affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

08 settembre, 2009

Chailly ai Proms, con la decima di Mahler-Cooke&C

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L'appuntamento Prom-69 presentava, in apertura, il concerto per piano di Mendelssohn, certo non il pezzo più pregiato del compositore di cui ricorrono nel 2009 i 200 anni dalla nascita, e a cui Londra ha dedicato grande attenzione, data la popolarità che il grande compositore tedesco ebbe lassù.

Con la Gewandhaus, l’orchestra dove Mendelssohn era di casa, e dove oggi – grande onore – è di casa il nostro Riccardo Chailly, è stato interprete del concerto Saleem Abboud Ashkar, trentatreenne pianista israelo-palestinese. Cioè un palestinese di etnìa e israeliano di nazionalità (oggi sono circa 1,7 milioni, su 7,3 milioni di cittadini di Israele, i palestinesi come lui). È nato nel 1976 a Nazareth, villaggio biblico che la risoluzione 181 dell’ONU (1947) aveva destinato agli arabi di Palestina, e che Israele annesse, con tutta la Galilea, dopo la Guerra del 1948-49. Evidentemente i nonni e i genitori di Saleem decisero di restare a Nazareth e di diventare così cittadini di Israele, invece di trasferirsi, per dire, di pochi Km, nella West Bank; e forse ciò ha permesso al ragazzo di disporre e di accedere più facilmente a certe risorse, e di arrivare dov’è oggi. Anche se lui stesso non nasconde la sua condizione di estraniato, come erano e sono altri palestinesi della diaspora, Edward Said in testa.

Ma veniamo alla Decima. Premesso che la Gewandhausorchester e Chailly hanno dato il meglio di sè, resta il fatto che quella che ascoltiamo – salvo l’adagio iniziale - è una ipotesi di lavoro, e in gran parte un esperimento di laboratorio. Che Mahler avesse lasciato un faldone nero contenente dei pentagrammi riempiti di note – insieme a commenti, imprecazioni, vaneggiamenti – non autorizza a dedurre che quello fosse la sua decima sinfonia. Sappiamo che molti anni prima, a cavallo dei due secoli, da un cumulo di schizzi e idee Mahler aveva ricavato nientemeno che tre sinfonie (3-4-5). Chi può dire che in quel faldone non ci fossero spunti che avrebbero potuto costituire – fosse Mahler vissuto – addirittura movimenti di sinfonie diverse (due scherzi, nella stessa sinfonia?)

Insomma, una sinfonia virtuale, che mai e poi mai sarebbe stata data così alle stampe da Mahler, abituato a pensare e ripensare le sue opere addirittura ad anni di distanza. Ma i ricostruttori della cosiddetta decima hanno voluto scimmiottare Mahler anche nell’abitudine di fare revisioni continue all’opera e così ieri sera – proprio per fare un esempio concreto – Chailly ha presentato una nuova formulazione dei famosi colpi di tamburo militare coperto, il primo dei quali chiude il 4° movimento, e che poi si ripetono all’inizio del 5°: nella partitura di Cooke-Goldschmidt-Matthews del 1976, seguita dai direttori che l’hanno incisa fino ad oggi, i colpi sono rappresentati da una singola semiminima; ieri invece Chailly (o chi per lui...) forse per metterli in relazione con l’inciso dei corni, li ha trasformati in due semicrome + una croma + rimbombo, con un effetto del tutto stravolto!

Insomma, questa ricostruzione, credo io, andrebbe presentata per quello che è, un esercizio scolastico - una serie di pezzi separati - e giusto per darci un’idea di ciò che Mahler poteva avere in mente; così si potrebbe anche apprezzare lo sforzo di Cooke&C. Ma in nessun caso andrebbe programmata – e venduta in CD - come la Decima di Mahler (pur con la postilla: completata da …)
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07 settembre, 2009

La “cinesina” della Verdi conquista la Scala


Xian Zhang ha debuttato ieri sera ufficialmente come Direttore Musicale dell’Orchestra Verdi nel concerto inaugurale ospitato in una Scala mutilata del secondo loggione e deturpata da impalcature e strumenti non propriamente musicali (comunque, se si toglie di mezzo una buona volta lo sbifido asbestos, sarà un bene per tutti).

Dico subito che l’Orchestra (mi) ha veramente impressionato (con ciò confortando la mia convinzione di aver ben speso i quattrini per l’abbonamento alla stagione): archi compatti e senza sbavature, fiati e percussioni semplicemente impeccabili, ottoni smaglianti (anche se con un paio di …smagliature nei corni, per dire il vero).

Per la simpatica Xian un debutto tutto sommato incoraggiante: interpretazioni convincenti, soprattutto Petruška, e bacchetta autorevole, a dispetto della statura minuscola. Dopo la Settima beethoveniana – perfettibile ma di buon livello, soprattutto nei movimenti centrali - grandi applausi per tutti (con qualche isolato dissenso dal loggione, o ho sentito male?) e così la cinesina ha richiamato in palcoscenico l’intero organico, per offrire due bis: ancora Stravinskij con l’abbacinante chiusa dell’Uccello e la ciaikovskiana Trepak.

Giovedi 10 primo concerto all’Auditorium, con un programma tosto assai: Vier Letzte Lieder e Quinta in MI minore.
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03 settembre, 2009

Un MiTo alla terza edizione


Nata nel 2007, compie oggi tre anni questa settembrina kermesse padana, uno dei pochi esempi di cooperazione bi-partisan fra due città divise da vecchie e nuove rivalità, non solo nel campo sportivo. Significativa la circostanza che, poco dopo la rassegna musicale, dovrebbe diventare (finalmente!) operativo l’intero percorso Mi-To della TAV, finora castrato della tratta Milano-Novara. In attesa del treno veloce, gli organizzatori mettono a disposizione degli spettatori navette pullman che collegano le due città per gli avvenimenti principali.

