affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

17 novembre, 2012

Orchestraverdi – concerto n.10


Ruben Jais torna a guidare la sua Verdi Barocca con il monumentale Messiah. Questo è un appuntamento che sta ormai diventando una tradizione… britannica, dove (quasi) tutto si ripete ogni anno prima o sotto Natale: dalla disposizione del coro (ai lati della scena, a sinistra le voci acute, a destra le gravi); all'andirivieni dei solisti (che entrano per cantare le rispettive parti, ed escono alla fine dell'aria); al contenuto dell'opera (la prima parte completa e le altre due sforbiciate, in modo da creare due tempi di circa un'ora ciascuno); e per finire in gloria con il bis del celeberrimo Hallelujah!

Anche i solisti sono quasi tutti veterani di queste esibizioni oratoriali: Deborah York (già apprezzata poche settimane fa in Bach) e tre protagonisti di precedenti edizioni del Messiah, Sonia Prina, Cyril Auvity e Christian Senn.

Quest'anno il Coro è invece quello stabile della Fondazione, guidato da Erina Gambarini, che prende il posto di quello tradizionalmente legato all'orchestra barocca, l'Ensemble di Gianluca Capuano.

Esecuzione di ottimo livello e gran successo per tutti.

L'appuntamento stagionale n°11 (con anticipo del turno C per dar modo all'Orchestra di trasferirsi in Russia) avrà come clou uno Shostakovich… sovietico.

11 novembre, 2012

Un Rigoletto senza gobba!


Ieri sera alla Scala la terza rappresentazione (primo cast) di Rigoletto. Una produzione dal taglio zeffirelliano, piuttosto datata, a firma Gilbert Deflo, già riproposta anche un paio d'anni or sono e replicata ora per risparmiare sulla parcella di tale Luc Bondy (cui era andato l'incarico originario) e allo stesso tempo per risparmiare a noi poveri pirla un Konzept svizzero innovativo come quello dell'indimenticabile Tosca, peraltro già qui replicata in due stagioni (quando si dice il masochismo!)

Le novità di questo autunno piovigginoso, ma non freddo, sono il funambolico, ormai californiano (ciao Hugo!) Gustavo Dudamel e quel Kaufmann-de-noantri che risponde al nome di Vittorio Grigolo. Poi, accanto alla collaudata Elena Mosuc, un nuovo protagonista, George Gadnidze, che a giudicare da questo video si presentava, diciamo, ehm, con poca gobba e molta approssimazione (smile!)

Le figure dei tre protagonisti del cosiddetto dramma popolare meritano qualche considerazione preliminare.

Su quella del Duca gli esegeti sono divisi, tra quelli che non gli perdonano proprio nulla, e lo considerano un volgare libertino (com'era effettivamente il Francesco I di Francia di Hugo, e come erano, diciamolo pure, i Gonzaga di Mantova, sanLuigi escluso!) e coloro che invece (ah, il relativismo…) gli vogliono concedere una qualche attenuante, insomma una prerogativa di essere umano, prendendo a pretesto la vicenda presentata (da Piave) a cavallo fra primo e secondo atto.

Forse Verdi, che doveva essere uno disposto ai più ampi compromessi in materia (smile!) ha voluto tenere il piede in due scarpe, presentandoci un Duca che - dopo l'iniziale inequivocabile esternazione del Questa, o quella – si fa immelensire udendo Gilda dichiararsi innamorata di lui (che invece era abituato a prendersi tutte quelle che voleva, e meno innamorate erano, tanto meglio!) fino a straziarsi per il rapimento della giovane. Però, venendo a sapere che la stessa è proprio in casa sua, si fa subito richiamare dal Possente amor (una baldanzosa cabaletta!) per raggiungerla e… aggiungerla dongiovannescamente alla sua lista. Insomma, un tamarro qualsiasi che godette però della comprensione del compositore, che si fece scudo della censura austro-veneziana per risparmiarci la ripresa diretta della scena in cui il Duca è in camera a consolare la Gilda per l'affronto patito la notte precedente.

Però che il Duca sia tipo amabile e dall'innocente fascino conquistatore ce lo conferma tale Maddalena - volgare prostituta al servizio del fratello-magnaccia-sicario Sparafucile (però, che coppia!) - che se ne innamora quasi di amor filiale (in effetti non risulta chiarissimo dal libretto se i due si accoppino o meno…) fino a suggerire al fratello (integerrimo fino ad allora nel rispettare i contratti di 
business) di far secco, al posto del caro Duca del mio cuor (!) il primo che passa di lì (la povera Gilda, guarda caso!) pur di risparmiare il bel giovine che l'aveva ordinata come piatto del menu. La donna è mobile!

Ma che dire di Gilda? Una ragazza morigerata, per bene, che se ne sta castamente rinchiusa in casa da cui esce solo per andare alla messa? Ahi ahi. A parte che di messe galeotte è piena la cronaca, lei per amore dello sconosciuto che tutte le feste al tempio la tampinava, arriva a raccontar balle al preoccupatissimo genitore, nonché ad assicurarsi la complicità di tale Giovanna, che il padre aveva assunto in funzione di cerbera. Domanda: ma dopo che si è trovata in casa (se non direttamente in camera da letto) dell'innamorato - scoprendo che non era la topaia in cui diceva di vivere il suo bel Gualtier Maldè, studente squattrinato, ma il fastoso Palazzo Ducale di Mantova - che fa la nostra santarellina? Si allea subito col padre vendicatore, per far secco un tipo che le ha estorto in un sol colpo la fiducia e la verginità? Ma no, lei, pur di fronte a prove schiaccianti e flagranti della natura puttanesca del Duca, decide di sacrificare la sua propria vita per salvare quella del suo amato libertino! Beh, bisogna riconoscere che quella mattinata (!) trascorsa in camera col Duca doveva averle fatto proprio un grand'effetto…

Insomma, se il femminismo non ci fosse, qui bisognerebbe inventarlo (neanche Wagner arrivò mai a pensare a due redentrici per un sol uomo peccatore!)

Ovviamente, ciò che trasforma una improbabile tragicommedia in un capolavoro di dramma è… la musica del contadino di Roncole, che 160 anni dopo la prima apparizione ancora non ne vuol sapere di annoiare chi l'ascolta, persino a dispetto di esecuzioni, diciamo… da sottoScala, come quella ascoltata ieri.

