affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

13 luglio, 2012

Muti a Ravenna per le fraternità


Ieri sera  un concerto diretto da Riccardo Muti nell’immenso PalaDeAndrè, gremito all’inverosimile, ha di fatto chiuso il cartellone concertistico della 23ma edizione del Ravenna-FestivalStando alla locandina, si poteva aver l’impressione di un concerto assai breve, anche se di alto livello di intensità spirituale: con il ‘700 religioso (quello aperto e solenne di Haydn e quello raccolto e intimistico di Mozart) a incorniciare il laico ’800 del sereno e nobile pessimismo dei due canti di Brahms.

Viceversa, e in omaggio al Leit-motiv del Festival (Nobilissima visione) si è trattato di una specie di incontro ecumenico fra religioni diverse (e le rispettive espressioni musicali).

Così vediamo entrare dapprima gli strumentisti, componenti di due orchestre di giovani (l’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini e la fiesolana Orchestra Giovanile Italiana) e i coristi (Coro del Friuli Venezia Giulia e Stagione Armonica). Ma poi ecco farsi avanti dalle due entrate sul fondo il Coro serbo bizantino Moisey Petrovich del monastero di Kovilj e i Lama tibetani del monastero di Drepung Loseling, muniti di due giganteschi corni (del tipo Alpenhorn, per intenderci) e di due specie di trombe. Entrano anche, andandosi a sedere davanti ai coristi, il Coro dei missionari di San Carlo Borromeo e il Coro ortodosso di Mosca. Dal fondo della tribuna arriva poi Ani Choying Drolma, monaca buddhista nepalese che sfrutta le sue doti di canto per finanziare attività benefiche nel campo dell’istruzione e della sanità. (E non è finita qui, perché più avanti avremo ancora altri protagonisti.)

Muti si è accomodato su una sedia vicino al podio e segue, con tutto il pubblico, un indirizzo di saluto registrato dal Dalai Lama, che ricorda i valori comuni a tutte le religioni, in particolare la tolleranza e lo spirito di servizio.            

Dopodichè ha attaccato il Te Deum in do maggiore per coro e orchestra, Hob. XXIIIc n. 2 di Haydn. Opera della tarda maturità, commissionata dalla corte di Maria Teresa, e che risente delle esperienze londinesi (Händel incluso). Opera in tutto e per tutto settecentesca, austera, impettita e un po’ retorica e stucchevole, senza molti cedimenti a compromessi armonici.
___
Vi si possono distinguere tre sezioni: la prima (Allegro) propone il tema gregoriano del TeDeum, in DO maggiore, seguito da una canonica modulazione alla dominante SOL (Tibi omnes Angeli) a preparare la tonalità del Sanctus. Sul Tu rex gloriae Christe torna il tema del Te Deum in DO maggiore, che si chiude (sul venturus) con un accordo tenuto di settima (SI-FA-RE-SOL, dai soprani ai bassi). Un DO pure tenuto dell’orchestra chiude questa prima parte del brano.

Ora (Te ergo quaesumus) si passa a DO minore (Adagio) ma per sole 9 misure, dopodiché (Aeterna fac) si torna al DO maggiore, in Allegro moderato. Ora si modula a LA minore (Dignare Domine) fino ad una nuova fermata (nos) prima del Miserere Domine, dove si passa fugacemente al FA maggiore, e da qui al definitivo ritorno al luminoso DO maggiore (Quem ad modum speravimus) che porta alla conclusione fugata sul non confundar.
___
Devo ammettere che è musica che non mi entusiasma molto (come quasi tutta la musica di circostanza) ma proprio per questo meritano applausi e stima gli esecutori che l’hanno offerta in modo impeccabile.

A questo punto abbiamo un primo intermezzo, con due canti del Coro dei missionari di San Carlo Borromeo  e del Coro serbo bizantino Moisey Petrovich, prima dei due lavori di Brahms, praticamente coevi e caratterizzati da quel pessimismo sottile, ma mai nichilista, che traspare dalle composizioni con voce del burbero amburghese, ma che in fondo emerge anche nella sua produzione puramente strumentale. 

La Rhapsodie (Rapsodia per contralto, coro maschile e orchestra op. 53) è del 1869 e presenta tre strofe (la quinta, sesta e settima, di 6, 8 e 8 versi rispettivamente) delle 11 del poema Harzreise im Winter di Goethe. Che si basa su una storia vera e racconta di un’anima in pena (nella realtà tale Victor Leberecht Plessing, plagiato dal Werther) un misantropo che ha in odio il mondo e vaga per boschi in preda al suo egoismo e al suo nichilismo. Ma ecco uno squarcio di flebile speranza: in qualcosa di soprannaturale, precisamente nella musica che, chissà, non possa consolare il suo cuore. (Pare che qui ci sia anche qualcosa di autobiografico, una specie di magone che Brahms provò allorquando Julie - figlia di Robert e Clara Schumann - di cui lui si era infatuato, prese marito…)
___
Sono 175 battute in totale, che iniziano con un Adagio (4/4 in Do minore, con divagazioni a SIb, LAb e REb) dove l’orchestra, per 18 battute, introduce la prima strofa, che descrive il vagabondare dell’individuo in piena solitudine. L’orchestra (i violini hanno sempre la sordina per le prime due strofe) si muove prevalentemente per gradi congiunti, su scale discendenti (a testimoniare della depressione che attanaglia l’anima in pena) negli archi e ascendenti nei fiati, che anticipano motivi che udiremo poco dopo.

Infatti a misura 18 ha inizio l’Arioso, che caratterizza la prima strofa del canto; qui la voce comincia ad introdurre intervalli più ampi, che caratterizzeranno l’intero brano: prima un RE-FA (Abseits) poi un DO-MIb (ihm) sempre discendenti, intervalli che culminano in un’abissale nona (DO-SI) sulla parola Öde (solitudine, appunto) che chiude il recitativo introduttivo.