Qualche intoppo già all’inizio: la Scala – che ospita domani il primo evento a Milano – ha scoperto improvvisamente dopo anni – durante i quali il teatro è stato pure ristrutturato! - che nei controsoffitti sopra il loggione c’è ancora dell’amianto. Così in fretta (mica troppa…) e furia (quella dei loggionisti!) si procede ora a lavori che dureranno due mesi. Pazienza, e peggio per coloro che avevano già i biglietti in tasca.

Poi ci si è messo anche il maestro Pappano, che si è fatto ricoverare (augurissimi!) in ospedale e non potrà dirigere i due concerti con la Santa Cecilia. Sarà sostituito da Diego Matheuz che, per risarcire gli spettatori, rimpiazzerà due brani di Ponchielli e Respighi addirittura con la Quinta di Ciajkovski!

Il Comune di Milano ha mostrato grande attenzione ai costi e – per contenerli – ha deciso di mettere a disposizione del MiTo – senza compenso – il suo assessore alla Cultura, Max Finazzer Flory, che il 22/9 a Torino reciterà un suo scritto su Beethoven e poi nientemeno che il Sindaco in persona: la cara zia Letizia farà da voce recitante nel Lincoln Portrait di Aaron Copland, il 23/9 a Milano.

Anche l’Orchestra Verdi - di recente gratificata dal Comune di Milano di un sostanzioso contributo – offrirà il suo obolo: domenica 20, con ingresso libero, nella Basilica di San Marco (quella di Milano, sia chiaro) Xiang Zhang dirigerà la Missa Solemnis beethoveniana (i laici – come fioretto – si dovranno sorbire la celebrazione di Don Luigi Garbini).

Insomma, il programma è vasto e variegato e il portale web all’uopo predisposto è ricco di informazioni e servizi. Peccato che – a giudicare dai tempi di risposta - i server appaiano un pochino sottodimensionati.
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01 settembre, 2009

La stagione della “Verdi” inizia il 6/9 alla Scala


Domenica 6 settembre la Scala ospita il concerto inaugurale – fuori abbonamento – della stagione 2009-10 dell’Orchestra Verdi.

La novità assoluta per l’Orchestra è il nuovo Direttore Musicale. O dobbiamo chiamarla Dilettlice? Sì, poiché è una simpatica cinesina trapiantata a Manhattan e pure fresca mammina, Xian Zhang.

La Verdi ha avuto e ha tuttora una vita difficile. Nata nei primi anni ‘90, col venerabile Delman, in una Milano nel ciclone di tangentopoli (Milano che era stata governata e “bevuta” dai craxiani appoggiati dai “miglioristi” del PCI e alla vigilia dell’avvento di Lega e Forza italia) è stata fin dall’inizio una scommessa, sempre in bilico fra utopia anti-statalista e piagnistei contro lo Stato insensibile alle giuste esigenze di arte e cultura. I fondatori sono da ritrovarsi nell’alta borghesia (illuminata?) milanese, e in dirigenti (Cervetti, Corbani, oggi presidente e d.g.) provenienti allora dalle file dell’ex-PCI, ma passati da tempo sulla sponda migliorista, anche se mai caduti in braccio a Berlusconi.

Proprio perchè sorta quasi sfidando le leggi che regolano l’establishment musicale italiano (associazioni e fondazioni che nascono e vivono in un rapporto di reciproco ricatto con lo Stato) la Verdi non ha mai goduto buona reputazione nella burocrazia pubblica, che ha tenuto nei suoi confronti l’atteggiamento di chi è seduto sul bordo del fiume aspettando che transiti il galleggiante cadavere. Nei suoi 16 anni di vita la Verdi ha ricevuto solo minuscole e quasi offensive elemosine dagli enti pubblici (Stato, Regione Lombardia, Provincia e Comune di Milano) che invece dispensavano molti più quattrini a tutte le istituzioni e fondazioni “allineate e coperte” o comunque omologate all’andazzo prevalente, non importa di qual colore politico. Così la Verdi è stata spesso – e anche oggi non è del tutto immunizzata da una simile prospettiva – sull’orlo del fallimento, presa in mezzo fra costi e debiti (affitto dell’Auditorium di Largo Mahler, ristrutturato oltretutto con quattrini privati, e debiti proprio verso l’erario e la previdenza) e la quasi totale mancanza di sostegno pubblico.

Basta leggere i bilanci (certificati!) della Fondazione per conoscere cifre e dati impressionanti riguardo la sperequazione di trattamento di cui la Verdi è stata ed è tuttora vittima, rispetto ad istituzioni e fondazioni assai meno “produttive” e performanti. Negli ultimi due anni, sia il (breve) governo di centro-sinistra, che l’attuale amministrazione di centro-destra hanno letteralmente prosciugato le già asfittiche fonti di finanziamento pubblico alla Verdi che, come qualunque istituzione artistica (italiana o straniera fa lo stesso) senza contributi pubblici non può in alcun modo sopravvivere, oppure può farlo riempiendosi di debiti (finchè qualche banca gli presta soldi…) Purtroppo il retaggio politico che il management si porta dietro (Corbani sostenne la candidatura Ferrante contro la Moratti nel 2006) ha complicato le cose: tanto per dire, a fine 2008 il consigliere di amministrazione che rappresenta il Comune di Milano si dichiarava apertamente critico nei confronti del management e non nascondeva che solo un cambiamento radicale alla guida della Fondazione avrebbe potuto riportarla nelle grazie degli enti pubblici.