Al protagonista Gagnidze, oltre che la gobba, manca proprio la capacità di calarsi nel ruolo, per cui quello che ascoltiamo è un Rigoletto da osteria, tutto uno schiamazzare e vociferare.  Persino l'espressione del viso (chissà se è proprio quella naturale del... cantante) è perennemente impostata sul ghigno truculento e incazzoso. La vendetta poi (complice forse Dudamel che l'attacca almeno a 183 invece che a 138 di metronomo, smile!) sembra una parata di bersaglieri. 

Vittorio Grigolo ha di sicuro l'appeal del Duca (intendo quello che serve in camera da letto…) Quanto alla voce… sarà meglio soprassedere! 

È invece da sottolineare la buona prova di Elena Mosuc, che restituisce musicalmente (soprattutto) oltre che attorialmente una pregevole Gilda. 

Alexander Tsymbalyuk, che in queste stesse settimane impersona lo sbifido Fafner, qui non ci fa propriamente la figura del drago: uno Sparafucile, il suo, piuttosto incolore ed anemico, ad esser buoni. Appena passabile anche la Maddalena di Ketevan Kemoklidze, che si è difesa come ha potuto nel finale quartetto, dove si sentivano la Mosuc e… sussurri sparsi.

Tutti gli altri onestamente all'altezza, anche se Monterone forse meriterebbe di più del prezzemolo Panariello; onesta anche la prestazione del coro di Casoni, non sempre pulitissimo (ma quanto c'entra il Gustavo?)

A proposito, si scopre che Dudamel non è ancora Toscanini (e neanche Gavazzeni, se è per quello): ma se lui dirige un'opera italiana ogni 200 sinfonie tedesche, che si può pretendere? 

Insomma, come antipasto per l'incombente anno verdiano, qualcosina di più Lissner poteva anche cucinarci; però pensando allo scampato pericolo svizzero, tutto sommato ci dobbiamo quasi consolare!

09 novembre, 2012

Orchestraverdi – concerto n.9


Andrea Pestalozza, che ha parecchi cromosomi abbadiani nel suo DNA (purtroppo la mamma è scomparsa poche ore prima del ritorno di Claudio alla Scala) sale questa settimana sul podio dell'Auditorium per proporci un programma che pare davvero copiato da quelli storici, anni '70, dello zio: unire musica contemporanea a… Mahler!

Auditorium piacevolmente invaso da torme di giovani, evidentemente studenti e/o fan degli interpreti della serata (peccato non sia così ogni settimana!) 

Si inizia con la prima esecuzione italiana di Let Me Sing Into Your Ear ("Fammi cantare dentro le tue orecchie") per Corno di bassetto e archi di Marco Stroppa, classe 1959. La trovata – bizzarra assai, va detto, ma oggigiorno si deve pur inventare qualcosa - è quella di collocare il solista (che è nientemeno che il dedicatario, Michele Marelli) lontano, dietro l'orchestra, ma ben visibile al pubblico, con addosso un groviglio di cavi che recano una serie di microfoni, per trasmettere i suoni del suo pseudo-clarinetto a sei altoparlanti posti al proscenio (come dire: immagine reale e suono riprodotto). 

Il brano si suddivide in 6 parti, dai sottotitoli che in almeno 4 dei 6 casi si fatica ad associare a scenari musicali (tipo… rintanato!):

A 1. Sdoppiato, con pudicizia
A 2. Marmoreo
A 3. Pulviscolante
B 1. Danzante
B 2. Irredento
B 3. Rintanato

Personalmente credo di aver identificato, dal suono dei violini, il Pulviscolante, del resto non saprei che dire… Immagino però che la parte del solista sia piuttosto ostica, e magari piacevole (per lui) da suonare. 

Se posso permettermi un suggerimento (smile!) all'Autore, gli proporrei una variante esecutiva della sua opera: porre il solista al proscenio, ma dietro un paravento traforato, e proiettare sul fondo del palco la sua immagine (come dire: suono reale e immagine riprodotta… chissà se fa lo stesso effetto!) 

Ecco poi la prima assoluta di un'opera postuma (tornata alla luce di recente, dopo che l'Autore l'aveva ritirata dal… mercato) di Niccolò Castiglioni, scomparso 16 anni orsono: il Concerto per 3 pianoforti e orchestra. Solisti Alfonso Alberti (che è anche saggista e ha scritto libri su Castiglioni) Emanuela Piemonti e Carlotta Lusa. Qui le indicazioni agogiche sono (quasi) tradizionali:

I. Dolcino

II. Allegretto
III. Prestissimo
IV. Allegro
V. Adagetto
VI. So schnell wie möglich

I tre pianoforti per quasi tutto il pezzo non fanno che integrare l'atmosfera liquida creata dagli strumentini e dalle percussioni metalliche. Poi nell'ultimo movimento succede di tutto: un accordo ripetuto per 190 (in lettere: centonovanta) volte, non una di meno e poi una filastrocca che migra dall'uno all'altro dei solisti, finchè il pezzo è chiuso da un tremendo colpo di piatti (esecutore al proscenio, accanto al direttore). 

Evabbè…

La Prima di Mahler non ha certo bisogno di presentazioni, essendo una delle sinfonie più presenti nei programmi di tutte le orchestre del pianeta. Uno di quei piatti famosi serviti in tutti i ristoranti, che ti vien sempre voglia di ordinare, ma che spesso finisce per deluderti, per… eccesso di aspettative. 

Ecco, ieri è proprio andata così (almeno alle mie orecchie…): un'esecuzione dignitosa (Pestalozza non ha preso iniziative inconsulte o gigionesche, l'orchestra ha suonato piuttosto bene, corni a parte) ma nulla più. Insomma: una prestazione un poco al di sotto delle… pretese!

Avvicinandosi l'Avvento, per il concerto n°10 torneranno il Messiah e Ruben Jais

02 novembre, 2012

Orchestraverdi – concerto n.8


Un Verdi non operistico è protagonista del concerto di questa settimana diretto da Jader Bignamini, che ancora una volta rimpiazza la sua maestra alle prese con il nuovo pargoletto.

L'impaginazione è proprio identica a quella proposta da Barenboim per il Concerto di Natale scaligero del 2009.

La prima opera in programma è quindi la trascrizione per orchestra d'archi del Quartetto in MI minore, composto nel 1873 a Napoli, fra un contrattempo e l'altro delle recite di sue opere.