A misura 48 si passa in Poco Andante (6/4, ma con la voce che spesso si muove in 3/2)  per l’esposizione della seconda strofa (in forma di Aria con struttura A-B-A’, dove in A’ vengono ripetuti i primi 4 versi) carica di pessimismo sulla sorte dell’individuo cui è venuto in odio l’intero universo. Anche qui troviamo melodie poco mosse (ad esempio quelle che caratterizzano la sezione B, secondi 4 versi) ma con irruzioni repentine di ampi intervalli, come quelli che si odono sulla parola Menschenhaß (odio per l’umanità): prima REb-MI, poi (nella ripetizione della semistrofa, A’) REb-REb e MI-MI; o come quelli che sottolineano il concetto opposto (aus der Fülle der Liebe Trank, dalla pienezza dell’Amore): nella prima sezione (A, seconda esternazione) abbiamo REb-REb (ottava discendente) poi SI-FA (12ma ascendente!):

che nella ripetizione (A’) scendono di un semitono, e diventano DO-DO e LA#-MI. Il trank viene quindi raggiunto sul SOL maggiore (anziché sul LAb) e da qui una semplice modulazione da tonica a dominante prepara il DO maggiore del Finale.

E a misura 116 (Adagio, 4/4, DO maggiore) ha appunto inizio la strofa conclusiva, con l’intervento del Coro maschile a supportare – talvolta in contrappunto - il canto del contralto. Il quale è ancora caratterizzato da ampi intervalli sonori, ora però del tutto rassicuranti e sereni, come la sequenza SOL-DO(ascendente)-MI-RE(discendente) sulla parola Liebe, e ancora l’ottava discendente seguita da una settima ascendente (DO-DO-SI) sul verso Ein Ton seinem Ohre:

Brahms impiegherà qualche tempo dopo il motivo di Ist auf deinem Psalter nell’ultimo dei Neue Liebeslieder, op. 65, come accompagnamento nel basso (mano sinistra del secondo pianoforte):

La struttura del Finale è abbastanza singolare: dal punto di vista del testo si potrebbe definire come A-B-A’, dove A sono i primi 4 versi, B i secondi 4 e A’ ancora i primi 4, con reiterazione finale del quarto verso. Invece se guardiamo la musica, dovremmo definirla come A-B-A-B’, dove B’ è il motivo musicale che caratterizza la seconda parte della strofa, impiegato per supportare la finale reiterazione del quarto verso:

Questo motivo (che sottolinea il quinto verso della strofa) compare per la prima volta a misura 128, su un subitaneo passaggio dal DO al MIb, e viene poi sottoposto a tutta una serie di modulazioni. Dapprima a SI maggiore, fra la chiusa dell’ottavo verso nella voce solista e la sua ripetizione nelle voci del coro; poi a SOL maggiore, dopo che il coro ha chiuso l’ottavo verso e in preparazione del ritorno a DO maggiore per la ripresa (A) dei primi 4 versi. La sezione che ho indicato come B’, dove si reitera il quarto verso, principia col ritorno, nel flauto, del motivo nella tonalità di MIb; poi, dopo il primo erquicke del contralto, lo udiamo per l’ultima volta in LAb.

La chiusa continua a reiterare il verso erquicke sein Herz, muovendo dal LAb verso il FA e da qui, con una incredibile serie di modulazioni in poco più di tre battute, ci porta lungo il ciclo delle quinte a SIb, MIb, LAb e REb. Da dove, per scivolamento, si ritorna al DO per la cadenza conclusiva.

Da Brahms a Mahler? Sappiamo come Mahler fosse ammiratore e critico allo stesso tempo del vecchio maestro (che a Vienna gli aveva impietosamente bocciato il suo giovanile Klagende Lied, ma poi lo aveva rivalutato come direttore, ascoltandone uno straordinario DonGiovanni). Fatto sta che non si possono non rilevare contatti o analogie fra la Rhapsodie e il mahleriano Abschied. Nel quale troviamo il verso Ich suche Ruhe für mein einsam Herz (cerco riposo al mio cuore solitario) che riecheggia l’ultimo verso che udiamo nella Rhapsodie. Sono quei vaghi e subliminali rimandi (testuali, se non musicali) di cui è infarcita la storia della musica occidentale, un fenomeno che paradossalmente non è stato ancora studiato in tutte le sue più intime caratteristiche e implicazioni.
___

Ekaterina Gubanova ce l’ha proposta con dignità e garbo, pur se la voce non è delle più penetranti  e gli attacchi non sempre impeccabili. Altro intermezzo con una specie di tenzone canora fra bassi: dapprima il solista dei Lama tibetani, che emette suoni gutturali, quasi da ventriloquo, poi quello del Coro moscovita, che si esibisce in una specie di salmo moderno.

Muti risale sul podio per lo Schicksalslied (Canto del Destino, per coro e orchestra,  op. 54) composto fra il 1868 e il 71 su testo di Friedrich Hölderlin (tre strofe di 6, 9 e 9 versi). Se analizziamo il testo scopriamo una specie di specularità con quello goethiano della Rhapsodie. Là avevamo due strofe cupe e disperate, seguite da una terza vagamente consolatoria, qui invece il contrario: due strofe eteree e luminose (dove si descrive la perennemente serena esistenza dei geni soprannaturali, del tutto esenti da ogni forma di destino) seguite da una terza in cui si prende invece atto dell’eterna infelicità che caratterizza la natura degli Uomini, che sono appunto destinati a non trovare mai pace, né rimedio alle loro ansie.     
Brahms, sempre per quella sua innata contrarietà ad avallare posizioni nichiliste, volle aggiungere una conclusione serena – sia pure solo in suoni e non in parole - in ciò contraddicendo però l’autore del testo e lo stesso spirito del poema. E la cosa gli pesò assai, e forse giustificò i quasi tre anni di oblìo in cui lasciò cadere il lavoro, prima di decidersi finalmente – ma senza esserne del tutto convinto - a pubblicarlo.
___    
Il brano consta di 409 misure e si articola in tre parti: Langsam und sehnsuchtsvoll (Lento e pieno di anelito) 4/4 in MIb maggiore, che contiene l’Introduzione strumentale di 28 misure e il canto delle prime due strofe (75 misure); Allegro, 3/4 in DO minore, 276 misure che presentano, reiterandola, la terza strofa; Adagio, 4/4 in DO maggiore, 30 misure che contengono la conclusione puramente strumentale.

