e Strauss!) e così ringrazia il compositore (presente in sala e salito sul palco) per la dedica dei 5 canti.  
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Chiude la serata l’enigmatica Quinta di Prokofiev. Queste musiche composte in piena guerra sotto Stalin ti lasciano sempre il dubbio (vale pure per Shostakovich) sulla sincerità dell’ispirazione: la libertà cui il compositore allude sarà quella da Hitler o anche e soprattutto quella da Zdanov? E nella retorica del grandioso corale verso la fine dell’Andante introduttivo, quanto c’è di affettato e di ammiccante al potere? Meno ambiguo lo Scherzo, con quel caratteristico ritmo da treni sferraglianti o magli di industria bellica interrotto dal Trio per una meritata pausa di riposo. Ispirato ma anche piuttosto cupo l’Adagio, che ha tratti espressionisti e ricorda l’ultimo Mahler, chiudendo con una evanescente cadenza del clarinetto. Il finale Rondo riprende ciclicamente il tema dell’Andante iniziale ma poi si rimette a correre come un treno, impegnando tutti (ottoni in primis) allo spasimo, fino all’esilarante conclusione sul terzo tempo della battuta.        

Eccellente la prestazione dei ragazzi, che questa musica hanno quasi nel sangue, eredità del venerabile Delman e di altri maestri russi (Barshai, Fedoseyev, Caetani) che si sono succeduti negli anni alla guida dell’Orchestra. Successo quindi caloroso e meritati applausi per tutte le singole sezioni dell’Orchestra (che di Gimeno potrebbe anche farne… a meno? strasmile!)  

18 settembre, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 51


È un programma tutto nordico (EXPO a parte) quello con cui Jader Bignamini ha aperto la sessione autunnale della stagione 2015: si tratta di lavori collocati in un arco di tempo di circa 50 anni, da 3/4 dell‘800 fino a 1/4 del ‘900.

In apertura, per la serie dedicata alla Fiera, Nicola Campogrande presenta il Brasile: che a noi – stando a lui – farebbe una strana impressione, perché non vi troviamo tracce di samba o di bossanova. Ecco finalmente spiegato perché a me fa una stana impressione l’Inno di Mameli: neanche la più piccola reminiscenza di funiculìfuniculà!
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La parte seria (smile!) del concerto è aperta da Andrey Baranov, che ci delizia con il celebre Concerto per violino di Jean Sibelius. Del quale si è sempre – come qui – eseguita la seconda, definitiva versione del 1905. Ma ovviamente ne esisteva una prima (1902-4) malamente accolta dal pubblico perchè peggio ancora suonata dal solista: versione che l’Autore aveva immediatamente ritirato e severamente proibito di eseguire, pur non distruggendone l’originale. Soltanto 25 anni orsono gli eredi hanno deciso di consentirne una sola esecuzione e registrazione, protagonista Leonidas Kavakos con la Lahty Symphony diretta da Osmo Vanskä. Ascoltandola si può facilmente constatare la maggior complessità, difficoltà ed ampollosità di questa prima versione, che spinse evidentemente Sibelius alla decisione di alleggerirla assai, sia cassando interi passaggi (una quarantina di battute nel solo primo movimento, quasi 10 minuti di musica nel complesso) sia prosciugando di parecchio l’orchestrazione, così da non sommergere il suono del solista sotto quello dell’orchestra.

Preso in mezzo tra tardo-romanticismo e prime avanguardie novecentesche, il buon Jean cercò di uscire dall’angolo con qualche innocente strappo alle regole classiche, che si materializza in specie nell’Allegro moderato, dove la forma-sonata viene alquanto strapazzata, sia nella struttura che nella scelta delle tonalità. Ma siamo, appunto, ad innocenti scappatelle, nulla di paragonabile a ciò che gli Schönberg a Vienna e i Debussy a Parigi stavano combinando o tramando, col trarre conseguenze radicali dal cromatismo del Tristan. Non parliamo dell’Adagio centrale, che affonda abbondantemente le radici nell’800 (Bruch, Wieniawsky, Lalo, per tacere di Mendelssohn); mentre un barlume di moderato modernismo affiora nell’Allegro conclusivo, con le sue melodie appena-appena impertinenti.

Baranov si conferma interprete di valore, non solo dal punto di vista della tecnica pura (cosa non ha saputo cavar fuori, nel primo bis, dall’ultimo Capriccio paganiniano!) ma anche e soprattutto da quello della sensibilità e della cura dei particolari: emerse, tanto per fare un esempio, dal diverso pathos con cui ha proposto i ritorni del tema principale dell’Allegro moderato.

Così il trionfo è stato enorme e i bis sono diventati due, al tellurico Paganini succedendo il severo Bach della Sarabanda dalla seconda Partita, in RE minore. 
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Il Peer Gynt di Grieg ha avuto una storia abbastanza strana: fu Ibsen in persona a chiedere al musicista (di 15 anni più giovane) di comporre delle musiche di scena per il suo omonimo dramma in versi del 1867, che lo stesso scrittore aveva originariamente escluso dovesse/potesse essere mai rappresentato a teatro. E così la musica di Grieg – che lo impegnò ben al di là delle sue iniziali e ottimistiche previsioni – servì per tenere a battesimo, giovedi 24 febbraio 1876 a Christiania (oggi Oslo) quel lavoro che poi divenne una pietra miliare della drammaturgia europea.

Il poema originale (a sua volta partorito… a rate, fra Roma, Ischia e Sorrento) consta di 5 atti per complessive 38 scene (3-8-4-13-10) ed è un costrutto a prima vista bizzarro, che manda a quel paese Aristotele e le sue unità, e dove il realismo più prosaico si mescola con elementi surreali, fantastici, grotteschi, filosofici e tragici. C’è dentro un po’ di Faust (Ibsen mette in bocca a Peer, storpiato, il famoso Das Ewig-Weibliche ziehet uns hinan!), di Don Quixote, di Rodomonte e persino di… Barone di Münchausen, ecco. Va da sé che l’intendimento di Ibsen fosse (anche) di mettere alla berlina stereotipi, comportamenti, pregiudizi e stupidità del mondo a lui contemporaneo. Ed è indubitabile che il lavoro sia una spregiudicata e corrosiva radiografia dell’individuo e insieme della società ottocentesca, non solo scandinava: tutto il quarto atto ne è una grottesca parodia, che prende di mira il colonialismo, quello spregevole degli schiavisti ma anche quello culturale degli esploratori tedeschi (la Sfinge che parla crucco… che poi è il direttore del manicomio!) Chissà se possiamo anche trovare una morale in tutto ciò, visto che il protagonista, dopo mille avventure, una più fallimentare dell’altra, troverà pace solo immergendo il capo nel… ventre della caritatevole Solveig, madre e sposa!

