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Il Teatro DalVerme ha ospitato, nella penultima giornata (per Milano, ultima per Torino) del MiTo un concerto di musiche USA, sul tema Abraham Lincoln, a 200 anni dalla nascita del sedicesimo presidente americano. Verso le 8:30 di sera il Sottovia Mercanti e via Dante sono affollatissime; come inizio d’autunno, almeno a Milano, non c’è proprio male: cielo sereno e temperatura mite; tutti occupati i tavolini all’aperto dei molti bar e ristoranti. Come cantava Rodolfo DeAngelis? ...ma cos’è questa crisi, para para pà ppa ppa ppa ppà!
Però un barlume di crisi si nota: in fondo a via Dante, a 50 metri dal teatro, si prepara una manifestazione di studenti, ci sono drappelli di poliziotti in allerta.
Dentro: affluenza modesta, devo dire (e non credo che tutti i musicofili milanesi fossero migrati a Torino, per la pur invogliante Nona beethoveniana): sono occupati sì e no il 50% dei 1500 posti del teatro. Programma di sala stavolta eccellente, grazie alla penna di Oreste Bossini, ben noto agli ascoltatori di Radio3.
Si comincia con Charles Ives e la sua The Unanswered Question, una specie di Gruppen ante-litteram, dove tre sezioni dell’orchestra (archi, strumentini e tromba solista) dialogano a modo loro, appunto, su una domanda (senza risposta?) formulata 7 volte dalla tromba (sistemata alle spalle del pubblico) e che riceve risposte confuse dai 4 fiati (2 flauti, oboe e clarinetto, messi sull’ultimo gradino del coro) mentre gli archi sembrano assistere impassibili e nemmeno sfiorati dal problema. Che c’è dietro? L’esistenza, o la stessa storia della musica, qualcuno azzarda. L’unica cosa certa (almeno così sembrerebbe) è che Lincoln qui non c’entra proprio nulla. Ecco un illustre riferimento. E qui il prodigio venezuelano alla Scala.
Poi arriva sulla scena la zia Letizia in persona, che si aggiunge alla lunga schiera di illustri personaggi della politica o para-politica che si sono in passato cimentati con il Lincoln Portrait di Aaron Copland. Che è una risposta artistico/patriottica del compositore newyorkese (certo più famoso per Appalachian Spring o, che so, per El salòn Mexico) al proditorio attacco nipponico di Pearl Harbour. Umberto Ceriani recita in italiano le frasi di Lincoln che poi dovremo udire in inglese dalla nostra Sindaco, presentatasi in abbigliamento bianconero (per onore alla To del MiTo e all’orchestra torinese, di juventini forse?): gonna pantalone nera e blusa bianca, ma con aggiunta di improbabile corpetto nero.
Fatto sta che, terminata la lussureggiante introduzione orchestrale, e dopo che ha esposto la prima riga del testo, la sindaco-recitante viene di botto contestata, e assai pesantemente. Non da tifosi del Toro, bensì da un drappello di giovani studentesse evidentemente infilatesi in teatro dalla vicina manifestazione (contro la chiusura di una scuola serale da parte del Comune). Sospensione momentanea del concerto, poi – allontanate le contestanti, subito seguite da un piccolo codazzo di persone (cronisti/e, penso io) – si riprende come nulla fosse e la cosa finisce in… Letizia!
Qui una sanguigna, efficace lettura della grande Katharine Hepburn, che pare sia anche la preferita dalla Moratti. La quale Moratti, dopo l’intervallo, prende posto in platea, circondata da vassalli e notabili, fra cui il capo supremo dei trasporti milanesi che – ne sono certo – le avrà poi offerto un passaggio verso casa su una delle sue metropolitane fuori-serie.
Letters from Lincoln è una recentissima composizione di Michael Daugherty. Sono 6 lettere (o estratti di lettere) di Lincoln, che Ceriani legge di volta in volta in italiano, e che poi il baritono Stephan Genz canta nell’originale inglese. Non deve essere casuale che l’ultima frase della composizione sia esattamente quella che chiude il Portrait. Alla fine viene chiamato sul podio un energumeno (ma dall’aspetto mite) che scopriamo essere proprio l’Autore, venuto qui apposta per il battesimo europeo della sua opera.
Con Daugherty in piedi accanto al direttore, viene suonato The Star-Spangled Banner, l’arrangiamento stravinskiano dell’inno USA. Che serve per chiudere (retoricamente, ma diciamo che fin qui ci potrebbe anche stare) il programma. In realtà si va ben oltre la retorica, con il pubblico che (poche eccezioni, fra le quali mi vanto di annoverarmi) si alza in piedi e ascolta con la mano sul cuore!
Un bravo incondizionato ai professori della Filarmonica '900 del Teatro Regio di Torino guidati dall’appariscente Jan Latham-Koenig.
