affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

11 gennaio, 2014

Orchestraverdi – Concerto n°16

 

Dopo il Bach de laBarocca all’Epifania, è di ritorno Zhang Xian per aprire il 2014 della stagione principale, salendo sul podio dell’Auditorium per dirigervi un concerto dall’impaginazione particolare, dove si mescolano e si alternano il moderno, il moderno-ma-non-troppo-quasi-tradizionale e il tradizionale-che-di-più-non-si-può: infatti nella prima parte abbiamo un Bartók che si può ormai definire classico, messo in sandwich fra due contemporanei, Witold  Lutosławski (che ci ha lasciato da una ventina d’anni) e Rolf Martinsson (oggi non ancora sessantenne) di cui ascoltiamo composizioni che impegnano la sola sezione degli archi; chiude il concerto Dvořák con la sua composizione più inflazionata.  

Di Lutosławski viene eseguita una cosa abbastanza bizzarra, come molta, diciamolo pure, della musica del compositore polacco, sempre preso dalla fregola delle sperimentazioni più cervellotiche e poi regolarmente insoddisfatto dei risultati: la Uwertura Smyczkova (Ouverture per archi) del 1949, un periodo particolare per l’evoluzione estetica del compositore, oltre che per i rivolgimenti politici che si producevano in una Polonia ormai rinchiusa inesorabilmente nella gabbia del comunismo reale (la Conferenza di Łagów importava proprio in quei giorni dall’Unione Sovietica i princìpi e i dettami, in fatto di arte, della premiata ditta Stalin-Ždanov). 

Meglio e più di ogni altra critica, sono le parole stesse dell’Autore a gettare una luce piuttosto… obliqua su questa composizione:

Il lavoro è assolutamente poco pratico, dato che richiede un sacco di fatica, ma dura solo cinque minuti. Per la gran parte, dopo averlo ascoltato, l’uditorio rimane completamente disorientato, a dispetto del lungo accordo finale che incorona il brano. Evidentemente la gente si aspetta che duri di più. Quando Wisłocki lo diresse alla Filarmonica di Varsavia, alla fine non ci fu il benché minimo applauso. Lui non sapeva che fare, così fece alzare l’orchestra e se ne andò via…

Mah… giudicate voi: che qualcuno si aspetti che duri di più è tutto da vedere, a meno di non sostituire il verbo aspettarsi con il più verosimile paventare (smile!)
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Si, perché anche se uno si prende la briga di scoprire cosa c’è dietro (o dentro) quest’opera non è che per questo il fascino del brano aumenti sostanzialmente di livello. Possiamo scoprire o verificare che vi vengono impiegate delle scale ottofoniche, inventate con speciali criteri. Una è costituita da due tetracordi (s-t-t) separati da un semitono: LA-SIb-DO-RE/RE#-MI-FA#-SOL#; una seconda dalla successione cromatica da DO a SOL (DO-DO#-RE-RE#-MI-FA-FA#-SOL). Si vedano questi due esempi di temi costruiti con tali scale:


Possiamo anche contare (qualcuno l’ha fatto, non certo io…) ivl numero delle ricorrenze di un frammento, esposto proprio all’inizio dalle viole come SI-LA#-SOL#-LA, che torna 132 volte (in 188 battute!) a viso aperto o variamente camuffato (ad esempio partendo da altezze diverse oppure travestendosi a mezzo inversione):


Quanto ai cambi di tempo, questi li ho personalmente contati: sono 99, mediamente uno ogni 2 battute! Possiamo anche stupirci (!?) nel sentire i temi riproposti nella ripresa in ordine inverso rispetto all’esposizione e anche restare a bocca aperta davanti all’accordo finale, una politonalità di due triadi di RE e SOL maggiore, FA# nei primi violini, RE nei secondi, RE e LA nelle viole, RE e SI nei violoncelli e SOL grave nei contrabbassi:
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Mah, pur con tutta la buona volontà, è davvero difficile entusiasmarsi per questo pezzo (che nemmeno il grande Alex Ross si degna di citare!) e ai ragazzi de laVerdi si può soltanto riconoscere l’abnegazione con cui hanno affrontato la prova. A loro e alla Xian comunque è andata meglio rispetto ai colleghi della Filarmonica di Varsavia e al povero Wisłocki: sì, perchè loro almeno qualche applauso (di cortesia?) l’hanno comunque portato a casa (smile!)
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Béla Bartók compose la sua Tanc-szvit (Suite di sei danze) nell’agosto 1923, in occasione delle celebrazioni del mezzo secolo di vita di Budapest (vita del nome, intendo, non certo delle chiese e dei ponti della città). Celebrazioni  che compresero, a novembre di quell’anno, un concerto di musiche (nuove e non) di sapore magiaro. Le nuove composizioni furono commissionate, oltre che a Bartók, a Zoltan Kodály (lo Psalmus hungaricus) e al direttore del concerto, Ernő Dohnányi (la Festival Overture). Inoltre si eseguirono le due marce di Racoczy (di Liszt e Berlioz).

Il nome dell’opera deriva evidentemente dalle classiche Suite barocche, dove però all’Allemanda, Corrente, Sarabanda e Giga si sostituiscono danze popolari (peraltro inventate dall’Autore, sia pure a simiglianza di quelle originali) di diversa provenienza: Europa orientale (Ungheria, Slovacchia, Romania) e mondo arabo (prima e dopo la Grande Guerra Bartók aveva visitato l’Africa settentrionale proprio per acquisire impressioni di prima mano sulla musica araba).
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La Suite consta di sei brani, con un Ritornello (di ascendenza magiara) che si presenta, in varianti diverse, al termine del primo, secondo e quarto brano e all’interno del Finale:


1. Moderato. Percorso da temi derivati da musica araba primitiva, come questo esposto dal fagotto subito dopo il rullo di apertura del tamburo:


Invece i ritmi, scanditi tipicamente dagli archi, ricordano abbastanza quelli dell’Europa orientale.

Il tema arabeggiante passa dai fagotti al corno inglese, poi anche all’oboe e infine al clarinetto. Una sezione centrale (Vivo) impegna l’intera orchestra, poi un progressivo allargamento del tempo ed una rarefazione dei suoni conducono alla prima apparizione del Ritornello (protagonisti violini e clarinetto) che chiude languidamente questa danza d’apertura.

2. Allegro molto. Un unico motivo di sapore chiaramente magiaro (continui intervalli di terza minore) che poi sfocia in pesanti glissando, proprio come a ricordare il tema del Mandarino (miracoloso) che Bartók aveva composto per pianoforte anni addietro, ma che stava orchestrando proprio nello stesso periodo di composizione della Suite:


Dopo diverse ripetizioni di questi squarci, fa la sua seconda comparsa il Ritornello, questa volta prima nel clarinetto, poi nei violini e infine chiuso con una breve cadenza dell’oboe.

