affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

10 agosto, 2009

Zelmira al ROF (in radio)

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In attesa di sentire e vedere dal vivo, qualche impressione sulla prima del ROF, ascoltata ieri sera su Radio3 (presentazione, cronaca e interviste di Giovanni Vitali).

Prima però bisogna inquadrare quest’opera all’interno della produzione rossiniana. A differenza delle (precedenti e successive) opere buffe, la Zelmira è – lo dice il sottotitolo – un dramma per musica, genere che trova le sue remote origini nel ‘500 e che avrà il suo più grandioso e definitivo sviluppo nei drammi di Wagner. E se le definizioni hanno un senso, bisogna pur riconoscere che non dovremmo essere qui di fronte ad un libretto che è puro e magari insulso supporto per i gorgheggi dei cantanti, ma ad un impianto drammatico che dovrebbe avere un suo autonomo spessore, per supportare il recitar cantando, che è alla base di questo genere di teatro musicale. Certo, i tempi del Rossini napoletano non erano più quelli di Monteverdi - meno ancora di Cavalli - e la supremazia dei cantanti (per le specifiche caratteristiche dei quali venivano scritte le opere, Zelmira inclusa) si faceva sentire comunque, comportando – anche per l’opera seria – abbondanza di parti virtuosistiche o di altissimo impegno (più di due ottave di forchetta dell’estensione) e corredo di abbellimenti, ghirigori, trilli, gruppetti e quant’altro.

Ma in Zelmira, ahinoi, l’impianto del dramma è assai contorto, sconnesso e… poco drammatico! E per di più dà per scontata la conoscenza di retroscena e fatti accaduti prima di ciò che si vede in teatro. Ecco, appunto, se Zelmira fosse stata oggetto di attenzione da parte di Wagner, come minimo avrebbe avuto, in testa, un Prologo con qualche norna/parca/sibilla a raccontarci l’antefatto – l’assalto di Azorre, il tranello di Zelmira, l’uccisione dell’invasore, la presa del potere di Antenore in combutta con Leucippo, et cetera, in modo da rendere più chiari a tutti noi i retroscena che spiegano ciò che si vede e sente nel primo atto. In carenza di ciò tutto il peso dell’opera grava esclusivamente sulla musica (e quindi sulle spalle di Rossini) e lo spettatore è fatalmente portato a disinteressarsi del (peraltro debole) dramma per concentrarsi sulle arie e sulle imprese di tecnica canora da guinnes dei primati dei vari interpreti.

Va però sottolineato come Rossini abbia da parte sua fatto il meglio per conferire a Zelmira i tratti di opera seria: introduzione quasi wagneriana, niente recitativi secchi ma sempre musica e declamato, un continuo musicale in cui sono incastonate le arie assegnate ai vari personaggi.

Ebbene, ieri sera gli interpreti – pare a me, ma i numerosi applausi a scena aperta del pubblico lo confermano – hanno risposto alla grande.

Juan Diego Florez ha superato di slancio tutte le difficoltà della parte improba, a partire dai RE e DO acuti, eseguiti con grande naturalezza e chiarezza. Ma anche Gregory Kunde non è stato da meno, pur con qualche difficoltà negli acuti. I due tenori – nella diversità della tessitura e del timbro - hanno assai bene interpretato la natura dei rispettivi personaggi (Ilo e Antenore).

Bene la Kate Aldrich, nella parte di Zelmira, effettivamente più da mezzo che da soprano. E con lei benissimo Marianna Pizzolato, una Emma assai efficace.

Più che dignitosi tutti gli altri, a partire da Alex Esposito (Polidoro).

Roberto Abbado ha condotto i bravi bolognesi col giusto piglio. Impeccabile il coro di Paolo Vero (in particolare i Sacerdoti!)

Buuh a josa per la regìa: prevedibili, da quanto descrittoci sul konzept dallo stesso Giorgio Barberio Corsetti (ma sarà meglio giudicare dopo aver visto di persona…)
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08 agosto, 2009

L’ultima Turandot dell’Arena-09

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Anticipando di giustezza l’arrivo di nuvole minacciose, che oggi non promettono nulla di buono (l’Aida di stasera la vedo assai a rischio…) Turandot ha chiuso ieri il suo ciclo di rappresentazioni all’Arena 2009.

