affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

18 maggio, 2012

Orchestraverdi – concerto n°33


Ancora Zhang Xian alla ribalta con un programma di gran tradizione, Beethoven e Mahler, in un Auditorium finalmente affollato, dopo qualche puntata un po’ stanca.

Sono tre moschettieri de laVerdi: Luca Santaniello al violino, Mario Shirai Grigolato al violoncello e il residente Simone Pedroni al pianoforte a proporci dapprima il cosiddetto Triplo Concerto in DO maggiore di Beethoven. Opera da sempre relegata in quel limbo delle composizioni giudicate minori, disimpegnate e mancanti di quel tasso di eroismo che l’agiografia ha affibbiato alla produzione del genio di Bonn.

E magari solo perché composta per gratificare un illustre allievo, l’Arciduca Rodolfo che da poco si era messo a prender lezioni di pianoforte dal già rinomato Ludwig (siamo nel 1803-1804, ai tempi dell’Eroica, per intenderci… ma l’opera non verrà eseguita se non nel 1808, chissà, forse perché l’Arciduca ebbe bisogno di molte lezioni? smile!) O perché, prevedendo tre solisti – invece di uno solo, come è caratteristica dei Concerti – finisce per apparire, ai solisti medesimi, come un lavoro poco gratificante e in fin dei conti da… snobbare.

E così, normalmente si sottovaluta (un po’ troppo, pare a me) la struttura stessa della composizione, per il suo primo movimento privo dei caratteristici contrasti (temi poco distinguibili) e in compenso ricco di enfasi, affettazione e di eccessive lungaggini e divagazioni tematiche (tutti aspetti considerati estranei alla tipica scrittura di Beethoven); un movimento centrale troppo breve e lezioso e uno conclusivo da… festa campestre.

Sarà, ma personalmente trovo in questo apparente disimpegno un voluto omaggio a forme settecentesche, fatto con garbo e con un po’ di ironia, ma sempre con grande sapienza e ispirazione. Un pezzo assolutamente godibile, anche se non manda messaggi universali né evoca chissà quali scontri fra ragione e tenebre!
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L’Allegro è una corposa costruzione, in forma-sonata assai liberamente interpretata: una lunga esposizione, dove si possono individuare parecchi motivi; uno sviluppo piuttosto breve e da essa quasi indistinguibile; una ripresa a sua volta molto complessa e infine una veloce coda a concludere il movimento.       

Sono gli archi bassi ad esporre immediatamente, soli e pianissimo, il motivo principale (1):

Poco dopo l’orchestra presenta una specie di introduzione, in crescendo, basata su una variante del motivo (1), che culmina in fortissimo e per due volte sulla sottodominante FA, poi (con curiosa presenza di due intervalli di tritono ascendenti – FA-SI e SOL-DO#) si sposta sulla dominante SOL, dove i primi violini espongono un secondo motivo (2):

Che viene ripreso quasi subito dai fiati, ma in DO (!) Sulla tonalità di impianto ecco poi i primi violini esporre un nuovo motivo (3):

ripetuto poi un’ottava sopra, che sfocia in fieri incisi trocaici (MIb-DO) dell’intera orchestra, a chiudere, prima sul SOL, poi sul DO la prima esposizione.

Esposizione che viene ora affidata ai solisti, a partire (sarà sempre così…) dal violoncello (pare che in origine il concerto fosse proprio stato concepito per questo strumento). È lui che, nel registro acuto, ci propone il motivo (1) che viene sviluppato, salendo alla sesta per poi scendere sulla dominante SOL, dove il violino solista ripropone il motivo, sulla cui conclusione si innesta un arabesco (terzine puntate) dei due, che riconduce al DO sul quale finalmente entra anche il pianoforte. Esso sviluppa ulteriormente il tema, con veloci quartine di semicrome, contrappuntate dagli altri due solisti, fino all’esplosione, sempre in DO maggiore, di un nuovo motivo (4), enfaticamente colmo di prosopopea:

Il violoncello però, riprendendolo e ampliandolo (5), mostra come quel tema in fondo non sia poi così becero:

Motivo che subito è sviluppato con veloci quartine di semicroma insieme al violino, cui poi si aggiunge il pianoforte con veloci scale ascendenti in ottava, che intercalano un inciso (6) degli altri due solisti, ripreso poi dall’orchestra:

È il pianoforte a svilupparlo dapprima, poi imitato dal violoncello e quindi dal violino, con terzine in staccato che fanno lentamente virare l’atmosfera verso il LA, sulla cui dominante MI si afferma una perentoria cadenza dell’orchestra (7), due discese di ottava, da tonica a tonica, passando per dominante e mediante:

Il Pianoforte con arpeggi di semicrome ci porta ora verso la riproposizione del motivo (2) nella tonalità abbastanza lontana di LA maggiore (è sempre il violoncello ad aprire le danze…); gli risponde il violino ribadendo il tema, ma nella sottodominante RE. Presto si torna a LA con lo stesso motivo riproposto dall’orchestra, mentre i solisti si lasciano poi andare ancora a svolazzi di semicrome, spostando l’atmosfera verso il LA minore, dov’è ancora il violoncello a introdurre un nuovo motivo (8) dal ritmo trocaico:

che poi si sviluppa con terzine in staccato dei due archi solisti, per accelerare con semicrome all’arrivo del pianoforte, che fa ristagnare l’atmosfera sul LA minore, finchè il violoncello, poi il pianoforte e quindi il violino presentano un nuovo motivo (9) che insiste sulla sopratonica SI e, ancora in ritmo trocaico, se ne discosta scendendo di un semitono:

Violino, poi pianoforte e quindi violoncello si imbarcano in svolazzi di semicrome che portano ad un crescendo vorticoso, chiuso da un trillo dei tre solisti sull’accordo di sensibile, che sfocia platealmente sul LA fortissimo di tutta l’orchestra. La quale, muovendo da quel LA come mediante di FA, reitera il retorico motivo (4) in questa nuova tonalità.

A differenza della prima comparsa, qui il tema non è ripreso né sviluppato, ma l’orchestra passa direttamente ad esporre gli stessi incisi trocaici uditi dopo il motivo (3) a chiusura dell’esposizione orchestrale, ma qui ancora in LA minore (DO-LA). Qui si potrebbe parlare di fine dell’esposizione canonica.

Lo sviluppo è aperto dal violoncello, che su quel LA passa a maggiore dove, dopo una breve transizione, riespone il motivo (1). Il violino lo imita nella dominante MI maggiore, poi ancora sul LA arriva il pianoforte che però vira a RE minore, e da qui, con arpeggi in cui tornano intervalli di tritono (DO#-SOL), tramite sesta napoletana, a SIb, dove i tre solisti si rincorrono con terzine in staccato, mentre oboe e fagotto contrappuntano con uno spezzone del motivo (1). Altre modulazioni portano finalmente a DO minore, dove è ancora il violoncello protagonista dell’esposizione di un nuovo motivo (10) sottolineato cantabile in partitura; è l’unico motivo che non riudiremo più nel seguito:

Manco a dirlo segue il violino, e poi il pianoforte, che in realtà non ripete questo tema, ma si limita ad accompagnarlo. Scale ascendenti negli archi solisti, contrappuntate da un ritmo sincopato ci portano con un grande crescendo alla conclusione dello sviluppo, con un poderoso accordo di DO maggiore dell’orchestra, che dà inizio alla ripresa.

A piena orchestra e in fortissimo viene esposto il motivo (1) che in origine avevamo ascoltato dai soli bassi e in pianissimo. Quindi l’introduzione, con le esplosioni in fortissimo sui FA (come all’inizio) intercalate qui però dai solisti; ma poi, che succede? Niente temi principali, ma improvvisamente compare il motivo (5), nel violoncello naturalmente, in FA maggiore! Che è seguito, come nell’esposizione, ma sempre in FA, dall’inciso (6) che porta a sua volta alla perorazione (7), le due discese di ottava, ma qui sul SOL.