È stato da sempre rilevato come il primo tema sia una chiara citazione del motivo di Aida, subito esposto nel Preludio dell'opera. C'è anche chi vi vede qualche reminiscenza del tema principale di Luisa Miller. Ma (a me, personalmente) sembra anche richiamare l'atmosfera dell'incipit del Quintetto con pianoforte op. 34 di Brahms, composto otto anni prima:
E che Verdi, pur in un momento di pigro relax, abbia pensato e guardato alla grande tradizione strumentale mitteleuropea – della quale era considerato dalla pubblica opinione un fiero avversario - non mi pare proprio un'idea balzana, stante ciò che seguirà negli anni successivi: il Requiem (le cui fughe nulla hanno ad invidiare a quelle dell'omonima opera brahmsiana) e i Quattro pezzi sacri, senza parlare dell'evoluzione wagneriana del suo stile in campo operistico, certificata da Otello e Falstaff.
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L'Allegro iniziale è strutturato in forma-sonata con qualche… licenza: al tema principale (Aida) in MI minore, molto legato e dolce, segue nella stessa tonalità una risposta, innescata dal violoncello, assai più nervosa, tutta in staccato, che pare inizialmente voler scimmiottare (in senso buono) il tema principale, ma poi si adagia su un ritmo cullante (semiminima puntata – croma) prima di tornare ad agitarsi fino a chiudere con veloci quartine di semicrome e poi a morire con una discesa in staccato del secondo violino e della viola, sul SI che prepara l'ingresso del Secondo tema:

Il quale è – canonicamente – in SOL maggiore (relativa della tonalità d'impianto) ed ha uno sviluppo assai ampio e articolato, prevalentemente formato da frasi mosse (quartine di semicrome) in cui si incastona però uno squarcio assai sommesso, di quasi silenzio (crome in pianissimo). Chiude con una perfetto accordo di SOL maggiore.

Segue uno sviluppo, che in realtà vede protagonisti e dialogare a lungo (sempre in MI minore) soltanto il primo tema e il suo contraltare, che ancora chiude la sua discesa sul SI, come nell'esposizione, innescando di conseguenza la riapparizione del Secondo tema.

Siamo in effetti alla ricapitolazione, dove però il primo tema è assente (non lo risentiremo più…) ed è appunto il secondo, stavolta in MI maggiore (sempre i sacri canoni!) a tener banco. Dopo il passaggio in pianissimo, ecco direttamente la coda, basata sul controsoggetto del primo tema, che porta alla secca chiusura in MI minore.

Ecco poi l'Andantino, in 3/4 (LA minore, DO maggiore, ma con frequenti modulazioni) con il suo caratteristico incedere lezioso (sottolineato dal violoncello con il pizzicato sul primo tempo e l'arco sugli altri due) che ricorda atmosfere del Rigoletto, o menuetti di corte:
In esso si inseriscono però squarci più mossi (quartine di semicrome in staccato) ma sempre assai leggeri.

Il successivo Prestissimo ha un che di… mendelssohniano. È in effetti uno Scherzo (MI minore) con interposto un Trio (LA maggiore) dove Verdi espone, nel violoncello, un tema cantabilissimo, degno delle sue più belle arie d'opera!
Il finale (Scherzo Fuga, MI minore, sfociante in MI maggiore) è un vero e proprio (e sublime!) esercizio di magistero musicale. Alla faccia di chi descriveva Verdi come un organista campagnolo da strapazzo, o uno che per far musica usava la… vanga!

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Insomma, qui si vede come – ne avesse avuto il tempo e soprattutto la volontà e la convinzione – Verdi avrebbe benissimo saputo comporre musica strumentale pienamente all'altezza di quella delle scuole del Nord.

Gli archi de laVerdi, tornati sotto l'esperta guida di Santaniello, hanno offerto un'esecuzione più che apprezzabile. Da parte sua, Bignamini li ha diretti con grande precisione di gesto, meritandosi l'applauso del non foltissimo pubblico (ma era un dì di festa e di possibili ponti…)

L'altro brano in programma è i Quattro pezzi sacri (in effetti andrebbero titolati uno+tre, vista la cronologia della loro gestazione e successiva impacchettatura).

L'Ave Maria si avvale della famigerata scala enigmatica (sconquassata, come Verdi la battezzò) del bolognese Adolfo Crescentini:
 
È stata cantata, benissimo, da una selezione dei coristi (circa un quarto dell'organico completo).

Lo Stabat Mater chiama adesso a raccolta tutte le forze in gioco: orchestra e coro al gran completo; ma con il coro che, in un paio di occasioni, canta a cappella.

La Laude della Vergine (ultimo canto del Paradiso dantesco) impegna il solo coro femminile (Verdi pensava in origine a sole 4 soliste):
 
E le signore di Erina Gambarini ce la porgono con tutta la possibile devozione.

Infine il Te Deum, che bassi e tenori aprono con il cantus firmus, senza alcun accompagnamento (alla prima parigina Verdi suggerì qualche battuta con l'organo per garantire la giusta intonazione…) e dove, nel finale, la giovane e brava Cinzia Cacace – da poco entrata nell'organico del coro - ha modo di mettersi in luce con le otto battute in cui canta In te, Domine, in te speravi, chiuso sul SI acuto. Peccato che il secondo dei tre MI della tromba che l'accompagnano sia uscito un filino sporco. Ma in complesso la prestazione di tutti è stata notevole.

In particolare è Jader Bignamini a mostrare ogni concerto di più la sua maturità e la sua grande preparazione: dirigere (e alla grande!) anche i Quattro pezzi sacri (oltre che il Quartetto) a memoria non è da tutti ed è indice di grande studio e applicazione. Insomma, il giovane ex-clarinetto-piccolo sta facendo molta strada!

Il prossimo appuntamento sarà dedicato a contemporanei e al titanico Mahler.

31 ottobre, 2012

Abbado ritorna a casa… accompagnato


Dopo più di due anni dalla mancata Seconda, il divino Claudio si è finalmente presentato sul palco del Piermarini per offrirci la Sesta di Mahler. Chissà se nel frattempo Milano si è ricoperta di una foresta d'alberi (così, a prima vista, sembrerebbero cresciuti di più i pilastri di calcestruzzo…) In ogni caso il pubblico ha dimenticato forfait e platani e gli ha riservato l'accoglienza che obiettivamente si merita: trionfale. Purtroppo gli è mancato l'applauso e l'abbraccio della sorella Luciana, scomparsa proprio due giorni fa.

