affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

22 giugno, 2010

Britten torna a Venezia

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Dal 25 giugno al 3 luglio La Fenice ospita un'opera moderna: The turn of the screw (Il giro di vite) di Benjamin Britten. Opera cui ha dato i natali, il lontano 14 settembre 1954, allora con l'Autore sul podio e il compagno Peter Pears a sostenere i ruoli del Prologo e del fantasma di Quint. Adesso sarà Jeffrey Tate a dirigere la smilza orchestra e Pier Luigi Pizzi ad allestire lo spettacolo.

Come altre importanti opere di Britten (ad esempio l'antecedente Peter Grimes – che tratta in modo esplicito di un caso di sfruttamento di minori da parte di un personaggio in perenne conflitto con la società - e la posteriore Death in Venice – che descrive, sempre apertamente, il rapporto morboso fra un maturo signore ed un ragazzino avvenente) anche questa trae origine da un preesistente racconto, scritto da Henry James alla fine del 1800. Si tratta di una storia di apparizioni di fantasmi, ambientata a metà del diciannovesimo secolo in una vecchia dimora di campagna nell'Essex, a est di Londra.

Ma ad attirare l'attenzione di Britten non furono certo i fantasmi, bensì una precisa componente del racconto, che rappresenta concetti particolarmente (e ossessivamente?) cari al compositore. Il primo – che emerge esplicitamente dalle pagine di James – è relativo alla manipolazione di minori (due orfani, Miles e Flora, fratello e sorella, 10 e 8 anni, nella fattispecie). Il secondo – correlato al primo, e ancor più autobiografico per Britten, ma assai più sfumato, nascosto, criptato nel racconto di James – è il sostrato omosessuale (con risvolti pedofili!) della storia, in particolare per quanto attiene il rapporto fra il piccolo Miles e il fantasma di Quint (e, in certa misura, anche fra la piccola Flora e il fantasma di miss Jessel).

Il racconto dello scrittore americano ha programmaticamente dei contorni nebulosi (l'ombra di un'ombra, come lo stesso autore ebbe a definirlo); da gran furbone qual'era, lo scrittore sapeva bene come catturare l'interesse e l'attenzione dei suoi lettori (e proporre argomenti scabrosi senza correre troppi rischi) per cui lasciò deliberatamente aperte tutte le strade dell'interpretazione della sua opera, in modo che ciascun lettore sia portato inevitabilmente ad avanzare le proprie personali ipotesi riguardo la realtà (poca) e le suggestioni (innumerevoli) che vi vengono presentate. Sono quindi del tutto accademiche, pur se interessanti, le interminabili discussioni che da più di un secolo dividono i sostenitori dell'interpretazione apparizionista e di quella psicanalitica del racconto di James. Il quale si interessava alle ricerche sui fenomeni paranormali e alle storie dei classici fantasmi che popolano vecchi manieri britannici, ma allo stesso tempo – avendo purtroppo una sorella schizofrenica – era anche portato a seguire i progressi della psicanalisi. E sotto-sotto, tanto per gradire, non era estraneo a tendenze omosessuali.

Secondo la prima corrente di pensiero, i due fratellini orfani – di cui lo zio tutore nulla vuol sapere, pur garantendogli ogni risorsa materiale - furono oggetto, in passato, di innominabili quanto presunti o ipotizzati soprusi da parte di persone ormai defunte (Quint e Jessel) che ora appaiono nella casa come fantasmi per prendersi anche le loro anime e contro i quali si batte eroicamente la nuova, giovane istitutrice dei piccoli. Peccato però che questa sia la versione dell'istitutrice medesima, che è anche l'unica campana che si ascolta nel racconto di James (il diario in 24 capitoli scritto dalla ragazza) dove peraltro nessun testimone conferma le apparizioni e dove troviamo solo una serie di circostanze sospette e di sospettose insinuazioni, di retroscena misteriosi e di misteri mai spiegati.

Per la seconda, invece, i ragazzini sono oggetto di attenzioni equivoche e morbose, comunque ossessive, proprio da parte di chi (l'istitutrice) ha assunto il compito della loro custodia ed educazione. Costei sarebbe affetta da complessi (di origine erotica, nei confronti del tutore dei ragazzi, o anche di natura esistenziale, legati all'educazione ricevuta dal padre) che le provocherebbero di conseguenza un raptus di possessività - in particolare nei confronti del piccolo Miles – che a sua volta la porterebbe ad inventarsi le figure e le apparizioni dei fantasmi – in realtà costruzioni del suo inconscio, della sua mente instabile e della sua schizoide personalità - proprio per poter manipolare e finalmente possedere i piccoli. Con la conseguenza disastrosa di essere lei stessa la causa diretta dell'ammattimento della piccola Flora prima, e poi della morte del piccolo Miles; altro che salvarli dagli spiriti maligni!

Torniamo ora a Britten e alla sua amica librettista Myfanwy Piper per domandarci quale fu il loro approccio nella stesura del libretto, e quindi della musica dell'Opera. Intanto si potrebbe a prima vista immaginare che i due fossero abbastanza indifferenti rispetto all'interpretazione (apparizionista o psicanalitica) da dare alla storia, poiché a loro premeva soprattutto una cosa: mettere in scena un soggetto dove dei bambini fossero in qualche modo manipolati (non importa da chi) e posti al centro di vicende equivoche ed inquietanti. Ciò resta comunque ed invariabilmente vero, quale che sia l'interpretazione che si dà del racconto di James; cambia solo il soggetto che minaccia la serenità dei fanciulli: da un lato i malvagi fantasmi di ignobili persone defunte a caccia di anime, dall'altro l'apparentemente (ed ossessivamente) amorevole istitutrice, vittima dei suoi complessi freudiani. O magari – terza scelta - tutti quanti insieme!

Ma a Britten importava anche e assai – senza dubbio – far emergere in modo chiaro, o meno criptico rispetto a James, gli elementi di omosessualità (e pedofilia) nascosti dentro la nebbia del racconto. E ciò richiedeva necessariamente di presentare sulla scena i protagonisti di quei rapporti e di mostrare al pubblico che quei rapporti esistevano per davvero. Ecco quindi che, con il pretesto che non si potrebbe costruire un'opera - da musicare e rappresentare in teatro - esclusivamente centrata su un unico personaggio (l'istitutrice, appunto) e sul di lei racconto, Britten e Piper poterono introdurvi anche gli altri personaggi della storia: i piccoli (Miles e Flora), la governante della casa (Mrs. Grose) ma soprattutto, e in-primis, i fantasmi di Quint e di miss Jessel. I quali in James sono esclusivamente visti o percepiti dall'istitutrice (e da nessun altro!) e non profferiscono verbo alcuno, mentre nell'opera di Britten appaiono non solo a tutti gli spettatori (oltre che all'istitutrice) ma anche ai fratellini… e soprattutto parlano (anzi cantano, come si conviene a personaggi di un'opera musicale) sia ai ragazzi, sia fra di loro.