Da qui, come nell’esposizione, ma in DO (le sacre regole!) ecco il motivo (2) esposto, indovinate da chi? dal violoncello, natürlisch! Il violino risponde, ma adesso in FA, che vira quindi al DO, dove l’orchestra ribadisce il motivo (2). I solisti lo sviluppano fino a modulare su DO minore, dove – sempre nel violoncello – riudiamo il motivo (8) che nell’esposizione era in LA minore. Come nell’esposizione, pianoforte e violoncello ci riportano al motivo (9) nel violoncello, qui incardinato sulla sopratonica (RE) di DO (là era sul SI…)

Quindi i tre solisti con vorticose ascese raggiungono il DO, dove tutta l’orchestra ripete la poderosa perorazione (4) che, partendo dal DO come mediante, cade sul LAb maggiore. Ancora gli incisi trocaici MIb-DO con caduta sul SI, che torna sensibile di DO, dove – sempre il solito violoncello – espone ora il motivo (3), il quale prende però una strada tutta diversa rispetto all’esposizione; strada che conduce, passando anche da modulazioni a FA, alla chiusura della ripresa e al passaggio diretto alla coda

La quale consta di 18 battute (Più Allegro) dove, aizzati dall’orchestra, i tre solisti si scatenano prima in scalette ascendenti, poi in trilli e quindi in scale discendenti, fino ai due secchi accordi conclusivi.

Beh, il risultato puramente estetico potrà magari far storcere il naso a qualcuno, ma mi pare che come strutturazione questo movimento non sia poi tanto banale, anzi si potrebbe concludere che configuri una complessità che si fatica a riscontrare anche in opere più mature di Beethoven.

Il Largo centrale, in LAb maggiore (3/8) è invece di una semplicità assoluta: una brevissima introduzione degli archi, poi il tema presentato – c’è da dubitarne? – dal violoncello. Tema languido, carezzevole, di 17 battute, scomponibile in tre frasi di 5-6-6 battute:

Si ripete l’introduzione (con i fiati) e poi sono i due archi solisti a riesporre il tema, per terze, con il pianoforte ad arpeggiare languidamente. Ora inizia un ponte che modula lentamente un semitono sotto, a SOL maggiore (una cosa analoga farà Beethoven, più bruscamente, nell’Adagio non troppo dell’Imperatore, scendendo dal SI al SIb in vista del MIb del Rondo), per preparare l’attacco del conclusivo Rondo alla Polacca.

Il quale ha – come il primo movimento – una struttura assai articolata, così sommariamente interpretabile: A-B-A-C-A-B-A’-A”. Il tempo è sempre 3/4, salvo che per A’ (2/4).
    
Immancabilmente è il violoncello, che ha concluso in solitaria (salvo un pizzicato degli archi) l’Adagio con una serie di biscrome e semibiscrome sempre più affrettate, ad introdurre il Rondo, la cui sezione ricorrente A è inizialmente presentata con una struttura interna in cui si distinguono tre motivi: A1, A2 e A3. Il violoncello espone A1:

Lo chiude modulando a MI maggiore, dove lo riespone il violino, che a sua volta lo chiude virando a minore e rimodulando quindi a DO. Ora abbiamo il motivo A2, nell’orchestra:

che viene sviluppato poi dai tre solisti e in particolare dai due archi, fino ad una cadenza dell’orchestra sull’accordo di settima. Torna il motivo A1, nei tre solisti e subito dopo – accorciato - ad orchestra piena. Da qui si diparte, negli strumentini, un ponte in semicrome che porta, dopo marziali accordi che anticipano il ritmo di polacca, ad un nuovo motivo (A3)  esposto primi violini e poi ripreso dai legni:

La sezione A si chiude con decisi accordi di DO in staccato dell’orchestra. E subito compare la sezione B, con il violoncello e in contrappunto il violino che espongono il motivo B1:

Poco dopo è il pianoforte a riprendere il motivo, modulando verso SOL, dove il solito violoncello presenta il motivo B2, contrappuntato dal violino, mentre il pianoforte arpeggia in sestine:

Dopo che i solisti si sono sbizzarriti in svolazzi con sestine di semicrome è l’orchestra a riprendere il motivo B2, con i solisti ad interloquire e poi a riprendere in mano il pallino, con le loro sestine che conducono alla chiusa in DO della sezione B.

Si ripete ora la sezione A, praticamente identica alla sua prima apparizione, ma solo fino al motivo A1 nell’orchestra, al termine del quale un nuovo ponte, invece di portare ad A3, conduce direttamente alla sezione C, preparandone con incisi dattilici il caratteristico ritmo di polacca. La tonalità è mutata nel frattempo nella relativa LA minore. Qui, per l’unica volta nel Concerto, tocca al violino solista aprire le… danze, con l’esposizione del motivo C1:

Il motivo viene poi reiterato più volte dai solisti, che se lo rimpallano con continue variazioni e modulazioni di tonalità. Finalmente compare un nuovo motivo più cantabile ed espressivo (C2) che è sempre il violoncello ad esporre per primo, subito imitato dal violino:

Il pianoforte si limita ad un accompagnamento in semicrome, come a mantenere il ritmo, aiutato qua e là dai fiati. Poi avvia un breve crescendo in cui trascina gli altri solisti e l’orchestra, dopo il quale è ancora compito suo esporre una cadenza in terzine, quindi rallentando, fino a chiudere la sezione C sul SOL, da cui riprende una nuova ricorrenza della sezione A, col violoncello, costituita peraltro dal solo motivo A1, cui però non segue come al solito il violino, ma direttamente il tutti orchestrale.

Ultima comparsa della sezione B, sempre in DO, con B1 in violoncello, poi violino e pianoforte e quindi B2 nel violoncello, cui si aggiungono gli altri due solisti che si imbarcano ancora in veloci sestine di semicrome. L’intera orchestra ripropone B2, finchè sono i solisti a portarlo a compimento.

Ora un’autentica sorpresa, con la ricomparsa, dapprima nel pianoforte, del motivo di polacca C2, ripreso subito da violino e violoncello che vanno poi a chiudere la sezione sul LA.

Altro scombussolamento, con il tempo che passa ad Allegro in 2/4. È il violino ad esporre un il motivo A1 variato e velocizzato. Poi lo seguono gli altri due solisti, che sembrano ingaggiare una gara di velocità, finchè l’orchestra non interviene riproponendo ancora A1 sempre nel tempo marziale di 2/4.

Un ultimo ponte, con i solisti impegnati in terzine, porta – col ritorno a 3/4 e al Tempo I - alla conclusiva comparsa del tema A1, o meglio di suoi spezzoni, nei solisti. Quindi si riaffaccia nel violino anche il motivo A3, reiterato dal pianoforte e poi dall’orchestra che innesca la coda dove ancora i solisti si sfogano con veloci sestine, prima dei tre pesanti accordi conclusivi.
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Prestazione discreta – non eccezionale, secondo me - dei solisti, che non sono andati esenti da qualche pecca, specie nell’iniziale Allegro, dove può darsi che un po' di emozione gli abbia giocato qualche scherzetto... E anche il Rondò, soprattutto la sezione polacca, non mi ha entusiasmato. Forse anche per colpa della direzione di Xian, che mi è parsa piuttosto anonima e priva di mordente: chissà, magari proprio per non accreditare le critiche di eccessiva appariscenza che vengono tradizionalmente mosse al Concerto.

