affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

25 giugno, 2013

Un po’ di Bayreuth a Milano (1)


Dopo il primo, andato in scena dal 17 al 22, ecco al via il secondo ciclo del Ring scaligero.

Nell’ambito delle varie iniziative collaterali e di supporto all’offerta teatrale, le quattro giornate sono precedute da conferenze introduttive, ospitate nella prestigiosa sala dell’Auditorium Giacomo Manzù presso il Centro Congressi Fondazione Cariplo, a due passi dal teatro. A tenerle, accompagnandosi al pianoforte, è Elisabetta Fava, che ieri in meno di un’ora ha percorso le quattro scene del Rheingold con grande chiarezza ed efficacia: un’iniziativa davvero lodevole.

In teatro (il Piermarini presentava qualche posto vuoto) le cose sono andate discretamente bene: non certo per merito della regìa di Cassiers, di cui si sapeva e si era visto tutto, quindi al riguardo nessuna sorpresa, solo la persistente considerazione: la classica montagna (di quattrini!) che partorisce un topolino.   

Accettabile nella media la prestazione musicale: sopra la media Barenboim (cui magari avrei chiesto più… fretta) e l’orchestra, cui l’allenamento intensivo pare abbia giovato assai, e la coppia Johannes Martin Kränzle (Alberich) e Stephan Rügamer (Loge). Nella media il Wotan di Michael Volle (dopo una falsa-partenza…) la Fricka di Ekaterina Gubanova e il Fasolt di Iain Paterson. Un po’ sotto tutti/e gli/le altri/e.
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Dovendo rivedere (o meglio… risentire) il film di questa vigilia, citerei la cupa immobilità dell’attacco dei contrabbassi prima dell’arrivo delle ondate degli otto corni, che sono tanto mirabilmente vergate in partitura, quanto sempre difficili da rendere al meglio: dopo le prime due esposizioni disgiunte del tema (corni 8 e 7) abbiamo l’accavallarsi (a canone) delle onde, con quattro corni (da 8 a 5) che espongono le quattro battute del motivo (i primi 7 armonici naturali, tutte note della triade fondamentale di MIb, dalla tonica alla mediante due ottave sopra) sfalsati fra loro di due battute; quindi gli altri quattro corni (da 4 a 1) che cominciano ad entrare una battuta e mezza dopo il corno 5 e sfalsati fra loro di una sola battuta; infine la mutazione del tema (con la salita alla dominante superiore) per prima nel corno 8 (poi nel 4, nel 6, poi 3, 7, quindi 2, 5 e 1) e la successiva discesa. Ecco, essendo otto linee a canone, ma tutte costituite dalle note della triade, è persino difficile percepire – con tutto il rispetto per gli strumentisti! – se le successive entrate vengano eseguite precisamente come scritte… e anche ieri sera l’orecchio (il mio, quanto meno) non ne è rimasto pienamente appagato.    

Da incorniciare invece tutta la prima scena, con punte di grande emozione nella serenata di Flosshilde (Wie deine Anmuth mein Aug’ erfreut…) e nella blasfema quanto drammatica esternazione di Alberich (Erzwäng’ ich nicht Liebe…) fino all’impressionante So verfluch’ ich die Liebe! che segna la fine all’Eden e l’inizio della tragedia dell’umanità.

Qualche disagio all’entrata di Wotan (Vollendet das ewige Werk) chiusa da un affrettato e stentato hehrer herrlicher Bau! E anche Fricka non (mi) ha emozionato più di tanto, in quella perla che è herrliche Wohnung, wonniger Hausrath. I due si sono ripresi nel seguito, in specie Wotan, che ha acquisito più… autorevolezza (smile!)

Impressionante invece l’entrata dei giganti, dove timpani e tuba hanno letteralmente fatto tremare il teatro! Ben esposte le ansie amorose di Fasolt, un po’ meno le brutali maniere di Fafner.

Fantastica, proprio da sbudellamento, l’introduzione degli archi al racconto di Loge (So weit Leben und Weben) ed altrettanto mirabile la chiusa, con il fiorire di Freia e la stupefacente cadenza dell’oboe.

Dopo una parte finale non proprio brillantissima della seconda scena, efficace la transizione verso Nibelheim, dove abbiamo ritrovato un Alberich davvero convincente e un Mime piuttosto insipido. Efficacissimi i ritorni del trionfo di Alberich e musicalmente riuscite le sue due trasmutazioni, fino alla cattura, con il tema dell’anello che si avvita su se stesso…

La scena conclusiva ha – per sua natura – qualche momento di… caduta di tensione, dopo la liquidazione di Alberich e la sua drammatica (e splendidamente resa) maledizione. Da incorniciare però il meraviglioso ritorno – a canone – del tema delle Goldnen Äpfel che introduce l’aria (per così dire) di Froh, Wie liebliche Luft, che personalmente avrei gradito un po’ meno… letargica (smile!)

Sempre emozionante il momento dell’apparizione di Erda (qui era meglio chiudere gli occhi, causa Cassiers, che la trasforma in uno spaventapasseri…); un po’ tirato via l’Hedà-Hedò di Donner (fra l’altro non mi è parso di udire il singolo colpo di martello che lo chiude) e un filino coperto dagli ottoni lo sfavillare delle sei arpe che accompagnano la vista del ponte-arcobaleno.

Grandiosa l’entrata della tromba sulla Spada e strappalacrime il lamento finale delle Figlie del Reno. Un pochino in ombra la tubette nella poderosa cadenza finale, sovrastate dal peso degli altri ottoni.    
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In definitiva: un promettente primo movimento di questa colossale sinfonia che va sotto il nome di Ring.

Pubblico generosissimo di applausi e bravi! per tutti.

23 giugno, 2013

In attesa del Ring in 6 giorni


Lunedi 24 inizia il secondo dei due cicli completi del Ring che la Scala ha programmato per il bicentenario: sei giorni di full-immersion, con conferenze introduttive e film a contorno dei quattro appuntamenti.