L’introduzione serve a preparare l’atmosfera rarefatta e luminosa in cui si muovono i geni beati, su morbidi tappeti di nuvolette, accarezzati dalle divine brezze (par di vedere la pubblicità di un famoso caffè, smile!) Dai primi violini, alle misure 19-20, scaturisce quasi inavvertitamente un motivo che fra poco aprirà il canto della prima strofa.  

La quale viene esposta da misura 29 (e fino a 63) inizialmente dai soli contralti che ne cantano i primi due versi, con gli strumentini a disegnare dolci arabeschi che evocano uno scenario di olimpica pace. E, a proposito di Olimpo, sarà un caso che le prime quattro note del motivo che udiamo (ripreso subito dall’intero coro e dagli archi) e che i violini avevano fugacemente preannunciato poco prima, vengano dal mozartiano Molto Allegro della Jupiter?

Dopo che il coro ha chiuso i primi due versi, nel MIb di impianto, ecco una subitanea modulazione a DO (sono le splendenti brezze divine!) sulla quale vengono esposti il terzo e quarto verso, subito ripetuti modulando ulteriormente a SIb (dominante del MIb). In questa tonalità udiamo anche il quinto e sesto verso, pure ripetuti, che iniziano con il motivo principale, ma poi divagano assai, in particolare su Wie die Finger, e la strofa si chiude sospesa sulla dominante FA.

Un breve interludio di 5 misure, dove udiamo il motivo principale, sempre in SIb, nei corni accompagnati da svolazzi degli strumentini, riporta la tonalità a MIb per l’esposizione della seconda strofa (da misura 69 a 96).

I primi due versi (da Schicksallos) sono musicati secondo una variante di quelli della prima strofa, i successivi quattro (da Keusch bewahrt) su un nuovo motivo che dapprima sale per gradi congiunti (dal DO al FA) per scendere sulla tonica, e poi ridiscende sulla mediante SOL in due misure cantate dal solo coro.

Curiosamente, dopo il verso Ihnen der Geist, il flauto propone un inciso (ripreso subito dopo dai soprani sulle parole Augen Blikken) che viene – tonalità inclusa - direttamente dall’Allegro iniziale della Sinfonia K543 (la n°39) di Mozart:

I restanti tre versi della strofa (gli ultimi due ripetuti) chiudono in MIb lo scenario celeste, ma con qualche ombra (i due SOLb che offuscano in minore la melodia); è una cadenza di 8 misure, che ricorda la conclusione dell’Introduzione (con le salite al MIb acuto) a preparare il passaggio al… destino cinico e baro che governa il mondo degli umani. 

Ecco quindi, a misura 104, l’Allegro, nella cui struttura trovano posto due ripetizioni dell’ultima strofa, ma assai diverse fra loro, pur con qualche tratto in comune. È introdotto da altre 8 battute strumentali degli archi (con sporadici secchi e dissonanti accordi degli ottoni) che si agitano con sinistre crome ribattute fino al termine della prima esposizione della strofa, a misura 172.

Il coro, da misura 111, canta in sincrono (proprio a cappella) su una melodia che per i primi quattro versi pare quasi richiamare le cupe esternazioni dei marinai dell’Holländer (terzo atto); poi un primo tremendo accordo in fortissimo su un intervallo di seconda minore discendente (LAb-SOL) sottolinea la parola Blindlings (il cieco errare, da un’ora all’altra); ancora, sui versi Wie Wasser von Klippe Zu Klippe geworfen (come acqua sbattuta di rupe in rupe - qualcosa del genere si trova, peraltro in atmosfera serena, nel goethiano Gesang der Geister über den Wassern) abbiamo un'onomatopeica serie di semiminime sincopate, ad evocare il susseguirsi delle cascatelle che cadono, chiusa da un nuovo grido (Jahrlang) stavolta sul SOL. Altro schianto, sulla dominante, al termine dell’ultimo verso (Ins Ungewisse hinab, letteralmente: in abissali insondabilità). L’ultimo verso è ancora ripetuto, piano, dal coro, prima che 22 misure strumentali portino alla riproposizione dell’intera strofa, da misura 193.

La seconda esposizione della strofa del destino umano ha caratteristiche abbastanza diverse dalla prima: intanto, è per buona parte cantata in contrappunto ed anche la melodia è sottilmente variata. Inoltre ci sono più ripetizioni dei primi due versi, mentre dal terzo verso si ripercorre abbastanza coerentemente, ma con diverse altezze, la prima esposizione, incluso l’urlo sul Blindlings e quello su Jahrlang. Anche l’ultimo verso viene reiterato più volte (dall’intero coro, poi da soprani e tenori, finalmente da contralti e bassi) come a non lasciare speranze di fronte allo sprofondamento negli abissi insondabili.    

A misura 364 si chiude il canto e si trova una coda di 16 misure dove la musica sembra perdersi proprio nel nulla.

Ma a misura 380 ecco l’iniziativa (discutibile?) di Brahms: dal DO minore si transita al maggiore, dove riascoltiamo, solo negli strumenti, la serena melodia dell’Introduzione che ci conduce alla chiusa sull’accordo perfetto di DO maggiore di tutta l’orchestra, in pianissimo.
___
Eccellente la prestazione di orchestra e coro, diretti proprio a bacchetta dal ravennate d’adozione.

Ora ecco una nuova irruzione: sono due gruppi italiani, che entrano dal fondo della sala: i Memento Domini di Mussomeli e I lamentatori di Marianopoli, che si esibiscono nelle loro lamentazioni, rispettivamente in latino e in siculo. Ancora un canto della Drolma, e poi la chiusura del programma, con l’Ave Verum Corpus di Mozart.  

Anche questo è un pezzo composto praticamente su ordinazione (o per saldare un debito, fa lo stesso) ma il Teofilo non si smentisce mai e così ne cava un gioiellino sublime. E talmente universale, nel suo messaggio, che Muti, dopo averlo fatto eseguire una prima volta ai complessi canonici, lo ripete invitando al canto anche i quattro cori dei monaci. Ripagato alla fine con una bianca e lunga stola, evidente simbolo di ecumenismo religioso.