Naturalmente la maestrìa musicale di Britten si incaricherà di stabilire tutta la fitta rete di relazioni fra i fantasmi e i piccoli, mentre sul piano visivo è l'ultima scena del primo atto il teatro scelto da Britten/Piper per renderci esplicito e inequivocabile (e non solo presunto, quindi indimostrabile, come in James) lo scabroso e malsano rapporto esistente – e preesistito – fra i quattro. Quint parla a Miles e Miles risponde; Jessel parla a Flora e Flora risponde; ed è come se riprendessero discorsi interrotti da poco tempo, fra loro esiste una scoperta complicità, non vi possono essere dubbi! E da qui tutta la nebbia di James svanisce: la prima scena del secondo atto ci mostra Quint e Jessel che si incontrano – in un luogo indeterminato, che potrebbe essere l'inconscio dell'istitutrice - e letteralmente discutono della loro situazione, del loro passato, dei loro progetti, di come catturare definitivamente le personalità dei piccoli. La Piper qui introduce il famoso verso di Yeats («The ceremony of innocence is drowned») che è in effetti il programma politico dei due fantasmi-amanti-corruttori-pedofili.

Poi – nella quinta scena – Quint istigherà Miles a rubare la lettera dell'istitutrice, pronta per essere spedita allo zio dei ragazzi, e Miles eseguirà immediatamente l'ordine. Infine, nella drammatica scena conclusiva, Quint cercherà disperatamente di convincere Miles al silenzio, a non tradire i loro segreti. E alla fine, sconfitto, ammetterà: Ah, Miles, we have failed. Proprio così: noi abbiamo fallito!

Insomma, il risvolto apparizionista del libretto fu evidentemente una scelta quasi obbligata per Britten/Piper, ma per ragioni - come dire - ideologiche prima che artistiche, e meno ancora per necessità legate all'allestimento. È però interessante rilevare come nell'opera siano presenti – anche e soprattutto nella natura dei motivi musicali – degli indizi non trascurabili di affinità, se non di complicità, fra i personaggi dei fantasmi (Quint in primo luogo) e la stessa istitutrice, indizi che fanno quindi riemergere sottilmente anche i risvolti freudiani della vicenda. È come se Britten, ancora una volta, avesse voluto mostrarsi equidistante dalle interpretazioni del racconto di James, ma non prima di aver introdotto nella sua propria opera ciò che gli premeva di più.

Bene, vedremo a Venezia come Pier Luigi Pizzi ci presenterà questa storia, che non cessa mai di affascinare. A proposito del titolo, ci sono almeno tre possibili origini: una, del tutto generica e presumibilmente estranea alla volontà di James, che deriva dall'uso che dell'espressione si faceva – e ancora si fa? - nelle carceri (il giro di vite che serviva a far parlare un testimone reticente); l'altra, presa dal prologo del racconto, dove si afferma che la storia di un fantasma che appare ad un bimbo dà un giro di vite alla drammaticità dell'evento (e quella che riguarda due bimbi, provoca due giri di vite); infine, nel capitolo XXII del racconto, la protagonista (l'istitutrice) usa il termine su di sé, nel senso di dare, con un giro di vite, ulteriore forza alla sua volontà; insomma, di darsi la carica in vista del momento tòpico della vicenda: il suo finale show-down con il piccolo Miles e il fantasma di Quint.

Sul versante musicale, Britten impostò il suo lavoro con rigide e matematiche ed anche artificiose e gratuite simmetrie: 8 scene per ciascuno dei 2 atti (più il Prologo) tutte precedute da un'introduzione orchestrale. Le 16 introduzioni propongono rispettivamente un tema e sue 15 variazioni.

Dopo il Prologo e come introduzione alla prima scena, abbiamo l'esposizione al pianoforte del tema, una serie dodecafonica, suddivisa in 3 tetracordi (ciascuno composto da due coppie di note distanziate di una quarta) che poi comparirà, variata (anche attraverso operazioni fiamminghe di inversione, retrogradazione, etc.) per altre 15 volte, precedendo come si è detto le altrettante scene dell'opera:

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È questo il solo e labile riferimento alla tecnica e alla scuola dodecafonica, cui Ben Britten rimase sempre sostanzialmente estraneo (anzi, arrivando quasi ad irriderla ed offenderla in Death in Venice) conservandosi fedele alla tradizione e introducendo al massimo qualche dissonanza nelle sue composizioni, rigorosamente ancorate alla tonalità (nello Screw abbiamo, ad esempio, il chiaro contrapporsi di LA naturale e di LA bemolle, a rappresentare ingenuamente – semplifico – il bene e il male).

Quanto all'orchestrazione, è assolutamente cameristica, con 13 soli esecutori: quintetto d'archi (2vl-vla-vc-cb) flauto (prende ottavino e contralto), oboe (prende corno inglese), clarinetto (prende clarinetto basso), fagotto e corno; poi arpa, percussioni varie e pianoforte (alternato a celesta).

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Interessanti approfondimenti sono reperibili in sul sito del Teatro, allegati al libretto dell'opera (circa 7 Mbyte pdf).

18 giugno, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 36

Chiusura davvero in grande per la stagione 2009-2010 de laVerdi. Con lo sfoggio di tutta l'impressionante potenza di fuoco di cui è capace: in un Auditorium quasi pieno (ma che si è purtroppo smagrito nell'intervallo… bah) abbiamo ascoltato un'opera – il Paulus - che da decenni non si dava in Italia, e vorrà pur dir qualcosa!

Orchestra con disposizione moderna, senza organo (che dovrebbe suonare solo in 13 dei 45 brani e spesso con pura funzione di pedale) e con controfagotto a sostituire l'antico serpente. Il venerabile Rilling – che con questo Mendelssohn bachiano è proprio a casa sua - dirige a memoria!

E a proposito di Bach, cui Mendelssohn non nascondeva affatto di ispirarsi, in questo oratorio ne aleggia proprio lo spirito, dai contenuti religiosi alle forme. Già l'Ouverture cita scopertamente – a parte la tonalità di LA, invece di MIb - il Bach della Cantata BWV-140 Wachet auf, ruft uns die Stimme:

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Questi stessi versi e note compariranno poi nel grandioso Corale N°15, in RE maggiore.