Si è nel frattempo conclusa l’iniziativa OroWagner della Provincia di Milano, presso lo Spazio Oberdan, dove è andato in onda un programma di Lieder (wagneriani e non) cantati da Sabina Willeit con Giorgio Fasciolo al pianoforte. Quirino Principe ha introdotto e via via presentato il programma, esibendosi anche come recitante in un melologo.

In realtà la serata avrebbe potuto intitolarsi Wagner-nonsoloteatro o anche il-Wagner-dal-volto-umano (smile!) avendo come oggetto – nella prima parte - composizioni assolutamente minori (almeno dal punto di vista della diffusione fra il vasto pubblico) del genio di Lipsia, materiale composto principalmente nei duri anni parigini.

L’idea di Principe – originale e per nulla disprezzabile - era quella di accostare a Wagner altri compositori, presentando alcuni testi musicati sia dall’uno che dagli altri.

Così abbiamo potuto apprezzare il diverso approccio a Goethe di Wagner (1830) e Schubert (1814) sull’oggetto Gretchen am Spinnrade (dal Faust); ma anche del Verdi del 1838, che musicò quelle stesse strofe di Goethe tradotte da Luigi Balestra col titolo Perduta ho la pace.  

Principe ha poi recitato (sempre su testo dal Faust di Goethe) Ach, neige, du Schmerzenreiche, un melòlogo per il quale il diciottenne Wagner scrisse l’accompagnamento. Poi due canti del 1838-1839: Der Tannenbaum (di Scheurlin) e Dors, mon enfant (di anonimo). A seguire una poesia di Pierre de Ronsard (Mignonne) come musicata da Wagner nel 1839 e dalla compositrice francese Cécile Chaminade 55 anni dopo.

Poi ancora un faccia-a-faccia, stavolta fra Wagner e Saint-Saëns, avente come oggetto L’attente di Victor Hugo. Quindi un testo di Jean Reboul (Tout n’est qu’images fugitives) musicato da Wagner nel 1840 e quindi un nuovo confronto (Wagner-Schumann, 1840) sulla base di Le deux Grenadiers (Die beiden Grenadiere) di Heine, con tanto di riferimento alla Marsigliese.

In chiusura una cosa importante, come i Wesendonck-Lieder che meritano alla Willeit calorosi applausi, per i suoi buoni mezzi vocali e per la notevole sensibilità sfoggiata verso i contenuti di tutti i canti da lei interpretati.

Ma ora, silenzio… il Ginnungagap si sta spalancando sotto i nostri piedi.

L’ur-Macbeth è tornato a Firenze


Domenica 14 marzo 1847 il Teatro della Pergola di Firenze ospitava la prima di Macbeth. E quindi non c’era miglior occasione che il bi-centenario verdiano per riproporre la versione originale dell’opera proprio nel teatro che la vide venire alla luce.


Produzione dedicata assai opportunamente alla memoria di un grande personaggio recentemente scomparso: Bruno Bartoletti.

Ieri pomeriggio è andata in scena la penultima delle sei rappresentazioni, in un teatro quasi al completo, che alla fine ha accolto la recita con gran calore; e anche con grande partecipazione per la situazione a dir poco drammatica in cui si trova l’Istituzione teatrale fiorentina, sintetizzata da uno striscione recato dalle maestranze del teatro, che reclama di scongiurarne la chiusura:


Peraltro si direbbe che Graham Vick non nutra soverchie illusioni, se già suggerisce verso quale professione alternativa avviare le ragazze del coro:


(Lo so, può sembrare una freddura fuori luogo, ma spero abbia almeno un effetto scaramantico…)

E visto che ho tirato in ballo Vick, dirò che la sua proposta (coriste a parte, smile!) non mi ha particolarmente colpito: niente di trascendentale, qualcosa di simile (appena un pochino meglio, diciamo) a quanto propinatoci mesi fa alla Scala da Giorgio Barberio Corsetti.

Macbeth è un soggetto solo apparentemente storico, in realtà è per Shakespeare (e per Verdi!) un pretesto per trattare problemi universali e senza tempo: pulsioni dell’animo umano (soprattutto debolezze…) come sete di potere, complessi di inferiorità o turbe psichiche derivanti da malsani rapporti di coppia, e così via, freudianamente elencando. Quindi si tratta di archètipi di problemi anche nostri, perfettamente calabili nella realtà contemporanea. 

In linea di principio quindi, nessuno scandalo se Vick sposta l’ambientazione dal medioevo ai giorni nostri. Però il problema del regista è quello di trovare degli scenari non solo compatibili con quelli dell’originale, ma anche verosimili e plausibili proprio sul piano dell’attualità: viceversa, tanto varrebbe attenersi pedestremente al libretto, che se non altro garantisce (o dovrebbe farlo) il massimo livello di consistenza. 

Ma non basta: l’allestimento dovrebbe anche garantire coerenza con la parte musicale, che in fin dei conti è quella che conta di più. Per chiarire il concetto, proprio Vick, con il suo Mosè al ROF, aveva in pieno contraddetto quest’ultimo principio, mostrandoci uno scenario plausibile (le vicende recenti della lotta di Israele per la libertà, atrocità incluse) sulla colonna sonora rossiniana, la quale non supportava minimamente quell’ambientazione.

Qui Vick compie l’errore speculare: per fortuna non pretende di darci, a spese di Verdi, lezioni di storia o di (in)civiltà. Ma lo scenario che ci presenta può solo far sorridere: ma come, nel terzo millennio (o alla fine del secondo) vediamo bande armate di mercenari e agenti segreti inglesi e scozzesi che si fronteggiano, armate di mitra e kalashnikov, per supportare o scongiurare colpi di stato, in mezzo ad ogni genere di atrocità e ad esodi di massa (!?) Ohibò, ce lo vedete il patriota Sean Connery a cantare Patria oppressa in mezzo a profughi scozzesi bivaccanti nella stazioncina di Birna?