3. Allegro vivace. In forma ABACA, con un motivo – anzi un gruppo tematico - di danza di origine ungherese con cui si inseriscono spunti di danze dal piglio tipicamente romeno, come questo:

La presentazione del tema B si conclude con una sezione molto lenta, caratterizzata da un trillo sul SOL sovracuto del flauto accompagnato da arabeschi della celesta e chiuso da un glissando dell’arpa, che contrasta assai con ciò che precedeva e con il tema principale che segue. La chiusura del brano è magistralmente condotta da Bartók, che propone il primo tema Vivacissimo, poi allarga molto il tempo, e quindi, dopo una corona puntata, riprende il Vivacissimo per le due battute conclusive!

4. Molto tranquillo. È una melodia di sapore arabo, che emerge in unisono nei legni (corno inglese e clarinetto basso, all’inizio) alternandosi ad un tappeto di accordi vagamente dissonanti di archi, pianoforte e fiati (RE-DO-LA-SOL):

Questa alternanza si protrae per più volte, sempre con minore lunghezza, fino a sfociare, nelle ultime battute, nel tema del Ritornello.

5. Comodo. È la più breve delle sei danze, una specie di intermezzo prima del finale (che è la danza più lunga) costruita su un inciso dal ritmo assai spiccato, ripetuto prima dalla viole e poi dai violini a distanza di quarte (MI-LA, RE-SOL) e seguito da una cadenza sincopata dove archi e fiati dapprima si alternano per poi riunirsi in vista dell’attacco della danza conclusiva.

6. Finale, Allegro. Ricapitola i movimenti precedenti, con una struttura che prevede Introduzione (dove si riprendono temi della quinta, prima e seconda danza), Esposizione (con temi della prima, terza e seconda danza), Trio (che ricapitola le due forme del Ritornello) e Ripresa.
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Come l’Uwertura di Lutosławski, anche quest’opera non fu propriamente accolta alla prima da deliranti entusiasmi, anche a causa della mediocrità dell’esecuzione, raffazzonata con pochissime prove. Però il tempo ha finito per renderle ragione: non sarà certo un capolavoro, ma forse aveva torto Adorno a snobbarla come musica d’occasione (quante sono le musiche d’occasione che sono divenute immortali?) Insomma, l’estro (per non dire il genio) di Bartók vi si sente e come.

Nervosa e vibrante la lettura che ne ha dato la Xian, il che ha consentito ai ragazzi – percussioni in testa - di mettere in mostra tutta la loro bravura tecnica.
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Lo svedese Rolf Martinsson è un contemporaneo ammiratore di Schönberg, se è vero che gli ha dedicato ben tre versioni (predisposte in tempi diversi) dal suo A.S. in Memoriam (A.S. sono appunto le iniziali dell’inventore – o millantato tale – della dodecafonia). In realtà l’Autore è abbastanza alieno da certi gratuiti estremismi divenuti di moda nel ‘900 – anche grazie a Schönberg, e ahinoi, dico io - tanto è vero che si è ispirato, componendo la prima versione del brano nel 1999, al tonalissimo Verklärte Nacht, che quell’anno compiva giusto un secolo.

Qui ascoltiamo la seconda versione (2001) per orchestra d’archi (la prima è per ensemble di 15 archi e pianoforte e la terza del 2007 è per pianoforte solo). Beh, Lutoslawski mi perdonerà, ma questo ggiovane (classe 1956) almeno nel pezzo qui in programma si fa assai più rispettare. Dimostrando anche che la tonalità – per superare la quale Schönberg, dopo una buona partenza, aveva finito per arenarsi, vedendosi costretto per… sopravvivere a inventare un sistema talebano di regole di composizione che, ai miei orecchi perlomeno, farà più danni che altro – poteva e può ancor oggi dare frutti del tutto apprezzabili.  

E non per nulla il brano di Martinsson, pur presentando diverse e frequenti modulazioni fino a sfiorare l’atonalità, ha un chiaro centro di gravitazione tonale sul SOL, e apre e chiude con accordi in minore in questa tonalità! Mirabile anche l’uso dei pianissimo e delle pause di silenzio, che impreziosiscono la parte finale del brano.

Grande successo per gli archi de laVerdi, per Xian e per l’Autore, presente per l’occasione della prima esecuzione italiana della sua opera, ulteriore indice della caratura internazionale dell'Orchestra.
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Chiude il concerto la celeberrima Sinfonia dal Nuovo Mondo, altro cavallo di battaglia de laVerdi, che ce la ripropone di frequente.

Xian si permette qualche preziosismo oltre i… righi, soprattutto nel movimento iniziale, poi cava fuori un Largo letteralmente da sogno, quindi scatena i suoi nei due conclusivi movimenti veloci. Successo strepitoso. Che mi fa tornare, chissà perché, da Lutosławski per riportarne un concetto da lui espresso nel 1965, a proposito dell’evoluzione della musica:

Finche perdurerà  una situazione che non favorisce la nascita di nuovi dettami stilistici, di nuove convenzioni artistiche, non cambierà nulla. Possiamo, comunque, restare fiduciosi che arriverà il momento in cui perfino i maestri più grandi dei tre secoli precedenti potranno condividere il destino dei loro predecessori e la loro produzione musicale lentamente comincerà a trasformarsi nei reperti musicali, oggetto di interesse dei soli specialisti. Solo in quel momento assisteremo al vero fiorire della musica scritta ogni giorno.

Bene, non sapete quanto io sia entusiasta della certezza che ho di non campare abbastanza per vivere quel momento prefigurato dal compositore polacco… (amen)

07 gennaio, 2014

laBarocca nel monumentale Weihnachtsoratorium

 

All’Epifania, che tutte le feste porta via, sta diventando consuetudine per la compagine di Ruben Jais chiudere in gloria le celebrazioni cristiane mettendo in programma le sei cantate del cosiddetto Oratorio di Natale

Da alcuni anni a questa parte l’impaginazione dell’evento ha subito una drastica modifica, in dipendenza della mastodontica lunghezza dell’opera – circa due ore e tre quarti nette – che ne rende davvero problematica l’esecuzione tutta d’un fiato, pur se ciò era riuscito felicemente al primo tentativo, nel 2010.