Non entravo là dentro da almeno 35 anni (un Nabucco, l’ultima volta, se la memoria non tradisce) e devo dire che – fatta tutta la tara possibile sulle rappresentazioni en plein air – anche solo lo spettacolo offerto dal luogo e dal pubblico è sempre impressionante.

Meglio ancora poi, se anche la performance è di buon livello, come mi pare sia stata questa, giudicata nel suo complesso.

Intanto l’allestimento dei levantini Alexandrov&Okunev, del 2003, conferma la sua grande efficacia e soprattutto la sostanziale fedeltà a lettera e spirito della partitura. Grandiosità e sfarzo – amplificati dalle dimensioni smisurate della scena, che disperdono un poco l’attenzione - non distolgono però più di tanto la concentrazione dello spettatore sui personaggi in scena, anzi (e qui è merito degli interpreti e del concertatore) dentro ai personaggi medesimi.

Ma il colpo grosso in fatto di ambientazione lo fa il programmatore del calendario arenile. Alle 22:15 (per la verità con un 40 minuti di ritardo sui tempi scenici, ma siamo disposti a perdonarla) sull’Arena, proprio in faccia al pubblico, pochi gradi ad ovest della gigantesca sfera che è il simbolo di questa edizione di Turandot, sorge la Luna! Piena! Quasi da brivido…

Qualche fugace annotazione critica su regìa, scene e costumi.

Il Principe di Persia e Calaf che si incrociano, proprio mentre il primo va al supplizio, e si scambiano un cinque, mi è parsa una trovata un poco gratuita e banalizzante: che il morituro e il futuro vincitore si potessero conoscere per via delle comuni prerogative reali è possibile, ma neanche Gozzi, che io sappia, lo aveva prospettato.

La Turandot che compare nel primo atto non è la principessa, muta ma in carne ed ossa, ma una specie di altissimo spaventapasseri alato e dotato, in luogo della testa, di un occhio di bue da almeno 2000W, che abbacina anche il pubblico, oltre che il povero Calaf. Mah… Colpa mia forse, ma mi è sfuggito come l’automa abbia poi espresso visivamente il suo definitivo e sprezzante pollice verso nei confronti del persiano.

Ping, Pang e Pong sono assai bene caratterizzati: tre figure enormi, con bonze evidenti e portamento da dignitari un poco complessati, come vuole il libretto. Se si può qui fare un appunto, non traspare dal loro abbigliamento e dalle loro movenze quale sia il rispettivo incarico a corte: cioè chi sia il contabile, chi il cuoco e chi l’approvvigionatore. Importante? Se no, allora perchè la puntigliosa indicazione di Simoni?

Calaf non si limita ai tre canonici e fatidici colpi, ma continua a colpire il gong come un ossesso, in sincrono con le poderose bordate della grancassa, fino alla fine dell’atto: effetto plateale, ma anche qui siamo un po’ al Kitsch, effettivamente.

L’imperatore appare dentro la sfera che si schiude, su uno sfondo di oro sfavillante: un effetto notevole e appropriato, solo che la posizione è piuttosto bassa (da terra) e ciò non solo contrasta con le indicazioni del libretto, ma finisce per far annegare la figura del figlio del cielo, oltretutto coperto per parte del tempo dai piumaggi agitati da paggi e cortigiani che gli si pongono ai fianchi.

Nella scena degli enigmi: il finale è perfetto, con Turandot che incombe su Calaf, quasi a soffocarlo: ma prima c’è forse troppo movimento, con la principessa che scende anzitempo la scaletta (del drago che la trasporta) e si aggira sulla scena e Calaf che sale lui sulla scala da cui è scesa Turandot. Qui si perde forse un po’ di drammaticità.

Turandot: ad un naïf, come me, dovendo visivamente rappresentare i progressivi mutamenti della principessa - da glaciale ad infuocata – verrebbe di vestirla di bianco-argenteo all’inizio (il libretto parla di tutta una cosa d’oro, per la verità) e poi, tolti i veli, scoprire un rosso sempre più ampio e vivo. Ma forse ciò sarebbe troppo banale. In Arena vediamo invece Turandot comparire in tenuta rosso-sangue e poi, alla fine, restare in bianco-argenteo (?!)