Prima di Mahler abbiamo avuto l'ultimo successore di Abbado alla guida dei Musikanten scaligeri che si è cimentato nella sua originaria specialità, il pianoforte, eseguendo il Primo Concerto di Chopin. Ora, se Chopin è sinonimo di rubato, allora Barenboim ha fatto… la rapina del secolo (stra-smile!) Poi ha pure fatto un discorsetto per spiegare la mancanza di un… bis!

Ma torniamo ora al clou della serata e a Mahler: intanto, sul fronte della scelta interpretativa Abbado ha optato per la collocazione dell'Andante prima dello Scherzo, approccio che ultimamente pare essere una sua costante (diverso da quello delle prime esecuzioni di qualche lustro addietro…) e che sembrerebbe guidato dalla volontà di spogliare l'opera dalle troppe incrostazioni extra-musicali, rimettendola su un solido binario estetico più vicino al classicismo (o magari all'espressionismo…) che al tardo-romanticismo.
 
La sua è una direzione asciutta, quasi ieratica, scevra da facili gigionerie (anche dove la partitura potrebbe facilmente indurre il Direttore in… tentazione) che tende precisamente a fare emergere ciò che di assoluto (musicalmente ed esteticamente parlando) Mahler ha incorporato in quest'opera.

Il risultato è stato di alto livello, anche se l'ipertrofia dei mezzi (gli archi, massimamente – ho contato 16 contrabbassi e altrettanti violoncelli – mentre fiati e percussioni erano, triangoli a parte, nelle prescrizioni mahleriane o poco più) non mi pare abbia portato un proporzionale innalzamento della qualità del suono. Evidentemente Abbado, unendo le forze della sua Orchestra Mozart - in cui peraltro suonano fior di prime parti di fama internazionale - a quelle della Filarmonica da lui fondata 30 anni orsono, ha inteso dare all'evento un ulteriore carattere, come dire, celebrativo: festeggiando il ritorno in Scala con la sua prima e la sua più recente creatura. Con un equilibrio migliore mi aveva personalmente colpito, nella stessa sala del Piermarini, la prestazione di Harding con la LSO.

Comunque la festa non è certo mancata: pochi (troppo pochi!) attimi dopo il LA pizzicato degli archi, a chiudere la Tragica, sulla triade di LA minore delle trombe e sull'ultimo sommesso colpo di grancassa, un grazie maestro! piovuto dalla seconda galleria ha purtroppo rotto l'incantesimo, dando di fatto inizio al quinto movimento della sinfonia, suonato dalle sole percussioni: le mani degli spettatori e i piedi dei musicisti. Un movimento durato almeno quanto l'Andante, con il quale il suo pubblico ha voluto salutare e ringraziare un Maestro che a Milano ha davvero lasciato il segno.

26 ottobre, 2012

Orchestraverdi – concerto n.7


 
Tutto Brahms per il concerto che vede il rientro dalla maternità della Direttora Xian. Programma di struttura tradizionale, aperto dalla più famosa delle Danze ungheresi, la n°1, che serve a far scaldare i motori dell'Orchestra.

 
Due alfieri della quale sono i protagonisti del Doppio Concerto op.102: Luca Santaniello, ormai storico Konzertmeister de laVerdi, e Mario Shirai Grigolato, che da anni ne è il primo violoncello.

Il concerto è di quelli piuttosto trascurati e forse sottovalutati, considerato spesso come opera di un Brahms che aveva ormai tirato i remi in barca, quasi un pezzo di circostanza per suggellare la ritrovata amicizia con Joachim. Mentre in realtà è una partitura tutt'altro che facile, e soprattutto difficile da valorizzare. Motivo in più per lodare la prestazione del tutto convincente dei due beniamini del pubblico dell'Auditorium, questa sera affollatissimo. Evidentemente il suonare sempre insieme (pur ai lati opposti del podio…) garantisce il miglior affiatamento.

Xian tiene l'orchestra piuttosto sottotono, ma a fin di bene, proprio per far meglio risaltare le qualità dei solisti, che ricevono ovazioni e concedono un bis altrettanto difficile (come si può constatare qui, dove è suonato da un tizio… sdoppiato!)

Dopo la pausa, ecco la sinfonia (ai tempi) più attesa, pretesa e reclamata della storia: che Brahms finalmente si decise a rilasciare nel 1876, dopo quasi tre lustri di gestazione!

Prima già diretta da Xian quasi due anni fa. Rispetto alla già apprezzabile prestazione di allora, molto mi pare cambiato (chissà poi se c'entra anche il recentissimo, secondo fiocco azzurro…)

Intanto un incipit austero, il Poco sostenuto trasformato quasi in un Largo (!) ma di grandissima nobiltà. Poi il trattamento dei timpani, davvero messi in primo piano (ma non certo in modo becero e bandistico!) dove la Viviana si è davvero superata. E in generale una tensione spasmodica, che i ragazzi hanno saputo assecondare alla grande. Il duetto fra il violino di Dellingshausen e il corno di Ceccarelli nell'Andante è stato da antologia, come l'attacco del Poco Allegretto di miss-sorriso, Raffaella Ciapponi. E ancora strepitosi il corno di Ceccarelli e il flauto di Crepaldi nel richiamo dell'Alphorn del finale.

Insomma, un'esecuzione da incorniciare, premiata da un autentico trionfo.

Il prossimo appuntamento è in giornate di santi&morti, il che ha evidentemente suggerito la messa in programma di un Verdi piuttosto… sacro.


23 ottobre, 2012

Bohéme senza sorprese alla Scala


Due delle undici recite di questa Bohème erano attese con grande curiosità: quelle che vedevano il ruolo di Mimì coperto dalla star Anna Netrebko. Importanti soprattutto per gli allibratori, che su di lei accettavano scommesse: non già sulla qualità della prestazione o sull'accoglienza che avrebbe ricevuto, ma sull'eventualità di una sua defezione all'ultimo momento (smile!)


Ebbene, questa volta niente sorprese: la divina Anna non ha accampato scusanti, e si è eroicamente presentata alla ribalta! Ed ha ottenuto un successo davvero strepitoso, in un teatro praticamente esaurito.

Ma direi che tutta la compagnia è stata all'altezza: Beczala innanzitutto, un convincente Rodolfo, il veterano Capitanucci, che alla scala fa Marcello ormai da un'eternità e lo Schaunard di Cavalletti; un filino sotto il Colline di Spotti e la Musetta della Dehn. Dignitosi gli altri comprimari e lodevoli i cori di Casoni.