Ma trattandosi dei beniamini del pubblico il successo non è mancato di certo, ricompensato anche da un bis… 

Poi Mahler e Das Lied von der Erde, già da Xian interpretato in Auditorium poco più di due anni faQui la cinesina (stante che con quest’opera si deve sentire… a casa propria, smile!ha offerto di nuovo un’interpretazione assolutamente convincente, cavando fuori tutti i tesori di questo capolavoro, fin dal magnifico attacco iniziale dei corni. Assecondata in ciò da un’orchestra quasi perfetta, nell’insieme e nelle diverse parti solistiche che questa partitura impegna assai, a partire dall’oboe di Luca Stocco, dal flauto di Massimiliano Crepaldi e dal fagotto di Andrea Magnani, per non tacere poi della sezione dei corni guidati da Giuseppe Amatulli. Di assoluto livello, in particolare, gli interludi dell’Abschied.

Peccato che il canto abbia invece lasciato parecchio a desiderare: in particolare il tenore John Daszak, voce magari potente, ma assai sguaiata e impiccata (la scusa che deve interpretare gente che brinda, che beve e che si ubriaca non giustifica schiamazzi da osteria, smile!) mentre il contralto Carina Vinke ha mostrato qualche buona qualità, soprattutto nell’ottava alta, laddove mi è parsa deficitaria in quella bassa (in particolare, il passaggio concitato del quarto Lied ne ha sofferto assai).

Anche qui comunque grandi applausi, da parte mia riservati soprattutto a direttora e orchestra.

Prossimamente si rifarà vivo il Direttore principale per proporre un programma moderno con intermezzo… caramelloso.

14 maggio, 2012

La leggendaria Staatskapelle alla Scala con Mozart


Il venerabile Colin Davis (85 primavere fra poco!) è stato ospite ieri alla Scala con la Staatskapelle Dresden, orchestra fra le più antiche e rinomate del pianeta, per proporre un programma tutto mozartiano.

Aperto dalla Pauken-Serenade (K 239) che a Milano è stata eseguita poche settimane fa con laVerdi all’Auditorium da Claus Peter Flor. Interessante – non proprio in senso positivo… - la disposizione degli strumentisti: il quartetto (violino I, violino II, viola, contrabbasso) non è isolato dall’orchestrina, ma è semplicemente costituito dalle quattro prime parti che stanno ai loro posti canonici (viola al proscenio). Invece una particolarità più sostanziale riguarda l’aggiunta di due contrabbassi all’orchestrina, non previsti da Mozart. In tutto quest’ultima era formata da 23 elementi: 12 violini (I e II) 4 viole, 4 violoncelli, due contrabbassi e i timpani. Esecuzione assai sobria, che non ha concesso alcuna deroga alla partitura scritta: quindi nessuna cadenza – come spesso e volentieri accade – nel Rondo finale. Insomma, Mozart allo stato… asettico.

Ecco poi il Quarto concerto per violino (K218) interpretato dal 37enne danese Nikolaj Znaider, con il suo Guarneri, costruito 15 anni prima che Mozart nascesse! Oltre ai 4 fiati (coppie di oboi e corni) pochissimi rinforzi agli archi, rispetto alla Serenata.

Esecuzione gradevole, come si addice ad opere di questo tipo, che certo non hanno la pretesa delle pari-grado di Beethoven, Brahms e simili. Comunque buon successo per Znaider e bis bachiano.

Chiude il concerto la celeberrima Sinfonia in Sol minore. Viene eseguita – ovviamente, mi verrebbe da dire – la versione con i clarinetti (contrariamente a ciò che si poteva dedurre dal programma di sala, dove questi mancavano). Gli archi sono precisamente 40.

Davis – comprensibilmente seduto su uno sgabello (mi ricordava l’ultimo Boehm sentito proprio in Scala, diciamo… 40 anni fa?) ne dà un’interpretazione che potrebbe apparire routinaria, ma in fondo ha il pregio della purezza di approccio e della mancanza di gratuite gigionerie.

Gran successo per il vegliardo che – dopo un bis e tre chiamate – prende sotto braccio il suo Konzertmeister e se ne va meritatamente a riposare.

11 maggio, 2012

Orchestraverdi – concerto n°32


Rientra alla base Zhang Xian per questo concerto che accosta Ciajkovski e Beethoven.

La prima opera in programma è la Seconda Sinfonia di Ciajkovski, già diretta qui da Caetani precisamente un anno fa.

Strepitosa prestazione – alle mie orecchie - di Xian e dell’Orchestra: chiaroscuri ben scolpiti, con i temi delicati e languidi che emergevano come fiori dalle enfatiche perorazioni nei movimenti esterni; in quelli interni, sonorità rarefatte, e poi tempi stringati e nessuna caduta nella facile retorica. Insomma, questo Ciajkovski ancora immaturo reso con grande efficacia e sensibilità.

Veniamo ora all’Eroica. La novità – in un certo senso – di questa esecuzione è che viene impiegata la partitura riveduta-e-corretta da Gustav Mahler (che sia un’appendice alle celebrazioni dei 100 anni dalla scomparsa?) E lodevolissima è la precisazione fornita al riguardo dalla locandina de laVerdi. Poiché è bene che l’ascoltatore – quello esperto, ma anche quello naif – venga sempre informato del contenuto della merce che gli viene propinata. Proprio come si fa – per legge! – con qualunque altro prodotto di consumo.
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Della liceità, o opportunità, o tollerabilità, o criminalità degli interventi sulla carta delle opere musicali (come di qualunque altra opera dell’umano ingegno) si discute da sempre accanitamente, senza che si trovi una risposta univoca e definitiva alla questione. Perciò l’unica cosa seria da farsi è – appunto – chiarire all’utente in modo trasparente e senza infingimenti o manfrine qual è la natura del prodotto proposto: originale o manipolato.  

Ciò che è intollerabile (a mio modesto modo di vedere) è spacciare per originale qualcosa che non lo è. E questo, indipendentemente dal valore soggettivo che il compratore può attribuire al prodotto che gli viene venduto. Mi spiego: una falsa Lacoste o un falso Rolex potrebbero anche essere giudicati dall’acquirente intrinsecamente migliori della Lacoste autentica, o del Rolex autentico; fatto sta che il fabbricante e il venditore di quei prodotti contraffatti rischiano – codice penale alla mano – il carcere. E persino l’acquirente rischia una salatissima multa.

Perché lo stesso metro non si dovrebbe impiegare per giudicare – ed eventualmente sanzionare – produzioni artistiche che sono palesi contraffazioni (quand’anche… in meglio) dell’originale? Ora, sulle partiture la cosa per fortuna accade ancora di rado (almeno a livelli macroscopici) ma si pensi invece alle cento e mille autentiche contraffazioni che vengono giornalmente perpetrate dalle regìe teatrali moderne e post-moderne… Come gridava Bracardi? In galera!

Altro discorso invece è lasciare all’interprete – addirittura pretendere da lui – di portare il valore aggiunto della sua propria sensibilità (interpretativa, appunto) all’opera che esegue. Purtroppo il confine fra libertà interpretativa (sacrosanta) e adulterazione dell’originale (intollerabile, a meno che non venga apertamente dichiarata, come fatto da laVerdi per questa esecuzione) è spesso assai nebuloso e difficilmente tracciabile a priori.

Veniamo a Mahler. Come giustamente rileva Enzo Beacco: Mahler vuol fare di più. Cambia la partitura. Non è una cosa da poco, non è la cosmesi che in fondo tutti i grandi direttori operano sui classici sinfonici (e operistici, ndr), per lasciare il proprio segno. A suo modo è una provocazione.