Liù muore, il suo cadavere viene sollevato, Timur si avvicina… tutto ok. Poi però vediamo un secondo feretro accodarsi al primo e con lui allontanarsi, mentre, al lato opposto della scena, Liù torna viva e vegeta e sorregge Timur portandolo via con sé. Qui c’è francamente un pizzico di Regietheater e, come sempre in questi casi, qualcuno dovrebbe spiegare…

Ed ora gli interpreti.

Fiorenza Cedolins è una Liù davvero protagonista… persino da morta, come si è visto. Ed anche da morta si merita dei bravo a scena aperta. Grande interpretazione e ottimo livello del canto, direi la mattatrice della serata.

Francesco Hong conferma le sue buone doti di canto ma anche di presenza scenica, a dispetto della statura e della rotondità delle fattezze. Al termine del suo stentoreo (e francamente non disprezzabile) vincerò riceve un’ovazione, che dico, un tumulto di folla di ben 150” (provate a contare fino a 150, neanche al Lucianone…) Il tavolato del parterre dell’Arena fatica a reggere sotto i colpi di 3.000 tacchi che lo percuotono freneticamente. Roba da far impallidire il MET e il suo pubblico dei matinée del sabato, che al confronto è più gelido di Turandot.

Cristina Piperno è una Turandot a corrente alternata. Buona nella parte alta (con qualche urlatina, peraltro) ma insufficiente, per di più in ambiente outdoor, nell’ottava bassa, quasi inudibile. Ma non per questo non si merita la mia sufficienza (inutile qui rimpiangere Gina Cigna, per dire).

Filippo Bettoschi, Enzo Peroni e Stefano Pisani sono i tre dignitari: cantano assai bene le loro parti e le interpretano scenicamente ancor meglio. Bravi tutti!

Marco Spotti è un efficacissimo e potente (nella voce) Timur. Anche per lui un meritatissimo trionfo.

Angelo Casertano, da gran veterano dei palcoscenici, se la cava da par suo in Altoum, una parte circoscritta, ma essenziale nell’impianto pucciniano.

Angelo Nardinocchi ha un compito limitato, ma non agevole (apertura di opera, tanto per dire) nei panni del Mandarino e direi che merita un ampio riconoscimento.

Francesco Napoletano fa il suo onesto dovere come il povero Principe di Persia, che invoca ancora Turandot, mentre lo portano via per mozzargli la testa.

Un bravo incondizionato ai cori di Marco Faelli, sempre precisi e taglienti, a volte addirittura troppo invadenti, a coprire le voci dei protagonisti. Un bravi anche al corpo di ballo di Maria G. Garofoli.

Daniel Oren, che salta e grugnisce proprio come negli anni ’70, quando arrivò in Italia (ricordo come fosse ieri una sua Prima di Mahler al Conservatorio, letteralmente sfregiata dalle sue escandescenze) ha per questa (ma non solo) opera una particolare predilezione. Al di là dei balzelloni e di qualche rantolo, ha diretto con grande equilibrio; meritevole il suo smorzamento del suono dei corni, nell’assurda, innaturale, alfaniana fanfara che porta al quadro finale. Un trionfo anche per lui e per i professori.

In definitiva, una bella serata di musica, in uno scenario incantevole e sempre emozionante (bisognerà che non lo trascuri come ho fatto in passato).

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PS. Per chi vuol approfondire, da tutti i punti di vista, il fenomeno Turandot, consiglio tre fulminanti analisi di Anselm Gerhard, Emanuele d’Angelo e del prof. Michele Girardi, apparse nel programma di sala della Fenice per la stagione 2007.
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06 agosto, 2009

Abbado a Milano: sul programma può ancora cambiare idea…

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Lo scorso aprile ci fu grande fermento per l’annunciato ritorno di Claudio Abbado alla Scala. Il maestro, in cambio di soli 90.000,00 (in lettere: novantamila/00) alberelli da piantare a Milano, aveva deciso di tornare in Scala per eseguirvi Mahler e per la precisione l’Ottava, l’unica sinfonia del compositore boemo da lui mai diretta nel teatro milanese.