Purtroppo per Vick, la mediocre e prosaica modernità degli ambienti finisce per togliere all’allestimento quell’aura di mistero e di orrore garantita nell’originale dalle cupe muraglie e dai tetri ambienti dei medievali castelli scozzesi. Oltre a creare ridicole incongruenze con il testo; per dirne una: perché mai Macbeth deve ammazzare Duncano usando un pugnale, quando potrebbe evitare di sporcarsi le mani di sangue, impiegando comodamente una pistola con silenziatore? A proposito di pistole, all’annuncio della morte della moglie, il nostro non trova di meglio che sparare a bruciapelo alla di lei badante, sentenziando che tanto La vita!... che importa! (?!) Particolare curioso: la tuta qui indossata dal sovrano, ormai sulla soglia della follia, reca un marchio inconfondibile:


Per concludere: un allestimento né carne né pesce, che nulla aggiunge alla fama dell’estroso regista albionico.
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Sul fronte musicale c’è da registrare – contrariamente alla cervellotica edizione scaligera di Gergev-Corsetti - il rispetto totale della versione 1847. O meglio, quasi totale, dovendosi segnalare un paio di (peraltro non drammatiche) eccezioni: la mancata ripetizione dell’aria Trionfai! e l’apertura del coro dei profughi con le parole Patria oppressa e non Scozia oppressa.

Sulla prima eccezione andrebbe appurato se sia stata un’idea del concertatore o del soprano: vero è che Verdi per primo espunse quest’aria nel 1865, evidentemente ritenendola indegna del contesto, ma se si fa, tanto varrebbe farla come scritta. A supporto della seconda eccezione: l’esistenza di spartiti ben anteriori al 1865 che già recano Patria al posto di Scozia, segno che la variazione era intervenuta assai prima di Parigi.      

James Conlon ha diretto con grande sobrietà e sicurezza; mi sento però di imputargli una generale tendenza ad allungare, o allargare, i tempi. Ottima la prestazione della (ridotta) Orchestra del Maggio, con alcuni strumentisti (arpa e grancassa, poi le trombe della battaglia) dislocati anche nei palchi di proscenio.

Il coro di Lorenzo Fratini ha dato il meglio di sé, e gli facciamo tutti gli auguri del caso per non far davvero la fine delle… streghe!

Su un livello dal discreto in su tutti gli interpreti: Luca Salsi e Tatiana Serjan formano una coppia ben assortita, oltre che essere singolarmente apprezzabili. Lui ha fatto emergere tutti i risvolti della complessa personalità di Macbeth; a lei è forse mancato un filino di cattiveria in più, però ha il merito di non aver usato i suggerimenti dell’Autore (che voleva una Lady più parlante che cantante) come pretesto per… cantar male!

Marco Spotti ha qualche difficoltà a farsi udire sulle note più gravi, ma è stato un Banco (o Banquo) più che dignitoso.

Saimir Pirgu (Macduff) è stato bravo a porgere… la paterna mano, ricevendo applausi a scena aperta, cosa avvenuta praticamente al termine di ogni aria dell’opera.  

Antonio Corianò (Malcolm) si è onestamente comportato nella sua parte non proprio banale. Così come onesta e apprezzabile è stata la prestazione degli altri comprimari.
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Caro Maggio, che dire? Speriamo che te la cavi! (perché te lo meriti…)

14 giugno, 2013

Orchestraverdi – concerto n.38


Sta diventando un’abitudine per laVerdi chiudere la stagione principale con l’esecuzione di un’opera lirica in forma di concerto.

Dopo la positiva prova di Chénier dello scorso anno (con Bignamini) ecco questa volta Cavalleria rusticana diretta da Zhang Xian, in un Auditorium strapieno e trasformato in un forno (nessuno si aspettava di passare in poche ore da freddo e pioggia autunnali a caldo torrido sahariano, così il termostato della sala deve essere rimasto in posizione inverno… e a nulla è valso lasciare aperti i due portoni di ingresso): a parte il pubblico, chi ne ha sofferto di più è stata proprio la povera Zhang, che alla fine era bagnata come il classico pulcino. Ma in fondo questo è stato un prezzo piacevole da pagare per un successo pieno e meritato, per lei e per tutti.

Simpatico il prologo che Ruben Jais ha introdotto, ricordando i 150 anni dalla nascita di Mascagni, e consistito nella proiezione di un filmato con immagini e suoni del compositore livornese (presenti in sala due sue eredi che ne gestiscono… l’immagine). Una parte del filmato è dedicato alla Parisina, così si commemora anche D’Annunzio (coetaneo di Mascagni). Poi, proprio un attimo prima che la Xian salga sul podio, viene anche diffuso l’audio della presentazione che il Maestro fece dell’incisione di Cavalleria da lui diretta nel 1940 (50° anniversario della prima dell’opera). 

Qui un breve ma acuto scritto di Gerardo Vignoli sul verismo e sul confronto di civiltà musicali (italiana vs mitteleuropea) comparso in Musica&Dossier del settembre 1987.  
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Devo dire che queste esecuzioni in forma di concerto (o semi-scenica, poiché gli interpreti non si limitano a cantare, come fossero in sala registrazione, ma si muovono e si atteggiano proprio come fossero in scena) danno spesso un risultato migliore rispetto a spettacoli diretti da famosi (e stra-pagati) registi, che pensano più a proporre le loro idee che non a presentare quelle degli autori. In più c’è il vantaggio che lo spettatore si concentra sull’opera (soprattutto sulla musica) essendo dispensato dal lambiccarsi il cervello per decifrare il Konzept del regista di turno, distraendosi di conseguenza dall’oggetto principale.

E così ieri sera abbiamo potuto apprezzare quest’opera in tutta la sua modernità, a dispetto dei 123 anni di esistenza. Xian ne ha messo in risalto ogni più piccola sfumatura, dagli eccessi rumoristici ai tratti più zuccherosi e ammiccanti, dalle sguaiatezze veriste alle chiare deviazioni operettistiche: insomma, un’interpretazione coinvolgente e convincente. Cui ha contribuito la sicura prova del coro di Erina Gambarini, capace di passare dalle sognanti atmosfere degli aranci a quelle sanguigne del vino spumeggiante.