Daniele Rustioni (fa rima con Battistoni, ma nel gesto assomiglia assai a… Mariotti) non ha – alle mie orecchie – demeritato, confermandosi ormai più che una promessa.

L'allestimento di Zeffirelli, che compie praticamente mezzo secolo, è proprio di quelli da museo: ma non nell'accezione sprezzante e diseducativa (sì, diseducativa, perché i musei sono l'asset più importante di una civiltà…) dei tifosi delle moderne regìe usa-e-getta, ma perchè davvero merita di essere portato ad esempio di serietà, coerenza e soprattutto di rispetto assoluto di un capolavoro del teatro musicale.

Come detto: gran trionfo, mi pare proprio meritato.


19 ottobre, 2012

Orchestraverdi – concerto n.6


Torna dalla Malesia Claus Peter Flor per dirigere un concerto di quelli davvero tosti: dopo un antipasto - ma di quelli abbondanti - di Bach, la poderosa Ottava di Anton Bruckner.

Deborah York, una specialista di questo repertorio, apre il concerto con la cantata Mein Herze schwimmt im Blut (Il mio cuore nuota nel sangue) BWV 199. Pezzo assai impegnativo per il soprano, chiamata ad un vero tour-de-force, più di 20 minuti di canto quasi continuo! Basti pensare che la cantata si articola su quattro recitativi che introducono altrettante arie (o un corale, nel terzo caso). 

Una cantata quasi unica nella produzione bachiana, strutturata proprio come un dramma, di un individuo che confessa in modo straziante i suoi peccati, per arrivare alla luminosa beatitudine garantitagli da quel Dio con cui ha finalmente fatto pace

Della cantata esistono due versioni, che differiscono (quasi esclusivamente) per la tonalità: la versione originale di Weimar (DO minore, chiusa in SIb maggiore) e quella successiva di Köthen e poi di Lipsia, che è innalzata di un tono intero, per mantenere invariata l'altezza del suono in presenza (a Köthen e a Lipsia) di diapason di un tono più basso rispetto a quello di Weimar (Kammerton invece di Chorton). Un'altra non piccola differenza risiede nello strumento che accompagna il Corale: a Weimar una viola, a Lipsia un violoncello piccolo. Qui si è impiegata la prima versione di Weimar. 

Musicalmente è un lungo cammino, che ci porta dal DO minore (e relativa MIb maggiore) dei primi due recitativi e delle prime due arie fino al FA maggiore del corale e da qui al SIb maggiore dell'ultimo recitativo e della giga conclusiva. 

I primi versi del primo recitativo e dell'aria conclusiva ne sono chiara dimostrazione: alla disperata esternazione, ripresa dal titolo, di un cuore letteralmente annegato nel sangue, fa da contrappeso il liberatorio Wie freudig ist mein Herz (Com'è gioioso il mio cuore) che ci mostra quello stesso cuore rinato a nuova vita nella grazia del Signore: qui i due versi nelle versioni di Lipsia e di Weimar:


Insomma, un mirabile tragitto, dall'inferno al paradiso, che la York ha interpretato con grande profondità e magistero, accompagnata a dovere dagli strumentisti di casa: su tutti l'oboe di Luca Stocco, davvero strepitoso nell'accompagnamento della seconda aria. Ma anche Gabriele Mugnai con la sua viola ha fatto grandi cose nel difficile accompagnamento del corale

Davvero un degno preludio per il piatto forte della serata: l'Ottava e penultima sinfonia (l'ultima completata) di Anton Bruckner.

Il quale, dopo averla riveduta e corretta in seguito all'iniziale stroncatura di Hermann Levi, ci scrisse (ma appunto a-posteriori) delle note esplicative – raccontando amenità, dalla morte che bussa alla porta, al buon tedesco operoso e un po' ingenuo, per finire agli augusti incontri di cavallerie di zar e imperatori – note che personalmente reputo più fuorvianti che utili all'apprezzamento dell'opera. Che invece si erge come un monumento proprio grazie alla sua (mi permetto di usare parole spese da Adorno per Mahler) immanenza formale, che ovviamente si accompagna alla bellezza dei temi ed alla coerenza con cui vengono proposti.
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Il movimento iniziale, che a prima vista (meglio, al primo ascolto) potrebbe apparire astruso e farraginoso, è invece di una disarmante chiarezza e linearità (in forma-sonata, appunto) che principia con l'esposizione dei tre temi: il primo, ripetuto in fortissimo dopo l'iniziale presentazione assai sommessa, che dall'incipit oscuro sboccia in uno sviluppo quasi enfatico, introducendo il bruckneriano stilema 2+3; il secondo, di grande lirismo, con le caratteristiche ascensioni, anch'esso ripetuto e sviluppato sul 2+3; e il terzo, ancora cupo al principio, che si appoggia sul ritmo 3+3, e porta rapidamente ad un acceso dialogo archi-ottoni, con discendenti quintine sforzate; il tutto chiuso da una spettacolare fanfara delle trombe. Poi lo sviluppo, in cui non è difficile scorgere i tre temi (o spezzoni di essi) che si ripresentano in sequenza, manipolati e incalzati dal ritmo del primo tema. Segue la ricapitolazione dei tre temi, con i dovuti e canonici cambi di tonalità (ad esempio il terzo che passa a quella di impianto di DO minore, da quella dell'esposizione, MIb minore) fino ad arrivare ad una enfatica perorazione sull'accordo di DO minore e poi sul solo DO ribattuto (sempre sull'incedere martellante del primo tema) da corni e trombe. Qui si arriva inaspettatamente (fu una delle radicali modifiche apportate dall'Autore in fase di stesura della versione definitiva) alla Coda, che presenta il primo tema e letteralmente lo sottopone ad un processo di decomposizione, fino a soffiarne via anche l'ultima particella di polvere.

Ad esso segue lo Scherzo, dal tipico stilema bruckneriano, riconoscibile fra mille, una specie di danza ossessiva, sulla scala di DO minore: DO/MIb-FA-SOL/SOL-DO (tema che tornerà nel finale e, in maggiore, proprio nella chiusura della Sinfonia). Esposto una prima volta e chiuso in MIb, invece del Trio gli succede una seconda esposizione variata e sviluppata, fino alla nuova chiusa, adesso in DO maggiore. Solo ora abbiamo il Trio, di proporzioni gigantesche, dove si alternano momenti di intimo raccoglimento (notiamo l'intervento delle due arpe) ad altri di esaltazione. Il Trio si chiude in LAb maggiore, seguito dalla canonica e pedestre ripetizione dello Scherzo. 