E in effetti sappiamo come Mahler, il più grande Direttore dei tempi moderni, fu accanito sostenitore – e attivo praticante – della teoria secondo cui era non solo ammissibile, ma doveroso intervenire sulle partiture dei suoi predecessori, per adeguarle alle ultime conquiste della civiltà, o per meglio renderle fruibili impiegando strumenti di cui i compositori non avevano potuto disporre. O ancora, nel caso specifico di Beethoven, per ovviare a vere e proprie manchevolezze nella strumentazione, da Mahler attribuite allo stato di quasi totale sordità dell’Autore. Seguendo del resto l’esempio del suo idolo Wagner (che per primo aveva messo mano pesantemente e in modo scientifico alle sinfonie beethoveniane, e alla Nona in particolare) Mahler riorchestrò addirittura tutte le sinfonie del suo amato Schumann (ma oggi per fortuna c’è chi critica aspramente quegli interventi, come quelli di Rimski su Musorgski) e intervenne profondamente su Beethoven. Una delle sue manìe era il clarinetto piccolo, quello in MIb, usato fino ad allora solo nelle bande: lui non solo lo impiegò (legittimamente, ci mancherebbe!) in parecchie sue opere, ma appunto lo introdusse nell’organico orchestrale della Sinfonia in MIb di Beethoven (Mahler soffre di una malattia da clarinetto in MIb, ironizzò qualcuno sulla stampa del tempo) insieme ad abnormi rinforzi di corni e timpani, giustificati con la necessità di controbilanciare le masse continuamente crescenti degli archi.

Al proposito mi sento di proporre una riflessione che non mi pare peregrina: una musica composta per un’orchestra di 40 elementi (le dimensioni medio-massime ai tempi di Beethoven: diciamo 26 archi e 13 fiati più i timpani – ma alla prima del 1804 pare che gli archi fossero poco più di una dozzina!) viene di sicuro snaturata se, a parità di fiati, gli archi diventano 45, come erano già ai tempi di Mahler. Però se, seguendo la logica di Mahler, per bilanciare i 45 archi portiamo i fiati a 25 (quindi portando l’intera orchestra a 70 elementi) siamo sicuri di ripristinare il suono dell’orchestra beethoveniana? In fondo è lo stesso problema che si presenta quando Mahler (guarda caso!) trascrive per orchestra da camera (30-40 elementi) un Quartetto (4 elementi): qualcuno osa sostenere che – essendo rispettate le proporzioni fra violini, viole e violoncelli (con aggiunta magari di contrabbassi) - abbiamo lo stesso risultato sonoro del quartetto? Ecco, Mahler sosteneva di sì… o comunque riteneva inevitabile quella soluzione per poter eseguire un quartetto in una sala da concerto. Chi oggi gli dà ancora ragione?

Insomma, credo che non avessero tutti i torti i molti critici di fine ‘800 che accusavano sarcasticamente Mahler di narcisismo, nel pretendere di migliorare Beethoven, che non avrebbe avuto secondo lui la possibilità di realizzare tutte le sue intenzioni. (E in effetti, parlando di strumenti inesistenti o inconsueti ai tempi di Beethoven: perché allora non impiegare oggi anche i sassofoni, le tubette wagneriane e – magari nella Pastorale - pure chitarra e mandolino?)

Così scriveva nel 1893 – fra il sarcastico e l’indignato - dell’interpretazione mahleriana della Quinta beethoveniana tale Josef Sittard, critico di Amburgo (dove Mahler dirigeva ai tempi): Senza dubbio è essenziale oggi sottoporre le partiture di Beethoven a una revisione, conformemente ai moderni principi esecutivi. Ma si tratta di un problema assai grave. O Beethoven sapeva esattamente ciò che faceva, mentre componeva, oppure lui stesso non ha compreso nulla delle sue proprie idee. E sull’uso esagerato dei timpani nel finale, sempre della Quinta, aggiungeva: Mahler evidentemente considera quest’opera di Beethoven come musica di Giannizzeri. (!!!)

Mahler eseguì la sua Eroica anche nel 1898, per il suo insediamento a capo dei Wiener: ancor prima del concerto già si prendevano a pretesto i suoi interventi sulla partitura per fare commenti offensivi riguardo alla sua origine semita. Così accadde che uno dei pochi critici favorevoli all’esecuzione fu stranamente tale Eduard Hanslick, ben noto per il suo conservatorismo. Ma forse il critico immigrato da Praga, mezzo-ebreo pure lui, difendeva Mahler l’artista per difendere in realtà Mahler l’ebreo…    

Ecco invece come un critico presente ad un’esecuzione di Mahler dell’Eroica al Trocadero di Parigi nel giugno del 1900 ci descrive le sue impressioni: Certo, nella sala c’era il mondo intero, ma Beethoven era assente!

L’ironia sta poi nel fatto che invece, per le sue proprie opere, Mahler fu di una puntigliosità davvero degna di miglior causa, quanto ad indicazioni agogiche e dinamiche, infarcendo di descrizioni dettagliate (spesso pure strampalate e intraducibili in gesti concreti per i musicisti - vedi il bizzarro Altväterisch della Sesta…) e di segni di portamento ogni singola nota delle sue partiture, e pretendendo il massimo rispetto per quelle indicazioni! Ma datosi che chi di spada ferisce, di spada perisce, destino volle che anche lui fosse abbondantemente vittima di contrappasso, almeno a giudicare dai barbari tagli di cui le sue sinfonie furono fatte oggetto nel secolo scorso.

Questo è l’esempio più clamoroso dei mostruosi ritocchi apportati da Mahler al primo movimento dell’Eroica, nel punto di più alta drammaticità (ho riprodotto l’immagine da questo interessante studio); vi si vede anche (terzo rigo dall’alto) l’introduzione della parte di clarinetto piccolo, oltre a quelle dei tre corni addizionali, all’aggiunta di rintocchi di timpano e allo stravolgimento delle indicazioni esecutive; qui nessuno dovrebbe avanzare dubbi sul fasullo substrato romantico (per non dire tardo-romantico) di questo intervento:
Purtroppo la notorietà di Mahler ne fece un caposcuola anche per l’interpretazione beethoveniana, e così tutto il ‘900 è stato un fiorire del Beethoven (falsamente) romantico, suonato proprio à la Mahler e à la Wagner, fino ai giorni nostri (Christian Thielemann, gran wagneriano, è solo l’ultimo alfiere di questa pseudo-scuola).

Oggi per fortuna possiamo però ascoltare le sinfonie beethoveniane nella loro forma più autentica, grazie ai seri studi portati avanti negli ultimi decenni; primo fra tutti quello di Jonathan Del Mar, che ha prodotto un’edizione critica unanimemente giudicata di grandissimo pregio, e che viene adottata da un sempre maggior numero di direttori.