È di pochi giorni fa un quasi clamoroso ripensamento: Abbado non farà l’Ottava – che però il sito web del Teatro continua imperterrito a proporre, ma la Seconda, che fu la prima sinfonia mahleriana diretta da Abbado alla Scala nel remoto 1963.

Le ragioni addotte da Abbado e amplificate da Lissner sono diverse e tutte valide e inconsistenti allo stesso tempo.

Datosi che manca ancora parecchio per arrivare a giugno 2010, esiste un’ulteriore possibilità di ripensamento: Abbado potrebbe dirigere la Terza, che è pur sempre un mattone come le altre due, con tanto di solisti e cori. Una buona ragione cabalistica esisterebbe anche per questa scelta: fu la sinfonia con cui il Maestro inaugurò la Filarmonica della Scala nel 1982.
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05 agosto, 2009

Musica all’aperto: aspettando Turandot all’Arena

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In questi giorni il sito web da me più visitato è quello delle previsioni meteo: per venerdi 7 (sera-notte) a Verona. Ho un paio di biglietti di poltronissimagold per Turandot – costoso, e per questo ancor più apprezzato, omaggio di colleghi di lavoro – e davvero non vorrei che l’incontinenza di giovepluvio mandasse tutto a monte!

Trattandosi dell’Arena e non di un normale teatro al chiuso, viene spontaneo far mente locale alle particolari modalità di fruizione di un’opera in un simile ambiente. E così, bighellonando in rete, mi sono imbattuto in alcuni post relativi all’usanza - che sta prendendo piede grazie ai blackberry, smartphone, iPhone e simili, e ai servizi di Twitter (che permette di inviare messaggini sotto i 140 caratteri via web) – di scambiarsi impressioni, notizie, pareri, sensazioni in tempo reale, proprio mentre si assiste ad un’opera o ad un concerto. Addirittura ci sono iniziative di istituzioni musicali che inviano messaggi informativi - alla parte di pubblico dotata delle citate diavolerìe tecnologiche - durante la rappresentazione: un’estensione esponenziale della pratica, ormai invalsa quasi ovunque, di sottotitolare gli spettacoli, su un grande schermo posto sopra la scena, o su piccoli schermi incastonati in ogni poltrona del teatro. Che è diverso dall’aggiungere immagini o anche accessori spettacolari ad una performance.

C’è un blog che fa del sarcasmo su questa moda dilagante, affibbiandole un nome assai appropriato: Twitter Art Channel (TACi); qui riporta alcuni messaggini arrivati da Twitter proprio durante una rappresentazione di Turandot, il luglio scorso al MET: roba da matti, non si sa se ridere o piangere! Ma sappiamo che il pubblico dell’opera e dei concerti è tutto tranne che formato da esperti e conoscitori di ciò che viene rappresentato o suonato. Per loro, in fin dei conti, è un modo per cercare di capirci qualcosa senza - pensano loro - disturbare più di tanto (ma comunque non poco) il resto del pubblico. Poi: come si faccia a seguire un’opera o una sinfonia mentre si scrivono domande o si leggono risposte, sta a loro spiegarlo… informarsi prima – o dopo – è troppa fatica, si sa.

Da parte mia, giurando qui di non fare uso – in teatro di sicuro… - di alcun tipo di allucinogeno tecnologico, mi auguro soltanto, oltre al supporto dell’anticiclone, di non trovarmi accanto qualche esemplare di spettatore cibernetico: credo che accenderei il telefonino per chiamare il 118…
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04 agosto, 2009

Seattle meglio di Bayreuth?

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Dal prossimo 9 al 30 agosto l’Opera di Seattle mette in scena una specie di Festival di Bayreuth della WestCoast: tre cicli completi del Ring, una produzione propria risalente al 2001 e già riproposta nel 2005.

Fondata in tempi relativamente recenti (1963) l’Opera di Seattle inscenò il suo primo Ring già nell’estate del 1975 (quell’anno, lì nei paraggi, un ragazzino fondava la Microsoft!) e per nove estati consecutive: un record per gli USA, se si esclude il MET di NewYork. In seguito ha prodotto altre due edizioni del Ring, otre ad altre opere di Wagner e non solo.