Adesso l’esecuzione viene suddivisa in due parti: si comincia alle 17:30 con le prime tre cantate, poi alle 19 si fa una bella sosta… bio-fisiologica e alle 20:30 si riprende per le altre tre cantate. Ieri la platea dell’Auditorium era affollatissima, con qualche defezione registratasi per la verità nell’intervallo (evidentemente qualcuno ha preferito prolungare la… cena, smile!) a conferma della predisposizione del pubblico meneghino per la buona musica e della fama che il complesso barocco de laVerdi sta consolidando di stagione in stagione.
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Bach, assai prima di Rossini, era solito farsi degli auto-imprestiti di musiche composte in altre occasioni (qui vengono chiamati parodie): questo è anche il caso delle cantate del Weihnachtsoratorium che reimpiegano, sui testi liturgici, musica composta magari per occasioni laiche, come ci ricorda qui in una breve ma interessante nota il compianto Sergio Sablich.

Il quale ci fa poi notare una chiara e non casuale doppia reminiscenza, uno stesso tema che viene direttamente dalla Matthäus Passion (di 7 anni precedente) e si ripete due volte nell’Oratorio:


Nella Passione accompagnava il desolato canto di uomini e donne di fronte alla vista di Gesù sottoposto alle sevizie dei suoi torturatori – con il capo martoriato da ferite sanguinanti – mentre qui dapprima esprime lo smarrimento e l’anelito del popolo di Sion di fronte all’imminenza dell’arrivo del Messia, poi, proprio alla fine, accompagna l’esultanza (fin troppo accesa…) di chi si sente finalmente liberato dal nemico rappresentato dal male, dal peccato, dall’inferno.

Insomma, una specie di filo rosso che collega circolarmente la Passione e la Morte del Cristo con il suo Avvento e la sua Nascita: il tutto in poche note musicali!
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Per l’occasione i solisti erano il soprano Joanna Klisowska, il contralto (oh, pardon… il controtenore) Filippo Mineccia, il tenore Clemens Löschmann e l’ospite consueto dell’Auditorium, il basso Christian Senn. Per loro e per l’Ensemble vocale di Gianluca Capuano, oltre che per gli strumentisti guidati da Gianfranco Ricci, applausi convinti, ripagati dall’immancabile bis, che però questa volta Jais ha variato rispetto alla tradizione: in luogo del conclusivo (e un po’ protervo, per la verità) Nun seid ihr wohl gerochen, ha proposto il ben più sereno e… cristiano Ich steh an deiner Krippen hier.

Ecco, speriamo (ma è un’utopia?) che il messaggio sia recepito dai nostri politici, che finalmente si rechino presso la mangiatoia non per… mangiarsela con tutto il contenuto, ma per portare, se non proprio oro, incenso e mirra, almeno un onesto contributo al raddrizzamento di questo mondo piuttosto malconcio.

31 dicembre, 2013

Orchestraverdi – Concerto n°15

 

Anche a cavallo fra 2013 e 2014 risuona per quattro volte in Auditorium, diretta da Zhang Xian, la Nona beethoveniana che laVerdi offre ogni fine d’anno al suo affezionato pubblico. Pubblico che ieri sera, alla seconda replica, era davvero strabocchevole e che alla fine, prima e dopo il tradizionale bis della coda dell’Ode, ha tributato a orchestra, coro, solisti e direttore una specie di trionfo non solo per la serata, ma idealmente per tutto questo 2013 che ha segnato per la Fondazione alcune tappe davvero indimenticabili: dal compleanno dei 20 anni, alla prestigiosa presenza ai PROMS fino alla tanto sospirata ed acclamata ottava mahleriana.

Ed anche questa esecuzione ha confermato la piena maturità dei complessi strumentali e corali de laVerdi, entrata ormai a pieno titolo nel novero delle istituzioni musicali più prestigiose. E un segnale non insignificante di ciò è la crescita di singoli componenti dell’orchestra, che si guadagnano via via posizioni di prima parte: ieri sera ne era esempio palpabile la presenza, sulle due sedie ai lati del podio, di Nicolai Freiherr von Dellingshausen (un nome… un programma!) e di Tobia Scarpolini, che ha guidato splendidamente il pacchetto degli archi bassi nel grande recitativo del Finale.

Zhang Xian ha comandato le masse (sue e di Erina Gambarini) e i quattro solisti (Maida Hundeling, Deborah Nansteel, Gregory Warren, Rudolf Rosen, tutti all’altezza, con qualche punto di merito in più per la Hundeling) con grande autorità, in un’interpretazione che definirei… eroica, quanto a intensità e pathos (forse persino con qualche eccesso nelle scariche dei timpani della bravissima Viviana); in ogni caso un’esecuzione austera, con tempi sempre misurati e composti, che poco o nulla ha lasciato a retorica o ad eccessive romanticherie. Rientra in questa logica anche il taglio di tutti i ritornelli dello Scherzo, ad eccezione di quelli delle due sezioni del Trio.      

Insomma, almeno qui in Auditorium il 2013 non sarà certo ricordato come annus horribilis, ma mirabilis! Di questi tempi, è già qualcosa…

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Sulla Nona si sono scritti i proverbiali fiumi d’inchiostro. Ma in Italia il saggio ancor oggi - dopo quasi 40 anni - più completo è quello di Massimo Mila (Lettura della nona sinfonia, purtroppo difficile a reperirsi tramite i principali canali commerciali) che esplora la partitura quasi battuta per battuta, mettendone in luce anche le più remote significanze.

Oggi noi non ci scandalizziamo della durata di oltre un’ora di una sinfonia, abituati all’ipertrofia di quelle di Mahler, che almeno in 7 casi su dieci si avvicinano ai 90 minuti; così come non badiamo alla mancanza del da-capo nell’esposizione dei temi del primo movimento (A-A e poi B-B invece che il tradizionale A-B con ritornello); e poco ci curiamo del fatto che il secondo tema, invece che in FA maggiore come da sacri canoni, sia nella sua sottodominante SIb; né ci sorprende che il movimento vivace (lo Scherzo) compaia in seconda anziché in terza posizione. E soprattutto troviamo quasi normale la presenza di voci e coro, dopo che la cosa era diventata quasi un’abitudine sin da fine ‘800, sempre grazie a Mahler (per la verità anticipato isolatamente dal Mendelssohn della Lobgesang). E il nostro orecchio accetta senza drammi le tremende dissonanze degli accordi che aprono l’introduzione, nello stesso Finale della sinfonia.  

Ma per il pubblico e soprattutto per la critica dell’anno di grazia 1824 quelle novità suonavano come un autentico terremoto che scuoteva dalle fondamenta sacre consuetudini consolidate ormai da quasi un secolo! E proprio e soprattutto l’ultimo movimento della Nona fu da subito oggetto di accese discussioni a causa dell’impiego della voce, che avrebbe – secondo gli schizzinosi à-la-Hanslick – inquinato la purezza della forma sinfonica con ingredienti alieni e propri di generi completamente diversi (Lieder, oratori, cantate, messe, opere). 