Quanto ai protagonisti, su tutti la Santuzza di Chiara Angella, splendidamente calata nella parte, che ha reso con grande efficacia, senza che mai gli eccessi veristici avvenissero a spese del canto.  

Poi Alberto Gazale, un Alfio autorevole e navigato, che ha ovviamente dato il meglio nella bizetiana aria del cavallo scalpitante.

Discreta la prestazione di Paolo Bartolucci (Turiddu): forse un poco a disagio nella siciliana di apertura (che non può non richiamare alla memoria il canto del marinaio che apre il Tristan) da cantarsi… a freddo e in qualche angusto spazio dell’ingresso al palco; poi mi pare si sia dignitosamente ripreso, specie nel duetto con Santa.

Elena Lo Forte era Lola: una parte non impervia, affrontata con sicurezza. E poi, diciamolo francamente, con quel vestito scarlatto (in mezzo a tutti gli altri neri) dalla generosa scollatura che ne metteva in grande evidenza le giunoniche forme, non poteva non attirare l’attenzione di tutti, mica solo di Turiddu (smile!)

Bene se l’è cavata anche l’abbondante (ri-smile!) Erika Fonzar nella parte di mamma Lucia.

Alla fine grandi ovazioni e applausi per tutti, a chiusura di una grande stagione. 

Ma laVerdi non chiude mai e, in attesa di settembre, offre al suo pubblico ben 20 spettacoli fra fine giugno e fine agosto.

07 giugno, 2013

Orchestraverdi – concerto n.37


Gaetano d’Espinosa, che dalla prossima stagione sarà Direttore Principale Ospite de laVerdi, si ripresenta sul podio con un bel programma che incastona un lavoro di Hindemith fra due opere di Mendelssohn. Sono due mondi solo apparentemente lontani, in realtà avvicinati dalla presenza di Weber, che in qualche modo ispirò il Mendelssohn del Sogno e che Hindemith fece direttamente oggetto della sua Metamorfosi.  

Ad aprire la serata l’Ouverture del Sogno: se si pensa che fu composta praticamente da un ragazzino, vien da dar ragione – magari solo nel caso specifico - a Schumann che parlava di Mendelssohn come di un nuovo Mozart! Tanto meravigliosa è la poesia e mirabile la struttura formale di questo autentico gioiello, certamente ispirato dall’Oberon di Weber prima che da Shakespeare, ma prodotto di un autentico talento naturale (le idiozie che Wagner scrisse su Mendelssohn nel suo Das Judenthum in der Musik trovarono la più palese e clamorosa smentita proprio da Wagner medesimo, che fece letteralmente razzìa di temi Mendelssohn-iani nel comporre i suoi capolavori).         

Se devo fare un piccolo appunto a D’Espinosa citerei la scarsa enfatizzazione dei famosi quattro accordi che aprono, intermezzano (?) e chiudono l’Ouverture: quelle corone puntate, secondo i miei gusti, meriterebbero più spazio di quanto non ne abbia loro riservato il Direttore, proprio per staccare più marcatamente con il parossismo dei violini che si slanciano sul tema delle fate. Per il resto, encomiabile direzione ed esecuzione.
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Paul Hindemith, che dopo svariati alti-e-bassi nei suoi rapporti con il nazionalsocialismo aveva finalmente deciso di emigrare (prima in Svizzera, con la moglie ebrea, e poi in USA, inizialmente da solo) compose la Symphonic Metamorphosis of Themes by Carl Maria von Weber for Orchestra (il titolo è più lungo della composizione, smile!) nel 1943 nella sua casa di New Haven (dove era titolare di una cattedra di Teoria della Musica a Yale) recuperando materiale che in origine era destinato ad un balletto di Léonide Massine, poi andato a monte.

Il titolo inglese (che è chiaramente al singolare, quindi la - non le – metamorfosi) fu espressamente voluto in omaggio al mondo che il compositore aveva abbracciato (almeno temporaneamente, in attesa che Hitler togliesse il disturbo) come una nuova Patria, tanto che Hindemith si arrabbiò assai quando il suo editore tedesco, ristampando la partitura per l’Europa nell’immediato dopoguerra, pensò bene male di tradurlo in tedesco…

I temi di Weber che Hindemith sottopone a metamorfosi non sono certo presi da Oberon, o Euryanthe, o dal Freischütz, ma da tre piccole composizioni per pianoforte a quattro mani (op. 60, del 1818 e op. 10 del 1809) e dall’ouverture delle musiche di scena per la Turandot di Schiller (1809). In origine pare che Hindemith intendesse comporre un’opera più estesa: fra i suoi appunti e schizzi sono stati trovati riferimenti ad altri 4 (o 5) brani (delle op. 3, 10 e 60) che evidentemente avevano attirato l’attenzione del compositore.

E non sono solamente i temi, ma praticamente i brani completi, che Hindemith non si limita ad orchestrare ma, appunto, a trasformare e reinterpretare a suo modo. Il risultato che ne consegue è una specie di breve sinfonia in quattro movimenti, per una durata totale di poco più di 20 minuti. Qui è l’autore stesso che la dirige con i Berliner, una dozzina d’anni dopo la composizione.

Il materiale weberiano di origine non è certo di prim’ordine: non è praticamente mai eseguito in concerto e per lo più è impiegato come esercizio per studenti. Ma Hindemith ne ha saputo cavare qualcosa di - quanto meno - interessante (non parliamo di capolavori, certo) a testimonianza della maturità che aveva ormai raggiunto e della capacità di padroneggiare le forme classiche verso le quali le sue attenzioni di studioso si erano rivolte. 
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Il primo brano (Allegro) viene dal quarto degli Otto Pezzi op. 60. I primi violini riprendono alla lettera la melodia originale, ma l’orchestra già ribolle di sonorità sgargianti, come testimoniano gli impertinenti interventi degli strumentini:


Il brano ricalca fedelmente l’intero pezzo di Weber, arricchendolo però di esuberanza e di humor.