L'ipertrofico Adagio, in REb, è puro distillato di suoni, a cominciare dal primo tema, con quella specie di sospiro (LAb-SIbb-LAb) che sembra rifarsi al primo tema del movimento d'apertura, che porta lentamente ad una perorazione in fortissimo di tutta l'orchestra, con arpeggi degli ottoni culminanti in una quintina che sfocia sul LA maggiore. Tema ripetuto e sfociante stavolta in SI. Poi un nuovo tema, che ricorda la Settima, seguito da un altro nelle tubette, solenne e arcano, in DO maggiore, che scende dalla mediante alla tonica e da qui giù, plagalmente, alla sottodominante FA, per poi risalire di un'intera ottava. I temi vengono più volte sviluppati, con un lungo alternarsi di slanci verso l'alto e ripiegamenti intimistici. Si torna al tema principale e da qui a sviluppi che conducono ad un primo climax, che si spegne immediatamente, ma per dar inizio ad un crescendo che porta alla nuova perorazione in tutti i fiati, in MIb, dove torna l'enfatica quintina, di cui si ricorderà Mahler nel finale della sua Terza (ma non solo lì):

Adesso ci si avvia alla Coda, che è una cosa grande, a cominciare dal recitativo dei corni (anche questo verrà ripreso da Mahler in chiusura del primo movimento della Nona):

Ma davvero stupefacente è tutta la cadenza conclusiva, in REb, esposta dai primi violini, su un dolcissimo pedale dei corni che espone la cellula iniziale, di una bellezza semplicemente incomparabile:

Il Finale si apre con un gran fracasso di ottoni, poggiante sulle semiminime acciaccate degli archi: per carità, lasciamo perdere Olmütz e l'incontro equestre fra l'Imperatore asburgico e lo Zar di tutte le Russie! Apprezziamo questa musica perché è bella, e basta! Per contrasto, segue un gruppo di temi di carattere religioso, poi solenne, che porta ad un gigantesco tutti dell'orchestra, chiuso sul ritmo martellante del primo tema della Sinfonia. E proprio in omaggio alla ciclicità della forma, Bruckner ricapitola anche tutti gli altri motivi, a cominciare da quello dell'Adagio e poi – delicatissimo, trasfigurato, nei flauti - a quello dello Scherzo. Ma il cammino è ancora lungo, un altro poderoso tema irrompe negli ottoni, poi ancora un religioso raccoglimento sulle note del tema iniziale, che viene viepiù sviluppato, prima di tornare nella sua pienezza. Ma non è ancora finita, c'è un nuovo raccoglimento, un'altra esplosione, quindi un lungo tratto, per così dire di… penitenza, prima di arrivare al Ruhig (Tranquillo) dove inizia la perorazione finale. È il tema dello Scherzo, adesso davvero maestoso, che sigilla l'opera, in un pesante DO maggiore, che culmina in una perentoria discesa da mediante a tonica, MI-RE-DO! 
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Flor – che ha schierato l'orchestra in formazione alto-tedesca (bassi a sinistra e violini secondi al proscenio) con le arpe sull'estrema destra - mi è personalmente piaciuto assai: per i tempi che ha staccato, senza mai estremizzare, e per i bellissimi contrasti che ha saputo portare a galla, fra i fracassi più smaccati e i passaggi quasi cameristici di cui è costellata questa immensa partitura. I ragazzi hanno risposto benissimo, e gli perdoniamo volentieri qualche piccola sbavatura qua e là, che nulla ha tolto alla splendida riuscita dell'esecuzione.

La prossima settimana dovrebbe vedere il ritorno in campo della fresca mammina Zhang Xian per un concerto tutto brahmsiano

17 ottobre, 2012

Il complesecolo di Pierrot festeggiato dall’Orchestraverdi



In aggiunta ai 38 della stagione regolare, laVerdi mette in programma alcuni concerti straordinari, il primo dei quali ha visto ieri sera sul podio (non sempre…) Ruben Jais, che per una volta si è trasferito dal suo mondo barocco a quello della musica del ‘900.

Il 100° anniversario della prima di Pierrot Lunaire è stata l’occasione per presentare – oltre alla festeggiata - alcune altre interessanti opere di Schönberg, a coprire tre diverse stagioni – tonale, atonale, seriale - della produzione dell’inventore (o quasi… per via di un tale Hauer) della dodecafonia.

Iniziativa lodevolmente pubblicizzata anche dalle edizioni del TGR Lombardia (dove evidentemente Jais deve avere qualche amica influente, smile!) il che ha fatto sì che l'Auditorium fosse discretamente popolato. Così come assai interessante e lodevole è stata l'introduzione alla figura del compositore ed ai brani in programma fatta da Anna Maria Morazzoni, una specialista in musica del '900 e di Schönberg in particolare.

Abbiamo quindi ascoltato – senza bisogno di direttori… - la prima versione (per sestetto d'archi) di Verklärte Nacht, opera dello Schönberg ancora legato alla tonalità, sia pure con approccio tardo-romantico o post-wagneriano o come altro lo si vuol chiamare. Questa è la versione dell'opera che personalmente preferisco, di gran lunga rispetto a quella per orchestra da camera, spesso suonata da plotoni di archi che inevitabilmente spogliano questa mirabile partitura – di fatto quartettistica – delle sue peculiari qualità.

Bravissime le prime parti de laVerdi (Santaniello, Viganò, Mugnai, Thanasi, Grigolato e D'Agostino) a porgerci questo autentico gioiello composto precisamente a cavallo fra '800 e '900: musica a programma, ma che si gusta al meglio dimenticando del tutto quel programma balordo (vedi sotto) come del resto consigliava di fare lo stesso autore…
Poi si è fatto un salto di più di 20 anni, direttamente all'inizio del periodo dodecafonico, con l'ascolto di un brevissimo brano (3 minuti o poco più) intitolato Sonetto del Petrarca (CCLVI, n°4 dalla Serenade op.24) con la voce del baritono Christian Miedl. La serie dodecafonica qui impiegata è la seguente: MI-RE-MIb-DOb(SI)-DO-REb-LAb-SOLb-LA-FA-SOL-SIb.
Su ciascuno dei versi della poesia vengono impiegate 11 note, cosicchè ogni verso successivo inizia con la nota precedente nella serie, e al tredicesimo verso si chiude il cerchio. Qui il primo verso e la prima sillaba del successivo:
Insomma, una specie di giochetto reso possibile dalla rigida applicazione della tecnica seriale. Che ci sia in tutto ciò una qualunque narrativa musicale ed un qualunque riferimento al contenuto dei versi, è come minimo opinabile (almeno a mio modestissimo avviso). 
  