Poi, quasi miracolosamente, qualcosa è successo: grazie a prestiti e mutui di varie banche, e alla generosità di mecenati, la Fondazione ha acquisito di fatto la proprietà dell’Auditorium (oggi Auditorium di Milano Fondazione Cariplo, il cui affitto è sempre stata una grossa voce di costo del conto economico) e ha potuto ripianare gran parte dei debiti verso l’erario. Ecco quindi che lo stesso consigliere ha smesso lo scetticismo ed ha potuto trionfalmente annunciare, pochi mesi fa, un discreto stanziamento di fondi del Comune di Milano per l’Orchestra, cosa non da poco con questi chiari di luna.

Da parte sua, la mammina cinese promette di portare in breve tempo la Verdi fra le prime 20 orchestre del mondo: un’utopìa? Forse. Ma Milano – sulla carta - non ha poi risorse inferiori a Lipsia o Vienna, o Philadelphia, tutto sta a usarle bene, affidarle a gente capace e integrarle con i necessari aiuti pubblici. Il brano con cui si apre domenica la nuova stagione è Le Creature di Prometeo. Che la piccola Xian voglia fare proprio sul serio?
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23 agosto, 2009

Barenboim con la Divan ai Proms-09

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Venerdi 21 e sabato 22 i Proms hanno ospitato la West-Eastern Divan Orchestra, diretta dal suo co-fondatore Daniel Barenboim.

Questa orchestra è una vera e propria scommessa perenne, come può esserlo il tentativo di far convivere pacificamente e proficuamente nello stesso recinto cani e gatti, guelfi e ghibellini… israeliani e palestinesi! Provate a mettervi nei panni di un violoncellista palestinese, nativo di Gaza, il giorno dopo che un raid della IDF ha provocato la morte di decine di suoi concittadini, incluso magari qualche suo parente. O anche, nei panni di una flautista israeliana che ha perso amici e conoscenti grazie ad un attentato di kamikaze palestinesi a Jaffa. E tutti a continuare a suonare insieme. Insomma, roba da chiodi!

Bene, questo complesso di separati-che-più-non-si-può riesce a suonare decentemente – non dirò meravigliosamente, chè il senso delle proporzioni va sempre mantenuto – il Preludio e il Liebestod del Tristan e poi, più che decentemente in verità, la Fantastica di Berlioz! Alcuni strumentisti, un’ora dopo, ci fanno ascoltare il delizioso Ottetto di Mendelssohn, e un tirato Concerto da camera di Berg. Grazie davvero, di questi tempi!

Ma il grande appuntamento è il Fidelio del 22. Un Fidelio perfettamente nello spirito dei Proms, a metà fra la scampagnata e l’occasione di acculturamento delle masse.

Barenboim deve accattivarsi subito il pubblico della Royal Albert Hall (chissà perché il commentatore di Radio3 si è ostinato per tutta la sera a trasferire lo spettacolo nella Royal Festival Hall) e così - invece della canonica, ma troppo cerebrale, Overture in MI maggiore – apre con la Leonore III, tutt’altro cipiglio e presa sul pubblico. Dopodichè – e chissà perché… forse per non passare bruscamente dal fracasso del DO maggiore della Leonore al LA maggiore del N°1 ? - parte col N°2, che è in DO (minore, poi maggiore) e chiude però in piano. E così stempera un pochino il successivo passaggio al N°1. Tanto il pubblico – si pensa – non farà caso all’inversione innaturale del nesso logico della trama.

Intanto era successa però una cosa importante, anche questa tipica dello spirito maieutico dei Proms: Waltraud Meier aveva premesso all’Overture il racconto (in lingua inglese, come tutti i successivi suoi interventi durante l’Opera) del significato del Fidelio. Testi tutti scritti da Edward Said, il compianto co-fondatore (di origine palestinese) della Divan con Barenboim: si tratta appunto non già dei recitativi del Singspiel (sono stati tutti eliminati in questa esecuzione) ma di brevi riassunti della vicenda, via via che procede. Un modo come un altro – ma direi abbastanza efficace - per spiegare al pubblico il contenuto di ciò che sta ascoltando.

Appunto, la Meier. Qualcuno potrà storcere il naso sul suo essere un soprano di contrabbando, oltretutto appesantita dal fardello delle innumerevoli Isolde e Kundry che si porta sulle spalle, ma personalmente mi è piaciuta assai e in particolare nell’Adagio del N°9 – quella specie di straordinario concertato in SI maggiore con i corni, Komm, Hoffnung – davvero esposto mirabilmente, inclusa la salita al SI acuto e successiva discesa di due ottave piene, sull’erreichen. Poi ha un pochino pagato dazio, sui lunghi SOL della fine dell’aria, ma insomma… avercene!

Sir John Tomlinson è stato per me un Rocco efficacissimo. Gli rimprovero soltanto un eccesso – tutto da Proms – di gigionerìa ed enfasi retorica. Ma la voce è splendida e perfettamente attagliata al ruolo.

Onesti e dignitosi, la Marzelline di Adriana Kucerova e il Jaquino di Stephen Rügamer. Però bravi, con Tomlinson e Meier, nel difficile Mir ist so wunderbar.

Simon O’Neill era Florestan: mi è parso incerto – calante – nei primi passi della sua difficile aria di apertura, ma poi si è ben ripreso ed ha finito in crescendo. In particolare ottimo, con la Meier, nel famoso O namenlose Freude.

Il Pizarro di Gerd Grochowsky (sostituiva Peter Mattei, originariamente in locandina) ha fatto onestamente la sua parte, ma un poco di grinta in più non avrebbe guastato.

Deludente, perché a mio parere di voce troppo leggera, il Don Fernando di Viktor Rud, a sentirlo pareva che il Ministro si fosse fatto rappresentare per l’occasione da un suo giovane portaborse.

