affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

09 ottobre, 2009

Stagione dell’OrchestraVerdi - 4

.
Il quarto concerto della stagione ha un programma di opere di compositori nordico-orientali, ma profondamente legati alla tradizione occidentale.

Si comincia con la ventenne Francesca Dego (oltre che brava è pure una gran bella ragazza, lunghe chiome bionde, fisico da modella, ieri fasciata di porpora…) a interpretare Sibelius e il suo concerto per violino. Che dal punto di vista formale, almeno a prima vista, sembrerebbe rispettare la struttura classica dei concerti ottocenteschi. Ma in realtà si era all’inizio del ‘900, con Mahler che mescolava sinfonia e opera, stirava fino all’estremo la tonalità, con Schönberg che la tonalità si preparava ad abbandonarla del tutto, con Strauss che irrideva le forme canoniche per sfogare la sua fantasia con i poemi sinfonici. Insomma, scrivere un concerto dai tratti spiccatamente ottocenteschi forse sembrò a Sibelius un pochino disonorevole e démodé. Però, non avendo l’inventiva di Mahler, né la fantasia di Strauss, né la temerarietà di Schönberg, trovò un modo bizzarro per fare qualcosa di innovativo: stravolgere, sul piano formale e tonale, i sacri canoni della forma-sonata nel suo primo movimento.

E così al primo tema, nella tonalità di impianto (RE minore) ne seguono due in tonalità totalmente aliene (SIb e REb). Qui Sibelius, dopo che il violino ha richiamato il primo tema in SOL minore, infila la cadenza solista che di fatto costituisce lo sviluppo, chiudendo proprio in SOL minore. Tonalità da cui muove il primo tema nella ricapitolazione, che deve poi faticosamente raggiungere il RE minore canonico. Insomma, quasi una fantasia, si potrebbe dire. Qui la Dego se la cava davvero egregiamente, anche dal punto di vista strettamente virtuosistico, con tutti quei passaggi (ottave e seste) in corda doppia (alcuni anche in tripla) di cui la partitura è ricolma. Il suo violino ha una voce calda, che ben si adatta a questo concerto. Marshall tiene al guinzaglio l’orchestra, lasciando sempre la voce solista in primo piano, limitandosi a scatenare tutti - ottoni in primis - nel fff della transizione orchestrale in SI maggiore.

Nel secondo movimento, adagio di molto in SIb, Sibelius torna al più profondo ‘800, con abbondanti manciate di Bruch, che il suo primo e strafamoso concerto l’aveva scritto quando Sibelius aveva sì e no tre anni. Ci fa capolino anche Wagner (una reminiscenza dall’incipit del secondo atto di Walküre, in una battuta del violino, al n°3 della partitura). E la solista asseconda in pieno questo ritorno al passato, con un’interpretazione leggera e cantabilissima. Anche qui, come in tutto il concerto, non mancano difficoltà virtuosistiche, quale la doppia melodia che il violino deve suonare nella sezione in minore, che Francesca restituisce proprio con tutto il possibile romanticismo.

Nel finale allegro (RE maggiore, con divagazioni a SOL minore e RE minore) la Dego tiene – mi pare - un tempo nella fascia inferiore del metronomo prescritto (108-116 semiminime) il che forse non restituisce tutta la grinta di questo pezzo: la stessa chiusa non è così tagliente come ci si aspetterebbe dal tutto crescendo possibile. Rimarchevole comunque la sua prestazione virtuosistica (anche qui la partitura comporta passaggi in corda tripla e, nella sezione in RE minore, armonici artificiali).

Alla fine, grande e strameritato trionfo per questa giovane realtà italiana del violinismo internazionale, che ha generosamente concesso due bis (Ysaÿe e Bach).

Wayne Marshall ha assemblato una sua personale suite – con numeri presi dalle tre pubblicate - del Romeo e Giulietta di Prokofiev. Una musica di altissimo contenuto, questa, certo fra le più interessanti scritte nel ‘900, oltretutto in uno scenario per Prokofiev non proprio gratificante, a Parigi prima, a Mosca poi. E anche musica difficile: certo chi non la conosce e pensa ai balletti di Ciajkovski o di Delibes può rimanere perplesso (cosa che successe proprio ai primi corpi di ballo che furono chiamati a danzare su queste note…)

Grande prestazione dell’Orchestra, sia nei fracassi (incipit dei Capuleti e Montecchi, in apertura, e chiusa del Tebaldo, alla fine) che – e direi soprattutto - nei delicatissimi passaggi riservati ai due giovani amanti, dove strumentini e arpa, con la celesta, la fanno da padroni. Convinti applausi per professori e direttore.

Dopo la Svizzera, adesso inizia un altro tour dell’intero baraccone, stavolta in Italia, da Torino a Mantova, Mestre, Roma per finire, significativamente, il 18 a L’Aquila. Guarda caso, il 16 l’Orchestra Sinfonica Abruzzese sarà ospite della Scala: una specie di staffetta L’Aquila-Milano nel segno della solidarietà e della grande musica. All’Auditorium si torna il 22 con un programma colmo di lungaggini.
.

06 ottobre, 2009

Il Culto della Personalità in musica

.
Da qualche tempo circola una filastrocca (gli autori mi perdoneranno se non la chiamo inno, o epicinio, o panegirico, o lauda, o magnificat…) sul nostro piccolo-timoniere-con-alti-tacchi, cui in realtà il Nobel per la Pace andrebbe comunque stretto, dati i suoi planetari meriti in almeno altri 15-20 campi delle umane arti, discipline e occupazioni.