E così finisce davvero in gloria questa specialissima serata di universale volemmose bbene… Risalito in automobile, in una serata finalmente fresca dopo una giornata di sbifido e snervante garbino che aveva imperversato sulla costa romagnola, faccio a tempo ad ascoltare le ultime parole pronunciate da Muti, intervistato per Radio3 da Giovanni Vitali: un appello ad investire di più nell’istruzione musicale. Vien quasi da ridere, in tempi di spending review    

05 luglio, 2012

DonPasquale alla Scala… col SI bemolle


Ieri sera alla Scala (scandalosamente semivuota in platea e palchi) terza rappresentazione (col cosiddetto secondo cast) del DonPasquale di Gaetano Donizetti, in una produzione del Teatro Comunale di Firenze ripresa dall’Accademia della Scala.

Comincio con una piccola curiosità. La locandina del teatro esplicita che si tratta della Revisione, secondo la partitura autografa, di Piero Rattalino. Il quale ci ragguaglia – sul programma di sala – in merito a tanti piccoli particolari in cui l’originale autografo e le edizioni successivamente impiegate divergono. Uno di questi - il primo citato dal revisore - riguarda una nota del corno in DO, che a battuta 23 della Sinfonia risponde al violoncello che aveva esposto la prima sezione del tema (in FA maggiore) Com’è gentil (quello che Ernesto canterà a mo’ di serenata – in LA maggiore - nel terzo atto). La terza nota (che si ripete 4 battute più avanti) viene solitamente, e come da tradizione, eseguita come SI naturale (è la cosa che sembrerebbe più… naturale, appunto):

Rattalino ha invece scoperto sugli autografi che quello sarebbe un – abbastanza bizzarro, si direbbe a prima vista – SI bemolle. Ma in realtà è proprio il motivo cantato da Ernesto che lascia teoricamente aperte entrambe le possibilità, in quanto vi compaiono in successione le due diverse figurazioni:
Adesso, tutto questo stucchevole tormentone non avrebbe alcun senso se non vi dicessi come il corno accademico scaligero ha suonato quella nota; ebbene: proprio un SI bemolle, che magari qualcuno avrà scambiato per una stonatura (smile!)

A parte questo dettaglio (e altri su cui non val la pena soffermarsi) Rattalino riporta un’interessante considerazione riguardo la strumentazione dell’opera, che potrebbe essere, per così dire, male interpretata, con il risultato di appesantirne eccessivamente il tessuto musicale: fa l’esempio dei tre tromboni, che suonano quasi sempre le stesse linee, e che potrebbero ingrassare i suoni in modo eccessivo, dato che oggi si dispone degli strumenti a coulisse, assai più corposi di quelli a pistoni in uso ai tempi di Donizetti.

Non è un caso che gli stessi concetti esprima Riccardo Muti in questo video ripreso alle prove aperte del DonPasquale di Piacenza, nel 2006, ricordando gli ascendenti napoletani e mozartiani dell’opera. E dove il maeschtro non perde l’occasione (3:20 nel video) per confutare il luogo comune che attribuisce alla musica capacità descrittive

A me è parso che Enrique Mazzola abbia sostanzialmente seguito i dettami di Rattalino e Muti, cercando di evitare ogni appesantimento eccessivo del suono, sempre tenuto su livelli di accettabile trasparenza. Nella Sinfonia ha accentuato in modo forse esagerato alcuni salti di tempo (come il Più Allegro e il Più stretto ai numeri 5 e 6 della partitura) creando effetti magari interessanti, ma un pochino pacchiani. Comunque a lui e ai ragazzi strumentisti dell’Accademia va un doveroso plauso per l’ottimo livello dell’esecuzione. Una citazione particolare per William Castaldi, prima tromba, per come ha eseguito la lunga melodia (cantabile) che introduce il lamento di Ernesto all’inizio del second’atto. (Chissà perché a me ricorda sempre il Deguello di Dimitri Tiomkin, nel western Un dollaro d’onore…)   

E a proposito di reminiscenze, DonPasquale era un’opera praticamente fuori tempo già al suo apparire, in uno scenario musicale dove il comico era ormai scomparso e tutt’al più sopravviveva il genere semiserio. Eppure lo straordinario carico di novità che contiene ne ha garantito non solo il successo immediato, ma la presenza stabile nel repertorio di teatri, direttori e cantanti. E nell’opera si trovano spunti che altri hanno preso a modello: ad esempio, non è dato sapere con certezza se Wagner ebbe modo di ascoltarla, ma di certo l’atmosfera di Ah, un foco insolito, che il patetico DonPasquale canta nell’Introduzione, tutto eccitato dopo che Malatesta gli ha magnificato le doti della futura moglie, sembra ritrovarsi nell’esternazione del patetico Beckmesser (terzo atto dei Meistersinger) dopo che ha avuto da Sachs il permesso di impiegare il suo Lied per la tenzone canora.

Gli interpreti di ieri hanno fatto del loro meglio per mettere in risalto le caratteristiche (psico-)musicali dei diversi personaggi: il senescente incartapecorito, ma ringalluzzito Don, che Nicola Alaimo ha impersonato con bravura scenica e discreta prestazione vocale (sorvolerò su qualche sguaiatezza…); lo sbifido faccendiere Malatesta, che Filippo Polinelli ha ben proposto sul piano scenico, con qualche riserva invece su quello della voce, non sempre penetrante; il pavido Ernesto, cui Leonardo Cortellazzi ha prestato la sua voce piccola, ma ben impostata e gradevole; la birbantella intraprendente Norina, che Ludmilla Bauerfeldt (forse la migliore del gruppo) ha caratterizzato in modo assai efficace, proprio sul piano musicale; e il notaio, una particina musicalmente davvero esigua, ma che Mikeil Kiria – grazie al regista - ha interpretato con efficacia. Su un buon livello il coro di Alfonso Cajani.

E a proposito di regìa, direi che l’allestimento di Jonathan Miller – assolutamente tradizionale – è quanto mai gradevole e in sintonia con lo spirito dell’opera. La scena è immutabile e mostra la sezione della casa di DonPasquale, disposta su tre livelli (il più alto credo poco visibile dalla seconda galleria…) con le diverse stanze in cui si muovono i protagonisti.