Efficaci i cori, sia nel sempre commovente O welche Lust, che nel finale.

Barenboim ha guidato i ragazzi della Divan da par suo: anche lui, come la Meier, magari fatica a de-wagnerizzarsi del tutto al momento di affrontare Beethoven, ma insomma l’esperienza e il mestiere gli consentono di portare a casa una prestazione di tutto rilevo.

Un’ultima nota sui Proms. Saranno pure una kermesse vacanziera, ma a confronto di certi desolanti panorami nostrani sono davvero su di un altro pianeta. Meno male che c’è la tecnologia radio-webbica che ci permette di goderceli, sia pure a distanza.
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21 agosto, 2009

Riccardo Muti, re di Roma (?!)

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Tale Francesco Muti (i refusi tipografici – penultima riga dell’articolo - fanno davvero ridere!) sta per diventare il nuovo Direttore Musicale dell’Opera di Roma.

Al di là di ogni possibile – e probabile – contestazione e sberleffo campanilistico-antiterronistico-leghista contro il Riccardone, una cosa è certa: per l’Opera di Roma si tratta del più importante passaggio degli ultimi 40 anni!

Che poi Alemanno si fregi di meriti che risalgono a Veltroni o addirittura a Rutelli, non cambia la sostanza dell’avvenimento.

Quanto ai contenuti artistici, Muti è persona troppo intelligente per riproporre – a Roma – le velleitarie e provincialotte iniziative (vedasi Wagner) che pretese di imporre alla Scala.
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17 agosto, 2009

Che 'l Numero non è Cagione propinqua & intrinseca delle Proportioni musicali, ne meno delle Consonanze; & quali siano le quattro Cagioni...















AVEGNA ch'io habbia detto di sopra, che i Suoni siano la Materia delle Consonanze, & i Numeri & le Proportioni la loro Forma; non si dee per questo credere, che 'l Numero sia la cagione propinqua & intrinseca delle Proportioni musicali, ne meno delle Consonanze; ma si ben la remota & estrinseca; come vederemo. Onde si debbe auertire, ch'essendo il proprio fine del Musico (come uogliono i Filosofi, massimamente Eustratio) il Cantare con modulatione; oueramente il Sonare ogni Istrumento con harmonia, secondo i precetti dati nella Musica; similmente il Giouare & il Dilettare; com'è quello del Poeta; hauendo ei sopra 'l tutto riguardo à cotal cosa; piglia primieramente l'Istrumento, nel quale ritroua le Chorde, che rendono i Suoni, apparecchiate; dopoi per poter conseguire il desiderato fine, introducendo in esse la forma delle Consonanze, riducendole in una certa qualità, & in un certo temperamento, pone tra loro una distanza proportionata, & le tira di modo, che percosse da lui, rendono perfetto concento & ottima harmonia. Et quantunque in questo concorrino quattro cose, come etiandio concorrono in ciascun'altra operatione; cioè, il Fine dell'attione, al quale sempre si hà riguardo; ch'è il Sonare con harmonia; ouero il Giouare & Dilettare; che si dice Cagion finale; lo Agente; cioè, il Musico, che si nomina Cagione efficiente; la Materia, che sono i Suoni mandati fuori dalle chorde; & si chiamano Cagione materiale; & la forma, ò Proportione, che si ritroua nelle distanze da un Suono all'altro; la quale si addimanda Cagione formale; nondimeno queste due ultime sono cagioni intrinseche; & l'Agente & il Fine, estrinseche della cosa: imperoche queste non appartengono ne alla natura, ne all'esser suo; & quelle sono essentiali di essa; conciosia che ogni cosa corruttibile è composta di materia & di forma; & la Materia si dice quella, della quale si fà la cosa, & è permanente in essa; come i Suoni, de i quali si fà la Consonanza; & la Forma è quella specie, ò similitudine, ò uogliamo dire essempio, che la cosa ritiene in se; per la quale è detta tale; com'è la Proportione nella Consonanza; & questa si chiama Cagione intrinseca, à differenza della estrinseca; la quale è (per dir cosi) il Modello, ò uogliamo dire Essempio; alla cui similitudine si fà alcuna cosa; come è quella della Consonanza, ch'è la Proportione di numero à numero. Nondimeno è da auertire, che di queste cagioni, alcune sono dette Prime, & alcune Seconde; & tal ordine di primo & di secondo si può intendere in due modi; primieramente, secondo un certo ordine de numeri, nel quale una cosa è prima & remota, & l'altra seconda & propinqua; Secondariamente si può intender secondo l'ordine compreso dalla ragione in una sola cagione; il quale è posto tra l'Vniuersale & il Particolare; imperoche naturalmente l'Vniuersale è primo, & dopoi il Particolare. Nel primo modo diciamo propriamente quella cagione esser prima, la quale dà uirtù & possanza alla seconda di operare; come si dice nella cagione efficiente, che 'l Sole è prima cagione (remota però) della generatione; l'Animal poi è cagione seconda & propinqua di tal generatione; percioche egli dà all'Animale la uirtù & la possanza di generare. Ma nel secondo, il Genere è il primo, & la Specie il secondo; la onde dico, che la prima & uniuersal cagione della Sanità è l'Artefice; & la seconda & particolare è il Medico, ouer il tal medico. E' ben uero, che la prima & la seconda cagione del Primo modo sono differenti dalla prima & dalla seconda del Secondo; percioche nel secondo modo non si distinguono in effetto l'una dall'altra; ne la più uniuersale, dalla meno uniuersale; ne questa della singolare; ma sono distinte solamente nell'intelletto: Ma nel primo modo sono distinte; conciosia che l'una è contenuta dall'altra; & non per il contrario. Et questi due modi (massimamente in quanto al Secondo) si ritrouano in tutti i Generi delle cagioni; percioche nella materiale il Metallo è prima cagione del coltello, & il Ferro la seconda, come nella formale (uenendo ad uno accommodato essempio secondo 'l nostro proposito) la prima cagione della consonanza Diapason è il numero 2 & 1. & la Seconda è la proportione Dupla; & cosi dell'altre per ordine. La Proportione adunque è la cagione formale, intrinseca & propinqua delle Consonanze, & il Numero è la cagione uniuersale, estrinseca & remota; & è come il modello della Proportione, per la quale si hanno da regolare & proportionare i Corpi sonori, accioche rendino formalmente le Consonanze. Et questo accennò il Filosofo, mentre dichiarando quel che fusse la Consonanza, disse, che è Ragione de numeri nell'acuto & nel graue; intendendo della Ragione, secondo la quale si uengono à regolare i detti Corpi sonori. La onde non disse, che fusse Numero assolutamente; ma Ragion de numeri; il che si può vedere più espressamente nelle Proportioni musicali, comprese ne i nominati corpi; imperoche non si ritroua in esse alcuna specie, ò forma di numero; conciosia che se noi pigliamo i loro estremi, misurandoli per il numero dopoi ch'è fatta cotal misura, tai corpi restano nella loro prima integrità & continuati, come erano prima; ne si ritroua formalmente in essi Numero alcuno, il quale costituisca alcuna proportione, ma si ben la Ragione del Numero. Percioche se ben noi prendiamo alcuna parte d'una chorda in luogo d'Vnità, & per replicatione di quella venimo à saper la quantità di essa & la sua proportione, secondo i numeri determinati, & per conseguente la proportione de i Suoni prodotti dalle chorde; come dal Tutto & dalle Parti; non potiamo però dire, se non che tali Numeri siano quel Modello & quella Forma de i Suoni, che sono cagione essemplare & misura estrinseca di essi Corpi sonori, che contengono le Proportioni musicali; lequali senza 'l suo aiuto difficilmente si potrebbono ri trouar nelle Quantità continue. La onde il numero è sola cagione di far conoscere & ritrouare arteficiosamente le Proportioni delle consonanze & di qual si uoglia Interuallo musicale; onde è necessario molto nella Musica, in quanto che per esso più espeditamente si uà speculando le differenze de i Suoni, secondo il graue & l'acuto, & le loro passioni; & con piu certezza di quello, che si farebbe misurando co i Compassi, ouero altre misure i Corpi sonori; hauendo prima conosciuto con l'esperienza manifesta, come si misurino secondo la loro lunghezza con proportione, & percossi insieme muouino l'Vdito secondo il graue & l'acuto; ma altramente di quello, che si considerano ne i Numeri puri secondo la ragione. Il perche dirò, per concludere, che si come il Numero non può essere à modo alcuno la cagione intrinseca & propinqua de tali Proportioni; cosi non potrà esser la cagione intrinseca & propinqua delle Consonanze; come hò dichiarato.