Come al solito, nulla di nuovo sotto il sole.
.
Nel 1935, un serissimo testo di Teoria e Pratica per l’Insegnamento della Musica e del Canto Corale ad uso degli Istituti Magistrali, delle Scuole di Avviamento, Scuole Medie, Istituti di Educazione e Scuole Corali conteneva la seguente pagina:
























La Mariastella è avvertita… e se avesse problemi per chi mettere al posto del Re e del Papa, può benissimo pubblicare tre foto di una stessa persona: con berretto da ferroviere, con bandana e con distintivo della P2.
.

05 ottobre, 2009

Duddy infiamma LosAngeles

.
Fino a questa sera (le 11 del mattino sul Pacifico) si può vedere e ascoltare la Nona di Beethoven che Gustavo Dudamel ha diretto per il suo debutto ufficiale a LosAngeles (Hollywood Bowl).
.
Forse non da antologia… salvo che per il livello di entusiasmo che Dudamel ha scatenato laggiù. Applausi, anzi urla, fino dal suo ingresso, come per una rock-star.

Il ragazzo ha fatto anche un discorsetto, alla fine, mezzo inglese e mezzo spagnolo: Stiamo uniti per la musica, per Beethoven e facciamolo per questi bambini che sono qui oggi. Un unico continente, niente nord e sud. Sono orgoglioso di essere sud-americano, ma più ancora di essere americano.











.

.

.

.
.
E poi un bis del coro finale con fuochi d’artificio e sparo di mortaretti!

Americanate?
.

Meglio tardi che mai

.





02 ottobre, 2009

Partito il festival verdiano con il Requiem

.
Dopo l’anteprima del 28 settembre a Busseto, si è inaugurato ieri sera a Parma, nella Cattedrale, il Festival Verdi 2009. In programma il Requiem.

Anche qui non sono mancati i contrattempi, primo fra i quali nientemeno che il cambio di Kapellmeister! Poichè Yuri Khatuevich Temirkanov (71 anni, da quest’anno Direttore musicale del Regio, tuttora citato qui) è stato rimpiazzato da Lorin Maazel, vecchio marpione (79 anni!) rotto a tutte le avventure e a tutti i compromessi, quindi buono per tutte le stagioni (e quindi i maligni insinuano… per nessuna?)

Qui una presentazione non burocratica dell’evento.

Recuperato a fatica un ticket in internet, ho raggiunto Parma in un pomeriggio quasi estivo (26 gradi, al termometro del cruscotto…) e ho anche trovato il tempo per un’esplorazione rapida del Battistero, questa gigantesca costruzione a pianta ottagonale all’esterno e esadecagonale all’interno, con le sue pareti esterne che salgono a nascondere la cupola, e con le sue bizzarre simmetrie (finestroni, finestre e lucernari) ed asimmetrie (loggetta interna, spioncino unico, lanterne grandi e piccole sulla sommità…)

Si entra in cattedrale solo dopo le 19:30, io ho un posto non proprio felice (navata laterale, con un paio di robusti pilastri a farmi da schermo a parte degli esecutori) e faccio solo a tempo a dare un’occhiata in giro: orchestra con disposizione moderna (violoncelli avanti) e assenza dell’oficleide di ordinanza, sostituito come ormai consuetudine da un’argenteo contrabbasso-tuba. Le trombe fuori scena stanno appollaiate sul matroneo, verso metà navata, all’altezza del pulpito. I solisti trovano posto davanti, fra le prime file dell’orchestra, invece che fra orchestra e coro, come è usanza: scelta che mi ha lasciato perplesso. Pubblico? Anche Verdi deve proprio essere un dio, se riesce a gremire una Cattedrale più che per Natale e Pasqua. Un religioso in rappresentanza della diocesi dà il benvenuto, dopo un buon quarto d’ora accademico, e verso le 20:20 Lorin Maazel fa partire il MI dei violoncelli.

Sotto voce, poi il più piano possibile, e poi ancora sempre ppp, prescrive Verdi al coro per l’incipit del Requiem, fino al luceat eis. Effetto grande, al tacere dell’orchestra – che ha suonato in pp e ppp - il forte con cui il coro attacca a canone il Te decet hymnus: questo è uno dei momenti toccanti dell’opera, e Verdi ce lo presenta subito, quasi a voler accattivarsi fin dalle prime battute la partecipazione dell’ascoltatore. Cosa che Maazel&Faggiani hanno saputo fare con gran mestiere, diciamo la verità (il maestro ha avuto poche ore per familiarizzare con gli interpreti). Poi i 4 solisti si presentano (in sequenza: tenore, basso, soprano, alto) e devo dire che non è una presentazione molto felice – l’emozione? - salvo che per la Daniela che, oltre che alto, è proprio alta e impone, oltre alla statura fisica, anche bravura ed esperienza. Meno male che, dopo l’avvio stentato, la resa del Kyrie sia di buon livello. Vinogradov ha una voce che nei bassi pare quella di Titurel quando si fa sentire dal suo giaciglio-sarcofago (nella circostanza ci può anche stare… chissà se la colpa è dei suoi armonici che vanno in risonanza con le volte del duomo). La Vassileva sembra più che altro mancare di esperienza, a volte è imprecisa negli attacchi, sembra quasi stonare, ma vedremo che saprà cavarsela almeno nei passi più tecnicamente difficili. Meli direi senza infamia né lode, una prestazione comunque più che sufficiente. Invece è il coro di Faggiani a mostrare da subito grande affiatamento e precisione. Anche l’acustica del locale sembra meno peggio del paventabile (Titurel a parte).