Due gigantesche ante si aprono a inizio opera per mostrarcela e si richiudono nel terzo atto, a partire dalla scena nel boschetto. Al piano terra di norma si muovono tre domestiche, addette più che altro a faccende di cucina (tipo tirare la sfoglia col mattarello) che intrattengono ospiti in attesa di essere ricevuti in casa: dapprima Malatesta e poi il Notaio, che se la spassano mangiando e bevendo mentre al piano superiore il Don se la vede con Ernesto (atto I) e poi ci si prepara alla registrazione del finto matrimonio (atto II): sono siparietti simpatici, anche se proprio per questo rischiano di distrarre l’attenzione dello spettatore da ciò che accade di sopra…

La fissità della scena comporta che la casa del Don sia anche quella di… Norina. E non a caso perciò, all’apertura del sipario, vediamo il Don che sta per alzarsi da letto, al primo piano, mentre al secondo (toh!) Ernesto e Norina concludono evidentemente una simpatica notte, con la ragazza in pigiama che sale ulteriormente le scale, scomparendo alla vista, per poi ritornare a fine atto per la sua cavatina.

All’inizio dell’atto III abbiamo anche un inserto pubblicitario, allorquando il piano terra viene invaso da scatoloni rosa colmi di capi d’abbigliamento ordinati dalla vulcanica Norina, e recanti con grandi e ben leggibili scritte i marchi Versace, Prada, Gucci e Valentino: forse per invitare il pubblico popolare di una serata come questa a vestirsi come quello del 7 dicembre (smile!)

Tirando le somme, uno spettacolo godibile, che dai loggioni (unica parte abitata del teatro) è stato accolto con favore.
  

03 luglio, 2012

La povera Manon della Scala


Je ne suis qu’une pauvre fille, ammette Manon al primo incontro con DesGrieux… e proprio mal messa è stata fin dal suo nascere questa produzione scaligera dell’opera di Massenet. Che ha perso una dopo l‘altra - e in circostanze che stanno fra il comico e il disdicevole – entrambe le primedonne chiamate ad interpretare il personaggio del titolo. Di cui è divenuta forzatamente titolare a tempo pieno colei che avrebbe dovuto fare da riserva, dando solo pochi cambi alle suddette primedonne.

Se a ciò si aggiunge una delle solite regìe un po’ lunatiche (nel senso di… fatte con le natiche, smile!) si ha un’idea della mediocrità (relativamente al sempre più millantato e sempre meno certificabile blasone del Teatro milanese) di questa proposta, che viene peraltro da grandi istituzioni come la ROH, il MET e il Capitole di Tolosa (mal comune, mezzo…) Insomma: uno spettacolo appena appena passabile, e principalmente grazie al carisma di Fabio Luisi.

Ermonela Jaho ha un fisico minuto assai adatto ad impersonare questa sedicenne vulcanica, impulsiva, viziata e irresponsabile (almeno al pari dei familiari che la spediscono in convento da sola, caricandola su una diligenza, smile!) Quanto alla voce non mi è dispiaciuta, specialmente nelle parti più acute, mentre l’ho trovata un po’ opaca nelle note più gravi. In complesso la sua è stata una prestazione onorevole e non è detto che l’essersi ritrovata titolare per tutte le recite, al posto delle blasonate e indisposte colleghe, non le abbia fatto bene.

Il DesGrieux di Matthew Polenzani ha una voce tanto piacevole quanto piccola e perdentesi nell’enorme spazio del Piermarini. Discreto nelle parti più intimistiche della partitura, poco efficace in quelle che richiedono slancio e apertura. Per impersonare un diciottenne, ha un fisico un filino appesantito, ma comunque più appropriato di quello di certi tenori (di ieri e di oggi) che passano il quintale (smile!)       

I comprimari hanno – chi più chi meno - più che altro vociferato le loro parti, nessuno sollevandosi da una generale mediocrità. Un po’ meglio ha fatto il coro di Casoni.

Come detto, l’unica nota veramente positiva di questa produzione è, a mio avviso, la concertazione di Luisi, che ha saputo cavar fuori assai bene tutti i diversi accenti – dall’esuberanza delle scene di massa, agli squarci intimistici e strappalacrime - di questa partitura. E l’orchestra mi è parsa assecondarlo in tutto e per tutto. Non so da cosa siano giustificati i tagli apportati alla musica: se dalla preoccupazione per la durata complessiva, allora una soluzione meno barbara e più… musicale ci sarebbe: accorciare di almeno 10 minuti i due intervalli!

Su una regìa come questa di Laurent Pelly non si possono che avanzare i soliti dubbi. Intanto, la pervicacia con cui ci si accanisce a spostare l’ambientazione di opere come questa - dall’originale, 1721, al tempo in cui l’opera stessa fu composta, 160 anni dopo – è veramente insensata: non aggiunge un’unghia di valore e in compenso butta nel cestino tutti i riferimenti musicali che il compositore così mirabilmente e faticosamente aveva introdotto nella partitura. Il siparietto all’Opera ne è solo un esempio qualunque: sulle note che rimandano al barocco noi vediamo una sceneggiata degna dello squallido mondo dei soci del Jockey-Club, che a fine spettacolo prendono di peso le ballerine e se le caricano in spalla per portarsele evidentemente a letto…

Il quale letto – è noto – fa parte del normale arredamento di una cappella (smile!) Dove Manon, appunto mettendosi a letto, convince l’apprendista-abate DesGrieux a tornare a godere con lei i piaceri dell’alcova… mah!

Una nota critica anche per le scene: già dalla prima galleria (immaginiamo poi dalla seconda) restano completamente tagliate agli occhi dello spettatore le parti superiori della scenografia, dove si dovrebbero vedere panorami cittadini e dove si aggirano, in specie nel primo atto, anche alcuni personaggi: evidentemente i loggionisti non sono la prima preoccupazione del teatro…

Pubblico non oceanico e applausetti di cortesia.