In ogni caso Christian Miedl fa del suo meglio per cantarci questo povero Petrarca, già bistrattato dalla traduzione tedesca, e per di più ridotto a sghemba filastrocca… ma va bene così!  
Ora abbiamo la pianista Carlotta Lusa che ci riporta indietro nel tempo, alla stagione dell'espressionismo, con l'esecuzione dei Sex Kleine Klavierstücke op.19, una composizione atonale del 1911 (l'ultimo brano fu scritto l'indomani della morte di Mahler). Si tratta di piccoli pezzi aforistici, in tutto sono solo 75 battute (18 + 9 + 9 + 14 + 15 + 10) per una durata di poco più di 5 minuti. 
È musica – credo io – da ascoltare senza pregiudizi, ma anche senza farsi eccessive aspettative, e senza cercarvi chissà quali reconditi significati universali. E mi pare stucchevole anche la pretesa di individuarne la struttura formale, impiegando categorie del tutto inadatte allo scopo. Per dire, è stupefacente come il pezzo n°6 abbia fatto versare fiumi d'inchiostro agli analisti, tutti intenti a dimostrare – mediante l'uso di strumenti sofisticati, come le tecniche lineari schenkeriane e le teorie generative - che in realtà il brano nasconderebbe una criptica tonalità fondamentale: per gli uni, MI maggiore, per altri addirittura tre: DO, RE e LAb maggiore; per altri ancora MI minore e ancora per altri SOL maggiore… il tutto in queste 10 battute!

Siamo proprio alla paranoia più totale, perché qui è come cercare le leggi che governano un sistema anarchico! O pretendere di dimostrare che l'anarchia è in fin dei conti una semplice variante dello Stato. Dico, se uno buttasse giù note a caso, scelte con un randomizzatore, forse sarebbe capito dai cosiddetti analisti in modo più concorde (smile!)

Per fortuna Carlotta Lusa fa il suo meritorio dovere presentandoci queste pagine con la dovuta concentrazione.
Ha chiuso degnamente la serata la composizione proprio ieri diventata centenaria:

La voce (che canta-recita secondo la tecnica dello Sprechgesang) era quella di Annette Jahns
Il Pierrot, raccolta di brani su testi di Otto Erich Hartleben, liberamente tradotti dall'originale francese di Albert Giraud, è anch'essa un'opera del periodo atonale (1912). Si caratterizza proprio per l'impiego della tecnica consistente nell'applicare al canto le proprietà di accentazione tipiche del parlato (le note parlate sono individuate da una crocetta sul gambo). Qui un esempio (tratto da Der Dandy) di mescolanza di canto e parlato, dove si prescrive, in sole tre battute: cantato, parlato, sussurrato senza suono, parlato con suono (?!):

Ciò può di primo acchito apparire sgradevole ed esasperante, ma paradossalmente è invece musicalissimo (ovviamente con una voce ed una tecnica adeguate, come quelle sciorinate dalla Jahns). Certo non la pensava così Puccini, che in soldoni apostrofò questa musica come marziana (o sarà stato un complimento? smile!) 

Da incallito numerologo ed esoterista il buon Schönberg musicò 21 canzoni, ma tenendo a precisare già nel sottotitolo che sono 3-volte-7. Il parla-canto (o come altro lo vogliamo definire) è accompagnato da otto strumenti (anzi, dovremmo dire: da 7+1, il pianoforte, smile!) che però suonano insieme – ma mai comunque contemporaneamente - soltanto nell'ultimo brano, come si evince da questa tabella:
  
La Annette Jahns mostra di saperla lunga sullo Sprechgesang, dandoci del Pierrot un'interpretazione davvero coinvolgente, benissimo supportata dai ragazzi de laVerdi: Crepaldi su tutti, con flauto e ottavino; poi la bravissima e sempre sorridente Ciapponi, Saredi al clarinetto basso, Santaniello, Mugnai e Grigolato agli archi, oltre alla Lusa al pianoforte. Gran successo che porta al bis dell'ultima poesia (O alter Duft).   
   

Adesso però voglio chiudere con una citazione che già avevo proposto anni fa in occasione di un (poco onorevole, a dirla tutta) ciclo Schönberg-Beethoven alla Scala, gestito da Barenboim: si tratta di questo fulminante (e gustosissimo) pezzo di Davide Daolmi, che a mo' di prefazione all'analisi di Verklärte Nacht sciorina le sue convinzioni sulla dodecafonia e relativi… effetti collaterali. 
Convinzioni che qui confermo solennemente (smile!) di condividere al 100% !
(poi c'è anche chi la butta in vacca proprio del tutto…)


15 ottobre, 2012

Il battesimo wagneriano di Noseda

 
Il Regio di Torino ha aperto il cartellone con Wagner, come faranno altri teatri per le commemorazioni bicentenarie del 2013, e Gianandrea Noseda ha approfittato dell'occasione per rompere il ghiaccio con il mago di Lipsia, sia pure partendo da... lontano (ma avrà tempo, se vuol continuare, per avvicinarsi al Wagner serio, smile!)  
 
Ieri pomeriggio – teatro non proprio colmo - terza rappresentazione dell'Holländer, un'operina (come usa chiamarla affettuosamente Arbasino) leggera, se così si può dire in confronto a ciò che verrà dopo, anche se diventa pesantuccia per il pubblico, costretto a restare per 2 ore e 20 minuti inchiodato alla poltrona (solo con il Rheingold Wagner sarà ancora più carogna…) Chi volesse perder tempo a leggere un mio bigino, lo troverà qui.

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Dell'opera esistono (almeno, ufficialmente) due versioni: quella originale del 1843 di Dresda e quella rivisitata da Wagner nel 1860-1864 (poi vi sono interventi che l'autore fece in tempi diversi, ma che non furono oggetto di pubblicazione). Qui a Torino viene presentata l'ultima versione, quella predisposta da Wagner dopo aver composto due terzi del Ring e soprattutto il Tristan. E proprio dal Tristan fu mutuata la modifica (solo musica) del finale dell'opera.   
 