Lo strafamoso Dies Irae (il cui incipit martellante torna tre volte nell’opera, sempre in SOL minore) è prescritto da Verdi con metronomo di 80 minime al minuto: una cosa davvero feroce! Maazel lo fa forse un filino più trattenuto. Davvero travolgenti le 8 quartine di semicrome degli archi, che sprofondano dal SOL sovracuto per ben 4 ottave, in sole due battute! Verdi scrive – quale meticolosità! - le prime 6 di tali quartine con due note legate e due puntate, quasi il respiro strozzato e il tremor di chi fugge a rotta di collo… ma obiettivamente è difficile, a quella velocità, per un orecchio normale cogliere una tal sottigliezza (ed è obiettivamente difficile anche eseguirla al meglio); qui davvero non resta che immaginare

Impressionante poi il Tuba mirum, col suo incipit arcano e le trombette dall’alto in stereofonia. Dove poi le terzine di archi e ottoni e le sestine degli strumentini creano un effetto davvero di finimondo, che copre la voce del basso, non quelle del coro, prima dello spettrale Mors stupebit, che Alex Vinogradov espone sulle figurazioni, proprio da stupore, degli archi e i rintocchi fatali della grancassa. Ancora la Barcellona a far da protagonista (Liber scriptus) con la precisa scansione delle sillabe forte>piano e poi con grande efficacia sui FA# dello Judex e poi del Quid e ancora al culmine dello Judicetur (LAb acuto, che regge al meglio il fortissimo di tutta l’orchestra). Dopo il nuovo Dies irae, l’Adagio religioso in cui le tre voci alte cantano il Quid sum miser, dove tocca alla Vassileva mostrare di avere anche buone qualità, con una salita al SI naturale. E siamo al Rex tremendae introdotto dai maschi del coro, che conduce al Salva me, al culmine del quale la soprano sale benissimo al DO acuto, la prima delle tre difficoltà vocali per lei in questa partitura. Bravissime poi le due soliste nel Recordare, con l’emozionante crescendo della soprano fino al SIb (Ante diem).

Ora tocca a Francesco Meli con l’Ingemisco. Il tenore lo canta col dovuto portamento supplicante, ed esegue sufficientemente bene i due crescendo fino al SIb acuto. Nel passo Inter oves bravissimi oboe e poi flauto e clarinetto, ad accompagnare il tenore. Bravo poi Vinogradov nel Confutatis, dove alterna assai efficacemente, come Verdi ordina, il canto con forza al dolce cantabile. E poi tiene bene i MI cui Verdi lo spinge prima della seconda comparsa del Dies Irae. Il quale prelude al Lacrymosa, aperto in modo esemplare dalla Danielona, cui si aggiungono poi gli altri, magari non sempre esemplari, solisti (toccante però il contrappunto con il basso) e infine il coro, con un impressionante crescendo sonoro fino alla chiusa in SIb minore del parce Deus. Poco dopo, rabbrividente il tremolo degli archi che introduce, modulando dal SIb minore al maggiore, l’Amen, sugli arcani accordi di SOL e SIb che chiudono il N°2.

Nell’Offertorio, lo dico subito, Maazel mi ha pienamente convinto. Già nel tempo che ha staccato, a orecchio e croce assai vicino a quello prescritto dal metronomo di Verdi (Karajan e peggio Abbado – per fare esempi rintracciabili su Youtube - lo eseguono con eccessiva lentezza, dopodiché si possono anche gradire…) Lo aprono magnificamente violoncelli e flauti, ad introdurre mezzosoprano e tenore, cui si aggrega presto il basso (sul Libera). Più avanti c’è l’altra difficoltà per la soprano, il Sed, un legato di 7 misure (andante mosso in 6/8: 5 battute sul MI naturale, dal pianissimo crescendo sempre e portando la voce, e 2 battute in MIb, tornando al ppp) che comporta – stando al metronomo – circa 13 secondi di tenuta. La Vassileva – oltre al tempo spedito di Maazel-Verdi - evidentemente ha un bel serbatoio d’aria incorporato, e riesce a superare l’ostacolo, sfumando benissimo il MIb. Grande effetto fa il Quam olim, un Allegro mosso incastonato fra il precedente andante e l’Adagio dell’Hostias, con i 4 solisti e tutta l’orchestra a chiudere in religioso diminuendo sul SOL.

Nell’Hostias, Meli rispetta alla lettera Verdi (dolcissimo e lente le semicrome) ben seguito poi dagli altri tre. Tutti bravi nel sottovoce parlando del faceas, Domine, de morte transire ad vitam, che significativamente, dal tempo Adagio, ci riporta all’Allegro del Quam olim, stavolta sfociante in quei tre feroci promisisti, che conducono poi alla chiusa, sul primo tempo dell’andante mosso, e all’estremo morendo del clarinetto e poi degli archi.

Potente e impressionante l’attacco del Sanctus. Qui il coro è sdoppiato (Verdi prevede proprio due cori). Il risultato è comunque efficace, il contrappunto ben eseguito. Strepitosi gli svolazzi degli strumentini (ottavino in testa) a punteggiare la gigantesca fuga. Dal Benedictus si aggiungono le crome puntate degli archi in contrappunto e alla fine dell’Hosanna tutta l’orchestra esplode in fortissimo le crome puntate ascendenti e discendenti, creando tre autentiche ondate sonore (la seconda solo forte, di fagotti e archi bassi) fino alla cadenza conclusiva, con i classici e melodrammatici 6 accordi sulla perfetta trìade di FA maggiore. Davvero travolgente!

Senza un solo attimo di respiro Maazel attacca l’Agnus Dei che fa da intermezzo, con le soliste femminili che introducono la forma allargata, rispetto all’iniziale requiem, del Dona, una parola qui cantata su 7 semiminime, contro le 3 dell’incipit dell’opera (tempo pressoché identico): un chiaro segnale di un cammino compiuto, di una speranza di pace che qui si sta facendo certezza. Dopo il coro, ancora le soliste, con l’Agnus in DO minore. Ma il coro ristabilisce il maggiore, imitato ancora dalle soliste, fino alla chiusa, sul definitivo dona del coro, che accompagna il sempiternam delle due voci.