Dell'incipit del N°1, il coro che apre l'Oratorio, si ricorderà addirittura Wagner, nel principio del suo Lohengrin! (a dispetto del trattamento non propriamente urbano riservato a Mendelssohn dall'antisemita Wagner nel suo libello Das Judenthum in der Musik).

A confermare la predilezione di Mendelssohn per i temi religiosi e biblici – tipico approccio luterano - l'ultima parte dell'ultimo coro (Lobe den Herrn, meine Seele) verrà più avanti ripresa dal compositore ed inserita – diversamente musicata, a parte l'incipit - nella sua seconda sinfonia, come secondo dei 10 brani vocali della Lobgesang:

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Un bravo ai quattro solisti – il soprano Simone Schneider su tutti - e soprattutto al coro di Erina Gambarini, che ha anche fornito le due voci di basso soliste (i falsi testimoni) per il N°3 e che ha surrogato con i soprani anche la parte assegnata alle voci bianche nel N°35.

Successo pieno e calorosi applausi per tutti per questa degna chiusura di stagione.

Appuntamento il 5 settembre alla Scala per l'inizio di una nuova avventura!

17 giugno, 2010

Manfred a Torino

Ieri sera, l'ultima recita al Carignano di Manfred. Che, da sabato 19 (diretta su Radio3, ore 20) si trasferisce per altre 5 rappresentazioni al Regio.

Uno spettacolo assai interessante ed intelligente, cose non facili da raggiungere con un'opera come questa, che è né carne né pesce, si potrebbe dire. E si comprende perché la stragrande maggioranza delle (pochissime) esecuzioni avviene in forma di concerto e magari (come nel caso di Carmelo Bene) con il solo protagonista a recitare, accanto ad orchestra e coro. Insomma, trovare il giusto equilibrio fra recitato puro, recitato su sfondo musicale e cantato, e rendere lo spettacolo coinvolgente, senza inutili lungaggini o dispersioni o cadute di tensione non è propriamente una cosa facile.

Di ciò va reso onore al regista Andrea De Rosa e ai suoi collaboratori per scene, costumi e luci, oltre che a tutta la compagine musicale ed attoriale.

Due parole sul testo, nella nuova traduzione di Enzo Moscato. Giustamente, in vista dello spettacolo sceneggiato, è stato dato abbastanza spazio anche a parti – di puro recitato - che quasi sempre vengono espunte. Una di queste è la presenza del cacciatore di camosci che nell'originale di Schumann appare solo di sfuggita (poche parole nel N°4, Alpenkuhreigen) mentre nel poema di Byron occupa la scena finale della prima parte e quella iniziale della seconda. Ignorati invece – ma con piena giustificazione – i personaggi e i relativi recitati di Hermann e Manuel, che non aggiungerebbero valore e farebbero probabilmente cadere la tensione del finale.

Altri interventi rispetto al testo originale di Byron (e in parte di Schumann) riguardano i personaggi extraterreni (spiriti, maghe, parche): per evitare di disorientare uno spettatore che non conosca preventivamente e a fondo il poema di Byron, si son fatte delle semplificazioni. Mentre in Byron (nella prima scena) abbiamo sette spiriti, più una voce e in Schumann solo 4 (cantanti) e poi (nella seconda parte) abbiamo le tre parche più Nemesi e (nella terza) lo spirito di Manfred, qui abbiamo solo tre figure recitanti femminili che li impersonano tutti: nella prima parte (sulla Jungfrau) due di esse espongono alcuni versi del monologo di Manfred (rendendolo così meno pesante); nella seconda assumono le vesti delle tre Parche. Una di esse, togliendosi la bionda parrucca e rimanendo con una cuffia nera, assume poi il ruolo di Nemesi e, alla fine, quello dello spirito di Manfred.

Anche grazie alla corposità (relativa) delle parti recitate il tutto dura quasi 90 minuti, senza intervalli: una cosa del tutto sopportabile e dove l'attenzione e la tensione rimangono sempre alte.

La scena è spartana: sullo sfondo del palcoscenico è disposta l'orchestra, separata dal proscenio da un sipario semi-trasparente. Si intravede appenda durante le parti musicate, mentre resta totalmente al buio durante i recitati puri. Davanti l'orchestra, ma sempre dietro la zanzariera, un'impalcatura di tubi innocenti: vi si collocano, all'inizio, i quattro cantanti-spiriti; poi serve a rappresentare le vette della Jungfrau, accogliendovi Manfred e il cacciatore; quindi, poco più in basso, fa da baita del cacciatore medesimo, all'inizio della seconda parte; infine vi compaiono gli spiriti di Ariman, cioè …il coro di Gabbiani, per la conclusione della seconda parte.

Sul proscenio, anzi sopra la buca (vuota) dell'orchestra, un praticabile dove sta un tavolaccio sul quale giace supina (fin da quando il pubblico fa l'ingresso in sala e fino alla fine) Astarte. A significare la centralità di questa figura, che è un po' l'idée-fixe di Manfred, che crede di vederla ad ogni piè sospinto (anche nella materializzazione dello spirito - nella prima parte - e in quella della maga delle alpi - nella seconda) e il cui ricordo, con annessa colpa, accompagna ogni suo atto e parola. Il suo corpo è completamente nudo, a rappresentare, credo, il contenuto peccaminoso, la colpa e la vergogna della relazione di Manfred con la sorella. Non a caso, il corpo verrà rivestito solo alla fine, allorquando Manfred troverà pace (secondo Schumann peraltro, e non secondo Byron) sdraiandosi per morire (finalmente, dopo tanti tentativi) a fianco dell'amata, sul canto del Requiem.

Manfred e il cacciatore e poi l'abate (questi ultimi impersonati dallo stesso attore, visto che rappresentano – in opposizione a Manfred – la gente normale) scendono talvolta in platea, per dare maggior enfasi ad alcune parti dei loro recitati.

E a proposito di recitazione: Valter Malosti (che è subentrato alla francese Frédérique Loliée, originariamente destinata al ruolo en-travesti, ma che ha dato forfait da tempo, causa maternità) ci ha mostrato un Manfred genuino, dalla personalità instabile, un tipo complessato e un po' vanesio, afflitto da problemi esistenziali e da sensi di colpa, presuntuoso e megalomane, ma allo stesso tempo fragile e inquieto. Certo, un'interpretazione assi distante da quella che molti hanno ancora in mente (e che si può rivedere in parte su Youtube) di Carmelo Bene.