Quanto a Grieg, la sua colonna sonora (Op.23) come pubblicata da Peters (ma ne esistono diverse varianti, dato che venne rivista nel 1891) contiene 24 numeri (3-7-3-6-5) e comporta anche parti cantate da solisti e dal coro. Grieg estrapolò a distanza di qualche anno le due Suite (op. 46 e 55) eseguite qui in Auditorium, che raggruppano in totale 8 dei 24 numeri, per una durata complessiva di circa 35 minuti, proprio un terzo di quella delle musiche di scena complete. Lo specchietto sottostante presenta in grandissima sintesi i contenuti del dramma di Ibsen e quelli delle tre partiture di Grieg.


Come si noterà, le due suite (soprattutto la prima) presentano sequenze di brani abbastanza avulse da quella delle scene del dramma. E il famoso mattino, che apre la prima suite (e che chiunque fischietta sotto la doccia) evoca non già un’aurora boreale, ma… tropicale!


Con decisione saggia, Bignamini ha separato le due esecuzioni con l’intervallo e con il concerto di Nielsen, scongiurando così il pericolo di… saturazione che una musica pur così piacevole si porta dietro. Impeccabile come sempre l’Orchestra, in tutte le sezioni.
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Fra le due suite di Grieg il flautista Andrea Griminelli ci ha proposto il quasi sconosciuto Concerto di Carl Nielsen, datato 1926. Nielsen fu coetaneo di Sibelius (che però gli sopravviverà di più di 25 anni…) e cercò assai più del finlandese di affrancarsi dal tardo-romanticismo, pur non abbracciando le moderne (a quei tempi) innovazioni provenienti da Vienna e dintorni. Il Concerto eseguito qui ne è testimonianza abbastanza chiara: pur rimanendo sostanzialmente ancorato ai canoni della tonalità, Nielsen si sforza di trovare soluzioni originali sia nella forma – il concerto ha due soli movimenti - che nei timbri orchestrali.

Come dimostra subito la stridente dissonanza che caratterizza l’Introduzione, fra la linea melodica (in RE minore) di legni e archi alti che si appoggia su un protervo MIb di archi bassi, corni e fagotti:


E si noti allo stesso tempo come il MIb e il LA ci sbattano in faccia il diabolico tritono: ecco, non è propriamente un attacco classico!
Seguiamo l’esecuzione del grande Jean-Pierre Rampal, che di Griminelli è stato maestro e mentore.
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L’Allegro moderato, a parte il motivo introduttivo dell’orchestra, si articola su tre principali temi:


La forma è piuttosto libera e i tre temi vengono presentati in sequenza, con sviluppi contestuali; verranno poi citati nella lunga cadenza solistica che precede la coda conclusiva.

6” Introduzione orchestrale; a 17” entra il flauto solista che ripropone il tema introduttivo, variato. Senza soluzione di continuità ecco (33”) l’esposizione dell’impertinente tema (A) in MIb minore, subito riproposto (47”) una quinta sopra (SIb minore) dopo un fugace intervento orchestrale. Altra riproposizione di (A) dal DO# (55”) ed un’altra ancora (1’08”) dal LA.

Dopo un rallentando del solista che chiude sul FA, a 1’26” ecco l’orchestra (violini e legni) proporre, in FA maggiore, il tema (B) assai più elegiaco del precedente: sarà lui a monopolizzare la prossima sezione. Ben presto il flauto (1’35”) si fa carico del tema, portandolo a SIb maggiore, quindi tornando, dopo breve divagazione (2’10”) al FA maggiore di partenza. A 2’17” inizia un dialogo stretto fra solista e oboe, che si scambiano un breve inciso, che a 2’29” è ripreso dal clarinetto: è lui che ora dialoga in modo assai fitto con il flauto, attraverso una serie di rimpalli a base di terzine di semicrome, una specie di cadenza a due, si potrebbe definire.

Si arriva così (3’09”) alla ripresa del tema (B) nei violini, tonalità DO maggiore; tema poi rinforzato pesantemente (3’22”) dall’intervento di corni, fagotti e bassi. A 3’38” ecco un episodio aperto bruscamente dai timpani, protagonista il trombone basso, che aizza il flauto a ripetuti singhiozzi che introducono una transizione veloce verso il ritorno (4’05”) del tema (A) sul LA. Ancora un serrato dialogo flauto-trombone basso che porta (4’17”) il tema (A) all’oboe e ai violini-viole (sul SI) raggiunti ancora pesantemente da corni e trombone basso.

Finchè, improvvisamente (4’27”) ecco fare irruzione il maestoso tema (C) in MI maggiore, in legni e corni; tema poi (4’47”) trasferito al solista che lo sviluppa in modo elegiaco finchè (5’36”) non viene, da oboi e fagotti, richiamato… all’ordine, cioè al tema (A) che il flauto porta gradatamente a spegnersi (6’11”) su un LA. Qui abbiamo una breve cadenza solistica, bruscamente interrotta (6’36”) da ottoni e timpani che conducono ad una transizione orchestrale in cui fa capolino ancora il tema (A) prima che il flauto solista (6’58”) con perentori trilli chieda… la parola: sta per iniziare infatti (7’09”) la lunga e articolata cadenza principale.