Il Lux Aeterna è totale responsabilità della Daniela, che lo espone sul misterioso tremolo di tutti i violini divisi in 4 parti, con interventi poi delle voci soliste maschili. La nostra se la cava assai dignitosamente, con il supporto eccellente dell’ottavino, che sul Lux perpetua disegna i suoi trilli a quartine molto staccato in modo davvero impeccabile! Ancora bravi gli strumentini, poi gli archi in staccato, a supportare i solisti, prima della cadenza conclusiva, aperta dal toccante arpeggio di flauto e clarinetto.

Il Libera me si apre con il declamato della Vassileva, seguito da quello del coro. Non efficacissimo l’urlo della soprano sul LAb dell’ignem. Drammatico invece il timeo, che chiude in maggiore la sezione di DO minore, quasi un atto di fede nella misericordia divina, a dispetto dell’ira che irrompe ancora, per la terza volta, sempre uguale a se stessa. Ma adesso, dopo il secondo urlo dell’Ignem cambia tutto… l’ira sbolle e si stempera e oboi e corni introducono il Requiem aeternam, e da qui è tutto in mano (anzi… in bocca!) alla Vassileva che lo chiude con un pulitissimo SIb acuto. Al suo nuovo stentoreo Libera rispondono ora i contralti del coro interpretando al meglio la scansione delle sillabe in forte>piano come puntigliosamente scrive Verdi. La fuga che segue, di proporzioni gigantesche, lascia sempre senza fiato, davvero degna di quelle del Requiem brahmsiano.

La Vassileva si cimenta ancora con un altro paio di SI acuti, ben eseguiti. E si arriva all’esplosione del Domine, dove tutti ci mettono tutta la forza possibile. La Svetla fa lo sforzo supremo, salendo al DO acuto sul Libera me, prima dell’epilogo, dove il DO minore sfuma impercettibilmente in maggiore. Gli ultimi Libera me non sono più cantati, ma sussurrati con un fil di voce (pppp!) quasi un rantolo che si può udire solo accostando l’orecchio alla bocca di un moribondo che esala le ultime sue sillabe. La cattedrale è prossima ad un vuoto pneumatico, l’orchestra cerca a sua volta di suonare ppp, ma i fiati specialmente faticano a fare il morendo e a rendere pienamente quella sensazione di suono terreno che sfuma nel silenzio dell’aldilà… Maazel chiude e ottiene almeno 10 secondi di silenzio. Qui ci vorrebbe a dir il vero il minuto di raccoglimento, ma qualcuno non ne può più e così – appena Lorin abbassa le braccia - scoppia l’applauso, che poi diventa ovazione per tutti.

Che dire? Son quelle esperienze che – se non si fanno di persona dal vivo – non si possono importare da CD, DVD, Youtube, Webcast, iPod e consimili. Poiché queste ultime sono – per l’appunto - diavolerie. Quindi, finchè si può, conviene farle ed anche ripeterle, queste esperienze; nel nostro caso: il 29 ottobre (Orchestra e Coro Verdi all’Auditorium, con Zhang) e il 20 novembre (Orchestra e Coro della Scala al Piermarini, con Barenboim).

Fuori la sera è mite, almeno 20 gradi ancora, e rischiarata da una luna ormai prossima al tondo perfetto.
.

01 ottobre, 2009

L’Orfeo alla Grande Scala

.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
Devo premettere che le recensioni, impressioni, critiche lette sui giornali e sul web dopo le prime rappresentazioni mi avevano un pochino fatto dubitare sulla convenienza dell’investimento di ben 72€ per un posto (arretrato) in palco di IV Ordine, fortunosamente recuperato su internet pochi giorni fa (unico, fra altri posti offerti al minimo di 180€). In particolare si criticava l’idea stessa di rappresentare Monteverdi negli immensi spazi (ambiente e scena) del Piermarini, e si rimpiangeva come non mai la fine invereconda fatta fare alla Piccola Scala, struttura ideale per ospitare simili spettacoli.

Orbene, al tirar delle somme, mi sentirei di concludere che l’investimento non sia andato per niente in fumo. Intanto perché bisogna pur prendere ciò che il convento (pardon… la Fondazione) passa; poi perché il livello complessivo della rappresentazione mi è parso francamente più che dignitoso. E infine – e soprattutto - perché assistere a L’Orfeo è come rivedere in un film tutta la meravigliosa storia della nascita dell’Opera musicale, da cui poi si diramarono il melodramma, il belcanto e finalmente gli stessi drammi wagneriani! Storia tutta italiana, che si sviluppa sull’asse Firenze-Mantova-Venezia. La Mantova dei Gonzaga, baricentro di questo asse, che rivaleggia con la Firenze dei Medici, dei Bardi, dei Peri, e anche – non canta forse Lasciate ogni speranza… la Speranza di Monteverdi nell’atto terzo? - di Dante, a sua volta ispirato dal mantovano Virgilio! E la Venezia che ispira Monteverdi attraverso l’opera e la ricerca di Gioseffo Zarlino, di cui Monteverdi stesso occuperà il posto di Maestro di Cappella della Serenissima. Ma anche la Venezia di Tiziano Vecellio, cui appropriatamente Robert Wilson si ispira per una delle scene principali (il viale di cipressi dalla Venere con organista e Cupido).

Confermo che la mega-struttura scaligera poco si addice a rappresentare L’Orfeo, oltretutto se i mezzi (strumentisti e scene) sono, credo volutamente, più o meno gli stessi di cui dispose Monteverdi quel benedetto 24 febbraio del 1607, quando creò per la prima volta il suo capolavoro in una stanzetta (sempre relativamente alle dimensioni del ducale palazzo) dell’appartamento di Margherita Gonzaga.