Il secondo tempo (Scherzo, Moderato) è derivato dalla Turandot. Qui la storia assomiglia ad una catena di SantAntonio, così sintetizzabile: Hindemith prende a soggetto l’Ouverture di Weber, il quale per dare un sapore d’oriente al pezzo senza doversi immaginare o inventare la musica cinese, non aveva trovato di meglio che sfogliare il Dizionario musicale di Jean-Jacques Rousseau, dove aveva scovato una melodia cinese, che Rousseau aveva a sua volta scopiazzato (impercettibilmente modificandola) da un trattato sulla Cina di tale Jean-Baptiste Du Halde. Insomma, una genealogia che arriva, compreso lo sconosciuto e supposto originale cinese, alla quinta generazione! E ogni generazione ovviamente cambia qualcosa nel soggetto, in primo luogo la tonalità…

Mentre Weber aveva preso alla lettera la melodia di Rousseau, costruendoci sopra una (relativamente) breve ouverture attraverso ripetizioni variate del tema, Hindemith si permette anche qualche piccolo intervento sul soggetto weberiano, oltre ad abbassarne la tonalità di un grado.

Poi dilata ipertroficamente il brano, in pratica raddoppiandone la durata rispetto a Weber, ma sempre attraverso l’uso della variazione (o… metamorfosi?) o spostando il tema principale da una sezione all’altra dell’orchestra e contrappuntandolo con incisi o frammenti suonati dalle altre (trilli nei legni, veloci scale negli archi). In forma di passacaglia e con un procedimento abbastanza vicino a quello impiegato da Ravel nel suo Bolero, Hindemith ottiene un crescendo del volume del suono fino a raggiungere un climax, su un accordo tenuto dell’intera orchestra, al quale segue una specie di pausa di riflessione, rappresentata da un agitato recitativo dei primi violini.

E qui ecco l’esilarante sorpresa: arriva il jazz! Combinato con la fuga! Manco a dirlo sono i tromboni ad introdurre una versione fortemente sincopata del tema, che poi contagia l’intera sezione degli ottoni, cui in seguito dà il cambio quella dei legni, mentre percussioni e timpano dettano il ritmo proprio come in una band.

Il suono si dirada e sono i violoncelli a riprendere il tema principale, ma i fiati tornano a contrappuntarlo con stile jazzistico. C’è un siparietto di gloria anche per le percussioni (campane, triangolo, tomtom, gong, blocchi di legno) che vengono in primo piano e creano un curioso contrattempo, suonando sei battute in 4/4 mentre i timpani e i radi strumenti suonano una battuta in 3/4, due in 2/2, una in 3/4, una in 2/2 e una in 3/4… La chiusa è anch’essa sorprendente: un dolcissimo accordo di FA maggiore di legni, corni e archi bassi, impreziosito dal gong.

Il terzo brano è un Andantino, mutuato dal secondo dei Sei Pezzi op. 10:
Hindemith inizialmente espone alla lettera l’originale di Weber, ma poi ci mette parecchio di suo, ad esempio nella sezione corrispondente all’indicazione tranquillo.

Alla ripresa del tema principale, affidata al fagotto, il flauto occupa prepotentemente la scena, con un lungo recitativo di biscrome, che porta il brano alla conclusione.

L’ultimo tempo di questa specie di sinfonietta si rifà ancora all’op.60, precisamente al n°7, una Marcia. Notiamo un inciso che Hindemith sottolinea proprio come aveva fatto Mahler nel primo tema della sua Sesta:

E infatti non è difficile immaginare qualche sotterraneo legame che unisce circolarmente Hindemith, Mahler e Weber. Dunque: Mahler era ebreo (come la moglie di Hindemith) e come Hindemith aveva dovuto subire una qualche – più o meno blanda – angheria da parte degli ambienti legati all’antisemitismo; entrambi avevano trovato più o meno grande accoglienza in America, mentre la loro musica era bollata dal nazismo come degenerata; da parte sua, Mahler aveva avuto con Weber dei rapporti… post-mortem: quando aveva completato, dopo geniale decifrazione di schizzi e appunti, l’opera Die drei Pintos che Weber aveva lasciato allo stato di abbozzo. Non meraviglia quindi che Hindemith abbia in qualche modo voluto coinvolgere anche Mahler nel suo affaire con Weber!    
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Gagliarda l’esecuzione dei ragazzi, che D’Espinosa ringrazia alla fine quasi uno per uno… 

Chiude la bella serata l’Italiana. L’Orchestra la deve conoscere a memoria e D’Espinosa deve soltanto (ma questa non è una denigrazione, sia chiaro…) rinfrescargliela. Lui dà il suo sigillo personale con una clamorosa, quanto indebita, accelerazione nelle ultime cinque battute del finale, ma gli si può tranquillamente perdonare l’ardimento!

Per chi ama letture impegnative, ecco qui un corposo saggio su Mendelssohn del sommo Quirino Principe, comparso nel gennaio 1992 su Musica&Dossier.
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Chiusura di stagione… all’opera: Xian entra in Cavalleria


01 giugno, 2013

Orchestraverdi – concerto n.36


Aldo Ceccato continua la sua presentazione a ritroso delle Sinfonie di Dvorak: siamo arrivati al sesto appuntamento, quindi alla… Quarta.

Le prime quattro sinfonie erano state dall’Autore tenute nel cassetto e nemmeno destinate alla pubblicazione (avvenuta postuma) perché considerate poco più che degli studi, primi tentativi di affrontare un genere impegnativo come quello sinfonico. Probabilmente influì su questa decisione anche l’esempio di Brahms, che solo dopo infiniti tergiversare si era deciso al gran passo. E infatti ben quattro delle ultime cinque sinfonie di Dvorak verranno composte dopo l’esordio sulla scena sinfonica dell’amico e protettore amburghese. 