Al proposito, Giovanni Bietti (una delle voci che su Radio3 ci impartiscono splendide lezioni di musica) nel suo recente Ascoltare Beethoven ricorda come la Nona sia da sempre oggetto non solo di critiche, ma anche di ritocchi… fra i quali cita quello famoso di Furtwängler, consistente nel re-instrumentare l’incipit del Finale, per renderlo ancor più enfatico e strepitoso di quanto già non sia. Questa è la pagina della partitura originale (una delle tante edizioni, inclusa quella recente di Jonathan del Mar per Bärenreiter, che concordano tutte sul contenuto):


Ora, se si ascolta un’esecuzione del famoso direttore (qui nel 1954) non si può non notare come alle trombe (clarini, nell’originale di Beethoven) sia stata di fatto assegnata la stessa parte dei flauti, il che conferisce al passaggio una spettacolarità perfino eccessiva e al limite del pacchiano! Oltretutto coprendo quasi completamente il suono dei legni. (Qualcosa di simile accade poco dopo, al secondo intervento dei fiati, dopo il primo recitativo degli archi bassi; e poi ancora, al ritorno della fanfara prima dell’entrata del baritono.)

Ma in realtà tutto ciò non è nemmeno farina del sacco di Furtwängler, bensì di quello di Richard Wagner, che nel 1873 aveva scritto un piccolo trattato sull’esecuzione della Nona, in cui precisamente giustificava la sua decisione di cambiare sostanzialmente la parte delle trombe in quel passaggio (una terrificante fanfara dei fiati, parole sue) poiché, a suo dire, come l’aveva scritta Beethoven era tale da far udire all’ascoltatore soltanto il ritmo di quegli ottoni, la cui potenza sovrastava la linea melodica dei legni. E siccome, secondo lui, ciò non poteva corrispondere ai desideri del compositore, ecco la decisione, che Wagner aveva adottato nelle sue ultime interpretazioni della sinfonia, di far suonare alle trombe la stessa linea degli strumentini. E nel suo scritto Wagner riporta precisamente la modifica della parte delle 2 trombe (qui le prime 5 battute):


Beh, con tutto il rispetto per Wagner, anche un principiante capisce che una soluzione meno estrema del problema – soluzione che sia più rispettosa dell’idea del compositore, quindi non uccida il suono dei legni e non crei effetti pacchiani - consisterebbe semplicemente nel chiedere alle trombe di suonare un filino più piano rispetto ai legni (dinamica f e non ff, per dire…) Così mi pare proprio abbia fatto ieri la Xian, e del resto anche tale Charles Gounod (non certo il primo che passava per la strada…) non aveva risparmiato pesantissime critiche verso quelle scelte di Wagner.

Di avviso opposto fu Gustav Mahler, che non solo cooptò tutti i suggerimenti di Wagner, ma rincarò la dose, conformemente alla sua abitudine-attitudine di apportare valore-aggiunto (?!) alle opere altrui (e Schumann ne sa qualcosa…) La sua prima direzione della Nona a Vienna (domenica 18 febbraio 1900) fu l’occasione per lo scatenarsi di polemiche furiose fra i critici riguardo alla cosiddetta libertà dell’interprete. Ad esempio, Max Kalbeck difendeva a spada tratta le scelte di Wagner e Mahler, sostenendo che in fin dei conti la musica esiste soltanto quando qualcuno (l’interprete) la porta all’orecchio dell’ascoltatore, viceversa resta solo un ammasso di segni morti sulla carta. (Peraltro non poteva esimersi dal deplorare il taglio di 8 battute perpetrato da Mahler all’inizio della ripresa dello Scherzo!)

Sul fronte opposto della barricata c’era chi, come Robert Hirschfeld, deprecava l’eccessivo e maniacale gusto del dettaglio, che portava Mahler a mettere sempre in risalto anche piccoli particolari di puro contorno e riempitivo, perdendo così la visione d’insieme dei brani eseguiti. E poi concludeva che se si lascia al direttore la libertà di re-instrumentare a suo piacere una partitura, magari con il razionale della limitatezza dei mezzi disponibili ai tempi di Beethoven, allora si sa dove si comincia ma non dove si va a finire…

In effetti queste diatribe fra progressisti e conservatori si registrano ancor oggi (pur se a livello partiture siamo ancora alle quisquilie, se confrontate con le libertà che si prendono i registi nelle messeinscena delle opere!) Ma pensiamo cosa succederebbe ad un direttore che – sostenendo che se Beethoven avesse avuto a disposizione il saxofono (inventato 20 anni dopo la sua morte!) lo avrebbe di certo impiegato alla grande nelle sue sinfonie - decidesse di rinforzare la sezione degli ottoni con un paio di sax: sarebbe portato in trionfo, o accompagnato presso il più vicino psichiatra?

Quanto all’idea che la musica esista solo sotto forma di onde sonore propagantesi nell’aria fino a raggiungere i timpani dell’ascoltatore, come la mettiamo col fatto che almeno un terzo dell’intera produzione di Beethoven fu composto da una persona quasi totalmente sorda? E non è forse vero che Brahms, disgustato dalle pessime esecuzioni mozartiane dei teatri del suo tempo (eccettuato Mahler!) ripeteva che quando voleva ascoltare un DonGiovanni come si deve, si metteva comodo in poltrona a casa sua e apriva la partitura? E forse che per apprezzare l’Amleto si deve per forza andare a teatro ed ascoltarlo dalla viva voce di Laurence Olivier? O non si può goderne (almeno fin ad un buon livello) anche semplicemente leggendone il testo nel silenzio del proprio studio?  

Tornando a bomba, oggi scopriamo che con Wagner, Mahler e Furtwängler si trova in pieno accordo anche Aldo Ceccato: che nel suo libretto Beethoven duemila, dove raccoglie le sue cosiddette attualizzazioni delle nove sinfonie beethoveniane, propone più o meno la stessa soluzione wagneriana all’incipit del finale, anzi estendendola in buona parte anche ai corni (le note piccole sono quelle aggiunte):


Quanto a quell’incipit, Massimo Mila da parte sua ce ne fa notare la straordinarietà, in particolare proprio nelle prime due battute, dove troviamo un chiaro esempio di politonalità (roba da XX secolo!) Infatti vi abbiamo la sovrapposizione di due diverse triadi: SIb maggiore e RE minore. La prima deriva dal SIb di flauti, oboi e clarinetti, dal RE del secondo corno e dal FA di fagotti, controfagotto e corni 1-3-4. La seconda  è determinata, oltre che dai RE e FA succitati, dai poderosi LA delle trombe e dei timpani, che creano quella stridente dissonanza con i SIb. 