Sul fronte musicale, Alessandrini ha proprio tenuto a smorzare al massimo, già dall’iniziale toccata, dove i cornetti non hanno certo dato un suono molto squillante, come siamo abituati a sentire. Del resto era giusto che gli strumenti – quasi tutti d’epoca, mi è parso, con necessità di riaccordare l’organetto e rifar la tesatura delle corde di un’arpa nell’intervallo - non andassero a coprire le voci (spesso vocine) che faticavano ad emergere dall’immenso palcoscenico. Voci comunque apprezzabili (Nigl su tutti).

Quanto alla scenografìa, direi un minimalismo proprio da mancanza di mezzi. Filologicamente interessante, come detto, l’idea della scena mutuata dal Tiziano, ma lì sembrava ci fosse un deserto con un filare di cipressi posticci che emergono da una moquette da campo di calcetto. Con tutto quel che è costato rifare il palcoscenico e le relative macchine, non si è nemmeno fatto scendere Apollo dall’alto (curiosamente invece, al suo posto, i cipressi!) Vero che il barocco di Monteverdi non è ancora quello di Händel, ma forse qui si è esagerato nel risparmiare sugli effetti magici (per dire: Caronte non solo non ha una barca, ma nemmeno un giaciglio su cui addormentarsi e così fa il sonnambulo).

Di grande effetto invece la regìa dei personaggi. Tutti si muovono al rallentatore e con eleganti gesti – oltre al cerone bianco delle facce - da mimo (complimenti ai cantanti per la prestazione). Nessun cedimento all’esteriorità e alle reazioni brusche: tutto deve essere interiorizzato. E così, ad esempio, la notizia ferale portata dalla Messaggera ha il solo effetto di far aggrottare un sopracciglio ad Orfeo: perché è la musica (oltre che l’abbassamento delle luci) ad incaricarsi di rappresentarci la catastrofe che colpisce quelle anime. L’unico colpo a sorpresa è un rumore da vaso di cristallo infranto, che si ode al momento tòpico dell’Atto IV, rumore che provoca il fatale sguardo all’indietro di Orfeo. Perfetta la resa della definitiva perdita di Euridice: l’occhio di bue che la seguiva si spegne subitaneamente, e lei rimane nella semi-oscurità, mentre lentamente arretra verso gli inferi. Apprezzabile la scelta del ballerino (ieri Nicola Strada) in veste di uccello, che appare e ricompare con le sue leggiadre movenze. Discutibili invece alcune scelte, come il restare in scena di Orfeo fra il primo e il secondo atto (e quando si sposa, allora?) anche se magari spiegabili con i tempi della partitura. O come - all’inizio dell’Atto conclusivo - il far udire solo le voci dei pastori (che cantano, come l’Eco poco dopo, giù nella buca dell’orchestra) lasciando la scena totalmente spoglia: un solo striminzito cipresso, prima che arrivi – a piedi – Apollo e che i filari calino, al suo posto, dall’alto.

Finale quindi apollineo, come da partitura, e non da 24/02/1607. Nel breve dialogo fra il dio ed il figliolo si intravede persino qualcosa che comparirà quasi tre secoli dopo: l’apparizione di Brünnhilde a Siegmund!

Alla fine calorosi applausi per tutti, nessuno escluso. Quindi, bella serata e grazie a chi ci ha permesso di godere di questo interessante pezzo del nostro patrimonio di cultura, arte e bellezza. Peccato che poi il tutto venga regolarmente snobbato, quando non addirittura disprezzato, dall’attuale (in)civiltà che ci circonda. Un andazzo che i nostri simpatici il gatto e la volpe (Brunetta&Bondi) non paiono proprio intenzionati ad ostacolare, anzi.

.

29 settembre, 2009

Sulla soggettività dell’ascolto


Un giudizio espresso di recente in un post sul Corriere della Grisi, dedicato al ricordo di un famoso concerto wagneriano di Bruno Walter, ripropone il tema della soggettività dell’ascolto.

Nel post si definisce pesante e lento l’avvio dell’Ouverture del Tannhäuser, con una velata critica a Walter (peraltro giustamente esaltato, sia prima che dopo). Ora, la redattrice del post ha evidentemente giudicato in base ad un suo – legittimo! – metro. Come spiega nella gentile risposta al mio commento, il suo giudizio è stato influenzato dal confronto con il brano precedente (il Preludio dei Meistersinger). O magari, chissà, per riferimento mentale con ricordi di altre interpretazioni, o con la propria sensibilità o il proprio modo di vivere quella musica. Nulla di male in tutto ciò, intendiamoci. Ma nulla di più soggettivo ed arbitrario.

A chiarimento e completamento informativo del mio commento – con annessa precisazione - a quel post, provo ad esporre la questione con maggior dettaglio tecnico.

L’Ouverture del Tannhäuser si apre con un tempo Andante Maestoso (la marcia dei pellegrini, cui segue l’Allegro, che introduce il Baccanale). Siamo in misura di 3/4 e l’Andante – che non ha al suo interno alcuna ulteriore variazione dinamica, si noti bene – occupa 80 misure, più una semiminima di attacco. Quindi, in tutto, 241 semiminime.

Ora notiamo un fatto importantissimo: per l’ultima volta nelle sue partiture, Richard Wagner prescrive un metronomo. L’Andante Maestoso andrebbe eseguito a 50 semiminime al minuto. (Si noti che lo stesso metronomo è indicato successivamente, per il canto dei pellegrini nel terzo atto).

Adesso ci supporta la matematica per stabilire quanto tempo, secondo l’indicazione dell’Autore, dovrebbe durare l’Andante. A 50 semiminime al minuto, per suonarne 241 sono necessari precisamente 4 minuti, 49 secondi e 2 decimi. Questo dato potrebbe essere addirittura stampato sulla partitura, poiché deriva direttamente (matematicamente) da ciò che Wagner ha scritto, in modo inequivocabile.