ISTITVTIONI HARMONICHE DEL REV. M. GIOSEFFO ZARLINO DA CHIOGGIA,

Maestro di Capella della Serenissima Signoria DI VENETIA. Prima Parte. Capitolo 41. (MDLVIII)
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13 agosto, 2009

Zelmira al ROF: si potrebbe fare meglio?

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Nella regìa, senza dubbio. Giorgio Barberio Corsetti applica (ma sarebbe meglio dire: scimmiotta) canoni, metodi e procedimenti da Regietheater: roba che non desta più né scandalo, né sorpresa, avendo fatto ormai il suo tempo.

Siccome a noi, gente scafata del terzo millennio, una storia improbabile ambientata in tempi mitologici (e su un libretto che definire farraginoso è fargli un complimento) farebbe solo ridere (a proposito, si potrebbero ricavarci delle farse, tipo I due caporali di Lesbo o anche Totò, Saffo e i Polli d’oro) allora si porta il tutto ai giorni nostri, così che, invece di ridere, potremo piangere, coerentemente col genere di opera che Zelmira è, un dramma per musica. Guerrieri greci bardati con corazze ed elmi colla cresta? Ancelle agghindate con peplo e calzari allacciati sul polpaccio? Dico, scherziamo? No no, qui abbiamo il generalissimo Antenore e il suo feldmaresciallo Leucippo che guidano un commando di teste di cuoio armate di mitra e granate per impossessarsi dell’isola. I locali lesbici, fedeli di Ilo, sembrano degli incondicionales castristi, che alla fine abbatteranno il dittatore Batista (peccato che a Florez non mettano una bella barbona posticcia…) Quanto alle ancelle, oggi si chiamano badanti. Devono essere arrivate ieri sera in pullmann direttamente dall’Ukraina e dalla Moldova, ancora infagottate nei loro soprabitoni e copricapo da comunismo reale. Evvai! Così sì che ci sentiamo a casa nostra!

Poi: il ROF, causa tagli al FUS, ha dovuto fare il PAC (Piano Abbattimento Costi). Ha quindi acquistato un enorme specchio flessibile i cui costi si devono spalmare su tutte tre le opere in cartellone. Qui in Zelmira sale e scende per… chiedere a Barberio Corsetti, che dicono abbia una spiegazione pausibile, ma che si ostina a non rivelarla ad alcuno.

Per il resto, scene spoglie, con statuone di finte Venere di Milo che salgono e scendono, un drappo dorato con la scritta ψεῦδος (pseudòs, menzogna) che rovina a terra (la scritta) all’approssimarsi della fine della dittatura basata, appunto, sull’inganno, e immagini, riflesse dallo specchione, che ci dovrebbero dir qualcosa, ma in realtà servono solo a sviare l’attenzione dello spettatore (che si lambicca il cervello) dalla straordinaria musica del nostro Gioachino.