La quale è caratterizzata dal fatto che lo strumento solista è sempre accompagnato da (almeno) un altro: inizialmente dal timpano, che fa da sfondo a veloci sestine culminanti nella proposizione (7’40”) del tema (A) dal LA, ribadito subito dopo dal SOL. A 8’04” subentra il tema (B) mentre il timpano tace, lasciando il ruolo di compagnia al clarinetto, che ancora ingaggia con il solista un botta-e-risposta a base di biscrome, e successivamente (8’22”) si alterna con lui nell’esporre il tema (C) contrappuntato da biscrome sincopate. Intervengono alla fine anche il fagotti, prima che il solista (8’43”) porti la cadenza a conclusione.

A 9’02” si passa a SOLb maggiore con corni, fagotti e clarinetti che riespongono, con grande calma e per terze (un po’ à la Brahms) il tema (B). A 9’25” ancora il solista ripropone il tema (C) con una divagazione variata (9’39”) al tema (A) seguito da un’impennata (9’53”) fino al SI sovracuto, da cui discende poi per terzine, fino d adagiarsi sul SOLb, dove (10’17”) i violini ancora ricordano il tema (B), ripreso (10’31”) dal solista che si incarica quindi di chiudere sommessamente, sul SOLb maggiore.

Come si vede, una brano dalla struttura assai libera, che lascia spazio alla fantasia e quasi all’improvvisazione: interessante e gradevole, senza aver pretese di imporsi come capolavoro.

Veniamo ora all’Allegretto, un poco (sic). Dopo una corposa revisione della sezione finale, con la quale Nielsen pose rimedio all’affrettata versione originale della stessa (licenziata solo per non mancare l’appuntamento con la prima esecuzione) la struttura del movimento si presenta come uno spurio rondo: A-B-C-A’-B’-C’-D, dove D in realtà non è un tema autonomo, ma è una vera e propria sezione, basata sul ritorno reiterato del tema (A) ma dove ricompare, variato, nel trombone basso, anche il tema (C) del primo movimento. La tonalità principale è SOL maggiore, ma la chiusa sarà in MI maggiore.


Ecco, a 11’29” i soli archi, cui poco dopo si aggiunge un pedale del corno, introdurre il movimento, con secche semicrome scandite sul primo e terzo ottavo della battuta (2/4). A 11’43” il solista espone lo sbarazzino tema (A) in SOL maggiore, ripreso subito come in parodia dal fagotto, che prosegue il suo dialogo con il flauto. Flauto che poi procede ad una transizione (con intervento del corno) che porta, dopo un breve rallentando (12’21”) al secondo tema (B) nella (fugace) tonalità di SI maggiore.
                                                 
Il tema è ripreso (12’28”) dai violini che innescano una corposa transizione orchestrale, dove il solista si limita a brevi incisi; transizione che chiude con un progressivo rallentando e diminuendo, che conducono ad un bizzarro cambiamento di tempo (12’56): Adagio ma non troppo, sul quale il solista espone il tema (C) assai languido e praticamente atonale, che si muove per lo più su gradi contigui. Il flauto lo sviluppa tornando (13’48”) dopo un inciso del corno, a SOL maggiore, poi procede fino ad esaurirne la spinta, con un ulteriore rallentamento. A 14’55” un poderoso tremolo degli archi, accompagnati in fortissimo dai fiati porta alla riproposizione variata del tema (C) bruscamente contrappuntata da tre interventi in staccato dell’orchestra.

Una cadenza del clarinetto ci riporta (15’30”) in Allegretto, con la riesposizione del tema (A) ancora in SOL maggiore. Questa ricomparsa del tema appare però piuttosto offuscata, scurita, insomma quasi intristita, tanto che la melodia del flauto è costantemente calante come pure l’accompagnamento del violino solo. A 15’59” l’orchestra propone una breve transizione, che porta (16’09”) alla riesposizione (in DO) del tema (B). Mentre gli archi (16’18”) ripropongono i sussulti dell’introduzione, il solista insiste sul SOL acuto, poi (LA-SOL) sembra esplodere in un lamento; quindi un perentorio rullo del timpano ci riporta al tempo Poco Adagio.   

Qui (16’32”) un altro poderoso tremolo dei violini introduce la ripetizione del tema (C) negli archi bassi e viole, subito ripreso dal solista in forma variata e portato praticamente a… morire.

Qui (17’04”) ha inizio la corposa sezione conclusiva del concerto. Siamo ora passati in Tempo di marcia (6/8) e sono i clarinetti, supportati dai fagotti, a proporre, per terze, una variante del tema (A) ancora (per poco) in SOL maggiore. Sì, perché a 17’18” il flauto solista riprende il tema modulando a MI maggiore e ingaggiando quindi un botta-e-risposta con l’orchestra, che (17’45”) propone negli archi un nuovo motivo per terzine, presto ripreso (17’52”) dal solista, quindi ancora dagli archi.

A 18’03” ecco l’entrata del trombone basso, che sosterrà un ruolo da protagonista: dapprima ribadendo il tema (A), poi mentre il solista si libra in continui svolazzi e gli archi ribattono l’incipit del medesimo tema, riproponendo (18’09”) sempre in MI maggiore una forma allargata del tema (C) del primo movimento! Chiusa (18’23”) con un glissando dal pianissimo al fortissimo dopo il quale il flauto, con l’accompagnamento del timpano che ritma il tema (A) si imbarca in una cadenza sulla quale (18’35”) interviene ancora il trombone in glissando.

A 18’49” sono gli archi a riesporre un frammento del tema (A) cui segue una transizione dove orchestra e solista si confrontano; quindi (19’09”) ecco una specie di rincorsa dell’orchestra, che porta (19’18”) all’ultima cadenza solistica (sempre col timpano a tener bordone) finchè si arriva (19’26”) alle sei battute conclusive, rallentando e diminuendo.

Che dire: anche qui nulla di veramente straordinario, ma il prodotto di un sano artigianato musicale.
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Griminelli non ha tradito le attese e la sua ormai consolidata fama internazionale, rendendoci gradevole questo brano che, soprattutto a chi lo ascolta per la prima volta, potrebbe risultare un filino indigesto. Per lui accoglienza calorosissima ricambiata con un bis forse dedicato al suo indimenticabile Maestro.