Se fissiamo – arbitrariamente, ma credo con un certo buon senso – una forchetta di variabilità della durata del 10% (+/- 5%) potremmo dire che un Direttore è fedele alla lettera di Wagner se esegue l’Andante in un tempo compreso fra 4’34” (e 74 centesimi) e 5’3” (e 66 centesimi).

Orbene, Bruno Walter, nel concerto di cui sopra, suona attorno a 4’35” (l’attacco è coperto dagli applausi) quindi si colloca sul limite inferiore di questa forchetta, perciò va piuttosto veloce, non lento! E tiene, come prescritto, un tempo assolutamente costante (metronomo 52-53, come si può verificare facendo “traguardi” intermedi, ogni minuto). Ecco altri interpreti, tutti più lenti di Walter, si noti (link a Youtube):

Igor Markevitch 4’36”
Leonard Bernstein 4’37”
Federico Santi 4’43”
Ennio Nicotra 4’46”
Arturo Toscanini 4’49” (praticamente perfetto! c’era da dubitarne?)
René Leibowitz 4’53”.

Herbie Karajan suona attorno ai 5’ netti, quindi verso l’estremità superiore della nostra personalissima forchetta. Sforano di poco in lentezza Zubin Mehta e Willem Mengelberg con 5’10” (metronomo 46-47).

Chi è totalmente fuori è Georges Prêtre, che fa fare ai poveri pellegrini, reduci in Germania da una podistica andata e ritorno a Roma, uno sprint sui 100 metri piani: 4’09” (metronomo 58!) Ma non ho dubbi che per moltissimi ascoltatori – dal loro soggettivo punto di vista - questa esecuzione sia la preferita!
.

25 settembre, 2009

Stagione dell’OrchestraVerdi - 3

.Il terzo concerto della stagione ha un programma variegato, ed anche – per diverse ragioni – variato (rispetto a quanto previsto).

Inizia proprio con delle variazioni. Precisamente di Rossini per clarinetto, quello di Matthias Müller. Il programma di sala – come sempre molto ben redatto, con dovizia di informazioni e di approfondimenti – descrive minuziosamente, presentandone un’analisi formale, le Variazioni del 1809, di un Rossini diciassettenne. Poi, nelle ultime righe della nota all’ascolto, cita le Variations pour la clarinette, pubblicate nel 1920 a Lipsia e di dubbia paternità. E sono queste, che recepiscono temi da La donna del lago, scritta un anno prima, ed hanno una assai più complessa struttura e maggior durata rispetto a quelle del 1809, ad essere presentate da Matthias Müller. Con grande virtuosismo e, meritatamente, calda accoglienza.

Poi avrebbe dovuto dovrebbe essere la volta di Marcello Giordani, ad offrirci le Otto romanze di Giuseppe Verdi, scritte originariamente per pianoforte e orchestrate tempo fa da Luciano Berio. Ma già un aggiornamento al sito internet dell’Orchestra, e poi un foglietto allegato all’ultimo momento al programma di sala, ci aveva informato dell’improvvisa defezione del tenore, sostituito da Giuseppe Varano. Questo il programma:

1. In solitaria stanza (Jacopo Vittorelli) (Renata Tebaldi, di chi sarà l’orchestrazione?)
2. Il poveretto (S. Manfredo Maggioni) (J.A.Vergel)
3. Il Mistero (Felice Romani) (Victoria Bezetti)
4. L’esule (Temistocle Solera) (Mirella Golinelli)
5. Deh, pietoso, oh addolorata (J. W. v. Goethe, trad. di Luigi Balestra) (Clara Polito)
6. Il tramonto (Andrea Maffei) (Alfredo Kraus)
7. Ad una stella (Andrea Maffei) (Renata Scotto – 3’00”)
8. Brindisi (Andrea Maffei) (Renata Scotto – 2’15”)

(Di passaggio segnalo il sito web, curato dalla canadese Emily Ezust, dove sono catalogati e pubblicamente disponibili quasi 70.000 testi di lieder e romanze. Una vera miniera d’oro!)

Rispetto alle esecuzioni rintracciabili anche su Youtube (di cui ho riportato esempi più sopra) la versione di Berio aggiunge parecchio all’ambientazione e all’atmosfera. Come lo stesso Berio ammette, la sua orchestrazione tiene conto di tutto ciò che verrà (e non solo in Verdi!) anche dopo la composizione di queste romanze. Per dirne una, Ad una stella contiene tratti quasi espressionisti…

Varano ha una voce piuttosto profonda, direi da baritenore. Non so quanto tempo abbia avuto a disposizione per provare… immagino poco. Quindi meritati a maggior ragione gli applausi di cui il pubblico – abbastanza nutrito - lo ha gratificato alla fine.

Dopo la pausa, ecco i Quadri raveliani, appena ascoltati lunedi scorso dai Trepper Philharmoniker con Chung. Roberto Abbado ne dà un’interpretazione a forti chiaroscuri e l’Orchestra risponde da par suo, nell’insieme e nelle parti solistiche: brava in particolare la sassofonista, dislocata qui a ridosso dei corni, mentre Chung aveva sistemato lo strumento a destra, accanto alle tube. Ma bravi tutti (perdoneremo qualche macchiolina degli ottoni) nel rendere al meglio le mille sfumature di cui Ravel arricchisce l’originale e asciutta versione di Musorgski. Chiusa pesantissima (Chung si era di molto trattenuto) e trionfo assicurato.