L'altro recitante che ha in questa edizione un ruolo importante è Marco Cavicchioli che – come detto – impersona il cacciatore e poi l'abate. Efficace la sua interpretazione, di persone normali, gioviali e senza complessi, che fa da grande contrasto con quella del protagonista. Brave le altre, Daniela Piperno, Francesca Cutolo e Milvia Marigliano, che pure hanno parti importanti, anche se quantitativamente limitate.

Paola Caterina D'Arienzo è Astarte: la sua fatica più grande è stare per 100 minuti svestita e sdraiata su un duro pancone (salvo i pochi momenti in cui Manfred la solleva, e le poche sillabe che deve pronunciare durante la sua apparizione). Insomma, lei interpreta un simbolo, più che una persona.

Sul fronte musicale, direi che Gianandrea Noseda (da suo concittadino non posso che tifare per lui!) e Roberto Gabbiani con il suo coro (e i bassi e baritoni che cantano la maledizione) oltre agli spiriti solisti (Daniela Pini, Cristina Barbieri, Matthias Stier e Andrea Papi) hanno fatto del loro meglio per farci apprezzare quest'opera, che non sarà un capolavoro assoluto, ma che non merita neanche il mezzo oblìo in cui è caduta.

Alla fine, quasi 10 minuti di applausi continuati – e più che meritati - hanno accolto interpreti e direttori.
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15 giugno, 2010

Arriva un nuovo Faust alla Scala

Dal 18 giugno (Bondi permettendo) sesta nuova produzione della stagione 2009-2010 (sulla quantità non si discute, caro Lissner… è la qualità che non convince fino in fondo) con il Faust di Gounod messo in scena dal lituano Eimuntas Nekrosius, che già si è cimentato in teatro di prosa con l'originale (prima parte) di Goethe.

Con Faust sono stati molti i musicisti – e non – che ci hanno provato. Da Spohr a Beethoven, da Schubert a Schumann, da Berlioz a Mendelssohn, da Liszt a Wagner e su su fino a Boito, Schnittke, Mahler e Busoni. Ovviamente nessuno ha preteso di racchiudere nelle sue opere l'intero e sterminato corpus faustiano, ma ciascuno ha preso qua e là degli spunti più o meno interessanti per costruirci la propria interpretazione.

Quanto a Gounod, apprendiamo dal Corriere che trattasi di un'operetta (smile!) Non si sa se il grande Charles, un tipo rotto a tutti i compromessi, sarebbe entusiasta della definizione per la sua creatura più importante ed anche - in virtù dei citati compromessi - più manomessa. (Goethe magari, dopo essersi rivoltato nella tomba per i crimini di Gounod, potrebbe concludere: ecco, ben ti sta…)

Nekrosius, nella sua versione teatrale, ha tagliato completamente tutta la parte di Walpurgis (che in Gounod occupa la prima scena del quinto ed ultimo atto): vedremo se convincerà anche il Kapellmeister Stéphane Denève a fare altrettanto (ne dubito, né lo auspico). Il quale Denève credo invece (visto che sulla locandina manca ogni riferimento a coreografi e danzatori) casserà i balletti che – sempre nel quinto atto – furono aggiunti da Gounod – nella seconda scena, il Palazzo di Méphistofélès - per far contenti gli abitué dell'Opéra (questa sì sarebbe davvero operetta, bella ed orecchiabile musica, per carità, come Léhar, ma insomma il walzer del secondo atto basta ed avanza per saldare questi tipi di debito).

Per il resto, cosa si sentirà e cosa verrà tagliato è sempre un terno al lotto anticiparlo - viste le abitudini dello stesso Autore - con opere come questa. Che nacque come comique (un Singspiel, per parlar tedesco) e poi si trasformò lentamente in Grand-opéra, con recitativi cantati e soppressione dei melologhi.

E basterà ricordare che l'aria forse più famosa ed orecchiabile di tutta l'opera ("Avant de quitter ces lieux", cantata da Valentin nel second'atto) fu aggiunta da Gounod 5 anni dopo la prima e solo per compiacere Sir Charles Santley, baritono britannico interprete del ruolo in una ripresa dell'opera in Albione, nel gennaio 1864. Come testimonia il manoscritto, con il testo in inglese ("Even bravest heart may swell") e l'ossequiosa dedica in calce (con tanto di errore nel nome del dedicatario, scritto Stanley, come il famoso nobile irlandese dei tempi, addirittura governatore del Canada):






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E poi, che l'ordine stesso di alcune scene fu cambiato in corsa dal compositore, vedasi l'atto IV, dove – conformemente a Goethe – nella versione originale arrivava prima la scena del ritorno di Valentin, con annesso duello con Faust, e poi quella del Duomo; sequenza invertita successivamente (non senza buone motivazioni drammatiche).

Di tutte queste cose, e di altre ancora, ha trattato ieri, al ridotto Toscanini, la conferenza di presentazione dell'Opera, condotta dal professor Emilio Sala, che è consueto autore della rubrica Opera in breve, pubblicata sul sito del Teatro e sul programma di …sala (smile!)

Sala si è – giustamente – soffermato su quelle che si possono definire le innovazioni introdotte da Gounod a livello drammatico e musicale, portando alcuni esempi assai appropriati.

Il primo riguarda l'incontro fra Faust e Marguerite, che non solo è del tutto al di fuori dagli stereotipi del melodramma tradizionale (aria-duetto) ma che si incastona, nello stesso tempo di 3/4, nel walzer che chiude il secondo atto, come andantino a velocità ridotta a un terzo; rappresentando il mondo privato ed intimo dei due personaggi, all'interno della generale kermesse del popolo in festa. E qui Sala fa due interessanti paralleli verdiani: il duetto Violetta-Alfredo, che pure si inserisce come momento di intimità all'interno del walzer della festa; e il SI acuto cantato da Faust (sul Je t'aime nel terzo atto) che è parente del SIb acuto di Radames (Celeste Aida), entrambi da eseguirsi piano, e non con il classico piglio stentoreo degli acuti tenorili.

Il secondo punta l'attenzione sulla scena del duomo (atto IV): dove è in corso una funzione religiosa, con tanto di organo e di canto corale (non proprio il dies irae previsto da Goethe, ma qualcosa di simile) mentre Marguerite prega da sola (vicino all'acquasantiera) e viene raggiunta da Méphistofélès e dagli spiriti del male, che cantano il suo nome sullo sbifido tritono (REb-SOL, il diabolus in musica). Anche qui è mirabilmente reso il contrasto fra sacro e diabolico (dove per la verità il sacro fa quasi più paura del diabolico alla povera Marguerite!)