C’è poi chi sembra tenere i piedi in due scarpe, adottando un approccio intermedio (fra Mahler e Del Mar): si tratta di Aldo Ceccato, che ha di recente pubblicato un libricino – introdotto da Quirino Principe - contenente tutte le sue annotazioni (e interventi) sulle partiture beethoveniane: in sostanza Ceccato introduce sue proprie varianti in quei punti della partitura dove risulta (o risulterebbe, secondo lui) evidente la costrizione subita da Beethoven a causa dei limiti degli strumenti del suo tempo (l’estensione dei flauti, ad esempio) con conseguenti salti mortali (esteticamente bizzarri, ma obbligati) che Beethoven avrebbe dovuto compiere per aggirare quei limiti; salti mortali evitabili oggi, stando a Ceccato, impiegando gli strumenti moderni. Ma il nostro adotta anche parecchie modifiche a suo tempo proposte da Mahler (da lui richiamato, con Wagner, nell’introduzione al suo scritto): ad esempio nell’estensione delle parti dei timpani. Peraltro non sembra seguire Mahler fino alle estreme conseguenze: niente clarinetto piccolo (smile!)
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Già il colpo d’occhio dell’orchestra è spaventevole: si direbbe che debba essere suonata la Totenfeier, mica l’Eroica! Dopodiché ciò che si deve ascoltare fa accapponare la pelle: a volte par di sentire la batteria dei corni dei cacciatori della Alpensinfonie; la marcia funebre assomiglia maledettamente a quella di Sigfrido; il clarinetto piccolo squittisce come nella Fantastica; i corni a volte creano un magma sonoro volgare, che distrugge i mirabili temi beethoveniani; gli strumentini suonano quasi sempre con la campana in alto, creando sonorità impertinenti e fastidiose; altre volte le trombe (che sembrano proprio quelle di Gerico, come sarcasticamente affermavano i detrattori antisemiti di Mahler) portano in primo piano linee che dovrebbero starsene in sottofondo. Insomma, un supplizio per le orecchie!

E devo dire che l’esecuzione di Xian e dell’Orchestra non mi è parsa nemmeno di alto livello tecnico, forse proprio a causa dell’inconsueta circostanza. Certo, alla fine gli applausi non sono mancati, anche quelli ritmati dal calpestio dei professori.

I miei (scarsi) clap sono andati agli interpreti e – ça va sans dire – all’Autore. Per l’arrangiatore – e lo confessa uno che si sente mahleriano fino al midollo – lascio la parola a… Bracardi (smile!)

(per pietà, non fatelo più)


Ancora Mahler (l’ultimo) e guarda caso ancora con Beethoven (però non arrangiato, strasmile!) e ancora Xian sul podio per il prossimo appuntamento.

08 maggio, 2012

Rachmaninov per giovani con la Filarmonica della Scala


Una vera Indigestione di Rachmaninov (in prima e per interposta persona…) nel concerto di ieri sera della Filarmonica della Scala. E con tre giovani (o giovanissimi) protagonisti: il ragazzino Andrea Battistoni (25 anni) il suo quasi coetaneo Alexander Romanovsky (28) e il loro fratello maggiore Matteo Franceschini (33).

Del quale ultimo (cui l’opera è stata commissionata dall’Orchestra) si inizia con una prima assoluta: Ja sam.

Dato che l’Autore afferma di voler impiegare il coro di voci bianche come fosse uno strumento dell’orchestra, ecco che ad esso viene riservato uno spazio sulla destra del palco (per chi guarda) spostando per l’occasione i contrabbassi a sinistra.

Cosa c’entra qui Rachmaninov? C’entra come ispiratore del brano (una cosa corposa, quasi mezz’ora, come un poema sinfonico di Strauss, per dire…) con la sua Prima Sonata per pianoforte in RE minore (in particolare l’iniziale Allegro moderato). Che Franceschini prende a modello rispettandone la struttura di forma-sonata fino nei dettagli quantitativi (357 battute e relativa suddivisione in esposizione-sviluppo-ripresa).

Non ci si aspetti però di trovare nella sua composizione delle citazioni letterali e nemmeno vaghe (almeno io al primo ascolto non le ho percepite…) Come ammette l’Autore stesso (nelle note pubblicate sul programma di sala) la Sonata del russo è stata essenzialmente di stimolo per la sua creatività.

Successo – come si dice in queste circostanze – di stima, con ripetute chiamate per Autore e Interprete. Meritatissimi gli applausi per le ragazzine del coro e il loro Maestro Casoni.

Poi arriva Alexander Romanovsky, immigrato ucraino e oggi cittadino italiano (cosa che immagino infastidirà i residui leghisti, smile!) per proporci le Variazioni su un tema di Paganini dello sdolcinato Sergei.

Il quale – imitatore e scimmiottature di natura (Ciajkovski ne sa qualcosa) – compì un’operazione analoga a quella già inventata da Liszt con la campanella e da Brahms con il medesimo tema sull’ultimo dei 24 capricci del genovese: comporvi un pezzo velleitario, una specie di concerto in 24 variazioni. Nel quale immancabilmente infila, indovinate un po’… anche il Dies Irae (un’autentica fissazione la sua!)

Romanovsky mostra qui tutta la sua grande tecnica e propone – alle mie orecchie perlomeno – una specie di coca-cola-light del brano, togliendogli parecchio dello zucchero. Assecondato da Battistoni, che ad esempio non calca per nulla la mano nel celebre quanto volgare Andante cantabile (n°18) in REb maggiore.

Gran successo per Romanovsky, che si cimenta anche in un paio di bis.

Ha chiuso la pesante razione di Rachmaninov la Seconda Sinfonia, che a Milano si è potuta ascoltare con una certa (direi preoccupante, smile!) frequenza negli ultimi tempi: dalla stessa Filarmonica con Pappano, poi da laVerdi con Xian, indi ancora da Noseda all’Arcimboldi con l’Orchestra del Regio di Torino.

A me è parsa un’esecuzione più che accettabile, con un’orchestra in buona forma e un Direttore che sarà pure giovane e magari, come si dice in gergo, se la tira un po’ troppo (mai un sorriso, accipicchia, e atteggiamenti iper-formali) però non sembra proprio un tipo catapultato da qualcuno sul podio, e che cerca di seguire col gesto un’orchestra che tanto suona per i fatti suoi…

Al contrario, a me dà l’impressione di uno che conosce bene il suo mestiere (poi bisognerebbe chiedere ai professori se lo trovano una guida carismatica o soltanto un montato). Certe stroncature lette dopo le sue Nozze a me sembrano il classico contrappasso fatto pesare su un incolpevole per controbilanciare peana sconsiderati rivolti in precedenza ad altri giovani più o meno meritevoli (e/o raccomandati) di lui.  

07 maggio, 2012

Un apprezzabile Rosenkavalier allieta il Maggio fiorentino


Ieri pomeriggio al Maggio – in una Firenze intristita dalla pioggia - seconda delle quattro recite del capolavoro straussiano. L’ascolto radiofonico della prima di venerdi aveva lasciato una buona impressione (parlo dell’opera e non certo dei deplorevoli interventi dei conduttori di Radio3) che ieri si è confermata in pieno, almeno ai miei occhi e alle mie orecchie.  

Teatro Comunale che presentava qualche vuoto di troppo (ci si aspetterebbe un tutto esaurito da titoli come questo). La crisi, i prezzi dei biglietti, i costi di trasferta per chi deve venire da fuori, forse il titolo stesso che (in Italia, ancor oggi) a molti purtroppo non dice molto, il cast (peraltro notevole) con nomi (in Italia, sempre) poco o punto conosciuti… o magari proprio il tempo uggioso, chissà… Di sicuro è uno spettacolo che merita anche qualche sacrificio materiale, di cui non ci si pentirebbe proprio!

Innanzitutto per la parte musicale. Che Zubin Mehta e l’Orchestra ci hanno sciorinato con grande cura e passione. Mi sento di fare solo un piccolo appunto al Maestro: aver alzato di una tacca di troppo il volume nelle ultime battute del delizioso terzetto finale, andando un filino a coprire le voci. Come contrappasso, il pubblico ha coperto lui a fine di second’atto, cominciando ad applaudire – a chiusura di sipario - quando ancora l’orchestra doveva esalare le ultime, mirabili, quattro battute in MI maggiore… così a lui non è restato che alzare le braccia verso i suoi professori, in segno di resa! (Forse da noi sarebbe bene contraddire la partitura e lasciare il sipario alzato fino a che il direttore non posa la bacchetta.)

