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consulta e zecche rosse

08 agosto, 2009

L’ultima Turandot dell’Arena-09

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Anticipando di giustezza l’arrivo di nuvole minacciose, che oggi non promettono nulla di buono (l’Aida di stasera la vedo assai a rischio…) Turandot ha chiuso ieri il suo ciclo di rappresentazioni all’Arena 2009.

Non entravo là dentro da almeno 35 anni (un Nabucco, l’ultima volta, se la memoria non tradisce) e devo dire che – fatta tutta la tara possibile sulle rappresentazioni en plein air – anche solo lo spettacolo offerto dal luogo e dal pubblico è sempre impressionante.

Meglio ancora poi, se anche la performance è di buon livello, come mi pare sia stata questa, giudicata nel suo complesso.

Intanto l’allestimento dei levantini Alexandrov&Okunev, del 2003, conferma la sua grande efficacia e soprattutto la sostanziale fedeltà a lettera e spirito della partitura. Grandiosità e sfarzo – amplificati dalle dimensioni smisurate della scena, che disperdono un poco l’attenzione - non distolgono però più di tanto la concentrazione dello spettatore sui personaggi in scena, anzi (e qui è merito degli interpreti e del concertatore) dentro ai personaggi medesimi.

Ma il colpo grosso in fatto di ambientazione lo fa il programmatore del calendario arenile. Alle 22:15 (per la verità con un 40 minuti di ritardo sui tempi scenici, ma siamo disposti a perdonarla) sull’Arena, proprio in faccia al pubblico, pochi gradi ad ovest della gigantesca sfera che è il simbolo di questa edizione di Turandot, sorge la Luna! Piena! Quasi da brivido…

Qualche fugace annotazione critica su regìa, scene e costumi.

Il Principe di Persia e Calaf che si incrociano, proprio mentre il primo va al supplizio, e si scambiano un cinque, mi è parsa una trovata un poco gratuita e banalizzante: che il morituro e il futuro vincitore si potessero conoscere per via delle comuni prerogative reali è possibile, ma neanche Gozzi, che io sappia, lo aveva prospettato.

La Turandot che compare nel primo atto non è la principessa, muta ma in carne ed ossa, ma una specie di altissimo spaventapasseri alato e dotato, in luogo della testa, di un occhio di bue da almeno 2000W, che abbacina anche il pubblico, oltre che il povero Calaf. Mah… Colpa mia forse, ma mi è sfuggito come l’automa abbia poi espresso visivamente il suo definitivo e sprezzante pollice verso nei confronti del persiano.

Ping, Pang e Pong sono assai bene caratterizzati: tre figure enormi, con bonze evidenti e portamento da dignitari un poco complessati, come vuole il libretto. Se si può qui fare un appunto, non traspare dal loro abbigliamento e dalle loro movenze quale sia il rispettivo incarico a corte: cioè chi sia il contabile, chi il cuoco e chi l’approvvigionatore. Importante? Se no, allora perchè la puntigliosa indicazione di Simoni?

Calaf non si limita ai tre canonici e fatidici colpi, ma continua a colpire il gong come un ossesso, in sincrono con le poderose bordate della grancassa, fino alla fine dell’atto: effetto plateale, ma anche qui siamo un po’ al Kitsch, effettivamente.

L’imperatore appare dentro la sfera che si schiude, su uno sfondo di oro sfavillante: un effetto notevole e appropriato, solo che la posizione è piuttosto bassa (da terra) e ciò non solo contrasta con le indicazioni del libretto, ma finisce per far annegare la figura del figlio del cielo, oltretutto coperto per parte del tempo dai piumaggi agitati da paggi e cortigiani che gli si pongono ai fianchi.

Nella scena degli enigmi: il finale è perfetto, con Turandot che incombe su Calaf, quasi a soffocarlo: ma prima c’è forse troppo movimento, con la principessa che scende anzitempo la scaletta (del drago che la trasporta) e si aggira sulla scena e Calaf che sale lui sulla scala da cui è scesa Turandot. Qui si perde forse un po’ di drammaticità.