Un ultimo interessante riferimento musicale: nella chiusa del terzo atto, dopo che Faust è stato letteralmente buttato da Méphistofélès fra le braccia di Marguerite, si ode un tema, in 9/8, FA maggiore, ma venato da due modulazioni in minore, quasi a sottolineare come l'amore di Marguerite si accompagni ad una colpa, o sia frutto di maleficio. Ecco, quel tema verrà ripreso nel finale dell'Opera, un tono intero sopra, SOL maggiore modulante poi al DO, depurato da ogni ombra, al momento dell'apoteosi della protagonista, ormai liberata da ogni sortilegio e redenta dalle sue colpe, con il coro pasquale che inneggia a Cristo resuscitato.

In sostanza: assieme a tante banalità, luoghi comuni del melodramma e delitti di lesa maestà nei confronti del sommo Goethe, il Faust di Gounod porta con sè anche qualità degne di ammirazione e tutto sommato mostra di meritarsi la posizione di rilievo che ha avuto ed ha tuttora nel mondo dell'opera.

11 giugno, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 35

Sempre Xian Zhang a dirigere il penultimo (ultimo per lei) concerto de laVerdi per la stagione 2009-2010. La dedica è al grande Carlo Maria Giulini, benefattore della Fondazione e dell'Orchestra, scomparso di questi giorni in quel di Brescia, nel 2005. E il programma è proprio di quelli che il compianto maestro avrebbe di sicuro prediletto.

In un Auditorium pieno come un uovo e con l'orchestra disposta (come sembra prediligere Xian Zhang) con le viole in prima fila, si apre con il Beethoven del Concerto per violino. In ambientazione orientale, visto che la solista è Jennifer Koh, americana dell'Illinois, ma figlia di coreani, mentre la Kapellmeisterin cinese dà il là ai cinque rintocchi di timpano eseguiti dalla giapponese Chieko Umezu.

La Koh, in un lungo scollato color lampone, invece di aspettare il suo turno, che arriverebbe alla battuta 89, forse per scaldare i motori, si associa ben prima alla sezione degli archi, suonando anche parte dell'introduzione. Poi attacca la sua parte solistica con piglio nervoso e quasi espressionista. La potenza e limpidezza del suono del suo Stradivari 1727 sono pari alla sua abilità tecnica e virtuosistica. Che si manifesta nei lunghi passaggi del primo movimento, come nelle delicate melodie del Larghetto e poi nell'impertinente ritornello del Rondò.

Gran trionfo per la giovane artista che, richiamata a più riprese da insistenti applausi, ci concede un serioso bis bachiano.

Dopo la pausa si rientra con un'orchestra super-rinforzata per la Prima Sinfonia di Mahler: percussioni (gran cassa, tamtam, piatti e triangolo) seconda postazione di timpani per il finale (dove passa la Umezu, mentre sulla prima arriva la titolare Viviana Mologni); poi 8 corni, quattro trombe e altrettanti tromboni (una tromba e un trombone dislocati vicino ai corni, per il tumultuoso finale) la tuba e l'arpa. Insomma, il palcoscenico è affollato come la platea, per questo antipasto mahleriano, in vista della quasi-integrale in programma nella prossima stagione, nel 100° anniversario della morte del boemo (mancherà solo l'ottava, per la quale il palcoscenico andrebbe probabilmente raddoppiato!)

Per la verità le tre trombe principali sembrano assenti, ma presto si comprende che non sono affatto in ritardo: semplicemente suonano le loro iniziali fanfare stando dietro l'ultima quinta di sinistra, visto che Mahler prescrive siano poste in grande lontananza. L'effetto è davvero emozionante. Dopodichè fanno il loro ingresso alla chetichella, andando a sistemarsi al loro posto.

Zhang dà una lettura in grande chiaroscuro del primo movimento: quasi cameristica l'esposizione (con esecuzione canonica del ritornello, il cui motivo ripete il tema del secondo dei Lieder eines Fahrenden Gesellen, Ging heut' morgens übers Feld e nella stessa tonalità di RE maggiore) e dello sviluppo; poi forti contrasti ed esplosioni sonore nella ricapitolazione e nella coda, che mozza sempre il fiato, con quelle lunghe pause che inframmezzano le secche bordate – RE-LA, la quarta che è un po' il DNA della sinfonia - del timpano e le semicrome dei fiati.

Nello Scherzo non si bada a spese, in quanto a sonorità, soprattutto degli ottoni, in particolare nei vorwärts che chiudono esposizione e movimento. Intimistico il Trio, con le due sezioni di Ländler, dove gli ottoni, contrariamente ai classici dettami, hanno una parte marginale, mentre sono archi e strumentini a farla da padroni.

La marcia funebre – il nostro Frà Martino campanaro, in modo minore – è forse resa con meno contrasti del dovuto (ad esempio negli incisi dell'oboe); eccellente la resa della sezione intermedia, dove l'arpa introduce languidamente il secondo motivo del quarto dei Lieder eines Fahrenden Gesellen (Die zwei blauen Augen) principiante con le parole Auf der Straße stand ein Lindenbaum (sulla via c'era un tiglio). Qui in SOL maggiore, dove là (nei Lieder) era in FA.

Nel tempestoso finale Zhang scioglie tutte le briglie e l'orchestra si butta a capofitto in quest'orgia sonora. Interrotta dalla languida sezione in RE bemolle, con tanto di emozionante rubato. Nello sviluppo c'è poi quel passaggio tòpico, dove si modula da DO minore a DO maggiore e da qui, con una scala ascendente DO-RE-MI-FA si salta bruscamente sul… LA e sull'accordo di RE maggiore (un procedimento mutuato dal wagneriano Rheingold, chiusa del Wie liebliche Luft di Froh). Ecco, fra il FA e il LA, Mahler prescrive una Luftpause, una presa di respiro: invece Zhang ferma tutti per almeno una semibreve, il che crea un effetto tanto straordinario quanto forse eccessivo e gigionesco.

Poi la ricapitolazione e quindi il gran finale, con i corni ed annessi tromba e trombone che si alzano in piedi per dare ulteriore risalto a quel fiume in piena di suoni che chiude questa sinfonia ormai entrata di diritto nei repertori di tutte le grandi orchestre e di tutti i direttori. Tripudio assordante, battimani ritmati e urla selvagge a salutare una prestazione invero rimarchevole.

L'ultimo concerto della stagione sarà affidato al Direttore ospite Helmuth Rilling, con il monumentale Paulus mendelssohniano.

09 giugno, 2010

Torino chiude con Manfred

L'ultimo spettacolo del cartellone 2009-2010 del Regio-TO, prima della tournée in Oriente, è Manfred. 10 recite, di cui 5 al Carignano (per via della co-produzione con lo Stabile) e 5 al Regio. Sul podio Gianandrea Noseda.