Per il resto, una direzione accuratissima e un’interpretazione – per me – perfettamente in linea con lo spirito, oltre che con la lettera, della partitura. Perdonabili sono i diversi tagliuzzamenti - soprattutto della parte di Ochs nell’atto conclusivo - di cui fatico sempre a comprendere la ragione: che Strauss medesimo qua e là li abbia autorizzati o tollerati non li giustifica automaticamente. Ma tant’è.  

La compagnia di canto non sarà proprio stellare, ma mi è parsa benissimo assortita e all’altezza del compito. Angela Denoke impersona - nel canto e nel portamento scenico – la Feldmarschallin in modo egregio e commovente: il suo finale del primo atto è proprio una cosa sbudellante (ovviamente grazie al birraio bavarese!) Caitlin Hulcup è a sua volta un’efficace Octavian, bella voce che passa tranquillamente e si complementa a meraviglia con quella della Denoke, nei diversi momenti di dialogo fra le due. Forse meno pulita la Sophie di Sylvia Schwartz, una voce squillante… fin troppo (negli acuti a volte un filino pigolati). Però il duetto finale è stato un vero gioiellino… Kristinn Sigmundsson è un Ochs praticamente perfetto nella parte scenica, non certo nel canto, dove le parti in piano e nella cosiddetta ottava bassa lasciano un poco a desiderare. Eike Wilm Schulte è un onesto Faninal, anche lui meglio nel lato attoriale. Mi ha ben impressionato Ingrid Kaiserfeld, una Duenna altrettanto efficace come attrice che come canto, una bella voce, intonata e sempre pulita in tutta la gamma.

Rimando alla locandina per gli altri interpreti (cosiddetti minori) che hanno tutti ben meritato. Solo un cenno speciale per Celso Albelo, data la rilevanza qualitativa (non certo quantitativa) della sua particina: che lui ha compitato in maniera apprezzabile, mancandogli forse un tocco di espressività… I Cori del Maggio (Piero Monti) e di Fiesole (Joan Yakkei) hanno egregiamente svolto il loro non improbo compito.   

Per tutti – orchestra compresa, salita sul palco con Mehta - alla fine un gran trionfo con minuti e minuti di applausi e ripetute chiamate.

Quanto alla regìa di Eike Gramms devo dire che non mi ha convinto del tutto. Il regista medesimo, nelle note sul Programma di sala, ammette di avere ambientato l’opera tra la metà del XVIII secolo e lo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Ora, a parte le scene che richiamano vagamente il settecento, il resto (i costumi, ad esempio) sono invece più da inizio novecento. Un po’ come nella regìa di Herbert Wernike ripresa tempo fa alla Scala, sui cui avevo manifestato le mie personali perplessità.

Della quale regìa Gramms ha persino copiato alcuni dettagli: come il parrucchino di Ochs (che non ha alcun significato, salvo quello di rendere vagamente plausibile – in realtà incomprensibile - il riferimento che vi fa il Commissario) al posto della parrucca (simbolo preciso della nobiltà settecentesca); oppure la pletora di ragazzini (in luogo dei quattro prescritti) sedicenti figli del medesimo Ochs, che trasforma in parodia ciò che per il librettista era un aspetto grottesco sì, ma serio!

Per fortuna Gramms non copia da Wernike il sottofondo pessimistico generale; ad esempio sottolineato dall’uscita di scena finale di Marie-Therese e di Faninal (in direzioni opposte) per la quale Gramms invece rispetta in pieno il libretto (facendoli uscire sottobraccio, il che ha un precisissimo e positivo significato sociologico, oltre che esistenziale!)

Per il resto, quanto a rispetto del libretto e delle didascalie di cui abbonda la partitura, soprattutto nei movimenti e nelle posture dei personaggi, va dato atto a Gramms di averne molto: sempre a differenza di Wernike, tanto per fare un esempio banale, noi vediamo Rofrano ferire il barone al braccio destro, non ad una natica (smile!) Utile anche l’esplicitazione sceneggiata del passaggio di campo (da Ochs a Rofrano) di Valzacchi-Annina nell’atto secondo.

In conclusione: uno spettacolo complessivamente apprezzabile, di quelli che in Italia – credo io - andrebbero programmati più di frequente (*).

(*) Ps: come concorda anche Amfortas

04 maggio, 2012

I beg your pardon: politically… what?


Confesso di essere rimasto basito al leggere un corsivo di Angelo Foletto, apparso su Repubblica.

In 10 righe il nostro riesce nella mirabile impresa di fare del sarcasmo su (o di offendere direttamente) nell’ordine: a) un Maestro di fama internazionale, ex-Direttore musicale della Scala; b) il pubblico che a quel Maestro ha voluto manifestare tutta la sua ammirazione; c) quella parte di pubblico che ha liberamente contestato una recita alla Scala.

Alla faccia del politically correct! Qui siamo in una full-immersion di faziosità. Libera anche quella, ci mancherebbe anche. Si dà però il caso che qui sgorghi copiosamente dalla penna del rappresentante ufficiale dei critici musicali italiani.

Orchestraverdi – concerto n°31


Il 31° concerto della stagione vede ancora sul podio Claus Peter Flor, che dirige un programma, come dire… religioso, in un Auditorium - ahinoi - un po' troppo ricco di poltrone vuote.

Benjamin Britten era certamente (già da giovane, ben prima dell’ultima guerra) un tipo che viveva, diciamo così, ehm, ai limiti del regolamento, almeno per benpensanti, bigotti e patrioti del Regno Unito: omosessuale e obiettore di coscienza, hai detto niente! Bene, nel 1940, in piena guerra e col Giappone sull’orlo di accoppiarsi con l’Asse per mettere al mondo RoBerTo, costui riceve nientemeno che da parte del Governo di Tokio un invito (esteso a personaggi come Richard Strauss, per dire…) a comporre un brano musicale per celebrare la ricorrenza dei duemilaseicento anni dalla fondazione dell’Impero del Sol Levante. E lui cosa gli propina, per una simile festosa circostanza? Un Requiem!!!

Roba da provocare un incidente diplomatico (e ciò è accertato che avvenne) ma forse anche – chi lo sa? – da far decidere i gialli a spedire di lì a poco un’allegra brigata di bombardieri e siluranti dalle parti di Pearl Harbor… Solo una quindicina d’anni più tardi, e con gli yankee saldamente in control a Tokio, il nostro potrà tranquillamente dirigervi il suo regalo per i giapponesi, cui nel frattempo erano stati forniti, e in abbondanza, seri (e nucleari) motivi per pregare sui loro morti.

Cupi e sordi colpi di timpano aprono l’opera, creando un’atmosfera precisamente da funerale. È il biblico Lacrymosa che incede – Andante misurato - col passo pesante di un cantilenante mortorio; che dopo un pesantissimo passaggio, ancora con i timpani a scuotere l’aria, si perde, quasi su un fievole RE maggiore. Il successivo Dies Irae è una specie di Scherzo (Allegro con fuoco): una danza della morte più che la spaventosa evocazione dell’ira divina, con le trombette e i corni che sembrano lanciare sberleffi più che maledizioni, mentre archi e percussioni paiono suonare una carica da arrivano-i-nostri! Finchè il tutto termina in una specie di buco nero… Il conclusivo Requiem Aeternam (Andante molto tranquillo) sembra imparentarsi con un qualche Adagio di Mahler… un sereno indirizzo a chi sta riposando, dovunque egli sia. Nobilissimo il crescendo che porta alla consolante chiusura.

Opera interessante, non certo da catalogare fra i capolavori, che Flor e laVerdi interpretano comunque con grande concentrazione ed efficacia.