14 settembre, 2015

Bignamini esordisce alla Scala con laVERDI


La Scala ha ospitato ieri, come ormai tradizione, l’OrchestraVerdi in quello che solitamente era il concerto di rientro dalle vacanze. Quest’anno – complice l’EXPO – la stagione non ha avuto interruzione alcuna, nemmeno per ferragosto, e come premio il FUS (che bisognerà ridefinire: Fatevi Una Sega) ha gratificato laVERDI di un… tozzo di pane ammuffito: siamo alle solite, roba da chiodi, o meglio… da Franceschini (magari in nome e per conto di Renzi: pregasi constatare differenze di trattamento fra laVERDI e la toscana ORT).

E questa è un’orchestra che riempie il più famoso teatro italiano come capita di vedere assai di rado, e trascina il pubblico ad ovazioni solitamente riservate ai Wiener, ecco.

Jader Bignamini ha avuto così l’occasione di salire per la prima volta sul podio del Piermarini, dove gli auguriamo di tornare in futuro, perché se lo merita davvero.   

Menu tutto russo, con un po’ di… champagne. Rimski che incapsula Musorgski-Ravel. Tutte portate che l’Orchestra cucina a menadito, cioè suona deliziosamente, tanto che sarebbe difficile fare graduatorie, sia globali che individuali.

Russi ovviamente anche i due travolgenti bis (Khachaturian e Ciajkovski) per brindare a… vodka!


Bignamini, che purtroppo non dirigerà, come inizialmente previsto, l’Otello verdiano a Parma (ma a fine ottobre tornerà ad interpretare in Auditorium, a distanza di un anno preciso, il Requiem) darà il la anche alla restante parte della stagione 2015, che si chiuderà a dicembre.

08 settembre, 2015

Stravinski riesumato

 

Sotto una pila di impolverati spartiti, in uno scantinato del Conservatorio di SanPietroburgo è stata ritrovata miracolosamente la partitura del Chant funèbre che Stravinski compose nel 1908, in memoria del suo grande maestro Rimski-Korsakov, scomparso nell’estate di quell’anno.

La musicologa Natalya Braginskaya, che lo aveva invano cercato per anni, ne ha dato l’annuncio al recente convegno della International Musicological Society.

Ora aspettiamo con impazienza di ascoltare queste note, che risuonarono soltanto una volta, nel lontano gennaio 1909!

25 agosto, 2015

Da Rossini a Wagner

 

Chiusosi il ROF il 22, si sta chiudendo anche Bayreuth, un Festival che ha avuto come principale oggetto di interesse il nuovo Tristan della premiata coppia Christian-Kathy, che ha avuto l’ultima replica il 23. E dopo averne ascoltato la prima per radio, l’ormai lontano 25 luglio, torno sull’argomento per esprimere ora qualche considerazione sulla messinscena, essendo disponibile in web (almeno fino ad ora, salvo interventi censori…) la registrazione filmata di una successiva rappresentazione. Pur con tutte le cautele, dovute al fatto che la regìa televisiva – soprattutto con l’uso dello zoom - in qualche modo distorce (in meglio e/o in peggio) ciò che la regìa teatrale propina allo spettatore in sala, è possibile quanto meno trarre dalle immagini registrate alcuni concreti spunti di riflessione.

In generale la critica parla di una Katharina che avrebbe abbandonato, magari complice Thielemann, il furore iconoclasta dei suoi Meistersinger del 2007 per orientarsi verso un approccio magari più vicino a quello di zio Wieland, cercando cioè di approfondire i molteplici significati reconditi del dramma. Ma c’è poi riuscita? A me pare proprio di no, e spiegherò perché.

Le scene sono piuttosto spartane e assai fredde, per non dire glaciali, e le luci danno il loro contributo alla creazione di atmosfere quasi spettrali, e sempre sono funzionali – non sembri un paradosso – ad accentuare l’oscurità, che permane anche in quei rari momenti dove la scena dovrebbe essere – stando al testo - in piena luce (un esempio per tutti: il finale atto I). I costumi sono assai curati e sufficientemente anonimi: moderni, ma seri e non pacchiani, compreso il cappottone di Tristan, peraltro di foggia piuttosto diversa dal solito cliché made-in-DDR

Assolutamente di alto livello l’interpretazione dei componenti del cast, dal punto di vista attoriale: la ripresa televisiva mette benissimo in risalto le grandi qualità di tutti (fino a che punto legate a specifiche indicazioni e prescrizioni della regista o già in loro dotazione, sarebbe peraltro da appurare).

Le diverse personalità dei protagonisti sono messe a fuoco in modo accettabile, se si esclude – ahinoi, e questo è il punto dolente dell’intera messinscena – la figura di Re Marke, sulla quale evidentemente la regista ha deciso, chissà poi perché, di riversare gran parte della sua (residua?) dotazione di idee strampalate e dissacratorie. La cosa ha implicato, per conseguenza diretta, una concezione a dir poco cervellotica dell’intero second’atto e poi del finale del dramma.         
 
Atto I

Il freddo ginepraio di scale e praticabili entro cui si muovono i 4 personaggi (marinaio e cori non si vedono, salvo fugaci apparizioni di addetti all’apertura o chiusura di qualche varco) immagino debba rappresentare il livello di totale incomunicabilità che separa i due protagonisti principali, mentre per gli altri due (Brangäne e Kurwenal) costituisce la barriera alla conoscenza di ciò che avviene nella psiche dei rispettivi padroni. Nelle prime due scene (o quasi) la regista rispetta alla lettera il testo: Isolde manifesta a Brangäne tutta l’insopportabilità della situazione in cui lei si trova, le chiede di Tristan e le ordina di andare da lui per invitarlo a renderle omaggio. Brangäne esegue, riferisce l’ordine di Isolde a Tristan, che risponde tergiversando (ed estraendo dal cappottone il velo nuziale, simbolo certamente azzeccato in quel preciso frangente e nelle scene successive: lui sta recando Isolde in sposa al suo Re).