Interessante proposta, perché trattasi di un'opera che, pur non essendo un capolavoro assoluto, non merita neanche il disinteresse che la circonda, specie in Italia, dove l'ultima significativa presenza fu quella dell'edizione di Carmelo Bene a Santa Cecilia e alla Scala, più di 30 anni fa.

E per l'occasione – fra l'altro ricorrono proprio in questi giorni i 250 anni dalla nascita di Schumann - viene presentata con una nuovissima traduzione italiana del testo di Byron, predisposta da Enzo Moscato (lo stesso Carmelo Bene aveva curato la traduzione per il suo spettacolo). Si tratta ovviamente sempre di riduzioni del testo originale, in vista del loro impiego con la musica del genio di Zwickau.

La quale prevede una corposa ouverture (dura 12-13 minuti e occupa quasi metà delle pagine della partitura) poi 4 numeri musicali per la prima parte, 7 numeri per la seconda parte e infine 4 numeri per la terza. Quanto ai parlati, la partitura di Schumann fornisce indicazioni piuttosto precise per ciò che si deve recitare, o cantare, sui numeri musicali, lasciando per il resto agli interpreti di decidere quanto o quanto poco del testo di Byron presentare. Insomma, nell'insieme abbiamo una specie di Singspiel, piuttosto spurio, dato che il protagonista si limita a recitare, da solo o su sottofondo musicale, e dove le parti cantate sono riservate a personaggi, per così dire, minori, o al coro. Il tutto per una durata che supera di poco – o di tanto, a seconda dei casi - l'ora.

A Torino dovremmo vedere una rappresentazione scenica (regìa di Andrea De Rosa) con attori e cantanti/coro che circondano il recitante Valter Malosti, nel ruolo del protagonista (ruolo che originariamente era stato affidato, en travesti, a Frédérique Loliée).

Il poema di Byron è di quelli tipici di certo velleitarismo romantico: esposizione di problemi e drammi esistenziali di cui si fatica a comprendere le ragioni (risvolti autobiografici a parte); eroismo a buon mercato di un protagonista con complessi di superiorità, ammirazione per la grandiosità della natura, evocazione di spiriti, maghe e folletti, desiderio di autodistruzione… insomma ci sono tutti gli ingredienti per una storia a tinte fosche e buona come materia per le analisi del dottor Freud.

Manfred è anche - un pochino - la scimmiottatura del Faust, a cominciare dalle proporzioni ridotte quanto all'ampiezza materiale (403 versi per la parte prima, 594 per la seconda e 478 per la terza) e per la non eccelsa consistenza filosofica, drammatica e poetica del soggetto. Che francamente viene riscattato proprio dalla musica del grande Robert, anche lui un romantico, ma di quelli che facevano sul serio, producendo arte sopraffina e – caso mai – impazzendo per davvero, e non per affettazione. (Da parte sua, anche Ciajkovski ha contribuito assai alla fama di Manfred, con la sua Sinfonia op.58).

L'ouverture – che è talvolta eseguita in concerto - è in realtà un compendio dell'intero dramma, quasi un poema sinfonico. Dopo l'introduzione lenta si presenta, in MIb minore, un tema agitato, che ben rappresenta la personalità di Manfred. Esso si sviluppa poi nella relativa FA# maggiore, per introdurre il tema elegiaco, femminile, legato ad Astarte, l'amore proibito, origine di tutti i complessi esistenziali del protagonista. Da qui in poi, secondo i canoni della forma-sonata, i temi si sviluppano, si intrecciano, si confrontano e scontrano, fino a quando il tema di Astarte, scivolato nella tonalità di impianto, conduce ai lenti accordi di MIb minore della mesta conclusione.

Siamo ora nel castello di Manfred, alle pendici delle Alpi bernesi, dove il nostro manifesta tutta la sua insoddisfazione esistenziale e il desiderio di avere pace nel completo oblìo, di se stesso innanzitutto, e dell'universo in generale. A conseguire il quale oblìo Manfred chiama a raccolta tutti gli spiriti possibili ed immaginabili, a lui asserviti (in base a quale megalomanìaco potere, lo sa solo Byron…) Fatto sta che gli spiriti - un poco a fatica, per la verità – si fanno vivi e chiedono a Manfred cosa lui voglia da loro.

Ecco quindi il N°1, Gesang der Geister, il canto degli spiriti. Nella partitura schumanniana ne sono previsti 4 (dei 7 dell'originale) che rappresentano i 4 elementi fondamentali (aria-contralto, acqua-soprano, terra-basso, fuoco-tenore) e che purtroppo deludono Manfred: possono dargli qualunque cosa, ricchezze, potenza, onori, ma non ciò che egli chiede. E nemmeno da morto! Chè l'anima umana è immortale e l'oblìo le è negato. Come contentino, Manfred chiede che almeno uno degli spiriti si materializzi sotto una qualche forma.

E qui abbiamo il N°2, Erscheinung eines Zauberbildes, solo 29 battute musicali dove il violino descrive la comparsa di una magica figura, sotto forma di una bellissima creatura femminile, alla cui vista Manfred va in estasi (e si arrapa un pochettino, diciamolo pure…) prima che l'immagine svanisca nel nulla, lasciandolo con un palmo di naso… anzi, propriamente svenuto!

Nel successivo N°3, Geisterbannfluch, l'anatema degli spiriti, quattro voci di basso (in Byron è una sola voce) lanciano – insieme, a due, un singolo - il loro anatema su Manfred: tu sarai il tuo proprio inferno!

Ora Manfred si risveglia sui monti della Jungfrau, di cui ammira la bellezza imponente; si ode il suono di una cornamusa di pastori: oh, come vorrebbe Manfred essere lo spirito di un suono, una voce, un'armonia, un incorporeo godimento! Arriva un cacciatore di camosci che lo vede sull'orlo di un precipizio, nell'atto di buttarsi di sotto per farla finita, e lo trattiene, per portarlo nella sua baita. Tutto ciò è scritto in Byron e solo in piccolissima parte rappresentato nel N°4, Alpenkuhreigen, danza degli alpeggi, che chiude la prima parte del dramma, costituito da un assolo del corno inglese. Siamo dopo il Berlioz della fantastica e prima di Wagner, ma non può non venire subito alla mente il pastorello del Tannhäuser:











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La seconda parte si apre con un delicato e pastorale interludio orchestrale (N°5) in FA maggiore, che ben descrive il paesaggio alpestre dove Manfred è tornato.