Adesso l’Orchestra, con lo stesso programma e gli stessi interpreti, si sposta in Svizzera (5 concerti a cavallo fra settembre e ottobre). E allora, come preventivo omaggio al Paese dell’emmenthal (e ancora confrontandosi a distanza con i Filarmonici, e con la Santa Cecilia) i nostri ci offrono come bis l’Ouverture dal Guglielmo Tell. Accolta da ovazioni, inutile dirlo…

Fuori, dopo una decina di minuti, arriva lo speciale jumbo-tram che accompagna molti verso Piazza Duomo. È il Presidente della Fondazione in persona a fare da capotreno, mentre il Direttore Generale intrattiene gli ospiti. Più di così…

Il prossimo appuntamento fra due settimane, al ritorno dalla gita elvetica. Sul podio ci sarà Wayne Marshall, a dirigere un programma finno-russo, col concerto per violino suonato da Francesca Dega e la suite dello straordinario Romeo&Giulietta.
.

24 settembre, 2009

MiTo ricorda Lincoln… con sorpresa

.
Il Teatro DalVerme ha ospitato, nella penultima giornata (per Milano, ultima per Torino) del MiTo un concerto di musiche USA, sul tema Abraham Lincoln, a 200 anni dalla nascita del sedicesimo presidente americano. Verso le 8:30 di sera il Sottovia Mercanti e via Dante sono affollatissime; come inizio d’autunno, almeno a Milano, non c’è proprio male: cielo sereno e temperatura mite; tutti occupati i tavolini all’aperto dei molti bar e ristoranti. Come cantava Rodolfo DeAngelis? ...ma cos’è questa crisi, para para pà ppa ppa ppa ppà!

Però un barlume di crisi si nota: in fondo a via Dante, a 50 metri dal teatro, si prepara una manifestazione di studenti, ci sono drappelli di poliziotti in allerta.

Dentro: affluenza modesta, devo dire (e non credo che tutti i musicofili milanesi fossero migrati a Torino, per la pur invogliante Nona beethoveniana): sono occupati sì e no il 50% dei 1500 posti del teatro. Programma di sala stavolta eccellente, grazie alla penna di Oreste Bossini, ben noto agli ascoltatori di Radio3.

Si comincia con Charles Ives e la sua The Unanswered Question, una specie di Gruppen ante-litteram, dove tre sezioni dell’orchestra (archi, strumentini e tromba solista) dialogano a modo loro, appunto, su una domanda (senza risposta?) formulata 7 volte dalla tromba (sistemata alle spalle del pubblico) e che riceve risposte confuse dai 4 fiati (2 flauti, oboe e clarinetto, messi sull’ultimo gradino del coro) mentre gli archi sembrano assistere impassibili e nemmeno sfiorati dal problema. Che c’è dietro? L’esistenza, o la stessa storia della musica, qualcuno azzarda. L’unica cosa certa (almeno così sembrerebbe) è che Lincoln qui non c’entra proprio nulla. Ecco un illustre riferimento. E qui il prodigio venezuelano alla Scala.

Poi arriva sulla scena la zia Letizia in persona, che si aggiunge alla lunga schiera di illustri personaggi della politica o para-politica che si sono in passato cimentati con il Lincoln Portrait di Aaron Copland. Che è una risposta artistico/patriottica del compositore newyorkese (certo più famoso per Appalachian Spring o, che so, per El salòn Mexico) al proditorio attacco nipponico di Pearl Harbour. Umberto Ceriani recita in italiano le frasi di Lincoln che poi dovremo udire in inglese dalla nostra Sindaco, presentatasi in abbigliamento bianconero (per onore alla To del MiTo e all’orchestra torinese, di juventini forse?): gonna pantalone nera e blusa bianca, ma con aggiunta di improbabile corpetto nero.

Fatto sta che, terminata la lussureggiante introduzione orchestrale, e dopo che ha esposto la prima riga del testo, la sindaco-recitante viene di botto contestata, e assai pesantemente. Non da tifosi del Toro, bensì da un drappello di giovani studentesse evidentemente infilatesi in teatro dalla vicina manifestazione (contro la chiusura di una scuola serale da parte del Comune). Sospensione momentanea del concerto, poi – allontanate le contestanti, subito seguite da un piccolo codazzo di persone (cronisti/e, penso io) – si riprende come nulla fosse e la cosa finisce in… Letizia!

Qui una sanguigna, efficace lettura della grande Katharine Hepburn, che pare sia anche la preferita dalla Moratti. La quale Moratti, dopo l’intervallo, prende posto in platea, circondata da vassalli e notabili, fra cui il capo supremo dei trasporti milanesi che – ne sono certo – le avrà poi offerto un passaggio verso casa su una delle sue metropolitane fuori-serie.

Letters from Lincoln è una recentissima composizione di Michael Daugherty. Sono 6 lettere (o estratti di lettere) di Lincoln, che Ceriani legge di volta in volta in italiano, e che poi il baritono Stephan Genz canta nell’originale inglese. Non deve essere casuale che l’ultima frase della composizione sia esattamente quella che chiude il Portrait. Alla fine viene chiamato sul podio un energumeno (ma dall’aspetto mite) che scopriamo essere proprio l’Autore, venuto qui apposta per il battesimo europeo della sua opera.

Con Daugherty in piedi accanto al direttore, viene suonato The Star-Spangled Banner, l’arrangiamento stravinskiano dell’inno USA. Che serve per chiudere (retoricamente, ma diciamo che fin qui ci potrebbe anche stare) il programma. In realtà si va ben oltre la retorica, con il pubblico che (poche eccezioni, fra le quali mi vanto di annoverarmi) si alza in piedi e ascolta con la mano sul cuore!

Un bravo incondizionato ai professori della Filarmonica '900 del Teatro Regio di Torino guidati dall’appariscente Jan Latham-Koenig.

Fuori la manifestazione è finita. Sono le 22:45 e in via Dante non c’è quasi più nessuno, solo un bar ancora aperto, con tre avventori, non di più. Anche Cordusio, piazza Duomo e galleria Vittorio Emanuele sono pressochè deserte. Nessuna ronda in giro.
.