Ma adesso abbiamo una prima chiara deviazione rispetto al testo originale: mentre Kurwenal inizia la sua impertinente descrizione degli avvenimenti che portarono alla morte di Morold, con tanto di testa mozzata e rispedita in Irlanda, ecco che Isolde, invece di ascoltare da lontano, dal suo alloggio a prua, raggiunge i tre cercando, pienamente corrisposta da Tristan, di congiungersi con lui, impeditane dallo scudiero. E già qui siamo al gratuito, poiché se è (o sarà…) evidente che i due protagonisti si amano fin dallo sguardo, è altrettanto chiaro dal testo che nessuno dei due si vuol ancora esporre esplicitamente verso l’altro.

E il peggio arriva quando, finita l’esternazione di Kurwenal, lui, Isolde e Brangäne vengono fatti letteralmente sprofondare di due piani rispetto a Tristan (che cerca invano, contrariamente al libretto, di raggiungerli): per cui tutta la successiva scena terza si svolgerà, anziché fra Isolde e l’ancella, di fatto fra Isolde e Kurwenal(!) Il quale, invece di irrompere all’inizio della quarta scena, viene quindi messo a parte dei particolarissimi rapporti intercorsi fra il suo capo e la principessa d’Irlanda, fatti dei quali lui dovrebbe rimanere totalmente all’oscuro addirittura fino al terzo atto! L’unico sottoprodotto plausibile di questa strampalata interpretazione di Catherina è il pugnale (ma nemmeno, pare un innocuo coltello da cucina, che però qui simbolizza beceramente la spada) che Isolde strappa a Kurwenal e che le serve per mimare su di lui il racconto del suo incontro (e conseguente innamoramento) con Tristan.

Altra chiara e gratuita – e fuorviante – scelta della regista è di far udire da Tristan, appostato su un praticabile proprio al di sopra di Isolde, l’esternazione della donna, che (in realtà) dovrebbe confidare solo all’ancella di non poter sopportare la prospettiva di dover vivere vicino all’eroe che lei ama senza poterne godere. Sì, perché Tristan deve solo immaginare (e sperare) che lei lo ami, non certo averne la certezza dalle di lei parole!

A questo punto bisogna pur parlare dei filtri, anzi del filtro! OK, d’accordo, sappiamo bene che questa storia dei filtri è tutta una finzione e che il filtro d’amore in realtà è acqua fresca, o comunque un qualunque intruglio non venefico, che insomma deve solo servire a non far schiattare gli innamorati dopo che si sono, bevendolo e credendolo di morte, dichiarati implicitamente il loro amore. Però, accipicchia, un minimo di realismo e di logica andrebbe conservato, altrimenti tutto diventa una gratuita pagliacciata.

Come l’ha immaginata Wagner tutta questa storia? Ecco: in uno scrigno (d’oro!) sono conservati alcuni recipienti contenenti i filtri (uno contro le malattie, un altro contro i veleni e un terzo, afrodisiaco). Ma Isolde indica all’ancella (che inorridisce) una quarta ampolla, da lei accuratamente contrassegnata: il filtro di morte, che lei intende bere con Tristan, che sta per arrivare. Al momento opportuno, quando Isolde ordinerà a Brangäne di versare il liquido nella coppa d’oro dove brindare con Tristan, l’ancella (che si dovrà solo vedere, poiché non canterà in quel frangente) invece del filtro di morte, verserà quello d’amore (o di… non morte, ecco). Tutto perfettamente realistico quindi, perché logico e plausibile.

Invece la Kathy cosa ci propina? Tutti i filtri sono di ugual colore rosaceo e contenuti in fiale perfettamente uguali (!?); Isolde estrae dal suo abito quello di morte, perfettamente uguale agli altri (evidentemente senza alcun contrassegno particolare); Brangäne glielo strappa di mano e le restituisce quello d’amore (tanto son tutti uguali!) Di conseguenza, al momento del brindisi è Isolde e non l’ancella (che è del tutto assente) ad estrarre dal petto il filtro, senza accorgersi però che non è quello giusto, che Brangäne le ha scambiato sotto il naso poco prima: insomma, una pantomima francamente risibile. E ancora non è tutto, come vediamo tra poco.

La quarta scena si dovrebbe aprire con l’irruzione di Kurwenal per annunciare alle donne che il porto è in vista. Qui invece lo scudiero, come si è visto, era già lì da un pezzo… In compenso, al posto di Kurwenal, che invano cerca di spostare un paio di scale per salire, è Isolde ad essere issata repentinamente all’altezza di Tristan, per il loro fatale incontro (!?) Qui c’è il drammatico scontro fra Isolde e l’ancella (che sta al piano di sotto!) a proposito del filtro, che Isolde ha con sé, ed è già quello… scambiato prima da Brangäne!: ma che senso ha allora la disperazione dell’ancella, quando lei sa benissimo che la fiala in possesso di Isolde, e che verrà usata per il brindisi, non è quella di morte? (Chiedere lumi a Kathy, please.)

La quinta scena si apre con l’entrata di Tristan, che Isolde accoglie con un… appassionato abbraccio (!?!) Ed anche in seguito lo avvicina con moine del tutto gratuite. Invece è perfetta la resa del momento in cui Tristan, dal voi, passa al tu, mettendo in mano ad Isolde la spada (ehm… il coltellino) con cui vendicare Morold. Lei invece è piuttosto prosaica, facendo scendere la punta del coltello lungo il corpo di lui, fino ad altezze… vergognose, ecco.

Ovviamente, date le premesse, Brangäne è del tutto assente (non solo col canto) dalla scena del brindisi, mentre in compenso lì c’è un nuovo appassionato abbraccio (eddai!) fra i due protagonisti. Scena francamente poco efficace, con il contenuto della fiala che viene versato sulle mani unite dei due, così come fiacca è la scena del successivo… risveglio: i due paiono più inebetiti che in suprema esaltazione, ecco. E l’abbraccio che finalmente li unisce finisce per dire poco (della serie al lupo, al lupo!) essendo ormai il terzo, a quel punto.

Il finale è dignitoso, sempre con pochissima luce, ed ha comunque il pregio di non far invadere la scena da masse disturbanti e, come è peggio (vedi Chéreau) dal farvi entrare anzitempo Re Marke. 