Turandot: ad un naïf, come me, dovendo visivamente rappresentare i progressivi mutamenti della principessa - da glaciale ad infuocata – verrebbe di vestirla di bianco-argenteo all’inizio (il libretto parla di tutta una cosa d’oro, per la verità) e poi, tolti i veli, scoprire un rosso sempre più ampio e vivo. Ma forse ciò sarebbe troppo banale. In Arena vediamo invece Turandot comparire in tenuta rosso-sangue e poi, alla fine, restare in bianco-argenteo (?!)

Liù muore, il suo cadavere viene sollevato, Timur si avvicina… tutto ok. Poi però vediamo un secondo feretro accodarsi al primo e con lui allontanarsi, mentre, al lato opposto della scena, Liù torna viva e vegeta e sorregge Timur portandolo via con sé. Qui c’è francamente un pizzico di Regietheater e, come sempre in questi casi, qualcuno dovrebbe spiegare…

Ed ora gli interpreti.

Fiorenza Cedolins è una Liù davvero protagonista… persino da morta, come si è visto. Ed anche da morta si merita dei bravo a scena aperta. Grande interpretazione e ottimo livello del canto, direi la mattatrice della serata.

Francesco Hong conferma le sue buone doti di canto ma anche di presenza scenica, a dispetto della statura e della rotondità delle fattezze. Al termine del suo stentoreo (e francamente non disprezzabile) vincerò riceve un’ovazione, che dico, un tumulto di folla di ben 150” (provate a contare fino a 150, neanche al Lucianone…) Il tavolato del parterre dell’Arena fatica a reggere sotto i colpi di 3.000 tacchi che lo percuotono freneticamente. Roba da far impallidire il MET e il suo pubblico dei matinée del sabato, che al confronto è più gelido di Turandot.

Cristina Piperno è una Turandot a corrente alternata. Buona nella parte alta (con qualche urlatina, peraltro) ma insufficiente, per di più in ambiente outdoor, nell’ottava bassa, quasi inudibile. Ma non per questo non si merita la mia sufficienza (inutile qui rimpiangere Gina Cigna, per dire).

Filippo Bettoschi, Enzo Peroni e Stefano Pisani sono i tre dignitari: cantano assai bene le loro parti e le interpretano scenicamente ancor meglio. Bravi tutti!

Marco Spotti è un efficacissimo e potente (nella voce) Timur. Anche per lui un meritatissimo trionfo.

Angelo Casertano, da gran veterano dei palcoscenici, se la cava da par suo in Altoum, una parte circoscritta, ma essenziale nell’impianto pucciniano.

Angelo Nardinocchi ha un compito limitato, ma non agevole (apertura di opera, tanto per dire) nei panni del Mandarino e direi che merita un ampio riconoscimento.

Francesco Napoletano fa il suo onesto dovere come il povero Principe di Persia, che invoca ancora Turandot, mentre lo portano via per mozzargli la testa.

Un bravo incondizionato ai cori di Marco Faelli, sempre precisi e taglienti, a volte addirittura troppo invadenti, a coprire le voci dei protagonisti. Un bravi anche al corpo di ballo di Maria G. Garofoli.

Daniel Oren, che salta e grugnisce proprio come negli anni ’70, quando arrivò in Italia (ricordo come fosse ieri una sua Prima di Mahler al Conservatorio, letteralmente sfregiata dalle sue escandescenze) ha per questa (ma non solo) opera una particolare predilezione. Al di là dei balzelloni e di qualche rantolo, ha diretto con grande equilibrio; meritevole il suo smorzamento del suono dei corni, nell’assurda, innaturale, alfaniana fanfara che porta al quadro finale. Un trionfo anche per lui e per i professori.

In definitiva, una bella serata di musica, in uno scenario incantevole e sempre emozionante (bisognerà che non lo trascuri come ho fatto in passato).

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PS. Per chi vuol approfondire, da tutti i punti di vista, il fenomeno Turandot, consiglio tre fulminanti analisi di Anselm Gerhard, Emanuele d’Angelo e del prof. Michele Girardi, apparse nel programma di sala della Fenice per la stagione 2007.
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