Le due tonalità rappresentano precisamente gli ingredienti di base dell’intera sinfonia (i due temi del primo movimento, le tonalità di base dei restanti tre) e in particolare il passaggio fra il terzo e il quarto movimento è frutto di una mirabile quanto geniale intuizione di Beethoven: l’Adagio molto e cantabile si chiude sulla triade di SIb maggiore, ma mettendo in evidenza la mediante RE, negli strumentini. Quindi all’attacco del Finale (che andrebbe eseguito senza lunghe pause, come testimonia l’assenza di corona puntata alla fine dell’Adagio) nel nostro orecchio risuona ancora l’accordo di SIb che ci prepara col suo RE alla tonalità (minore) su cui poggerà la prima parte del Finale. Orbene, la transizione dal SIb maggiore al RE minore è ottenuta precisamente in quelle prime due battute del Finale, dove le due triadi coesistono (e stridono) per un attimo soltanto, quasi che la prima stia passando idealmente il testimone alla seconda. E uno sguardo alla pagina di partitura ci mostra anche come tale passaggio di testimone avvenga, per così dire, dall’alto al basso dei righi di pentagramma, al cui centro si trovano le note comuni alle due triadi (RE-FA, emesse da strumenti di suono più sordo, come fagotti e corni) mentre ai due estremi si trovano proprio le note che le differenziano, emesse da strumenti dal suono squillante o percussivo: SIb, in alto, negli strumentini; LA, in basso, in clarini e timpani!   

Ma al ritorno della fanfara, prima dell’entrata della voce del baritono, Beethoven va ancora più in là, aggiungendo anche SOL (violini II), MI (violini II e viole) e DO# (viole). Mila ci fa osservare che adesso sono addirittura quattro le triadi che si sovrappongono: SOL minore (SOL-SIb-RE); SIb maggiore (SIb-RE-FA); RE minore (RE-FA-LA) e infine LA maggiore (LA-DO#-MI). Qui vengono suonate insieme tutte e sette le note della scala armonica di RE minore, un gigantesco cluster! (Ritroveremo cose simili in musica non prima del Parsifal e della Decima mahleriana, per dire…)


È talmente grande la Nona, che è stata ed è strumentalizzata per mille diversi ed opposti interessi: basterà ricordarne due. L’esecuzione della coda del Finale in occasione del compleanno di Hitler, nel 1942, quando proprio Furtwängler, che nessuno ha mai capito se in quei momenti si sentisse più imbarazzato che onorato, diresse i Berliner davanti ai più alti gerarchi nazisti, in un tripudio di croci uncinate. 47 anni più tardi, in quella stessa Berlino, a Natale, toccava a Lenny Bernstein dirigere la Nona nel Concerto della Libertà, per celebrare la caduta del muro. E – come si ascolta a 1h07’05” nel filmato - invece di Freude, il baritono ed il coro intonarono Freiheit!
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Segnalo ancora le lezioni sulla Nona di Giangiorgio Satragni, pubblicate qualche anno fa in rete dalla Città di Torino nell’ambito della meritoria iniziativa che va sotto il nome dentrolamusica.

Ecco infine cosa scriveva a proposito della Nona Danilo Prefumo sul numero di aprile 1988 di Musica&Dossier.

29 dicembre, 2013

Capodanni qua e là


Dopo l’esordio del 2009, Daniel Barenboim fa il bis sul podio del Musikverein per il tradizionale Concerto di Capodanno. Diretta Radio3 dalle 11 e differita RAI2 alle 13:30. Ancora una volta ascolteremo il tremolo più… interrotto di tutta la storia della musica:

A Venezia e in diretta RAI1 (12:20) c’è il nostro capodanno autarchico, con programma bifronte (anche questa sta diventando una tradizione): la settima di Beethoven (solo per chi sta in teatro) e poi arie e romanze, anche in TV.  

 

A Milano da questo pomeriggio e per altre tre serate laVerdi saluta l’anno vecchio e il nuovo con il suo Beethoven di prammatica.

24 dicembre, 2013

OrchestraVerdiBarocca – Hallelujah!

 

Come la Nona e il Requiem verdiano, anche il Messiah è ormai entrato stabilmente nella lista degli appuntamenti fissi di ogni stagione, in questo caso la stagione de laVerdi Barocca (che per l’occasione si presenta con il suo nuovo nick-name di laBarocca)  guidata dal suo padre fondatore Ruben Jais e affiancata dall’Ensemble vocale di Gianluca Capuano.

Ieri sera i solisti di canto erano il soprano Karina Gauvin, già apprezzata qui la scorsa primavera nel Gloria di Poulenc, il giovane tenore Anicio Zorzi Giustiniani e due vecchie conoscenze de laVerdi e de laBarocca, Sonia Prina (contralto) e Christian Senn (basso).

Jais ha seguito la sua ormai collaudata impaginazione dell’oratorio, consistente nel presentare al completo la prima parte (precisamente quella natalizia) e nell’accorpare dopo l’unico intervallo la seconda e la terza (pasquale ed oltre) con qualche taglio, per non… chiedere troppo allo spettatore. Nello specifico, dalla Parte II sono stati omessi:

- Coro: Lift up your heads, O ye gates
- Recitativo secco (tenore o soprano): Unto which of the Angels said he…?
- Coro: Let all the angels of God worship him
- Aria (basso o contralto o soprano): Thou art gone up on high
poi ancora:
- Aria (soprano o coro): Their sound is gone out into all lands
e successivamente, prima dell’Hallelujah:
- Recitativo secco (tenore): He that dwelleth in heaven
- Aria (tenore): Thou shalt break them with a rod of iron

Dalla Parte III:
- Recitativo secco (contralto): Then shall be brought to pass
- Duetto (contralto e tenore): O death, where is thy sting?
- Coro: But thanks be to God
- Aria (soprano): If God be for us

Per carità, sono tagli non scandalosi (saranno 20-25 minuti più o meno di musica su circa due ore e mezza) e meno corposi rispetto a quelli apportati in precedenti esecuzioni, anche se sono sempre… dolorosi. Una soluzione che a me pare equilibrata (nel senso che salva capra e cavoli: la completezza dell’opera e insieme il contenimento della durata complessiva) è quella adottata, ad esempio, a Cambridge per questa pregevole edizione completa, con il coro tutto maschile (grandi e piccini) del King’s College. L’unico intervallo è convenientemente posto dopo poco più della metà della Parte II (alla fine del coro Lift up your heads, O ye gates) ottenendo così una distribuzione di tempi abbastanza sopportabile: 90 + 55 minuti. Chissà se Jais ci farà sopra un pensierino per la prossima occasione!

In ogni caso ieri abbiamo ancora una volta apprezzato l’eccellente qualità degli ensemble (strumentali e vocali) de laBarocca, davvero efficacissimi nel ricreare l’atmosfera sonora tutta settecentesca di quest’opera. I solisti poi hanno contribuito da par loro al grande successo della serata, chiusa - anche questa è ormai diventata una consuetudine – dal bis dell’Hallelujah cantato anche dai solisti, aggregatisi alle rispettive sezioni del coro.    