Sì, quanto a regìa si potrebbe fare – facilmente e ancor più a buon mercato - assai meglio.

Ma veniamo adesso al sodo.

JDF for president! Non avendo avuto il piacere di sentire un tale David (ero troppo piccolo ai tempi…) mi basta ed avanza ciò che mi regala il peruviano. Scarso nel recitare? Maybe, ma fra un Laurence Olivier che stonacchia e un manico di scopa che canta come JDF, non ho dubbio alcuno su chi scegliere! La sua è una vocina leggera? Appunto, perfetta per Ilo che, a dispetto del mestiere che fa (basta leggere attentamente i versi che gli sono riservati) è poco più che un ragazzo, ingenuo, innocente e dall’animo nobile e gentile. Sulla (in)fedeltà di JDF alla lettera della partitura rossiniana si può dir tutto, ma una cosa è certa: vivesse oggi, Rossini rifarebbe ciò che fece millanta volte quasi 200 anni fa: rimaneggiare la parte di un personaggio per adattarla alle qualità (evitandone accuratamente i limiti) dell’interprete di turno. Ergo, tutto a posto e… avercene! Al termine della sua aria-madre (Terra amica) il nostro viene gratificato da tre minuti netti di ovazioni e applausi, peraltro contrappuntate da una serie di stentorei buuh gridati da un unico spettatore, evidentemente il solo, fra i 1200 presenti, ad aver avuto la fortuna di ascoltare dal vivo il Rubini, o forse persino il David!

Gregory Kunde mi è parso addirittura migliore rispetto alla prima (udita per radio). È stato un Antenore di grandissima efficacia, nel portamento e soprattutto nel canto. Anche qui, si faccia avanti chi è sicuro di saper far di meglio. Alla fine della Scena VII, un’ovazione anche per lui, diciamo di un minuto, e qui il buatore solitario di poco prima è rimasto in silenzio (chissà, forse si era perso il Nozzari, ai tempi).

Kate Aldrich era stata oggetto, prima e dopo la prima, di critiche molto severe, che ne hanno contestato addirittura la scelta da parte della direzione del ROF. A me non era del tutto dispiaciuta neanche domenica, a dir la verità. Bene, ieri è stata però un’autentica sorpresa e confermo quindi il mio giudizio positivo, anche se non le canterò un peana. La parte non è tecnicamente impossibile, vero, ma la Aldrich è stata efficace – anche scenicamente – e mai in difficoltà. Dopo l’aria della Pasta anche per lei ovazioni a scena aperta, direi meritate. Sul perché sia stata preferita ad altre, non entro nel merito. Rilevo solo come sia facile sostenere che – là fuori – ci sono sempre dozzine di cantanti migliori: una considerazione di quelle che non costano nulla e vanno bene per qualunque circostanza.

Conferma ultra-positiva per Marianna Pizzolato, applauditissima alla fine. Che la sua voce sia adatta anche a interpretare il ruolo di Zelmira, è probabilmente vero, data la sostanziale somiglianza di tessitura dei due ruoli (non è difficile immaginare perché Rossini, in origine, avesse lasciato Emma in ombra, ampliandone solo successivamente il ruolo musicale, evidentemente per non disturbare la Colbran). Il duettino con Zelmira – più arpa e cor anglais - è stato la perla in un’interpretazione degnissima.

Eccellente il Leucippo di Mirco Palazzi: voce potente (l’unica a non perdersi sotto le bordate del poderoso coro nel finale primo) dizione precisa e portamento sicuro.

Alex Esposito è stato per me un ottimo Polidoro, nella sua cavatina come nei concertati, dove la sua voce è sempre passata alla grande.

Dignitosi gli altri due interpreti: Francisco Brito e Sàvio Sperandio.

Bravissimi, compatti e sicuri i coristi di Paolo Vero, a volte fin troppo invadenti nei confronti dei solisti.

Veniamo ora al Kapellmeister. Roberto Abbado ha diretto con apparente distacco, forse con tempi a volte blandi (adeguandosi involontariamente alla debolezza del dramma?) ma complessivamente la sua mi è parsa una direzione efficace, rispettosa dei cantanti, mai coperti dall’ottima orchestra del teatro bolognese. Non ho ieri notato neanche quelle piccole sfasature percepite domenica fra buca a banda in scena. Quindi: voto ampiamente positivo.

Alla fine gran trionfo per tutti, una decina di minuti di applausi e ovazioni.

Per finire, torniamo alla domanda: si potrebbe chiedere e fare di meglio? Se sì, allora perché mai non si trova nessuno – al di fuori del ROF – che ci si provi? Non vorrei proprio (parliamoci chiaro) che l’unica seria alternativa sia prendere Zelmira, seppellirla in una cripta, a futura memoria, assieme ad altri cimeli e reliquie della storia delle umane arti, metterci una grossa pietra sopra, e non pensarci più…
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PS: due parole – per ciò che possono contare – sulle altre opere in cartellone al ROF-09 (La Scala di Seta e Le Comte Ory) udite via etere. Francamente due delusioni. Forse scarsa cura nella preparazione? E/o interpreti mandati troppo precocemente allo sbaraglio?
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10 agosto, 2009

Zelmira al ROF (in radio)

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In attesa di sentire e vedere dal vivo, qualche impressione sulla prima del ROF, ascoltata ieri sera su Radio3 (presentazione, cronaca e interviste di Giovanni Vitali).