29 giugno, 2012

Orchestraverdi – concerto n°38 – Andrea Chénier (+Balotelli)


L’ultima fatica stagionale per laVerdi è stata uno specialissimo appuntamento con l’opera: Andrea Chénier.

Non è un primo incontro in assoluto, chè l’orchestra già in passato si è cimentata con il dramma di Illica-Giordano (e lo ha inciso, con la coppia Dessì-Armiliato) ma certo segna un importante passo nell’evoluzione dell’orchestra verso traguardi sempre più ambiziosi.

Sul podio Jader Bignamini, che è entrato qualche anno fa a laVerdi come strumentista (di clarinetto piccolo) e si è poi specializzato nella direzione: oggi è Direttore Associato dell’Orchestra, di cui è in pratica il preparatore.

L’Andrea è l’opera che diede notorietà al 29enne Umberto Giordano, con un grande successo alla prima in Scala (28 marzo 1896). Nemmeno un anno dopo (5 febbraio 1897) analogo successo arrise all’opera ad Amburgo, dove Gustav Mahler (in procinto di trasferirsi a Vienna) ne diresse la prima tedesca.

Vi si sente l’irresistibile influsso wagneriano (il compositore ammise di essere stato praticamente stregato da Lohengrin): dalla melodia infinita alle modulazioni continue (tanto che Giordano – piuttosto bizzarramente, quasi anticipando l’atonalismo – sulla partitura evita ogni indicazione di accidenti in chiave) al richiamo di atmosfere da Tristan e persino da Parsifal.

Splendida l’esecuzione dell’Orchestra, che Bignamini guida col piglio di un direttore navigato, e notevole quella del Coro di Erina Gambarini.

Sul fronte delle voci, Marcello Giordani ci mette tutta la sua esperienza e il suo mestiere per renderci uno Chénier appassionato e trascinante, facendo passare in secondo piano i problemi di usura del suo mezzo.

La sua pupilla, l’enorme (fisicamente parlando) Natalie Bergeron è stata una Maddalena più che discreta: è giovane e non potrà che migliorare, perché la voce c’è e come!

Alberto Gazale, nei panni di Carlo Gérard (questo personaggio dalla natura cangiante: servitore, poi rivoluzionario, quindi cinico approfittatore del suo potere, un po’ come Scarpia, ma alla fine pentito e altruista) è stato il migliore della compagnia, per portamento ed espressione.

Bravissima anche Clara Calanna, nella parte piccola ma importante di Madelon; e poi, diciamo la verità, l’esecuzione in forma di concerto ci ha dato la possibilità di ammirarne anche le procaci forme, cosa che a teatro ci sarebbe preclusa, data la natura stessa del personaggio di nonna vecchia e morente (smile!)

Tutti su un livello accettabile gli altri protagonisti: in primo luogo la Bersi di Valeria Sepe; e poi Lara Rotili (Contessa di Coigny); Mattia Denti (Roucher, Fouquier Tinville e Maestro di casa); Giovanni Guagliardo (Mathieu); Francesco Pittari (Un incredibile e Abatino); Gianluca Tumino (Fléville); Emanuele Cordaro (Schmidt e Dumas).

Applausi a scena aperta per Giordani, Bergeron e Gazale, dopo le rispettive arie principali; grandi applausi al termine della prima parte (Quadri I e II) dove Giordani ci aggiorna su Italia-Germania (1-0 del Balotelli, a quel momento).

Ovazioni a non finire per tutti al termine dell’opera, dopo ripetute chiamate. Qui è Bignamini a chiudere con l’annuncio del trionfo azzurro: 2-0! (Il punteggio preciso me lo aggiornerà, affiancandomi ad un semaforo sulla circonvallazione interna, un ragazzo filippino, sul suo scooter attrezzato con la caratteristica cassa gialla da trasporto di pizza a domicilio… In Corso BuenosAires, sventolio di bandiere tricolori, agitate da gente dai tratti cinesi, cingalesi, magrebini, centroafricani e andini: insomma italiani che qualcuno, qui al nord, insiste ancora a definire… nemici della patria).   

Chiusa la stagione concertistica principale e dato appuntamento per la prossima (che come al solito aprirà i battenti alla Scala il 9 settembre) laVerdi resta aperta per l’estate con una simpatica iniziativa organizzata in collaborazione con il Comune di Milano (come si vede che c’è una Giunta diversa dal passato!) 

24 giugno, 2012

Maschere a Torino


Quarta replica ieri al Regio del Ballo verdiano, in una ripresa dell’allestimento di qualche anno fa, con regìa dell’italo-yankee – Direttore artistico del Massimo palermitano - Lorenzo Mariani. Trasmessa – in prima – martedi da Radio3 e poi (anche in streaming, ohibò) giovedi da RAI5.

Che la torbida vicenda dell’attentato a Gustavo III di Svezia dovesse diventare oggetto di libretti per opere teatrali era quasi una predestinazione (smile!) dal momento che il luogo in cui il Re venne sparato alla schiena da un suo militare (Jacob Johan Anckarström) durante un ballo mascherato, il 16 marzo 1792 (morirà 13 giorni dopo) era precisamente il Teatro Reale dell’Opera che lo stesso Re, amante di letteratura e musica, aveva fatto costruire 10 anni prima:

Invece, che il movente dell’attentato fosse di natura sentimentale (le presunte corna che il Re avrebbe fatto al suo militare) pare frutto della fervida fantasia di un librettista come Scribe (autore del testo musicato da Auber un quarto di secolo prima di Verdi, e preso a modello da Antonio Somma e prima ancora da Cammarano per Il Reggente di Mercadante): sembra infatti che il Re (pur avendo avuto una moglie, destinatagli per ragioni dinastiche quando lui aveva… 5 anni) fosse un incallito omosessuale! Il che potrebbe gettare una certa luce sul personaggio – inventato pure quello – di Oscar…

Quanto al trasferimento dell’ambientazione e dei protagonisti (imposti, come noto, dalle solerti censure di Napoli prima e Roma poi) va riconosciuta a Somma (ma anche a Verdi che ci mise lo zampino) una notevole perspicacia, essendo lui riuscito a trovare uno scenario – pur di là dall’Atlantico, con annessa retrodatazione di un secolo e con personaggi non regali – sul quale far calzare quasi a pennello tutti gli aspetti realistici e financo storici della vicenda svedese.    