Un Buon Natale coi fiocchi!
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Qui alcune mie personali note di presentazione dell’opera, scritte in occasione di una performance di qualche anno fa.

Segnalo a chi volesse osservare il Messiah attraverso le lenti del dottor Freud (come altro spiegare un Gesù che si suicida nella toilette di una camera d’albergo?) che può farsi aiutare da Claus Guth.

Allego infine una preziosa monografia su Händel, a firma di Gustavo Marchesi, apparsa nel numero di Giugno 1989 di Musica&Dossier.

20 dicembre, 2013

Orchestraverdi – Concerto n°14

 

L’appuntamento settimanale in Auditorium ha il sapore di una sana e allegra rimpatriata fra vecchi amici, una specie di Concerto di Capodanno anticipato, prima che l’imparruccato Händel ci riporti nel serio, cometa-stellato e religioso clima natalizio e che poi sia la serissima Nona beethoveniana a farci scollinare verso il 2014.   

Gaetano D’Espinosa (uno dei tre Direttori principali ospiti) è incaricato di chiudere l’Avvento (!?) con un pizzico di trasgressione… ma di tipo davvero sano e innocuo, come è per noi scafati del terzo millennio persino quella – a suo tempo graffiante – degli amori un poco… particolari fra una marescialla e il suo bambolotto preferito!

Dei sette brani in programma, quattro sono del Re-del-Walzer, anche se soltanto uno è proprio un… Walzer. Poi abbiamo tre ospiti valzerosi di provenienza abbastanza eterogenea: Pietroburgo, Parigi e, appunto, Monaco (provincia di Vienna…)

La prima parte della serata (Strauss, Ciajkovski, ancora Strauss e Ravel) alterna, potremmo dire, Vienna a Parigi, poichè anche il russo guardava certo più alla Francia che non all’Austria.

L’ouverture del Fledermaus è prevalentemente in tempo pari (4/4 o 2/4, con svariati motivi di polka) ma in mezzo contiene una sezione (dapprima in SOL, poi ripresa in LA) che presenta i due temi del famoso Walzer del finale dell’atto II (cui segue l’altro, dolce e patetico, dall’atto I). Chissà perché, a me istintivamente il primo dei due motivi ha da sempre richiamato alla mente nientemeno che la sezione centrale dell’Allegro della Quinta di Beethoven, che in effetti può apparire come un austero Walzer ante-litteram!


L’opera (operetta?) fu portata al suo massimo splendore da Gustav Mahler che la fece entrare stabilmente nel repertorio della Hofoper (ben 16 rappresentazioni nel 1899 e addirittura 21 nel 1900!) E questo nonostante il direttore-compositore avesse dei Walzer di Johann Strauss-jr una stima che definire pessima è ancora poco! Se è vero com’è vero che scrisse alla Bauer-Lechner che per lui Strauss, come musicista, era un povero disgraziato, come uno che porta tutti i suoi averi al banco dei pegni e si trova poi squattrinato, a confronto del vero artista (come Schubert!) che sa far fruttare al massimo sia le banconote che gli spiccioli che si trova in tasca…  

Con il Ciajkovski della Valse des Fleurs siamo passati in una Pietroburgo che guarda a Parigi, e gli arabeschi delle arpe che introducono il celeberrimo tema paiono proprio venire direttamente dal Bal della Fantastique berlioziana…

Si torna momentaneamente a Vienna con l’Ouverture dello Zigeunerbaron. Ancora in tempo pari, con all’interno la sezione ternaria che divenne famosa – fuori dall’operetta - col titolo di Schatz-Walzer (ma allora perché non suonare direttamente quello, in un programma così orientato?)


Chiude la prima parte Ravel con la sua Valse: una specie di simpatico e allo stesso tempo grottesco sberleffo (non certo un’evocazione della Vienna che marcia incosciente verso l’abisso…); invece è quasi una parodia della Vienna presuntuosamente godereccia di metà ‘800; profumi impressionisti che si mescolano a pesanti cadute di stile… 

A poco più di un anno fa risale l’ultima esecuzione de laVerdi qui in Auditorium (anche allora, ma quasi per… caso, con D’Espinosa sul podio) di cui avevo scritto in termini assai positivi. Termini che confermo in pieno anche per ieri sera.

Vienna torna protagonista nella seconda parte del concerto, ancora con lo Strauss casalingo di un’operetta, Prinz Methusalem, nella cui ouverture compare soltanto una breve sezione in ritmo ternario (3/8), quindi di Walzer ce n’è davvero pochino. Si nota invece il passaggio che verrà impiegato dal compositore per costruirci il corpo di una Polka-Schnell, il Banditen-Galopp:


Tocca poi al celebre e celebrativo Kaiser-Walzer, che si dovrebbe tradurre Walzer degli Imperatori, visto che fu dedicato a Franz-Josef d’Austria e a Wilhelm II di Germania, in occasione della visita che il primo fece al secondo nel 1889. Strauss voleva intitolarlo addirittura Mano-nella-mano, roba da chiodi! Devo dire che per me non si merita affatto le parole piuttosto sprezzanti di Mahler: la sua struttura sinfonica e la qualità dei temi ne fanno forse il Walzer più classico di Strauss. 

D’Espinosa lo esegue con piglio assai… meccanico, quasi a voler privilegiare il monarca prussiano (quello col classico chiodo in testa, smile!) su quello della raffinata Vienna. Ma il finale con l’assolo del violoncello di Tobia Scarpolini riscatta ogni offesa.

Chiude le danze un altro Strauss – arrivato a Vienna dalla Baviera – con la suite del Rosenkavalier. Come accade al pezzo di Ravel, anche il Rosenkavalier viene spesso descritto come la visione della Vienna che si avvia ciecamente, e ubriacandosi nel suo ballo nazionale, verso la catastrofe della Grande Guerra: in realtà è senno-di-poi, le biografie di Hofmannsthal e Strauss parrebbero dimostrare il contrario e quest’opera resterà probabilmente nei secoli come la più stupenda quanto anacronistica (nel 1910!) apologia del Walzer e dell’epoca che ne udì i primi vagiti.

L’argenteria e la cristalleria di Swarovski Strauss vengono qui esposte con dovizia di mezzi sonori: ottavini, flauti, oboi, clarinetti, glockenspiel, arpe e celesta; la definirei – in termini schizofrenici – una specie di orgia paradisiaca!

E in paradiso si deve essere sentito anche il pubblico dell’Auditorium, letteralmente inebriato da questi suoni. Cui è seguito un bis di polka (tanto per tener fede all’oggetto della serata, smile!) con Éljen á Magyar!, incluso il finale grido di Éljen – viva! 