Tutto sommato un atto caratterizzato da una regìa non esecrabile, anche se piuttosto (diciamo così) confusionaria, in particolare per ciò che attiene agli spostamenti fisici dei 4 personaggi, che bisnonno Wagner - orsono 150 anni - aveva previsto con assoluta meticolosità, in funzione dei rispettivi stati d’animo, e che la pronipotina ha bellamente reinventato senza particolare costrutto.

Atto II

Invece di perdere un sacco di tempo a descriverlo passo per passo, facciamo prima proponendo un test di drammaturgia, mostrando esclusivamente le immagini (audio spento) di quest’atto senza preannunciare il titolo dell’opera, e chiedendo agli esaminandi di descrivere sommariamente l’azione che hanno visto in scena. Ecco, la risposta quasi unanime sarebbe pressappoco di questo tenore:

Un boss mafioso vuole liberarsi di un capo-banda rivale, così si serve di una delle sue zoccole, che fa opportunamente imbottire di droga, per adescare il rivale in uno dei suoi locali, osservandone inosservato dall’alto ogni minima mossa. A rapporto consumato, compresi riti sado-maso, lo sorprende in flagrante ed ha quindi il facile pretesto per farlo mandare al creatore dal suo guardaspalle. Gli dedica anche un accorato quanto ipocrita epitaffio, prima di andarsene trascinando via la povera zoccola.     

Capito com’è il second’atto di Tristan, versione riveduta e corretta dalla Kathy?

Atto III

Qui abbiamo un sano minestrone dei primi due atti. Il giardino del castello di Kareol, dove Tristan giace moribondo sotto un gran tiglio, si è trasformato in un luogo di veglia funebre, con tanto di lumini disposti intorno alla quasi-salma. Oltre a Kurwenal e al pastorello (che peraltro dovrebbe soltanto affacciarsi al muro di cinta) vegliano Tristan altri due individui non meglio precisati (inutile dire che sono un’invenzione della regista, anzi una scopiazzatura da Chéreau, che ce ne aveva messi una mezza dozzina almeno…)

Tristan è stato accoltellato alla schiena dal sicario del boss Marke (e non infilzato nel petto, come da libretto) però giace tranquillamente… supino (come da libretto! un modo come un altro per far rimarginare la ferita). Poi addirittura si alza e si mette a girare qua e là come nulla fosse: evidentemente tutto il second’atto doveva essere stato solo un brutto sogno, provocato forse dall’intruglio bevuto a bordo nell’atto iniziale.

Nei suoi vaneggiamenti, lui vede ovviamente Isolde, che gli appare diverse volte, incastonata in piramidi trasparenti (e questa magari è un’idea sensata); poi si accascia, questa volta bocconi, perché la ferita deve davvero fargli molto male, ecco. Ma ben presto si rimette arzillamente in piedi, Isolde sta arrivando e lui ne vede una, due, tre e addirittura quattro!

Finalmente muore e viene ricoperto da un telo, sul quale Kurwenal depone una croce e i due clandestini collocano due calle. Ma Isolde deve provare a riportarlo in vita, così lo scopre, però per poco, chè qualcuno ristende il velo e depone croce e fiori sulla salma. Finito? Beh, ancora manca l’arrivo del boss Marke e del resto dei protagonisti, che compaiono di botto in scena, proprio teletrasportati. Il parapiglia che ne segue, con ammazzamenti di Melot e Kurwenal, sembra un gioco delle belle statuine. Alla domanda di Marke che chiede di Tristan, il morente Kurwenal risponde (come da libretto): sta qui, accanto a me. Peccato che accanto a lui giaccia… Melot, evabbè.

Marke si mette al collo una fascia (sarà quella di sindaco o una stola di prete?) per fare l’elogio funebre al rivale che lui aveva fatto accoltellare nel second’atto; Isolde canta il suo Liebestod sulla salma, accanto a Brangäne, con Marke impietrito ad osservare i tre (miracolo, proprio come da libretto!) Ma, precisamente quando il corno inglese intona per l’ultima volta il motivo del filtro (SOL#-LA-LA#-SI) ecco il boss che si riprende la sua zoccola e se la porta via.

Il bello è che a Bayreuth – alla prima - hanno buato Thielemann e la Herlitzius, mica la tenutaria del baraccone! Vengono i brividi a pensare come sarebbe (o sarà…) un suo Parsifal.

23 agosto, 2015

Il ROF-36: Stabat Mater + spizzichi di Tell

 

Il ROF-36 ha chiuso i battenti, in un Teatro Rossini ancora gremito, con l’ormai tradizionale concerto, diffuso anche in streaming, oltre che in Piazza del Popolo a Pesaro. Pezzo forte lo Stabat Mater, al suo ritorno dal 2010, protagonisti gli stessi complessi bolognesi di allora: orchestra, coro e… futuro direttore musicale. E proprio Michele Mariotti, prima di attaccare lo Stabat, ha voluto rievocare quella sera domenicale del 22 agosto di 5 anni fa per ricordare una persona che allora fu protagonista e che da poche settimane non è più fra noi: Paolo Vero, a quel tempo Maestro del Coro felsineo. Di quel concerto conservo anch’io un bel ricordo, immortalato in rete da questa cronaca.

Se la Messa di Gloria (1820 a Napoli) aveva entusiasmato molti ma anche fatto storcere il naso a più d’uno per l’eccessiva invadenza di temi e atmosfere teatrali in una composizione sacra, lo Stabat (1842 a Parigi) ricevette un’accoglienza trionfale e poche furono le voci di critica all’eccessiva secolarizzazione della musica sacra del genio pesarese (una di queste voci fu quella di Wagner, che più tardi però ebbe modo di ricredersi). Sul programma di sala Ilaria Narici (attuale Direttrice dell’Edizione critica della Fondazione Rossini) riassume i termini generali della problematica legata ai rapporti fra musica sacra e profana (teatrale) come si era sviluppata tra la fine del ‘700 e i primi anni dell’800, in coincidenza con il tramonto degli ideali illuministi – che avevano regolato in modo razionale tali rapporti, a partire dalla rigida separazione fra i rispettivi stili e forme - e l’insorgere prepotente del romanticismo, che quei rapporti e quelle regole metteva profondamente in discussione. Così conclude Narici: Rossini non scrive una musica sacra astratta e romanticamente idealizzata, ma fa della contaminazione degli stili la forza e l’attualità dell’opera e in questo senso, contrariamente alle interpretazioni che vedono l’opera rossiniana guidata da un’estetica conservatrice, ne sancisce l’assoluta modernità. E credo che il concetto si applichi anche a Verdi, al cui Requiem (nato in origine proprio come omaggio alla memoria del Maestro pesarese) verranno mosse critiche di eccessiva melodrammatizzazione, critiche che francamente lasciano oggi il tempo che trovano.