Ad esempio, la questione della sibilla Ulrica. La vera Ulrica Arfvidsson visse fino alla fine del ‘700 in un appartamento di Stoccolma, esercitandovi normalmente la professione di indovina, addirittura rispettata e tenuta in gran considerazione anche dai nobili e dallo stesso Gustavo III: fu Scribe a inventarsi – poco plausibilmente - la storia della sua condanna all’esilio, giusto per colorire un pochino le motivazioni del Re a farle visita. Invece Somma, nella sua forzata trasposizione, riuscì a fare di meglio: infatti proprio alla fine del ‘600, quando ancora il Massachusetts era colonia britannica, vi erano proliferate in modo assai vasto le pratiche di stregoneria, riguardo le quali ci sono rimasti documenti ufficiali di corposi processi, come i Salem Witch Trials; quindi il bando proposto per Ulrica nel libretto italiano è assai più realisticamente (e storicamente) plausibile, rispetto a Scribe. (In compenso Somma – che pure era un libero pensatore e irredentista - non perse l’occasione per buttare lì, en passant, un luogo comune razzista, mettendo in bocca al Giudice uno sprezzante: S'appella Ulrica, dell'immondo sangue dei negri).

Quanto al protagonista, che Somma trasforma dal Re di Svezia nel Conte di Warwich, governatore di Boston, l’unico indizio di una certa attinenza storica porta a tale Robert Rich, secondo Conte di Warwich, che si occupò a lungo di amministrazione di colonie, divenendo anche proprietario di immensi latifondi nell’est dell’America e azionista di diverse società commerciali (peraltro morì nel 1658, quindi assai prima della fine del secolo XVII in cui Somma colloca la vicenda). Invece un governatore di Boston di fine-600 che ebbe diversi problemi politici con i suoi militari (un po’ come il Riccardo di Somma) fu tale William Phips (che peraltro morì nel suo letto, in Inghilterra).

Comunque sia, va dato atto a Somma di aver messo in piedi, date le circostanze, uno scenario più che plausibile – e soprattutto coerente con le aspettative di Verdi - per il suo Ballo. Negli ultimi decenni – assenti censure borboniche o papaline – abbiamo assistito anche alla proposizione dell’idea originale, con ambientazione e personaggi svedesi, a cominciare dall’allestimento del Maggio nel 1963, ripreso alla Fenice nel 1999.

Ebbene, per giustificare la parcella, Lorenzo Mariani si inventa qualcosa di diverso ancora, per la verità non ben definito. «L’azione non si svolge nel Settecento americano come previsto dal libretto, ma è ambientata tra gli anni Venti e Trenta del ‘900: come se il governatore Riccardo fosse il viceré dell’India o di un’altra colonia». Questo leggiamo sul comunicato-stampa del teatro.

Ora, a parte che il Settecento americano non sta né nel libretto di Somma (dove è un Seicento) né in quello di Scribe (dove è svedese) l’ambientazione di Mariani non sembra nemmeno di 80-90 anni fa, come lui sostiene, ma genericamente collocata in tempi moderni e in luoghi indecifrabili o del tutto immaginari, e con personaggi ancora meno storicamente caratterizzati. Il che può anche fare poco danno, stante il contenuto del dramma, decisamente orientato alla sfera dei sentimenti privati assai più che a quella delle pubbliche istituzioni. (Però bisognerà pur ricordare ai registi quanto Verdi ci tenesse ad avere un soggetto con solide basi storiche, che conferissero al plot, e quindi alla musica che lui ci componeva sopra, un’aureola di importanza e un pedigree di alto livello – proprio in quel periodo Verdi pensava insistentemente a una cosuccia tipo Re Lear!) 

Ma non si vede d'altronde quale valore aggiunto porti una regìa come questa, che ci trasferisce in una specie di Repubblica di Bananas e in ambienti che sanno più di avanspettacolo che di opera seria, per cui, se lo spettatore facesse mente locale al testo (costato tanta fatica al povero Somma) dovrebbe sghignazzare ad ogni piè sospinto, tanta e tale è la dissociazione fra ciò che si ascolta e ciò che si vede.

Insomma, caro Mariani, potevi fare di più e di meglio, lasciatelo dire! Eppure, volendo proprio-proprio applicare i principi del Regietheater e portare la vicenda ai giorni nostri per rendercela più digeribile, di spunti ce ne sarebbero assai. Ad esempio: fare di Riccardo il Sindaco di una cittadina di provincia, il cui Segretario comunale sia Renato, dotato di moglie-gnocca, con Oscar nei panni del Messo comunale, Sam&Tom in quelli di due Consiglieri di minoranza, e Ulrica impersonificata da una pescivendola che a tempo perso scrive oroscopi sul giornalino locale. Oppure ispirarsi al mondo del business, dove Riccardo è il CEO di un gruppo industriale, Renato il suo General manager (basta che abbia una moglie-gnocca) Oscar il Public-relations manager, Sam&Tom due Executives licenziati in tronco e Ulrica la responsabile del Forecasting del gruppo. Un altro ambientino da prendere di mira potrebbe essere la struttura di potere della Chiesa Cattolica (dove magari al posto della moglie-gnocca si metta un qualche efebo canadese…)

Le scene (a parte la conclusiva mascherata, fin troppo carica di colori e festoni) sono anonime e fredde. La qual cosa si addice, più o meno, esclusivamente all’ambiente del campo dei patiboli del second’atto (con tanto di cappi pendenti) ma che per il resto pare del tutto fuori luogo.

Quanto alla caratterizzazione dei personaggi principali, va ricordato che il Riccardo di Somma-Verdi non è un Re, vero, ma soltanto perché la censura lo impedì, mentre ha di fatto e precisamente tutti i tratti del Gustavo III di Scribe, da cui fu mutuato quasi alla lettera: un sovrano accentratore sì, ma illuminato, aperto a riforme e – come nella realtà – amante dell’arte e della cultura. I suoi tratti gioviali e persino canzonatori (vedi i rapporti con Ulrica o la propensione al divertimento) sono comunque sempre improntati a senso estetico e nobiltà, mai sguaiati o truculenti. Purtroppo non è ciò che Mariani ci presenta, mostrandoci da subito un Riccardo che assomiglia, più che a un nobile sovrano, ad un parvenu di campagna, uno che balla sui tavoli e tratta i collaboratori – direttamente o per interposto-Oscar – come burattini. Col che diventano poi incoerenti o poco verosimili i suoi comportamenti nelle successive scene serie (Amelia e finale).       