Segue poi la Nona di Anton Bruckner. Musica scritta in onore nientemeno che del Buon Dio! Da parte di un uomo profondamente anche se quasi ingenuamente religioso, che ormai sentiva vicino il momento di presentarsi al cospetto del Creatore, e voleva arrivarci portando con sé l’opera sua più grande. La chiamata arrivò un tantino troppo presto, e così il devoto organista di Sankt Florian potè presentarsi all’appello con tre movimenti compiuti, più i soli abbozzi del Finale, scritti su 184 fogli di musica, l’ultimo dei quali vergato il giorno stesso della sua dipartita: 11 ottobre, 1896.

Quindi musica composta in prossimità della morte e, dalla falce di questa, troncata prima del completamento, proprio come era accaduto quasi 150 anni addietro a Die Kunst der Fuge di Bach, o come accadrà una quindicina d’anni dopo alla Decima di Mahler.

Personalmente – mettendomi nei panni di Bruckner (smile!) – sono propenso a vedere questa sinfonia come una specie di Divina Commedia. Mi spiego. Bruckner sapeva che questa sarebbe stata la sua ultima sinfonia, poiché mai avrebbe osato andare oltre il fatidico nove di Beethoven (e per restare entro quel limite ne aveva addirittura cestinate due, di sinfonie…) L’aveva dedicata a Dio (più in alto di così osar non si puote…) e doveva essere appunto – credo io – l’estrema sintesi di un lungo e travagliato percorso esistenziale, una specie di salvacondotto che lo accompagnasse dalla terra al cielo.

E come una sorta di prologo-in-terra mi immagino l’iniziale Feierlich.Misterioso: la presentazione della meta da raggiungere e la presa d’atto del faticoso cammino e dei tanti ostacoli che si parano davanti all’Uomo che si accinge all’immane impresa. E quindi la chiamata a raccolta di tutte le forze (musicali) disponibili. Cui segue l’Inferno dello Scherzo, una cosa per l’appunto demoniaca, dove guizzano fiamme e dove schiere di dannati marciano tenuti a bada da diavoli armati di forconi, o si danno a spiritate danze a ritmo di walzer! Ecco quindi il Purgatorio dell’Adagio, dove si comincia ad intravedere un poco di luce, lassù, in fondo ad un tunnel ancora occupato da sofferenze e da peccati da espiare. E infine il Paradiso del Finale (qui purtroppo però non ci basta più nemmeno l’immaginazione…) dove non a caso Bruckner, nei suoi schizzi, pare richiamarsi al TeDeum, del quale viene citato il famoso inciso che scende di un’ottava, passando per il quinto grado, come qui, nello schizzo della Coda, dove contrappunta un motivo di corale:


E sulla base di quest’ultima congettura, oltre che di supposte volontà di Bruckner, Ferdinand Loewe – uno dei discepoli-arrangiatori-adulteratori del Maestro e delle sue opere – in occasione della prima esecuzione della sinfonia (1903) appiccicò abbastanza arbitrariamente proprio il TeDeum ai tre movimenti compiuti. Cosa che per fortuna si è smesso di fare da quando – avendo la coppia Loewe-Schalk tolto il disturbo e con esso i millantati diritti sull’opera - Haas e Orel prima, poi Nowak e infine Redlich hanno potuto presentare una seria edizione della parte della sinfonia completata dall’Autore. Accertando allo stesso tempo che i corposi schizzi del Finale – che qualcuno (vedi qui) ha tentato di ricomporre per farne qualcosa di eseguibile - tutto lasciano intuire tranne la volontà di Bruckner di importarvi di peso il suo preesistente TeDeum.
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Dopo l’esordio da nona beethoveniana (ma senza la quinta vuota, solo il RE in tutte le voci dell’orchestra) otto corni e due trombe espongono con solennità il primo tema, che sfocia in questa stupefacente perorazione dei primi quattro corni:

Si passa qui dal RE minore (tonalità d’impianto) a MIb maggiore, quindi MIb un’ottava sopra, poi ecco, spiccando il volo, arriviamo ancor più in alto, al DOb maggiore la cui triade è pesantemente sottolineata dai corni. Da qui si scende fino al SOLb due ottave sotto, per risalire al MIb, quindi scendere al REb e alla sua sensibile DO. Come si vede, un percorso spettacolare, ma quanto mai contorto e dagli esiti ancora incerti.

Una transizione in crescendo porta poi ad una nuova perorazione: il secondo tema, una possente ottava discendente RE-RE (minore) poi ancora un’altra (LA-LA) e quindi l’appoggio provvisorio sul MIb; da qui risalita alla dominante LA (violini e corni sforano sul SIb) e quindi i due secchi accordi dominante-tonica che chiudono sul RE maggiore! Ancora una volta: grandi orizzonti raggiunti attraverso faticosi percorsi.

Un nuovo periodo di transizione, caratterizzato da un sommesso pizzicato degli archi e da brevi incisi negli strumentini, porta al terzo tema (Langsamer, più lento), un cantabile in LA maggiore - dove troviamo una chiara reminiscenza dell’Adagio della settima - che si ripete subito dopo e poi sfocia sul LAb dove oboe e clarinetto anticipano una forma invertita del quarto tema, che viene poi esposto (Moderato) dagli archi, arpeggiando sulla triade di RE minore; il tema si sviluppa poi come un sofferto procedere, con una punta sulla dominante e poi un’adagiarsi fra mediante e sopratonica; la sua reiterazione sfocia però ancora in un passaggio in DOb maggiore, un vero squarcio di luce, sottolineato da un largo gruppetto dei corni, attorno alla dominante SOLb. Che per poco diventa tonica, prima che una serie di arpeggi modulino alla relativa MI minore e da qui, per ascesa di un semitono, al sorprendente (ma assolutamente canonico, secondo le regole della forma-sonata) FA maggiore che sommessamente chiude l’esposizione.    

Sviluppo e ricapitolazione sono quasi un tutt’uno, poiché vi si mescolano manipolazioni dei quattro temi - trattati con variazioni e  modulazioni - e riprese degli stessi, magari in diverse tonalità. Sul RE minore di impianto chiude il gigantesco movimento una Coda che ripropone inizialmente il salto di ottava RE-RE del secondo tema, poi vi prendono il sopravvento gli ottoni (la tromba in particolare) che portano alla stentorea chiusa, con gli appoggi di MIb sull’accordo di quinta vuota di RE minore.  

Lo Scherzo (mosso, vivace) inizia con note tenute degli strumentini e un pizzicato degli archi che pare proprio introdurre uno scenario infernale; che infatti si materializza presto – così come la tonalità di RE minore - in un martellante motivo esposto ad intera orchestra (par di vederci i Nibelunghi schiavizzati da Alberich!):

È seguito da uno squarcio di apparente gaiezza, con l’oboe che intona un motivo in LA maggiore, staccato, imitato poi dal flauto, ma non v’è proprio nulla di bucolico in tutto ciò (come accadeva magari in altri scherzi di Bruckner) e infatti una successiva progressione ci riporta al martellante tema principale, lungamente sviluppato fino alla classica fermata sul RE minore (anche qui l’accordo è solo tonica-dominante). Il Trio (Schnell, rapido) è nella lontana tonalità di FA# maggiore, ed ha una parte sempre mossa e spiritata, seguita da una un filino più calma, ma sempre in un clima poco rassicurante. Lo Scherzo viene ripreso in toto per chiudere il movimento, quindi in RE minore.