La caratteristica saliente della produzione che viene riproposta quest’anno consiste nel rispetto più rigoroso della lettera (oltre che dello spirito, si può immaginare) delle partiture wagneriane. Quindi abbiamo le Figlie del Reno che si vedono nuotare nell’acqua, il drago con tanto di coda, corna e pelle squamosa, l’incudine di Mime che si spacca in due sotto il fendente di Nothung, e così via. Tutto l’opposto delle regìe moderne e post moderne (rare volte intelligenti, molto più spesso presuntuose e falsificanti) che vanno di moda proprio a Bayreuth e praticamente ovunque in Europa.

La produzione di Seattle rischia di restare, anche in USA, l’unica concepita su dei sani presupposti. Quest’anno è infatti andato in pensione (meritatamente) lo storico allestimento di Otto Schenk al MET, che farà posto nel 2010 al nuovo di Robert Lepage (siamo curiosi di capire come sarà, anche se già sappiamo che l’uso della tecnologia più avanzata delle immagini è il punto di forza del regista canadese).

Interessanti le guide video alla produzione di questo Ring, esplorabili sul sito della Seattle Opera.
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03 agosto, 2009

Musica alla radio: i PROMS-09

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Sono partiti il 17 luglio e si concluderanno il 12 settembre: quasi due mesi di appuntamenti; un autentico fiume di musica di ogni genere: camera, sinfonica, corale, operistica; con interpreti – direttori, solisti, cantanti, orchestre - tutti di altissimo livello internazionale. Una kermesse impressionante che non ha pari al mondo e dove la quantità non penalizza affatto la qualità.

Per chi non può permettersi di passare lassù 8 settimane e mezza c’è una totale copertura radiofonica della BBC, solo in piccola parte ripresa da Radio3 (che ha doverosamente anche altro da proporre).

Il sito web della programmazione PROMS consente di esplorare lo sterminato programma per date (giorno o settimana) ma anche per autore e per interprete, oltre a presentare guide e note sui programmi. I quali, oltre ad essere irradiati in diretta, vengono via via memorizzati e resi disponibili all’ascolto on-demand (tramite il link Listen-to-this-Prom sulla pagina del giorno interessato) normalmente per i 7 giorni successivi alla performance. Sulla destra della pagina ci sono i due link per l’ascolto delle dirette (click sul link Listen: Radio3) e delle registrazioni (click sul link BBC Proms 2009).

Quest’anno il nostro Gianandrea Noseda (che mi sta particolarmente a cuore, essendo io un suo concittadino) è ospite dei Proms con due concerti, i prossimi 5 e 6 agosto. Mercoledi (anche su Radio3, alle 20:30) con un programma che culmina con la sesta di Mahler. Giovedi (20:30) con l’italiana di Mendelssohn e composizioni di Rossini e Respighi, oltre che di Maxwell-Davies. In entrambi i concerti Noseda dirige la BBC Philharmonic. Prima del concerto di giovedi 6, alle 18:45, si potrà ascoltare un’intervento del Maestro sul programma (“italiano”) della serata.

A proposito di Noseda, gli dedica un articolo anche il Timesonline, che già dal sottotitolo mostra un po’ di spocchia albionica e di disistima non tanto per l’Italia, ma per chi oggi ne è il principale rappresentante politico: Berlusconi. Insomma, Noseda avrebbe il compito di risollevare l’immagine italica che l’attuale nostro PM avrebbe fatto precipitare…

Tornando ai Proms, è da non perdere, sabato 22 agosto (20:30, anche su Radio3), un Fidelio in forma di concerto, diretto da Barenboim con la sua orchestra israelo-palestinese e con Waltraud Meier nella parte di Leonore.

Ma l’offerta è davvero sterminata e nessuno potrà dire di non trovarci qualcosa di interessante.

Buon ascolto!
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02 agosto, 2009

Il Parsifal di Gatti a Bayreuth09

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La definirei proprio un’esecuzione di buon livello, da parte di tutti: cantanti, orchestra e maestro. Credo che il cast di questo Parsifal sia il migliore in senso assoluto del Festival 2009.

Gli unici appunti che si possono muovere (ma sapevamo tutto in partenza) sono la voce troppo tenorile di Detlef Roth (Amfortas), quella a volte un po’ metallica di Mihoko Fujimura (Kundry) e alcune voci troppo urlate delle ragazze-fiore. Christopher Ventris si conferma Parsifal di alto livello, così come Thomas Jesatko nei panni di Klingsor. Gli altri (Titurel e cavalieri) dignitosi alla meta.