Va un pochino meglio con Renato, di cui viene peraltro esagerata la pur comprensibile ira, all’inizio dell’atto conclusivo, con l’appartamento letteralmente messo a soqquadro, fra letti sfasciati e sedie capovolte: non è propriamente questo ciò che di Renato ci trasmette il testo e, soprattutto, la musica di Verdi! 

L’Oscar di Mariani è sufficientemente spiritoso, come da copione; come detto, sono censurabili alcuni suoi atteggiamenti gratuitamente irriguardosi verso altri personaggi (il Giudice, in primis): in fin dei conti lui è un paggio tipo-Cherubino, non un buffone tipo-Rigoletto…

Quanto ad Amelia, lei è obiettivamente personaggio enigmatico e dalle diverse possibili interpretazioni: Mariani semplicemente evita di prendere una qualunque posizione, presentandoci una donna che pare invertebrata e sulla quale gli eventi, pur drammatici, scorrono come acqua sul cristallo.

La figura dell’indovina Ulrica ha la sufficiente e dovuta profondità. A proposito di Ulrica, nel libretto di Somma (ma la cosa è praticamente copiata da Scribe) c’è un’allusione fatta da Amelia - quando realizza che il marito e i congiurati hanno deciso la morte di Riccardo - alla possibilità di sventare l’attentato tramite la strega (Forse potrallo Ulrica): poi però la cosa cade totalmente nel nulla, e resta lì, come un filo pendente che non si annoda da nessuna parte…

In ogni caso Mariani si merita un ringraziamento d’obbligo, non fosse altro che per averci risparmiato cose così… e anche cose-cosà!
___

Sul fronte musicale, anche nel Ballo Verdi introduce, pur in modo parsimonioso, alcuni precisi rimandi tematici, il principale dei quali è ovviamente quello che riguarda Riccardo e il suo anelito per Amelia; lo sentiamo già nel breve preludio (esposto tre volte, prima in RE, poi in LA, poi ancora in RE maggiore):

E quindi subito cantato dal protagonista, sulla famosa La rivedrà nell’estasi (in FA#):


E ricompare poco dopo, nei pensieri di Riccardo, quando entra Renato. Lo risentiamo nel terzo atto, suonato dai violini (in LAb) all’inizio del monologo di Riccardo, e poi ancora nel canto del protagonista, in FA maggiore, alla fine del famoso Ma se m’è forza perderti:

Da ultimo, un suo inciso compare sulle parole Sin che tu m’ami, Amelia, e poi Non ho che te nell’anima, durante l’estremo, straziante incontro con l’amata:

E legato ad Amelia è un altro motivo che ricorre un paio di volte: il tema (in MI maggiore) sul quale lei canta la sua implorazione nell’antro di Ulrica (una melodia che sembra – certo casualmente - evocare la wagneriana Elsa) viene riesposto (in RE maggiore) dal flauto e poi dagli archi, nel Preludio all’Atto II, nel momento in cui la donna si inginocchia e prega, subito prima di entrare nel campo dei patiboli:

Ma il nesso più sottile e quasi rabbrividente, perché non esplicito ma sotterraneo, è quello che collega il tema dell’aria di Riccardo È scherzo od è follia siffatta profezia a quello della mazurka (o walzer, o menuetto che dir si voglia) intonata dall’orchestrina d’archi dietro le quinte nel finale dell’opera, e che farà da sfondo alla tragica fine del protagonista, fine precisamente predetta dalla profezia di Ulrica, così allegramente irrisa da Riccardo:


Solo con Freud (che ai tempi però era un bambinello) si potrà spiegare la valenza di quel legame, così subdolo, fra i ritmi dei due motivi.
___    

Prestazione complessivamente più che discreta sul piano musicale.

A Gregory Kunde va riconosciuta una grandissima professionalità e un mestiere senza pari. La voce è quella che è, ma il modo con cui il tenore americano affronta la parte è davvero lodevole, e così il pubblico lo gratifica di un autentico trionfo.

Oksana Dyka conferma di possedere una grande voce, proprio a livello di dote naturale. Mutuando un linguaggio da Formula-1 si potrebbe dire che ha il problema di mettere-a-terra-i-cavalli del suo motore. In sostanza: espressione e portamento sono ancora da migliorare parecchio (dovrebbe prender lezioni da Kunde, smile!)

Gabriele Viviani è un Renato passabile: anche per lui limiti nell’espressione, più che nel suono; un po' contratto nell'aria di esordio, onesto il suo Eri tu, ormai assurto a forca caudina per ogni baritono.

Una bella sorpresa è l’Oscar di Serena Gamberoni: voce più corposa di quelle sottilissime che spesso si sentono in questo ruolo, ma in compenso bella e passante, perfettamente emergente anche nel bailamme del concertati. Poi ci mette anche le atletiche giravolte e così si garantisce il trionfo.  

Anche Marianne Cornetti mette tutto il suo mestiere per offrirci una discreta Ulrica, con qualche problema – mi è parso – nella fascia bassa dei suoi, piuttosto forzati.

Antonio Barbagallo e Gabriele Sagona sono due degni Sam&Tom, come Marco Camastra nei panni di Silvano. Oneste le prestazioni del Giudice Luca Casalin e del messo di Amelia, Dario Prola.

Sui suoi alti standard la prestazione del coro di Claudio Fenoglio. Renato Palumbo forza forse un po’ il volume in alcuni momenti, ma complessivamente manovra abbastanza correttamente quello strumento di alto livello che è oggi l’Orchestra del Regio.

Tutto sommato uno spettacolo godibile, che il folto (non foltissimo) pubblico del Regio ha mostrato di apprezzare assai.