In realtà, nel poema di Byron, è premessa una scena - spesso espunta – del colloquio fra Manfred ed il cacciatore di camosci, nel rifugio di quest'ultimo. Manfred fa qui un primo, vago accenno all'amore proibito, allorquando scambia per sangue il vino che il cacciatore gli offre: Dico è sangue! il mio sangue; l'umore puro e caldo che scorre nelle vene dei miei padri e nelle nostre quando noi eravamo giovani ed avevamo un cuore solo, e ci amavamo come non avremmo dovuto amarci.

Manfred mostra poi tutto il suo stupido complesso di superiorità nei confronti dell'uomo normale, e se ne torna fuori, nel luminoso mezzogiorno – di cui appunto al N°5 - ad evocare un altro spirito: quello della Maga delle Alpi.

Il N°6, Rufung der Alpenfee, è musicalmente un quadretto delizioso, in LA maggiore, dove il primo violino e il flauto meravigliosamente descrivono le iridescenze della cascatella da cui appare la maga. L'introduzione – significativamente – richiama da lontano il tema di Astarte, e si capisce subito perché: Manfred confessa qui l'origine del suo peccato e delle sue miserie: Astarte, appunto. Che non viene ancora nominata (lo sarà più tardi) ma descritta come una creatura i cui lineamenti si assomigliavano a quelli di Manfred: occhi, capelli, tratti ...la sua voce, insomma una sorella, con la quale Manfred ebbe evidentemente un rapporto incestuoso, che portò alla morte – di crepacuore - della donna (l'aspetto autobiografico è qui scoperto, avendo Byron intrattenuto rapporti sospetti con la sorellastra, che causarono – si disse - il fallimento del suo matrimonio e la sua definitiva fuga dalla Gran Bretagna). La maga si offre di aiutarlo, purchè lui si sottometta ai suoi voleri, ma Manfred è uno che non piega la schiena, ed anche la maga sparisce, mentre Manfred ancora riflette sul suo peccato.

Ora siamo tornati sulla vetta della Jungfrau ed altri spiriti si palesano: sono le sorelle del destino (tre, come le Norne) e la Nemesi. Tutte dirette alla casa di Ariman, loro sovrano. Qui abbiamo il N°7, Hymnus der geister Arimans, in un maestoso RE minore, dove il coro degli spiriti inneggia al supremo potente, assiso sul suo fiammeggiante trono.

Arrivano le sorelle, Nemesi e poi Manfred, subito riconosciuto dagli spiriti, che lo ammoniscono e minacciano, in quanto mortale (N°8, di sole quattro battute).

Di fronte al (solito) atteggiamento sprezzante di Manfred (N°9, sole tre battute) lo vorrebbero proprio fare a pezzi. È la prima sorella del destino a salvarlo, lodandone le qualità! Nemesi, col permesso di Ariman, gli chiede cosa desideri, e Manfred risponde: evoca Astarte.

Nel N°10, Beschwörung der Astarte, Nemesi opera l'incantesimo che richiama Astarte alla presenza di Manfred. Anche qui la musica richiama scopertamente il tema della donna amata. Dato che Astarte non parla, Nemesi chiede ad Ariman di obbligarla a farlo.

Nel N°11, Manfreds Ansprache an Astarte (la musica, invero emozionante, in violini e flauti, richiama sempre il tema di Astarte) abbiamo il surreale colloquio fra i due ex-amanti maledetti. Per la verità parla quasi solo Manfred, rievocando la sua colpa e il castigo che lo perseguita. Parlami! continua ad implorare, finchè Astarte risponde, chiamandolo per nome. E solo per dirgli che l'indomani la sua vita mortale avrà fine. Parlami! insiste Manfred, ma Astarte si limita ad un paio di addio e scompare, sui tenui accordi del suo FA#.

Manfred non ha altro da chiedere ad Ariman ed allora, ripartendo dal FA# di Astarte, in SI minore, l'orchestra si avvia a chiudere la seconda parte del dramma ribadendo l'inno al grande spirito fiammeggiante. Gli accordi finali sono in SI maggiore, con ritardata scarica di timpano.

L'ultima parte si apre con Manfred nel suo castello, mentre si gode un momentaneo e strano stato d'animo di calma e serenità, per lui stesso inspiegabile quanto effimero: sono le 13 battute del N°12, dove si sente sempre un alone di Astarte. Nel poema di Byron entrano anche un paio di servitori di Manfred, ignorati sia da Schumann che da chi mette in scena l'opera. Vediamo invece arrivare l'Abate di SanMaurizio, che cerca di aiutare Manfred a pentirsi e ricevere il perdono di Dio. Troppo tardi, ripete Manfred.

Nel N°13, Abschied von der Sonne, c'è l'addio di Manfred al glorioso astro che tramonta: ed io lo seguirò mormora. Un ultimo sguardo al firmamento, alla luna, al notturno e solitario splendore della natura, poi il ritorno dell'Abate che fa ancora un disperato tentativo.

Ma ormai tutto precipita. Nel N°14 appare il démone di Manfred, per portarselo via, finalmente. Manfred lo sfida e lo irride, l'Abate cerca di esorcizzarlo. Altri spiriti appaiono e scompaiono.

Nel N°15, Klostergesang, Manfred saluta l'Abate, con una gelida stretta di mano, poi – mentre il coro intona un Requiem, del tutto assente nel testo di Byron, e flauto e clarinetto ci ricordano Astarte - pronuncia le ultime parole: non è così difficile morire. E mai morte fu accompagnata da un così celestiale MIb, che trasfigura in modo maggiore la chiusa in minore dell'ouverture:

07 giugno, 2010

Tutti i guai della lirica

"Butterfly è un capolavoro perché racconta una storia violenta, sconvolgente e moderna di turismo sessuale, non perché fa venire «un groppo in gola» alla Clerici."

Questa lapidaria affermazione si trova in un articolo di Alberto Mattioli, che se la prende con una trasmissione RAI-TV (che personalmente non ho visto) condotta dalla Clerici sulla prossima stagione dell'Arena.

Insomma, un elogio senza mezzi termini del Regietheater, quella branca dell'arte moderna che consiste nel reinventare capolavori del passato, stravolgendone a volte totalmente la natura, per renderceli – così si proclama – ancora digeribili; e una implicita – ma neanche poi troppo - condanna degli ammuffiti Zeffirelli che purtroppo ancora infesterebbero le nostre scene, e che sarebbero – così par di capire – i principali responsabili del disamore pubblico verso il teatro musicale. Insieme ai loro ignoranti tirapiedi tipo-Clerici.