Prima però bisogna inquadrare quest’opera all’interno della produzione rossiniana. A differenza delle (precedenti e successive) opere buffe, la Zelmira è – lo dice il sottotitolo – un dramma per musica, genere che trova le sue remote origini nel ‘500 e che avrà il suo più grandioso e definitivo sviluppo nei drammi di Wagner. E se le definizioni hanno un senso, bisogna pur riconoscere che non dovremmo essere qui di fronte ad un libretto che è puro e magari insulso supporto per i gorgheggi dei cantanti, ma ad un impianto drammatico che dovrebbe avere un suo autonomo spessore, per supportare il recitar cantando, che è alla base di questo genere di teatro musicale. Certo, i tempi del Rossini napoletano non erano più quelli di Monteverdi - meno ancora di Cavalli - e la supremazia dei cantanti (per le specifiche caratteristiche dei quali venivano scritte le opere, Zelmira inclusa) si faceva sentire comunque, comportando – anche per l’opera seria – abbondanza di parti virtuosistiche o di altissimo impegno (più di due ottave di forchetta dell’estensione) e corredo di abbellimenti, ghirigori, trilli, gruppetti e quant’altro.

Ma in Zelmira, ahinoi, l’impianto del dramma è assai contorto, sconnesso e… poco drammatico! E per di più dà per scontata la conoscenza di retroscena e fatti accaduti prima di ciò che si vede in teatro. Ecco, appunto, se Zelmira fosse stata oggetto di attenzione da parte di Wagner, come minimo avrebbe avuto, in testa, un Prologo con qualche norna/parca/sibilla a raccontarci l’antefatto – l’assalto di Azorre, il tranello di Zelmira, l’uccisione dell’invasore, la presa del potere di Antenore in combutta con Leucippo, et cetera, in modo da rendere più chiari a tutti noi i retroscena che spiegano ciò che si vede e sente nel primo atto. In carenza di ciò tutto il peso dell’opera grava esclusivamente sulla musica (e quindi sulle spalle di Rossini) e lo spettatore è fatalmente portato a disinteressarsi del (peraltro debole) dramma per concentrarsi sulle arie e sulle imprese di tecnica canora da guinnes dei primati dei vari interpreti.

Va però sottolineato come Rossini abbia da parte sua fatto il meglio per conferire a Zelmira i tratti di opera seria: introduzione quasi wagneriana, niente recitativi secchi ma sempre musica e declamato, un continuo musicale in cui sono incastonate le arie assegnate ai vari personaggi.

Ebbene, ieri sera gli interpreti – pare a me, ma i numerosi applausi a scena aperta del pubblico lo confermano – hanno risposto alla grande.

Juan Diego Florez ha superato di slancio tutte le difficoltà della parte improba, a partire dai RE e DO acuti, eseguiti con grande naturalezza e chiarezza. Ma anche Gregory Kunde non è stato da meno, pur con qualche difficoltà negli acuti. I due tenori – nella diversità della tessitura e del timbro - hanno assai bene interpretato la natura dei rispettivi personaggi (Ilo e Antenore).

Bene la Kate Aldrich, nella parte di Zelmira, effettivamente più da mezzo che da soprano. E con lei benissimo Marianna Pizzolato, una Emma assai efficace.

Più che dignitosi tutti gli altri, a partire da Alex Esposito (Polidoro).

Roberto Abbado ha condotto i bravi bolognesi col giusto piglio. Impeccabile il coro di Paolo Vero (in particolare i Sacerdoti!)

Buuh a josa per la regìa: prevedibili, da quanto descrittoci sul konzept dallo stesso Giorgio Barberio Corsetti (ma sarà meglio giudicare dopo aver visto di persona…)
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08 agosto, 2009

L’ultima Turandot dell’Arena-09

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Anticipando di giustezza l’arrivo di nuvole minacciose, che oggi non promettono nulla di buono (l’Aida di stasera la vedo assai a rischio…) Turandot ha chiuso ieri il suo ciclo di rappresentazioni all’Arena 2009.

Non entravo là dentro da almeno 35 anni (un Nabucco, l’ultima volta, se la memoria non tradisce) e devo dire che – fatta tutta la tara possibile sulle rappresentazioni en plein air – anche solo lo spettacolo offerto dal luogo e dal pubblico è sempre impressionante.

Meglio ancora poi, se anche la performance è di buon livello, come mi pare sia stata questa, giudicata nel suo complesso.

Intanto l’allestimento dei levantini Alexandrov&Okunev, del 2003, conferma la sua grande efficacia e soprattutto la sostanziale fedeltà a lettera e spirito della partitura. Grandiosità e sfarzo – amplificati dalle dimensioni smisurate della scena, che disperdono un poco l’attenzione - non distolgono però più di tanto la concentrazione dello spettatore sui personaggi in scena, anzi (e qui è merito degli interpreti e del concertatore) dentro ai personaggi medesimi.

Ma il colpo grosso in fatto di ambientazione lo fa il programmatore del calendario arenile. Alle 22:15 (per la verità con un 40 minuti di ritardo sui tempi scenici, ma siamo disposti a perdonarla) sull’Arena, proprio in faccia al pubblico, pochi gradi ad ovest della gigantesca sfera che è il simbolo di questa edizione di Turandot, sorge la Luna! Piena! Quasi da brivido…

Qualche fugace annotazione critica su regìa, scene e costumi.

Il Principe di Persia e Calaf che si incrociano, proprio mentre il primo va al supplizio, e si scambiano un cinque, mi è parsa una trovata un poco gratuita e banalizzante: che il morituro e il futuro vincitore si potessero conoscere per via delle comuni prerogative reali è possibile, ma neanche Gozzi, che io sappia, lo aveva prospettato.

La Turandot che compare nel primo atto non è la principessa, muta ma in carne ed ossa, ma una specie di altissimo spaventapasseri alato e dotato, in luogo della testa, di un occhio di bue da almeno 2000W, che abbacina anche il pubblico, oltre che il povero Calaf. Mah… Colpa mia forse, ma mi è sfuggito come l’automa abbia poi espresso visivamente il suo definitivo e sprezzante pollice verso nei confronti del persiano.