Questa Quarta però mostra ancora e chiaramente l’influsso wagneriano e bruckneriano (che poi si disperderà, proprio in conseguenza del rafforzarsi del sodalizio di Dvorak con l’anti-Wagner-Bruckner istituzionale) e anche un certo tasso di enfasi e di affettazione. Ne è prova lampante l’impiego dei timpani, una sorta di obbligato: salvo pochi momenti di quiete (soprattutto nel secondo movimento) non fanno che imperversare in modo invadente, tanto che lo strumentista addetto è probabilmente il più impegnato fra tutti i suoi colleghi!
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L’iniziale Allegro in RE minore, in 3/4, è strettamente strutturato in forma-sonata. Su un sommesso pedale degli archi, sospeso fra tonica e sensibile, i legni espongono un’introduzione marziale (che dal RE minore fa una divagazione al FA maggiore) prima di dare spazio al tema principale (Grandioso) canonicamente di piglio maschio ed eroico:

Tema che sfocia in una conclusione simile a quella dell’introduzione, ma qui in LA maggiore Da dove si modula verso il secondo tema che, sempre nel rispetto delle regole codificate fin dai tempi di Haydn, è elegiaco e cantabile, in SIb maggiore:

Il tema svaria al FA maggiore, poi viene reiterato con maggiore cipiglio (e un’ottava più in alto, come da consuetudine!) in SIb e chiude modulando abbastanza arditamente sul MI, dominante di LA. A proposito di regole, l’esposizione prevede anche il segno di da-capo per il classico ritornello: in questo caso il LA serve a preparare il ritorno al RE minore per la ripetizione. Al secondo passaggio, inizio dello sviluppo, riudiamo l’inciso marziale dell’introduzione che dal MI si sposta a DO#, poi a FA#, per modulare ulteriormente al SI maggiore (!) dove ritroviamo direttamente il secondo tema, che nello sviluppo la fa da padrone, contrapponendosi, più che al primo tema, al motivo marziale dell’introduzione. Nella ricapitolazione riudiamo il primo tema assai sviluppato e modulante (soprattutto su LA) e il secondo che ricompare canonicamente trasposto nel modo maggiore della tonalità d’impianto. È ancora il primo tema a riprendere i sopravvento e a chiudere enfaticamente, dopo un ritorno dell’inciso marziale, il movimento.

L’Andante sostenuto e molto cantabile si apre con… Tannhäuser (contrappuntato da Bruckner!) È comunque il movimento più ispirato della sinfonia, con le sue atmosfere cullanti, che sfociano nella bellissima cadenza finale.

Lo Scherzo (Allegro feroce, RE minore) è il movimento che ha reso (relativamente famosa) la Sinfonia, ma è anche il più enfatico ed affettato: è il 6/4 ma dopo l’esposizione iniziale:

il tema torna in RE maggiore con un ritmo binario, marziale, e con gli schianti sul tempo debole, invero pacchiani.

Il Trio (DO maggiore, 2/4) ha un tema se possibile ancora più dozzinale e fracassone:


Poi ha un ripiegamento più intimistico, prima di sfociare nella ripresa dello Scherzo (RE minore) che sbocca poi in un crescendo fino alla Coda che è percorsa ancora enfaticamente dal tema del Trio, ora in RE maggiore, prima di incupirsi nuovamente fino allo schianto conclusivo in RE minore.

Il finale è un Allegro con brio (2/4) in RE minore, che si apre con un tema ancora duro e marziale. Il secondo, in RE maggiore, è invece assai cantabile e sereno:


La chiusa richiama vagamente quella della Fantastica di Berlioz.
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Vibrante ma non pacchiana l’esecuzione di Ceccato, che mi pare aver smussato gli aspetti più… plateali dell’opera, mettendone in evidenza più i tratti boemi che quelli germanici. Bravi tutti i ragazzi, con la rediviva Viviana ai timpani giustamente chiamata per prima da Ceccato all'applauso singolo.

Adesso l’atmosfera trascolora lentamente da Dvorak (complice una variazione al programma originario, che prevedeva il suo concerto per violoncello, poi cancellato) a Brahms, del quale vengono eseguite otto Danze ungheresi: dapprima cinque (17-21) orchestrate da Dvorak e per chiudere le tre più famose (la 1 orchestrata dallo stesso Brahms e le 5 e 6 da Martin Schmeling). Qui una storica e trascinante esecuzione di Antal Dorati.

Ceccato si permette (a quasi 80 anni tutto gli è concesso, soprattutto con musica come questa!) di fare il gigione: nella n°6 raggiunge l’apice con un’estremizzazione dei tempi (sostenuto-vivace) davvero al limite della macchietta, e dando gli attacchi con urletti da circo. Ma il pubblico va giustamente in delirio. Così la n°1 viene ripetuta come bis, prima che il Maestro gridi un viva la musica! che manda tutti a casa felici e contenti.      

Il penultimo concerto sarà diretto dal redivivo (e Direttore Principale Ospite di fresca nomina) Gaetano d’Espinosa.
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Con l’occasione allego un paio di documenti riguardanti Dvorak, pubblicati tempo fa su Musica&Dossier:

- un corposo dossier di Paolo Maurizi, del settembre 1991 e

- Dvorak in USA di Aldo Nicastro, del marzo 1987.

31 maggio, 2013

I Sassoni con Thielemann sommergono di suoni la laguna


La Sächsische Staatskapelle e il suo carismatico Kapellmeister sono stati ieri ospiti di Venezia per un grande concerto wagneriano (con intermezzo… contemporaneo). Era l’ultima tappa del tour del compleanno, che ha prima toccato Parigi e Vienna, altre città-chiave nella vita (non solo artistica) di Wagner.  

Ma il programma era interamente dedicato a Dresda, per evidenti ragioni… geopolitiche: tutte musiche che in quella città, e proprio con i trisnonni dei musicisti di oggi, videro la luce (Rienzi, Holländer, Eine Faust Ouverture, Tannhäuser) o musiche che in quella città furono concepite (Lohengrin). In mezzo, un omaggio a Hans Werner Henze, che Thielemann aveva voluto come Compositore in residenza presso la Staatskapelle e che purtroppo ci ha lasciato prima di poter completare il suo Isoldes Tod. A completare il quadro, la presenza… ingombrante (stra-smile!) di Johan Botha, che si è cimentato in tre famose arie di quelle stesse opere (Holländer escluso).