Certo, chi ascolterà questo concerto il 22 e 24 ore dopo sarà presso il Messiah avrà una specie di choc… Per quanto mi riguarda, ho tre giorni di tempo per tornare sulla terra, vicino al presepe.
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Allego qui per l’occasione un prezioso studio sul Walzer del grande Roman Vlad, apparso su Musica&Dossier del gennaio 1989.

16 dicembre, 2013

Violetta alla Scala: impressioni dal vivo

 

Ieri sera terza recita (in una Scala che presentava qualche buco in platea e parecchi vuoti nei palchi) del titolo che ha aperto a SantAmbrogio. Come accade non da oggi, dopo una prima contestata, quella di ieri (ma, dicono, anche la seconda) è invece stata accolta da convinti applausi e soprattutto senza aperti dissensi (per la verità è mancato il giudizio sulla regìa, renitente al momento delle uscite finali).


In ogni caso sul fronte dei suoni il risultato mi è parso di livello notevole, grazie ai tre protagonisti principali.

Diana Damrau si è confermata una Violetta di gran spessore, particolarmente convincente in quei passaggi di maggior lirismo (che lei canta a fior di labbra, quasi a bocca chiusa) ma sicura anche nel canto spiegato (e non solo per quel MIb che ieri ha staccato con grandissima autorità). Se proprio dovessi trovarle un pelo nell’uovo, direi di qualche acuto un filino calante e della cosiddetta ottava bassa che faticava a… percorrere gli enormi spazi del Piermarini. Per lei, un trionfo totale.

Piotr Beczala era partito un filino contratto e piuttosto impreciso nei passaggi di maggior virtuosismo, ma poi si è via via migliorato e nessuno ha trovato da ridire sulla sua prestazione complessiva.

Anche Željko Lučić (per la verità l’unico personaggio che il regista ha… lasciato in pace, smile!) ha confermato la prova discreta dell’esordio, ieri oltretutto anche Gatti lo ha supportato meglio che a SantAmbrogio.

Quanto ai comprimari, mi vien da citare per tutti il Gastone di Antonio Corianò. Sui suoi standard il coro di Bruno Casoni.

Daniele Gatti? La sua è una direzione improntata all’intimismo, quasi cameristica, che potrà non piacere del tutto a chi ama un Verdi più sanguigno. A me non è dispiaciuta affatto, e anche il pubblico si è mostrato di questo avviso: qualche timido dissenso  è stato ampiamente coperto da applausi calorosi su cui si è inserita una raffica ritmata di bravo, bravo, bravo! proveniente (mi è parso) da un singolo punto della prima galleria (evidentemente un supporter particolarmente agguerrito…)

Chi non si è fatto vedere, come detto, è il regista, sottrattosi all’esame-finestra: così non possiamo sapere se il pubblico di ieri abbia gradito oppure no la sua proposta.

E allora ci torno sopra io, cominciando col dire che la visione dal vivo non mi ha fatto cambiare idea rispetto a quella di SantAmbrogio in TV. Questo di Cerniakov è uno spettacolo assolutamente coerente in se stesso, incentrato su una visione attualizzata del soggetto originale, ma dove l’attualizzazione, ahinoi, comporta uno scollamento tanto evidente quanto stridente fra ciò che si vede in scena e ciò che si ascolta dalle voci e dagli strumenti, cioè da ciò che Piave e Verdi ci hanno lasciato. 

Ora, per non dar l’impressione di emettere giudizi sommari senza motivarli, prendo alla lettera il motto di Lissner (non siamo qui per farvi divertire, ma per farvi riflettere) e  provo precisamente a fare qualche riflessione. Lissner mi perdonerà se in queste mie riflessioni parlo di un prodotto (uso qui il linguaggio universale anche se freddo del business) che lui mi ha venduto come originale e genuino (a giudicare dalla locandina) e che io (sulla fiducia) gli ho comprato, pagandolo, e profumatamente, in anticipo.

Per non farla troppo lunga, parto direttamente dalla fine (del resto in ogni opera in fundo stat dulcis…) Dunque, nella Traviata di Verdi-Piave (musica-libretto) abbiamo una giovane donna che muore. Di cosa? Di una malattia del fisico, del corpo, già ampiamente diagnosticata come letale e della quale Violetta è perfettamente cosciente da tempo: sintomi si sono manifestati già nel primo atto; poi, pur senza nominarla, ne ha fatto cenno a Germont-sr nell’atto secondo. Certo, una malattia potenzialmente aggravata da componenti psicologiche avverse, prima fra tutte una felicità tanto improvvisa, insperata, inimmaginata e totalizzante rapidamente distrutta da fenomeni estranei a lei e alla persona che l’ha resa felice.

Ma una cosa è lampante, straordinariamente chiara: Violetta, che sa di morire (devolve in carità gli ultimi spiccioli) muore però contro-voglia, mentre vorrebbe cocciutamente vivere; immediatamente prima del finale collasso… si rialza rianimata - ci spiega Piave - e canta Cessarono gli spasimi del dolore… in me rinasce… m’agita insolito vigor! Ah!… ma io… ritorno a viver!… oh gioia! La vita le viene strappata proprio mentre le cause della drammatica interruzione della sua felicità sono state interamente rimosse, e ripristinate le condizioni (di natura privata e pubblica) perché quella felicità possa tornare concreta, tangibile, possibile e praticabile. Insomma, Violetta vuole vivere! E per questo c’è una drammaticità commovente in quel suo sfogo Gran Dio! …morir sì giovane.

Chi le è vicino al momento del trapasso? Precisamente quattro persone care (Grenvil, vedete? tra le braccia io spiro di quanti ho cari al mondo...) di cui sarà bene ricordare ruoli ed atteggiamenti. In primo luogo Alfredo, che da quando se n’è innamorato non ha cessato di amarla, e non solo nelle tre lune trascorse con lei (contenta in quegli ameni luoghi!) ma anche successivamente, persino mentre sfogava platealmente contro di lei tutto il suo risentimento. In fondo, si era reso conto ben presto che lei era stata costretta a fingere di tradirlo, con il solo nobile senso di salvare l’onore suo e della sua famiglia. Poi papà Germont, sinceramente pentito per aver interrotto quella felicità, ed ora pronto ad ogni riparazione. E il medico, che amorevolmente accorre ripetutamente al suo capezzale (trascurando magari migliori opportunità di guadagno) per curarla e per confortarla. E infine Annina, ormai una fedele amica, prima ancora che donna di casa.