Ping, Pang e Pong sono assai bene caratterizzati: tre figure enormi, con bonze evidenti e portamento da dignitari un poco complessati, come vuole il libretto. Se si può qui fare un appunto, non traspare dal loro abbigliamento e dalle loro movenze quale sia il rispettivo incarico a corte: cioè chi sia il contabile, chi il cuoco e chi l’approvvigionatore. Importante? Se no, allora perchè la puntigliosa indicazione di Simoni?

Calaf non si limita ai tre canonici e fatidici colpi, ma continua a colpire il gong come un ossesso, in sincrono con le poderose bordate della grancassa, fino alla fine dell’atto: effetto plateale, ma anche qui siamo un po’ al Kitsch, effettivamente.

L’imperatore appare dentro la sfera che si schiude, su uno sfondo di oro sfavillante: un effetto notevole e appropriato, solo che la posizione è piuttosto bassa (da terra) e ciò non solo contrasta con le indicazioni del libretto, ma finisce per far annegare la figura del figlio del cielo, oltretutto coperto per parte del tempo dai piumaggi agitati da paggi e cortigiani che gli si pongono ai fianchi.

Nella scena degli enigmi: il finale è perfetto, con Turandot che incombe su Calaf, quasi a soffocarlo: ma prima c’è forse troppo movimento, con la principessa che scende anzitempo la scaletta (del drago che la trasporta) e si aggira sulla scena e Calaf che sale lui sulla scala da cui è scesa Turandot. Qui si perde forse un po’ di drammaticità.

Turandot: ad un naïf, come me, dovendo visivamente rappresentare i progressivi mutamenti della principessa - da glaciale ad infuocata – verrebbe di vestirla di bianco-argenteo all’inizio (il libretto parla di tutta una cosa d’oro, per la verità) e poi, tolti i veli, scoprire un rosso sempre più ampio e vivo. Ma forse ciò sarebbe troppo banale. In Arena vediamo invece Turandot comparire in tenuta rosso-sangue e poi, alla fine, restare in bianco-argenteo (?!)

Liù muore, il suo cadavere viene sollevato, Timur si avvicina… tutto ok. Poi però vediamo un secondo feretro accodarsi al primo e con lui allontanarsi, mentre, al lato opposto della scena, Liù torna viva e vegeta e sorregge Timur portandolo via con sé. Qui c’è francamente un pizzico di Regietheater e, come sempre in questi casi, qualcuno dovrebbe spiegare…

Ed ora gli interpreti.

Fiorenza Cedolins è una Liù davvero protagonista… persino da morta, come si è visto. Ed anche da morta si merita dei bravo a scena aperta. Grande interpretazione e ottimo livello del canto, direi la mattatrice della serata.

Francesco Hong conferma le sue buone doti di canto ma anche di presenza scenica, a dispetto della statura e della rotondità delle fattezze. Al termine del suo stentoreo (e francamente non disprezzabile) vincerò riceve un’ovazione, che dico, un tumulto di folla di ben 150” (provate a contare fino a 150, neanche al Lucianone…) Il tavolato del parterre dell’Arena fatica a reggere sotto i colpi di 3.000 tacchi che lo percuotono freneticamente. Roba da far impallidire il MET e il suo pubblico dei matinée del sabato, che al confronto è più gelido di Turandot.

Cristina Piperno è una Turandot a corrente alternata. Buona nella parte alta (con qualche urlatina, peraltro) ma insufficiente, per di più in ambiente outdoor, nell’ottava bassa, quasi inudibile. Ma non per questo non si merita la mia sufficienza (inutile qui rimpiangere Gina Cigna, per dire).

Filippo Bettoschi, Enzo Peroni e Stefano Pisani sono i tre dignitari: cantano assai bene le loro parti e le interpretano scenicamente ancor meglio. Bravi tutti!

Marco Spotti è un efficacissimo e potente (nella voce) Timur. Anche per lui un meritatissimo trionfo.

Angelo Casertano, da gran veterano dei palcoscenici, se la cava da par suo in Altoum, una parte circoscritta, ma essenziale nell’impianto pucciniano.

Angelo Nardinocchi ha un compito limitato, ma non agevole (apertura di opera, tanto per dire) nei panni del Mandarino e direi che merita un ampio riconoscimento.

Francesco Napoletano fa il suo onesto dovere come il povero Principe di Persia, che invoca ancora Turandot, mentre lo portano via per mozzargli la testa.

Un bravo incondizionato ai cori di Marco Faelli, sempre precisi e taglienti, a volte addirittura troppo invadenti, a coprire le voci dei protagonisti. Un bravi anche al corpo di ballo di Maria G. Garofoli.

Daniel Oren, che salta e grugnisce proprio come negli anni ’70, quando arrivò in Italia (ricordo come fosse ieri una sua Prima di Mahler al Conservatorio, letteralmente sfregiata dalle sue escandescenze) ha per questa (ma non solo) opera una particolare predilezione. Al di là dei balzelloni e di qualche rantolo, ha diretto con grande equilibrio; meritevole il suo smorzamento del suono dei corni, nell’assurda, innaturale, alfaniana fanfara che porta al quadro finale. Un trionfo anche per lui e per i professori.

In definitiva, una bella serata di musica, in uno scenario incantevole e sempre emozionante (bisognerà che non lo trascuri come ho fatto in passato).

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PS. Per chi vuol approfondire, da tutti i punti di vista, il fenomeno Turandot, consiglio tre fulminanti analisi di Anselm Gerhard, Emanuele d’Angelo e del prof. Michele Girardi, apparse nel programma di sala della Fenice per la stagione 2007.
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