22 settembre, 2009

Chung e la Filarmonica al Palasharp

.
Ultimi giorni del MiTo. Al Palasharp è andata in scena ieri la Filarmonica della Scala guidata da Chung con un programma double-face: quattro sinfonie/preludi da opere italiane (2 Rossini e 2 Verdi) e poi i Quadri raveliani sul canovaccio pianistico di Musorgski. Programma che l’Orchestra presenterà (28-29 settembre e 3 ottobre) al pubblico spagnolo di Valladolid, Barcellona e Madrid.

A fianco del palazzetto c’è – come tradizione a settembre - la Festa del PD (ex- festa de l’Unità) che spinge le sue propaggini anche dentro allo stesso impianto, come testimoniano i banconi a lato del parterre dove si può acquistare un gelato, un panino, una birra o un caffè, e prendere una copia omaggio de l’Unità (alla faccia di Berlusconi…)

Già alle 20:30 il palazzone è stracolmo. 8.000 (dicasi: ottomila) e rotte persone! Tutte ben disposte a godersi un programma relativamente leggero, almeno nella prima parte, di impronta familiarmente melodrammatica. Gente che si siede anche sui gradini fra le tribune, o è costretta a trovar posto a 30 metri d’altezza e a 100 dal palco dell’orchestra. Per loro, ma non solo, ci sono due maxi-schermi che riproducono una ripresa televisiva del concerto, con opportuni primi piani. Peccato che, fatto 30, non si sia fatto 31, proiettando anche le didascalie di ciò che veniva suonato. Sarebbe stato utile assai, soprattutto per i Quadri. Vedo in giro un sacco di facce orientali (io non saprei distinguere fra un coreano e un cinese… forse nemmeno loro stessi ci riescono): che siano tutti fans di Chung, arrivati da ogni dove? Oppure Milano è proprio invasa – come si dice in giro - dai cinesi? (però se vengono ai concerti mi piacciono già di più degli islamici, che in fatto di musica – a dispetto del grande retroterra culturale - oggi non vanno oltre le cantilene dei loro muezzin).

Al prezzo politico di 1€ si può avere il programma di sala. La cui qualità è purtroppo direttamente proporzionale al prezzo. Verdi viene fatto nascere nel 1913 e retroattivamente morire nel 1901. Il piano dei Quadri è quello della versione originale per pianoforte, includendo quindi anche la Promenade che separa Limoges dai due Ebrei, che Ravel (chissà poi perché) decise di espungere, e che ovviamente il buon Chung non ha potuto eseguire. Nella presentazione di Lorenzo Arruga si indica nel 1929 la data della composizione degli stessi Quadri raveliani, quando invece è il 1922. A proposito di Arruga: non deve evidentemente aver speso troppa fatica per scrivere una paginetta miserella, con quattro paragrafi che dicono assai meno di quanto chiunque può trovare su Wiki.

Ma veniamo al concerto. Però prima di iniziare si osserva un minuto di silenzio: in onore di tutte le vittime, militari e civili, di tutti i conflitti in atto.

Chung conferma la sua fama di direttore composto e moderato, anche negli atteggiamenti esteriori: dirige con gesti precisi ma mai enfatici; tende a mettere in risalto i dettagli cameristici, frenando le esplosioni di fracasso, che pure non mancano in almeno tre delle quattro partiture operistiche e abbondano assai in quella di Ravel. Quanto all’acustica, pare accettabile, a dispetto dell’enormità dello spazio.

Le due Ouvertures di Rossini son fatte apposta per mettere in risalto le qualità solistiche di alcuni professori. Nell’Italiana sono, in particolare, oboe e ottavino, con quel raffinato scambio di parti nelle due esposizioni (prima in SOL, poi in DO) del secondo tema. Nel Tell, il pacchetto dei 5 violoncelli, quindi corno inglese e flauto. Tutti eccezionali. Però confesso che, nella stessa ouverture dell’ultima opera rossiniana, nell’insieme mi avevano convinto di più i terroni di Santa Cecilia, qualche giorno addietro al Conservatorio (che però ha ben altra acustica).

Di Verdi si esegue dapprima il secondo Preludio della Traviata, che fa da intermezzo intimistico, e dove sono i primi violini a mettersi in mostra. Infine il Destino, dove compare fra gli ottoni il cimbasso, questo strano trombone con coulisse ortogonale rispetto alla campana, che lo fa sembrare un curioso trampoliere.

Niente intervallo (e giustamente, chè un foyer per 8.000 ancor non fu inventato) e si attaccano subito i Quadri, questo strepitoso furto raveliano ai danni – ma anche a grande onore! – di Modest Musorgski. Notiamo subito saxofono e tubetta ad arricchire l’orchestra, oltre a percussioni poco usuali (raganella e campane). Chung li dirige a memoria, con grande equilibrio e senza scadere in facili effetti. Però la chiusa, una specie di Bruckner (3 su 2) elevato a potenza, dovrebbe essere di una luminosità più abbacinante (sonorità – ma anche un po’ la melodia - che ricordano quelle dell’Uccello stravinskiano, di una dozzina d’anni antecedente). La Filarmonica ce la mette davvero tutta per riempirne l’enorme spazio del palasport, ma il risultato non è proprio il massimo dell’efficacia.

Comunque grandi ovazioni per tutti, un generoso bis (Brahms, danza magiara n°5) e poi ci si incammina, attraverso lo stretto imbuto dell’uscita, verso la metro, nella frizzante ma gradevole notte dell’equinozio d’autunno. Fra un paio di giorni confronteremo questi quadri con un’altra copia: quella che ne farà laVerdi all’Auditorium, con Roberto Abbado.
.