Una Fenice con più di una poltrona vuota ha assistito ad una straordinaria prestazione dei sassoni, un’orchestra che – in questo repertorio soprattutto – ha pochi rivali. Come pochi ne ha Thielemann, che la guida con il suo gesto misurato, poco appariscente, ma evidentemente efficacissimo. Segno che dietro c’è un duro lavoro di prova e di amalgama, che poi in concerto dà i suoi frutti quasi da solo.

Il programma era ben congegnato, con l’Ouverture dell’Holländer ad aprire sontuosamente la serata. È l’opera che anche in questo anno di ricorrenze inaugura il Festival di Bayreuth, il 25 luglio. E Thielemann evidentemente sta rientrando in quell’atmosfera: qui ha preferito la chiusa in pianissimo sul tema della redenzione, omettendo il rumoroso accordo finale.

Ecco poi Eine faust Ouverture, forse l’unico pezzo sinfonico di Wagner che mantiene stabilmente un posto nei programmi concertistici. Und so ist mir das Dasein eine Last,/ Der Tod erwünscht, das Leben mir verhaßt, perciò l’esistenza è per me un fardello, la morte augurabile, la vita odiosa. Questi i due versi di Goethe posti programmaticamente da Wagner in calce alla partitura, che vide la luce ai tempi dell’Holländer (di cui mutua le atmosfere cupe) e fu poi rivista quando si affacciava da lontano un tale Tristan… Ecco come la interpretava Toscanini. E Thielemann non è da meno: fa proprio venir fuori tutto il pessimismo che la pervade, appena appena rischiarato dalla conclusione serena (tipo Tristan, in effetti).

Quindi la prima comparsa di Botha, per interpretare la straordinaria Allmächt’ger Vater dal quinto atto del Rienzi. Per la verità qui il tenore sudafricano non mi è parso troppo all’altezza del compito: solo il modo con cui ha tirato via i gruppetti che caratterizzano i versi Du stärkest mich e Du liehest mich (e poi Mein Herrsenke dein Auge) la dice lunga su una certa approssimazione. (Qui il pur discusso Kaufmann fa assai meglio…) Per fortuna ci pensa subito dopo Thielemann, dirigendo l’Ouverture, a rimettere le cose al giusto posto: un’esecuzione letteralmente superlativa, accolta da acclamazioni entusiastiche.

Dopo l’intervallo una nuova accoppiata strumenti-voce: dapprima il Preludio di Lohengrin, altra autentica perla della serata, dove gli archi (i violini innanzitutto, come è ovvio) cavano una purezza di suono incomparabile. Poi arriva Botha per l’immancabile In fernem Land, corredata – come ormai costume, almeno in concerto o nelle incisioni, come questa di Kaufmann (e speriamo che non lo diventi in teatro!) - di quei 20 versi aggiuntivi che letteralmente distruggono tutto il bello e il buono di ciò che li precedeva, soprattutto se privati (come qui, per evidenti ragioni) degli interventi del coro, gli unici che in qualche modo li nobilitano. E non per nulla Wagner ordinò perentoriamente a Liszt di espungere l’intera sezione già alla prima rappresentazione di Weimar! Botha anche qui non (mi) incanta: emissione affannata, poco legato, insomma una mezza delusione.

Di Hans Werner Henze viene poi eseguita Fraternitè, composta per Kurt Masur e la New York Philharmonic Society nel 1999. Bellissimo pezzo di questo gigante della musica contemporanea, che evidentemente concepiva la musica come arte mossa dall’ispirazione, e non come freddo vaniloquio.

In chiusura altra coppia canto-orchestra. Tocca per primo a Botha proporre la massacrante aria finale di Tannhäuser (Inbrunst im Herzen): qui il tenore mi pare riscattarsi e fa emergere efficacemente tutta la drammatica potenza dello sfogo del personaggio maledetto da tutti. Meglio comunque fa ancora Thielemann con l’Ouverture, un vero gioiello, di suoni e anche di interpretazione, davvero calata fino in fondo nello spirito alto-tedesco del soggetto.

Trionfo assicurato e contraccambiato con il bis più… ovvio: il Preludio all’Atto III di Lohengrin.

Beh, almeno per quanto mi riguarda, è valsa la pena – e la spesa - di una trasferta sotto il diluvio (che per fortuna ha risparmiato proprio Venezia): capita poche volte, in Italia, di ascoltare orchestre ed esecuzioni di così alto livello.  

28 maggio, 2013

Il giugno wagneriano a Milano


Nel prossimo mese di giugno a Milano si potrà fare un’indigestione di Wagner, principalmente per merito del Teatro alla Scala, ma non solo.

Dopo le ultime due recite di Götterdämmerung, che chiudono la  presentazione a rate (dal 2010 ad oggi) del Ring di Barenboim-Cassier, nelle due settimane del 17-22 e 24-29 andranno in scena due cicli completi di questa produzione.

Subito prima delle recite dei quattro drammi (lunedi-martedi-giovedi-sabato) sarà possibile anche seguire, nella vicina sede della Fondazione Cariplo, le rispettive conferenze introduttive.

In più, nei due giorni di riposo (mercoledi-venerdi) sono in programma le proiezioni di due film che trattano soggetti wagneriani: Ludwig di Visconti e l’interminabile Wagner di Palmer (il quale sarà presente per introdurre la proiezione).  