Fuori la manifestazione è finita. Sono le 22:45 e in via Dante non c’è quasi più nessuno, solo un bar ancora aperto, con tre avventori, non di più. Anche Cordusio, piazza Duomo e galleria Vittorio Emanuele sono pressochè deserte. Nessuna ronda in giro.
Però un barlume di crisi si nota: in fondo a via Dante, a 50 metri dal teatro, si prepara una manifestazione di studenti, ci sono drappelli di poliziotti in allerta.
Dentro: affluenza modesta, devo dire (e non credo che tutti i musicofili milanesi fossero migrati a Torino, per la pur invogliante Nona beethoveniana): sono occupati sì e no il 50% dei 1500 posti del teatro. Programma di sala stavolta eccellente, grazie alla penna di Oreste Bossini, ben noto agli ascoltatori di Radio3.
Si comincia con Charles Ives e la sua The Unanswered Question, una specie di Gruppen ante-litteram, dove tre sezioni dell’orchestra (archi, strumentini e tromba solista) dialogano a modo loro, appunto, su una domanda (senza risposta?) formulata 7 volte dalla tromba (sistemata alle spalle del pubblico) e che riceve risposte confuse dai 4 fiati (2 flauti, oboe e clarinetto, messi sull’ultimo gradino del coro) mentre gli archi sembrano assistere impassibili e nemmeno sfiorati dal problema. Che c’è dietro? L’esistenza, o la stessa storia della musica, qualcuno azzarda. L’unica cosa certa (almeno così sembrerebbe) è che Lincoln qui non c’entra proprio nulla. Ecco un illustre riferimento. E qui il prodigio venezuelano alla Scala.
Poi arriva sulla scena la zia Letizia in persona, che si aggiunge alla lunga schiera di illustri personaggi della politica o para-politica che si sono in passato cimentati con il Lincoln Portrait di Aaron Copland. Che è una risposta artistico/patriottica del compositore newyorkese (certo più famoso per Appalachian Spring o, che so, per El salòn Mexico) al proditorio attacco nipponico di Pearl Harbour. Umberto Ceriani recita in italiano le frasi di Lincoln che poi dovremo udire in inglese dalla nostra Sindaco, presentatasi in abbigliamento bianconero (per onore alla To del MiTo e all’orchestra torinese, di juventini forse?): gonna pantalone nera e blusa bianca, ma con aggiunta di improbabile corpetto nero.
Fatto sta che, terminata la lussureggiante introduzione orchestrale, e dopo che ha esposto la prima riga del testo, la sindaco-recitante viene di botto contestata, e assai pesantemente. Non da tifosi del Toro, bensì da un drappello di giovani studentesse evidentemente infilatesi in teatro dalla vicina manifestazione (contro la chiusura di una scuola serale da parte del Comune). Sospensione momentanea del concerto, poi – allontanate le contestanti, subito seguite da un piccolo codazzo di persone (cronisti/e, penso io) – si riprende come nulla fosse e la cosa finisce in… Letizia!
Qui una sanguigna, efficace lettura della grande Katharine Hepburn, che pare sia anche la preferita dalla Moratti. La quale Moratti, dopo l’intervallo, prende posto in platea, circondata da vassalli e notabili, fra cui il capo supremo dei trasporti milanesi che – ne sono certo – le avrà poi offerto un passaggio verso casa su una delle sue metropolitane fuori-serie.
Letters from Lincoln è una recentissima composizione di Michael Daugherty. Sono 6 lettere (o estratti di lettere) di Lincoln, che Ceriani legge di volta in volta in italiano, e che poi il baritono Stephan Genz canta nell’originale inglese. Non deve essere casuale che l’ultima frase della composizione sia esattamente quella che chiude il Portrait. Alla fine viene chiamato sul podio un energumeno (ma dall’aspetto mite) che scopriamo essere proprio l’Autore, venuto qui apposta per il battesimo europeo della sua opera.
Con Daugherty in piedi accanto al direttore, viene suonato The Star-Spangled Banner, l’arrangiamento stravinskiano dell’inno USA. Che serve per chiudere (retoricamente, ma diciamo che fin qui ci potrebbe anche stare) il programma. In realtà si va ben oltre la retorica, con il pubblico che (poche eccezioni, fra le quali mi vanto di annoverarmi) si alza in piedi e ascolta con la mano sul cuore!
Un bravo incondizionato ai professori della Filarmonica '900 del Teatro Regio di Torino guidati dall’appariscente Jan Latham-Koenig.
Fuori la manifestazione è finita. Sono le 22:45 e in via Dante non c’è quasi più nessuno, solo un bar ancora aperto, con tre avventori, non di più. Anche Cordusio, piazza Duomo e galleria Vittorio Emanuele sono pressochè deserte. Nessuna ronda in giro.
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