È opinione diffusa che lo Stabat sia una specie di evoluzione dell’estetica musicale rossiniana già manifestatasi nel Tell. E non a caso l’apertura del concerto finale del ROF-36 è stata affidata a note dell’ultima, grande opera di Rossini. Così abbiamo potuto ascoltare alcuni dei brani corali-danzati, estrapolati dall’edizione critica dell’opera, curata a suo tempo da una delle principali contributrici della Rossini-renaissance: M.Elizabeth C. Bartlet.  

Dapprima tre brani dall’atto I e precisamente:

- il N°4, Choeur dansé (Choeur de Suisses, Hyménée);
- il N°5, Pas de six;
- il N°5b, Pas de deux.

Poi, dall’atto III:
- il N°15, Pas de trois et choeur tyrolien (Petit choeur de Suisses; Choeur de Suisses et soldats, Petit choeur de Suisses, Toi que l’oiseau, Dans nos campagnes);
- il N°16, Pas de soldats, che ha chiuso in modo a dir poco travolgente la prima parte della serata, permettendo ad orchestra e coro – che il Tell hanno avuto modo di interpretare di recente qui a Pesaro, poi a Torino e Bologna - di… scaldare i muscoli.

Quindi ecco lo Stabat, che non ha tradito le aspettative: a partire da Mariotti, che ha mantenuto un sapiente equilibrio di dinamiche, evidenziando tutti i dettagli della complessa partitura (rispetto al 2010 ha cambiato il layout dell’orchestra, disponendolo alla alto-tedesca, bassi a sinistra, celli al centro e violini secondi al proscenio). Per proseguire con il coro di Andrea Faidutti, sempre compatto e preciso, cui ancora una volta è stato affidato – scelta sempre discutibile peraltro, avendo i suoi pro-e-contro rispetto all’impiego del solo quartetto solistico - il Quando corpus morietur, a cappella, esposto con grande… religiosità; coro che ha poi chiuso in bellezza con la fuga conclusiva, dove Rossini, a 20 anni di distanza dalla Messa di Gloria, ha mostrato alla grande di non aver più bisogno del supporto contrappuntistico di un Pietro Raimondi…

Bene anche i quattro solisti, fra cui si è ben distinto René Barbera, e non solo per il famoso e squillante REb sovracuto del Cuius animam. Ma anche gli altri hanno ben meritato, a partire da Nicola Ulivieri, impeccabile nel suo Pro peccatis e nel successivo Eja mater; ad Anna Goryachova, cresciuta dopo un avvio non proprio perfetto fino ad un convincente Fac ut portem; e per finire con Yolanda Auyanet, la quale oltre che per una voce ben impostata in tutti i registri (inclusi gli acuti, a giudicare dai due DO dell’Inflammatus) si è fatta notare (e come!) per l’abbigliamento consono, più che ad una cerimonia religiosa, all’incoronazione di… Poppea (stra-smile!)             

E con questa nota di colore, auguro (a me stesso, innanzitutto): arrivederci al ROF-37, se (…) vorrà.


21 agosto, 2015

Il ROF-36 live (3): La Gazzetta

 

Ieri sera, in un Teatro Rossini piacevolmente gremito, ultima recita al ROF-36 della nuova produzione de La Gazzetta, che ha chiuso così la sua terza presenza al Festival, la prima in forma finalmente completa. La novità del quintetto dell’atto primo (Già nel capo un giramento) è ovviamente al centro dell’attenzione, tanto da occupare gran parte dei saggi pubblicati sul programma di sala a firma di due autentiche autorità in merito: nientemeno che gli editori critici della partitura, Philip Gossett e Fabrizio Scipioni.

 

Gossett – tornato di persona sui luoghi dei suoi vecchi amori e del suo… divorzio - ricostruisce, per così dire, i retroscena musicologici relativi al quintetto: nella sua prima edizione del 2000 (rappresentata al ROF nel 2001, poi ripresa nel 2005, con Dario FO) Gossett stesso aveva musicato il recitativo della scena VI (Alberto che dichiara il suo amore a Doralice, creduta figlia di Pomponio) e poi il testo del quintetto (scena VIII) era stato declamato sul sottofondo al fortepiano della Danza dalle Soirées musicales. Una soluzione assai più complessa e ardita era stata poi proposta in Germania da Stefano Piana, che aveva presentato il quintetto con musiche derivate per induzione dal sestetto de La Cenerentola (opera successiva e oggetto di importanti imprestiti da La Gazzetta, a partire dall’intera Sinfonia) e dal quartetto de La scala di seta, oltre che dal finale primo del Barbiere, per il famoso Mi par d’esser con la testa.  

 

Gossett ammette di aver molto apprezzato l’acume di Piana nel predisporre la sua soluzione alla mancanza della musica del quintetto, soluzione che è poi stata in gran parte invalidata dal recente ritrovamento dell’originale di Rossini. Che ha rivelato come la prima sezione del quintetto medesimo sia musica del tutto nuova (c’è in effetti una premonizione a La Cenerentola, ma non al sestetto, bensì all’introduzione); che la seconda derivi effettivamente da La scala di seta, ma con importanti modifiche, specie nelle modulazioni di tonalità; e che la terza riprenda sì il sestetto del Barbiere, ma anche qui con importanti varianti (non c’è la sezione in MIb e nel finale il DO maggiore lascia fugacemente spazio ad un LAb maggiore).   