In aggiunta a tutto ciò è da segnalare l’iniziativa di un Ente che parrebbe destinato all’estinzione (smile!): la Provincia di Milano, che ha organizzato una manifestazione intitolata L’Oro di Wagner. Che ha avuto il suo prologo ieri pomeriggio con un incontro introduttivo con Quirino Principe e la proiezione di due filmetti muti dei primi del ‘900, accompagnati al pianoforte da Rossella Spinosa. La rassegna proseguirà martedi 4 con la proiezione de La caduta degli dei di Visconti, lunedi 10 con una lezione, corredata da suoni e immagini, di Quirino Principe, seguita dalla proiezione del film Ludwig di Syberberg e domenica 23 con un programma di Lieder cantati da Sabina Willeit e recitati da Quirino Principe, con Giorgio Fasciolo al pianoforte.  

23 maggio, 2013

Un vuoto Crepuscolo alla Scala


Ieri seconda recita della giornata conclusiva del Ring in un Piermarini per nulla affollato. Fra gli assenti anche i due principali responsabili dello spettacolo: direttore e regista.

Non c’è Barenboim, per un malanno alla schiena, che si sta curando a casa sua, cioè a Berlino. Così alla Scala lo si vede – adesso che è Direttore musicale – meno di quando era soltanto Maestro scaligero… Del resto, inutile domandarsi a chi lui sia più legato, se alla Scala o alla Staatskapelle Berlin: dovendo dirigere un ciclo completo del Ring a Londra, per i PROMS, che orchestra ha scelto secondo voi come partner? Scopritelo qui.

Al suo posto un… Bignamini tedesco: il 52enne Karl-Heinz Steffens è infatti un suonatore di clarinetto (come il più giovane collega de laVerdi) passato al podio. Ha del miracoloso come sia riuscito a tenere insieme un’orchestra ormai orfana di tutori e a proporci un Crepuscolo più che dignitoso!

Anche la compagnia di canto non è stata per nulla male: alla Theorin la (pur breve) convivenza con Siegfried (smile!) deve aver fatto bene, poiché l’ho trovata decisamente migliorata rispetto a quando era ancora… nubile (cioè alla seconda giornata dello scorso novembre). Ryan ha la voce che ha ma per lo meno regge l’urto con sicurezza e non è cosa da poco. Sempre affidabile Kränzle pur nella fugacità della sua apparizione notturna. Anche la Meier, che ormai a Brünnhilde aveva rinunciato da anni, e che deve accontentarsi di fare la nonna (oh, pardon: la Norna) in aggiunta alla sua omonima walchiria, ha mostrato che la classe non è acqua, anche se la voce non è più quella di una volta. Petrenko non sarebbe neanche un Hagen malvagio, se avesse una voce da… Hagen e non da Figaro (!)

Note meno entusiasmanti dai fratelli ghibichunghi: Grochowski piuttosto deboluccio e Samuil decisamente sotto il livello della sufficienza. Anche le altre cinque femmine (due Norne e tre Figlie) non mi sono parse proprio entusiasmanti.

I cori di Casoni hanno fatto più che dignitosamente la loro parte, in particolare cantando con la dovuta sguaiatezza le loro esternazioni del second’atto.
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L’altro assente ingiustificato era Cassiers: perché di regìa non s’è vista manco l’ombra (forse è meglio così, dati i precedenti, smile!) Per tutte le 4 ore e mezza (nette) di spettacolo la scena è rimasta praticamente deserta (gli allestimenti minimalisti di Wieland al confronto erano dei caravanserragli). Solo proiezioni di immagini mutanti scelte random dal computer e qualche nastro che scende dall’alto e poi risale. Una quinta che a volte scherma lo sfondo, dotata di porticina (per ricordarci che c’è la reggia con la sua entrata!) Elementi prismatici trasparenti che vanno e vengono per servire da tavolo o da tribunetta per il coro, e recanti all’interno spezzoni di immagini di quel bizzarro bassorilievo di Lambeaux (già comparso nel Siegfried) che poi alla fine appare in tutto il suo ridicolo splendore (!)

Lo scavo dei personaggi è bene esemplificato dall’entrata in scena di Gunther e Gutrune, in postura ed atteggiamento perfettamente tagliati per Siegmund e Sieglinde (del resto, a quei tempi, in mancanza di coniugi che potevano fare due fratelli?)

Visto che la scena era vuota, si è pensato bene di animarla con i soliti mimi, che qui seguono il povero Siegfried per tutto il primo atto: dapprima usando la colonna sonora del suo Rheinfahrt per inscenarci un balletto in stile Carrà… Poi per introdurre l’eroe alla reggia dei Ghibichunghi; e infine per fargli il lavoro sporco al momento di strappare a Brünnhilde l’anello (che poi qui è una specie di avambraccio posticcio, così lo si può distinguere chiaramente).      

Sulla scelta dei costumi… meglio non infierire. Per il resto… recita scolastica.
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Dato che il ciclo è stato presentato in 3 anni (che sforzo!) ammetto di essermi dimenticato le giornate precedenti: brutto segno, non per la mia memoria, sia chiaro, ma per la qualità degli allestimenti… Ecco perché, essendo allo stesso tempo cultore di Wagner e un poco masochista, ho deciso di assistere all’intero ciclo che andrà in onda a giugno. Così, per vedere l’effetto che fa

22 maggio, 2013

2013: fuori uno!


200 anni orsono (era di sabato) nasceva in quel di Lipsia un tale che – forse senza contarci per davvero e/o senza rendersene conto – sarà responsabile di alcuni impercettibili trend della nostra civiltà.

Tanto per cominciare: come minimo a partire dal 1865 (Tristan!) non fu più scritta sul pentagramma, in tutto il pianeta, una sola nota che non fosse poco, o soprattutto tanto, influenzata da quelle vergate da costui.

Non basta: persino dal buio della tomba in cui giaceva da 50 anni, il nostro fu – almeno secondo taluni – ispiratore e artefice di alcune simpatiche conquiste del ‘900, tipo il Nazismo e l’Olocausto!

E quindi fiato alle… tube per epinici ed epicedi.

Il mio modesto contributo ai peana consiste nel mettere a disposizione della rete un corposo, acuto e sempre attuale saggio del grande Franco Serpa sul Ring, apparso su Musica&Dossier del settembre 1988. Buona lettura!