E come esempio di ignoranza – nella trasmissione della Clerici, appunto - si cita "Carmen che canta metà Habanera ai toreri, segno che «gli autori» non conoscono nemmeno la trama dell'opera".

Che invece la modernissima Emma Dante – per la cui Carmen la Scala ha speso milioni - ha dimostrato di conoscere perfettamente, vero?

04 giugno, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 34

Ancora Xian Zhang per il terz'ultimo concerto de laVerdi.

In omaggio alle sue origini, Zhang ci propone in apertura – e in prima italiana - un pezzo della sua conterranea ed amica Chen Yi, intitolato Ge Xu (il richiamo onomatopeico alla nostra religione è del tutto casuale). Si tratta di melodie popolari del sud della Cina, luoghi dove Chen e famiglia furono spediti dalla Rivoluzione Culturale a sperimentare – loro cittadini e borghesi – un po' di dura vita contadina (oggi certe cose si scimmiottano in TV, nelle varie isole…) Canzoni e antifone cantate in occasione di riti pagani: e nell'orchestrazione si sente in effetti – e non a caso, credo - qualche lontana reminiscenza del Sacre stravinskiano. Un innesto di materia prima orientale su basi tonali occidentali, fatto con molta sapienza. E soprattutto con misura (neanche 10 minuti, smile!)

L'Orchestra (con viole in prima fila, anche per Beethoven) si misura quindi con Schubert e la sua Incompiuta (il cui numero d'ordine varia a seconda dei cataloghi, fra 7 e 8). Zhang tiene un approccio cameristico, intimistico, ben coadiuvata da oboi e flauti (primo tema) e violoncelli e poi violini (secondo). Salvo poi far esplodere suoni poderosi nel primo accordo fortissimo-sforzato e poi nel grande crescendo dello sviluppo e della ripresa.

Per l'Andante con moto la nostra cinesina – che dirige qui a memoria - abbandona la bacchetta sul leggìo della spalla e usa le sole mani, à la Gergiev, come a sottolineare la grande tranquillità e serenità di questo straordinario movimento di sinfonia, che per puro miracolo non rimase sconosciuto e perduto al mondo per colpa di umane stupidità. Altra musica purtroppo restò nella penna di Schubert, cui il destino impedì di vivere abbastanza per farcene dono:














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Infine l'Eroica beethoveniana, ultima sinfonia dell'intero ciclo ad essere presentata in questa stagione, che volge ormai al termine (la prima fu la Settima, nel concerto inaugurale alla Scala del 6 settembre scorso).

Nell'ambito di una meritoria iniziativa torinese, chi abbia interesse ad approfondire i contenuti della terza può farsi accompagnare da Giorgio Pestelli.

Zhang la attacca speditamente, evita – direi a ragione - il ritornello dell'esposizione e poi ci dà dentro con lo sviluppo, dove troviamo il famoso passo in cui Beethoven si diverte a ingannarci con una (voluta) dissonanza, fra il tremolo dei violini (dominante-sottodominante) e il tema principale (triade di tonica MIb) esposto dal primo corno:












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Zhang ottiene un grande effetto dal pianissimo di quelle due misure, cui segue il fragoroso scoppio sugli accordi di dominante, che portano alla ripresa, travolgente davvero, fino alla conclusione, secca e priva di enfasi.

Nella susseguente Marcia Funebre, efficacissima la resa del passaggio in DO maggiore (che Beethoven sigla scrivendo proprio Maggiore in testa ai righi, quasi a convincere un qualche esecutore distratto o incredulo!) da parte di oboe e flauto, spalleggiati da tutta l'orchestra, fino ai pesanti accordi MI-DO (anticipazione di quelli, sulla tonica di MIb, che caratterizzeranno la cadenza finale della sinfonia) da cui gli archi partono per la ricaduta negli abissi del DO minore del tema principale.

Lo Scherzo viene affrontato con grandissima leggerezza dagli archi, che creano il tappeto sonoro su cui oboe, poi flauto e successivamente clarinetto adagiano il tema principale, prima dello scoppio dell'intera orchestra. Eccellenti i tre cornisti nell'impegnativo Trio (dove i primi due debbono rispettivamente scalare il MIb acuto e scendere a quello grave) che riceveranno speciale menzione, con gli strumentini, alla fine.

Eccellente la resa del Finale, che Zhang attacca senza pausa alcuna allo Scherzo. Il prometeico tema (cardine dell'intera sinfonia) emerge quasi a fatica, negli strumentini, dall'introduzione, ma poi si fa largo in modo perentorio e a volte poderoso. Efficace in particolare la resa del tema in SOL minore, che porta all'emozionante esposizione del tema principale – dolce, in violini e flauto – in DO maggiore. Ma la tensione non cala mai, fino alla fine, con quel misterioso contrappunto fra archi e strumentini che introduce il travolgente Presto, dove ancora i corni sono impegnati allo spasimo, seguiti da tutta l'orchestra, fino al pesantissimo dialogo, in ff, fra violini e fiati, che si rimpallano tremendi accordi fra tonica e dominante, per poi chiudere con l'intera scala ascendente di MIb e i due definitivi schianti.

Un autentico trionfo per l'Orchestra e per Zhang, richiamata più volte da un pubblico in delirio.

Il penultimo concerto metterà vicini il violino di Beethoven e il titano di Mahler!

03 giugno, 2010

Gianandrea da Sesto

In attesa di vederlo all'opera nel prossimo Manfred a Torino, ecco un ritratto del Maestro sestese, che non dimentica la sua città, dalla quale pur vive ormai quasi perennemente lontano.

Il Diario del Nordmilano (ex-Diario di Sesto) pubblica in questi giorni un ritratto-intervista di Gianadrea Noseda:



(click sull'immagine per ingrandire)





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Sesto come una sinfonia (la Stalingrad, immagino) di Shostakovich e come un corno: questi i paragoni che il Maestro fa della sua città. Che ne va giustamente orgogliosa.

01 giugno, 2010

Ecco il salvatore

"Mi occupo di morte e sofferenza perché mi interessano. Ho visto molta gente che soffre, e credo che ciò sia uno dei temi più interessanti oggi in Europa. Viviamo nella paura, ma dobbiamo capire che c'è anche un sollievo, che ci viene parlando delle nostre paure".

XYZ (*) ammette di temere morte, dolore e sofferenza quando si tratta della sua famiglia. Ma dal momento che questa è una paura cui nessuno può sfuggire, lui ha voluto occuparsi artisticamente della cosa. Lui intende aiutare la gente a venire a patti con la propria mortalità.

Oh, my god! (in slang: minchia!)

(*) XYZ è tale Calixto Bieito, ndr.