Scenario strappalacrime ottocentesco? Improponibile e ridicolo ai giorni nostri, dove le lacrime sono merce sconosciuta a pochi e risorsa esaurita per i più? Forse, ma è precisamente a questo scenario che stupendamente si attagliano i versi di Piave e - soprattutto! - la musica di Verdi. Per dire, le 23 battute che precedono lo spirare della donna che vorrebbe a tutti i costi vivere sono una vera e propria Tod-und-Verklärung ante-litteram (rispetto a Strauss ma anche al Wagner di Isolde e al Puccini di Mimì). E da questo punto di vista benissimo ha fatto Gatti a riprendere l’orchestrazione del 1853, facendo suonare i due soli violini à-la-Lohengrin (l’abbassamento di un’ottava del 1854 è ormai appurato fosse esclusivamente dovuto alla palese insufficienza di strumenti e strumentisti dell’epoca…)

Ecco, questo è il prodotto che uno spettatore che riflette - caro Lissner - si attende di ricevere in cambio del (salato) prezzo del biglietto. Il regista ci metta pure (e ci mancherebbe!) tutta la sua fantasia e sensibilità, ma il prodotto finale deve avere quella sostanza, e in primo luogo possedere piena coerenza con quella mirabile miscela di parole e musica che gli autori ci hanno consegnato. Altrimenti è solo una (per quanto accurata) contraffazione

 

Che prodotto ci consegna invece Lissner, per tramite del suo regista russo? Una donna malata e morente sì, ma affetta da una tipica malattia nervosa (lo abbiamo constatato durante l’intera opera, anche ben prima della stroncante irruzione di Germont-sr); una donna malata non ai polmoni ma alla mente (grottesca davvero la scena di Grenvil che ammicca ad Annina indicando la condizione di Violetta con un inequivocabile picchiettare dell’indice della mano contro la tempia, mentre canta la tisi non le accorda che poche ore… !) una povera donna distrutta nella psiche, una che non sta curando con farmaci un male fisico, ma una che sta impasticcandosi con droghe e riempiendosi di alcol col risultato di aggravare il suo stato psicologico. In poche parole: una donna alienata che non vuole (più) vivere! In questo scenario la sua esternazione Gran Dio! …morir sì giovane suona come una stridente contraddizione.

 

E chi si agita attorno a lei? Persone innamorate, pentite e caritatevoli? Nemmeno per idea: tre persone che – letteralmente! – non vedono l’ora che lei tiri le cuoia! Alfredo, che sembra infastidito, proprio come fosse lì controvoglia e avesse altro di meglio da fare. Suo padre che le si avvicina quasi timoroso (proprio come si fa con i matti…) E il dottore, che resta lì impalato, quasi fosse impaziente di tornare al suo ambulatorio per fare visite più lucrose. Alla povera Annina non resta che cacciarli tutti perché quella disgraziatissima Violetta possa finalmente morire senza disturbatori attorno.


Orbene, e vengo al punto cruciale dell’intera questione: con una scena simile la musica di Verdi (ma anche il testo di Piave, infatti in parte cassato, cosa del resto non nuova) ci sta proprio come i cavoli a merenda. Meglio le si attaglierebbe magari la musica che fu composta (80 anni dopo!) per un altro capolavoro: Lulu…

E al resto dell’opera si possono tranquillamente estendere le considerazioni fatte riguardo al finale: Cerniakov – a differenza della sua Violetta - non è mica fuori di testa, e quindi tutto il suo spettacolo è coerente con la sua concezione, fin dall’inizio non fa che preparare adeguatamente quel finale.

Non altrimenti si spiega l’approccio letteralmente parodistico del regista alla scena dell’incontro di Violetta con Alfredo e a quella successiva di Violetta sola: nella prima Alfredo dovrebbe lanciare un seme (Di quell’amor…) che germoglia in Violetta nella seconda (A quell’amor…) Noi invece vediamo un Alfredo di credibilità zero e una Violetta che sembra farsi beffe dei suoi sentimenti.

E così la scena d’esordio del second’atto viene banalizzata in modo indisponente, a partire dall’ambiente: invece di un salotto dove gli oggetti principali dovrebbero essere dei libri e l’occorrente per scrivere (capita l’antifona, Cerniakov?) noi siamo in cucina, in mezzo ad ingredienti assortiti per pizze e minestroni. E con Alfredo che ci racconta della sua nuova vita al fianco di Violetta con parole e musica che esprimono rapimento e felicità celestiale, mentre lei si aggira proprio lì attorno, impegnata come lui in prosaiche faccende domestiche. Dico: una presa in giro!  

Poco dopo, solo una Violetta isterica (che è diverso dallo sconvolta e preoccupata) può aggredire letteralmente a pugni e spintoni un esterrefatto Alfredo cantandogli …perché tu m’ami, tu m’ami, Alfredo, non è vero?

Prima di trattare del secondo quadro, un’osservazione di passaggio sulla cervellotica idea di fare l’intervallo lungo fra le due parti del second’atto. Non parlo degli aspetti legati alla struttura stessa dell’opera, che prevede, canonicamente, un finale d’atto in crescendo, con il concertato conclusivo, ma semplicemente degli aspetti pratici, proprio terra-terra, della questione. Dunque, qui ci sono tre intervalli: questo, lungo ben 40 minuti, più altri due – pubblico inchiodato alle poltrone - di ben 8 minuti ciascuno, in corrispondenza della fine del primo e del secondo atto. Totale, 56 minuti. Adesso, anche un bambino che sa far le somme arriva a capire che, a parità di tempo totale, dividendo l’opera come si deve, si potevano fare due intervalli di 25 minuti fra gli atti, più uno di 6 minuti fra i due quadri del secondo. Cosa normalissima per chiunque ed ovunque, ma qui le cose normali evidentemente sono considerate delle stupidaggini.

Ecco, la festa in casa di Flora. Si potrà anche sorridere dell’idea di Verdi-Piave di aprirla con i due cortei di invitati mascherati da zingarelle e toreri, ma ci spiega Cerniakov perché la trasforma in una specie di goliardico de-profundis per il povero Alfredo? Che arriva una prima volta per ricevere le condoglianze da parte degli invitati, prima di uscire per poi subito rientrare al momento previsto dal libretto? Quello che, con un riso nevrastenico, fa volare per aria mazzi di banconote per pagare Violetta non è un individuo alterato che sfoga dolorosamente il suo rancore, ma un povero idiota, in preda ad una crisi di nervi.   

La finisco qui (ma ci sarebbe ancora assai da contestare): insomma, un’idea-portante dello spettacolo semplicemente bizzarra e cervellotica (per quanto realizzata con indubbia maestrìa) che – manco a dirlo – è del tutto inconsistente con la musica e le parole che si ascoltano.

Ecco, caro Lissner: questo è ciò che uno spettatore che cerca di riflettere – eh sì, non un talebano infiltratosi in loggione – deduce dall’osservazione del tuo prodotto. Giudizio: buh!