Da parte sua Scipioni, dopo aver ricostruito le vicende che portarono alla creazione del libretto (da Goldoni) e alla rappresentazione dell’Opera, ci ragguaglia con minuziosi dettagli riguardo ai numerosi imprestiti sparsi nella partitura, ma concentrati prevalentemente nel primo atto. Oltre a quelli già citati da Gossett, veniamo a sapere che già nell’Introduzione quadripartita troviamo il coro (Chi cerca il piacere) che proviene da Torvaldo e Dorliska; poi, dopo l’aria di Alberto, nuova, il recitativo accompagnato (Oh sior Alberto) da L’equivoco stravagante e da La scala di seta; infine il terzetto con coro (Portala qua) ancora da Torvaldo. La cavatina di Lisetta (Presto, dico) proviene, ma diversamente orchestrata, dall’aria sostitutiva di Fiorilla (Presto amiche) del Turco in Italia. Il finale primo, strutturato in quattro sezioni, presenta nella terza (Giusto ciel) un imprestito dal Torvaldo. Altri imprestiti più o meno corposi vengono da La pietra del paragone, La cambiale di matrimonio e Sigismondo.

La presenza del quintetto appare davvero come una necessità (musicale innanzitutto, ma anche drammaturgica e spettacolare) tanto che si fatica ormai ad immaginare come potesse configurarsi una rappresentazione che ne fosse priva: e questo credo proprio spieghi la lunghissima assenza dalle scene di un’Opera che aveva un primo atto ridotto musicalmente, drammaturgicamente e spettacolarmente ad un corpo deforme perché mutilato. Restano così ancor più inspiegabili le ragioni per cui Rossini in persona lo volle rappresentato in tal forma.
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Ieri l’ascolto (e visione) dal vivo mi ha confermato la buona impressione della prima ascoltata in radio, e anche il pubblico ha mostrato di apprezzare, applaudendo a scena aperta dopo ciascun numero, e tributando alla fine un meritato trionfo per tutti.

E su tutti ha spiccato lo Storione del volga di Nicola Alaimo, per possanza di voce (oltre che per… stazza fisica!): qualche eccesso gli si può perdonare, portandolo a credito della componente attoriale della sua prestazione.

Benissimo l’esordiente (al ROF, sia chiaro) Vito Priante, un Filippo davvero convincente, bella voce tornita e chiara in tutta l’estensione, da baritono rossiniano. Buone notizie anche per Maxim Mironov, che si è confermato tenor-ino (nella voce, -one nel fisico da cestista) di qualità, presentandosi subito sicuro nell’esordio di Ho girato il mondo intero, e poi guadagnandosi un’ovazione alla fine dell’aria del second’atto (O lusinghiero amor).
Completavano la sezione-androceo del cast Andrea Vincenzo Bonsignore, che si è onorevolmente accollato la parte non proibitiva di Traversen, e Dario Shikhmiri, un onesto Anselmo.

Nel campo femminile, discreta prestazione della Lisetta di Hasmik Torosyan (per la verità mi aveva meglio impressionato alla radio) che è dotata di voce ragguardevole che però, soprattutto salendo agli acuti, tende un filino a stimbrarsi, virando al… metallizzato. Discreta la sua tecnica, come testimoniato dai virtuosismi richiesti dalla parte. Abbastanza sicura Raffaella Lupinacci, che ha creato un’onorevole Doralice, manifestatasi in pieno nell’aria (spuria) Ah, se spiegar potessi. Un gradino sotto (per me, s’intende) la Madama di Josè Maria Lo Monaco, voce dal timbro sgradevole e intonazione non sempre appropriata. Le tre cantanti (così come Bonsignore e Shikhmiri) vengono da recenti esperienze dell’Accademia di Zedda (che sedeva in un palco a ricevere i loro omaggi…) il che testimonia della validità di tale iniziativa, ma anche di una certa fretta nel promuovere le voci al cartellone principale del ROF.

Il coro maschile di Andrea Faidutti ha meritoriamente dato il suo contributo al successo della serata. Enrique Mazzola ha confermato quanto di buono udito in radio: direzione attenta ai particolari e alle sfumature (qui l’Orchestra bolognese ha confermato la sua buona forma) e precisa concertazione delle voci; insomma, per lui un ritorno proficuo al ROF dopo le presenze marginali (ma significative) risalenti all’ultima fine-secolo (!)
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L’allestimento di Marco Carniti (applauditissimo anche lui alle uscite finali) mi è parso complessivamente indovinato. Le scene di Manuela Gasperoni assai spartane, racchiuse da lunghi pannelli a mo’ di tendaggio semitrasparente, con tavoli mobili e poco più (così immagino abbiano contribuito a non far aumentare troppo il rapporto debito/PIL del Festival) hanno comunque creato spazi e occasioni per i movimenti di singoli e masse. Simpatici i costumi di Maria Filippi ed efficaci le luci di Fabio Rossi. In generale mi è parso di rilevare una specie di crescendo (rossiniano) nella tinta complessiva della scena: si è passati da mille sfumature di grigio (con poco bianco e nero) del primo atto ad una progressiva accentuazione cromatica col progredire della rappresentazione.

Da segnalare in particolare la sceneggiatura del terzetto maschile del second’atto (il duello) che ha impegnato i protagonisti in esilaranti gag, con Alaimo nelle vesti dell’elefante ballerino, culminate in uno sfrenato Cantiamo, balliamo, che ha strappato un uragano di applausi divertiti.

Non si può a questo punto non parlare del Tommasino di Ernesto Lama. Come la gazza di Michieletto e il ragazzino-minatore di Vick, è stato il prezzemolo sparso a piene mani sulla rappresentazione. Lui sembrava un Pietro DeVico di buona memoria, una macchietta straordinaria cui Carniti ha affidato il compito di vivacizzare ogni scena, mettendogli anche in bocca qualche battuta non precisamente scritta da Palomba. E affidandogli anche qualche sottile (e tutto sommato innocente) messaggio socio-politico (Vick ha fatto scuola) culminato nel cartello esibito alla fine: con la cultura si mangia?  

Ecco, facendo proprio questo drammatico interrogativo, chiudo il mio personale diario del ROF-36 operistico. Mi resta però ancora un’ultima stazione di via-crucis (smile!): eh sì, quella dove… Stabat Mater.