Nella versione originale, dopo l'ultima esternazione di Senta (Hier steh' ich, treu dir bis zum Tod!) il suo suicidio col tuffo in mare dalla scogliera e l'esposizione violenta del tema della redenzione (in tutta l'orchestra, in fortissimo e con pesanti colpi sincopati di timpano) seguito da quello, poderoso, dell'Olandese, si odono soltanto due secchi accordi di RE maggiore, punto e basta (come si può ascoltare in questa produzione di Bayreuth del 1984-85, da 4'40" in avanti; occhio: gli sbattimenti di ante non sono di Wagner, ma di Kupfer, smile!)
 
Invece, nella versione che ascoltiamo qui al Regio, il finale (e con esso la chiusa dell'Ouverture) è quello da Wagner arricchito con una diversa (accorciata) transizione dal tema di Senta a quello dell'Olandese - il quale tema viene enfaticamente allungato di 6 battute, con salita alla mediante e alla dominante e ritorno sulla tonica - e soprattutto con l'aggiunta delle 10 battute conclusive. Di cui le prime 4 ripropongono con grande dolcezza (in cadenza plagale, dal RE al SOL maggiore) il tema della redenzione: dolce, appunto e un poco ritenuto (come recita l'indicazione agogica) e suonato solo da flauti e oboi, su un morbido pedale dei fiati e i caldi arpeggi dell'arpa. Seguono 3 battute con il ritorno a RE maggiore sostenuto da un motivo nei violini (RE-MI-SOL-FA#, incidentalmente mutuato dalla Jupiter) che richiama l'atmosfera della chiusa della Liebestod (e anticipa quella di Götterdämmerung…) Infine le 3 battute con l'accordo perfetto di RE maggiore, che parte dal piano e cresce fino allo schianto conclusivo (come avverrà per la chiusa di Lohengrin). Musica che fa da sfondo al riemergere, dalle acque in cui si è inabissato il vascello fantasma, di Senta e dell'Olandese, abbracciati e ascendenti al cielo! (Ecco questo finale in una recente produzione rumena, da 6'50" in avanti.)
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Adesso dirò qualcosa della regìa, importata da Parigi e firmata da Willy Decker, qui ripresa - a ben 12 anni di distanza - da Stefan Heinrichs. La quale mette (direi appropriatamente) Senta al centro di tutto. Quindi scene assai minimaliste, occupate più che altro da simboli: gomene, vele, un grande dipinto raffigurante un mare procelloso (su cui compare un paio di volte un veliero) e per il resto qualche sedia e tavolo; efficaci giochi di luci; costumi abbastanza plausibili, data l'indeterminatezza dell'epoca dell'azione (unico cedimento ad una certa moda è il pastrano-DDR dell'Olandese, smile!)  
 
Dunque, Senta. Una povera ragazza schiava di un ambiente chiuso in cui è costretta suo malgrado a vivere. Il suo legame con Erik (anche lui un po' cittadino di serie-B, in quanto cacciatore in un paese di prodi marinai) è di quelli incolori e routinari. Per sfuggire alla quale routine lei non ha a disposizione altro che i sogni: e invece di un principe-azzurro che le calzi la scarpina-cristallina (cosa che la ridurrebbe ad una qualunque cenerentola, evidentemente considerata da Wagner personaggio inadatto per un dramma, oltre che già ampiamente sfruttato) lei sogna di far felice un uomo maledetto e destinato ad eterna infelicità: una figura mezzo-mitologica che qualche pittore da strapazzo deve aver dipinto su un quadretto che lei si porta dietro come una reliquia da adorare religiosamente.
 
Insomma, una schizofrenica, che come molti schizofrenici è pure presuntuosa, e quindi convinta di farcela là dove tante donne hanno già fallito (questo lo racconta lei stessa cantando la sua famosa Ballade): restare fedele al viso-pallido per tutta la vita. 
 
Peccato che spesso i presuntuosi vengano poi traditi dal puro caso, e/o da indizi fallaci; così lei, senza colpa, fa la figura dell'infedele agli occhi dell'Olandese, che la pianta in asso (però, bontà sua, perdonandola perché ancora il prete non aveva celebrato il loro matrimonio, smile!) Con ciò costringendola alla testimonianza estrema di fedeltà: il sacrificio della vita.
 
Ora, che Senta – come ci mostra Decker – si pugnali invece di annegarsi in mare non riveste particolare importanza. Caso mai si può osservare che questa chiusura dell'opera parrebbe assai più appropriata per la (musicalmente) dura versione del 1843, che non per quella sdolcinata del 1860. L'Olandese che sparisce nel nulla e la finta moralista Mary che raccoglie il suo ritratto e se lo porta via stringendolo al petto (proprio come era solita fare Senta!) giustifica l'ipotesi che per Decker Senta - pur incolpevole nei fatti – abbia comunque fallito la prova, e che altre donne avranno l'occasione di ritentare l'impresa. Sappiamo invece che la musica della versione 1860 del finale, che qui ascoltiamo, sembra proprio chiudere definitivamente il discorso con la redenzione dell'Olandese.
 
A parte questa osservazione critica (un po' bizantina, lo ammetto) mi è parsa una regìa da approvare quasi incondizionatamente.
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Sul fronte dei suoni, notizie direi incoraggianti. A partire da Noseda, che ha scrupolosamente evitato eccessi enfatici (vedi il Thielemann del recente festival bayreuthiano) e mai si è permesso libertà sui tempi, sempre tenuti con grande coerenza (e questa è la cosa più importante).
 
La Pieczonka ha confermato la sua affinità elettiva col personaggio di Senta, nella recitazione ma soprattutto nel canto: per lei grande trionfo.
 
Trionfo tributato anche a Doss, pur un filino impacciato (a mio modesto avviso) nelle sbifide arie che Wagner mette in bocca all'Olandese.
 
Più che discreto Gould, un Erik sufficientemente efficace e dalla voce molto passante.
 
Cosa che non mi sento di dire di Humes, per me poco adatto al ruolo del vecchio marpione Daland.
 
Bandera e Ombuena se la sono cavata più che bene nei loro ruoli non proprio banali, soprattutto il secondo, efficace nella canzoncina d'esordio.
 
Bene i cori, anche – e non è poco – per aver evitato sguaiatezze e schiamazzi da Oktoberfest: quello di Fenoglio (i/le Norvegesi) e quello di Chiavazza (gli Olandesi, dislocati per l'occasione… sottocoperta!) 
 
In sintesi: ancora una buona prova del Regio, che si conferma struttura oggi fra le più solide nel piuttosto dissestato – ahinoi - panorama italico del teatro musicale.