L’Adagio.Langsam,feierlich è nella distante tonalità di MI maggiore (la stessa dell’Adagio della settima, dove però rispettava rigorosamente la tonalità d’impianto, oltre ad essere posto subito dopo il movimento iniziale). Si apre con il famoso salto ascendente di un’ottava aumentata (SI-DO), di cui Mahler si ricorderà al momento di aprire l’ultimo movimento della sua nona (dove sarà di un’ottava giusta, LA-LA):
 
La caduta cromatica DO-SI-LA# ci ricorda inevitabilmente il wagneriano Tristan, e la cosa non deve essere proprio casuale: siamo ancora in uno scenario di sofferenza, in cui appare però ben presto uno squarcio di luce, di speranza: ed è ancora Wagner a ispirarlo, laddove tromba e primi violini espongono un tema solenne e maestoso, in RE maggiore, che ricorda appunto… la Spada del Ring (quanti significati e allusioni si porta dietro!):

Ma poi sale anche più in alto, quasi fosse un Dresden-Amen, proprio come a cercare… il Paradiso? 

Un secondo tema compare poco dopo, a piena orchestra, su accordi in fortissimo dove su un fondo di dominante di SI (i FA# di archi, tromboni, corni e flauti, i MI e DO# degli oboi e i SOL# di clarinetti, tromboni, fagotti e viole) si innestano rapidi incisi delle trombe, che salgono dal SI al MI, passando per il DO#, con un effetto invero straniante, poiché lascia la tonalità sospesa fra tonica MI e sopratonica FA# (dominante della dominante).

Dopo che il FA# è calato al FA naturale, una transizione nei corni e nelle quattro tubette wagneriane (due lente discese che pare Bruckner avesse etichettato come il suo addio-alla-vita) portano all’esposizione del terzo tema, nobilissimo e cantabile, in LAb maggiore:

È seguito da un controsoggetto in SOLb maggiore, che poi modula enarmonicamente a FA#, col che si chiude l’esposizione.

Come per il movimento iniziale, anche qui sviluppo e ripresa si incastrano fra loro, con il ritorno dei temi, variamente manipolati, finchè si giunge alla Coda, una cosa assai simile a quella – invero stupefacente – che chiude l’Adagio dell’ottava. Un arpeggio dei corni precede le ultime 5 battute, dove corni, tubette, tromboni e tuba, con radi accordi in pizzicato degli archi, mettono il sigillo a questo – ahinoi incompiuto – testamento spirituale.

Io ritornai da la santissima onda
rifatto sì come piante novelle
rinovellate di novella fronda,
puro e disposto a salire a le stelle. 
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Per l’occasione Flor ha disposto l’orchestra alla tedesca (bassi a sinistra, secondi violini al proscenio, sulla destra). In più ha raggruppato al centro-sinistra corni, tubette, tuba e tromboni, isolando le trombette in alto a destra, accanto ai timpani. Scelta per me efficacissima.

Ed in effetti l’esecuzione di Flor e dell’Orchestra è stata letteralmente stre-pi-to-sa! Un primo movimento tenuto con una solennità spinta al limite dell’umana sopportazione (in senso positivo, sia chiaro!); uno Scherzo dove il tema principale pareva arrivare direttamente da un girone dantesco, mentre il Trio creava atmosfere irreali, stranianti; e l’Adagio conclusivo dove l’anelito all’assoluto usciva da ogni nota degli archi e dal caldo suono delle tubette e dei corni.

Un’emozione indescrivibile, unica e memorabile. Peggio per gli assenti…


Prossimamente torna la Direttora Xian con un altro robustissimo programma.

03 maggio, 2012

Riecco alla Scala la Toscaccia di Bondy, un pochino ricondizionata


Forse perché sono ancora da ammortizzare i costi dell’allestimento (altre serie ragioni non se ne vedrebbero, perlomeno…) la Scala ripropone anche in questa stagione la deplorevole Tosca di Luc Bondy, che già fece i suoi danni poco più di un anno fa. E, a differenza di allora, è pure inserita nel programma in abbonamento, così – avendola già pagata – un abbonato non può esimersi dal risorbirsela (d'altronde sarebbe azione quanto mai disdicevole, da parte dell’abbonato medesimo, deleteria per la promozione dell’opera lirica, nonchè punitiva verso un amico, prestargli la tessera d’abbonamento per l’occasione, smile!)

In realtà qualcosa di buono nel frattempo è accaduto poichè, essendo il regista svizzero contumace, in questa ripresa la brava Lorenza Cantini fa del suo meglio per smussare, se non proprio per cancellare del tutto (cosa impossibile) le sue principali efferatezze, in specie quelle del secondo atto. Insomma: una produzione che resta semplicemente sconcia, ma non più da codice penale (ri-smile!)

Per le prime due rappresentazioni si è ripetuto un copione ormai quasi obbligato al Piermarini: buh e grida di vergogna alla prima e poi quasi un trionfo alla seconda, oltretutto col cast alternativo. E anche certe reazioni sono state fedeli a quel copione: chi ha assistito alla seconda recita (e non alla prima) crede di aver la prova provata che l’insuccesso di quella fosse opera dei soliti sabotatori di professione; chi ha assistito alla prima (e non alla seconda) si dice certo che il successo di quest’ultima sia da ascriversi all’ignoranza del pubblico bue. Insomma: dispute da bar-sport, ma proprio di quelli che espongono il cartello vietato l’ingresso ai cani e alla logica

Insomma, eccomi puntuale in prima galleria a risentirmi (guardando il meno possibile…) questa straordinaria espressione del genio italico, una storia tutta fuoco e passioni come di più e meglio non potrebbe uscire dallo scenario della Roma papaloide di fine ‘700, mirabilmente descritta con gli strumenti musicali di fine ‘800.

Devo dire che, date le premesse, mi aspettavo di molto peggio. Invece devo ammettere che si è trattato di una prestazione complessiva tutto sommato sopra la sufficienza (certo non si parla né di dieci, né di lodi!)  

Di Luisotti si dice sia un esperto pucciniano: non so di preciso cosa significhi, ma devo dire che la sua direzione mi è parsa equilibrata (gli perdono qualche eccesso di fracasso in alcuni momenti topici) e rispettosa di chi sta sul palco a cantare. Con lui anche l’Orchestra mi è parsa suonare dignitosamente, inclusi i sempre criticati ottoni.

Martina Serafin è stata una Tosca per nulla disprezzabile (suo l’unico applausetto a scena aperta, dopo un Vissi d’arte peraltro non memorabile). Qualche problema, mi è parso, di intonazione sugli acuti, ma in complesso una prestazione onorevole.

Marcelo Álvarez non ha fatto rimpiangere per nulla – alle mie orecchie perlomeno – il bel Jonas della scorsa edizione: voce ancora sicura e soprattutto senza interventi di naso e gola, così caratteristici del commerciante crucco.

Su George Gagnidze (Scarpia) andrebbe stabilito se: a) lui canta male perché costretto dalla regìa a digrignare continuamente i denti e strabuzzare gli occhi, oppure se: b) lui digrigna i denti e strabuzza gli occhi perché non sa cantare (smile!)

Deyan Vatchkov era già stato un discreto Angelotti lo scorso anno, e mi pare abbia confermato quella prestazione.

Il sagrestano di Alessandro Paliaga ha fatto il suo dovere, facendosi almeno udire chiaramente fin su al loggione. Altrettanto non mi sentirei di dire per Massimiliano Chiarolla (uno Spoletta dimesso). Davide Pelissero (Sciarrone) ed Ernesto Panariello (carceriere) hanno ripetuto le loro oneste prestazioni, come nella precedente edizione. La voce in lontananza del pastore era di Elena Caccamo, che la locandina online del teatro ignora bellamente, insieme ai cori di Casoni.

Alla fine moderati applausi per tutti, con una punta (toh!) proprio per Gagnidze!

Insomma, mettiamola così: se non si fosse nell’indiscusso tempio della lirica (come recita con grande modestia la pubblicità Rolex e come ripete ogni giorno il modestissimo Lissner) si potrebbe persino tornare a casa soddisfatti.