Kwangchul Youn ha avuto nel primo atto una clamorosa amnesia, in corrispondenza del passo che inizia con Jenseits im Thale. Ha evidentemente dimenticato le parole e perso totalmente il filo del discorso. Ha ripetuto due-tre volte uno stesso verso, e si è udita distintamente la voce angosciata del suggeritore che cercava di rimetterlo in carreggiata. Cosa che però è avvenuta solo dopo una trentina di misure, verso la chiusa del passo (den fand er nun). Peccato per questa macchia, perché il coreano ha confermato la sua ottima scuola e la buona predisposizione, oltre che la tenuta fisica, necessaria a coprire il ruolo di Gurnemanz. (La cosa è talmente strana, che mi viene persino il dubbio che ci sia di mezzo la tecnologia di streaming, che abbia impacchettato male i bit da trasmettere…)

Daniele Gatti mi è assai piaciuto, ancor più dello scorso anno. Ha ristretto ulteriormente i tempi rispetto alle sue precedenti interpretazioni di Parsifal, pur non mancando di mettere in risalto tutta la solennità e, dove appropriata, la retorica di questa partitura. Spero che le critiche – nemmeno tanto velate – che ebbe in Germania nel 2008 (anche perché tutti gli occhi erano allora puntati sul regista!) vengano adesso ritirate. Se sul podio nell’Orchestergraben può continuare a salire un Peter Schneider qualunque (con tutto il rispetto) allora Gatti dovrebbe dirigere lassù a vita.

Come l’ha presa il pubblico? Alla fine del primo atto (dove a Bayreuth, per Parsifal, si dovrebbe mantenere rispettoso silenzio) si sono subito uditi dei battimani (per gli esecutori, c’è da esserne certi) subito però subissati da clamorosi buuh, che non posso altro che immaginare indirizzati all’allestimento di Herheim, che sarà un’opera d’arte fin che si vuole, ma che - parliamoci chiaro - è tutto fuorchè il Parsifal di Wagner! E di peggio è successo al termine del secondo atto, allorquando si è udito, chiaro, stentoreo, un irriverente pfui! a precedere le ovazioni per gli interpreti. Forse la gente si sta un po’ stufando di allestimenti intellettualoidi e presuntuosi, che fanno colpo (più spesso scandalo) al loro apparire, ma che poi perdono presto di interesse, ma in compenso – per ammortizzarne i costi – vengono propinati per anni a migliaia di spettatori che ne farebbero volentieri a meno. Per gli artisti solo grandi applausi e acclamazioni.

Con questo Parsifal si chiude il ciclo (delle prime) del Festival 2009. Dimenticando le non poche défaillances, tutto sommato valeva la pena di passare 7 pomeriggi-sere all’ascolto: Wagner (per me, almeno) rappresenta sempre una nuova esperienza!
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Il Ring di Bayreuth09 (IV)

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Götterdämmerung

Che dire… Uno scampato pericolo? Poteva andar peggio? Salvata la faccia?

Era cominciata come era finito Siegfried, con i due protagonisti a mostrare l’aspetto peggiore delle loro qualità. Poi, miracolosamente, le cose sono lentamente migliorate e alla fine ne è uscito un Crepuscolo dignitoso, pur nel livello non eccelso che da anni caratterizza il lato C (quello del canto, cioè il più importante!) di Bayreuth.

Christian Franz ha continuato a urlacchiare per tutto il prologo e il primo atto. Nella scena con Gunther, dopo l’assunzione del filtro, addirittura in modo sguaiato, avendo evidentemente travisato del tutto l’effetto della pozione: che non è un superalcolico che fa ubriacare, ma soltanto un anestetico della memoria, lungi dal revocare per l’interprete il dovere di cantare. Poi ha cominciato a migliorare nel secondo atto, e nel terzo ha raggiunto un livello di dignitosa decenza, fino alla nobile esposizione del ricordo di Brünnhilde.

La quale Linda Watson nel prologo e primo atto, per me fu disastrosa: voce chioccia, urlati gli acuti, stonacchiamenti vari, il tutto culminato nel finale della scena con Siegfried(Gunther), dove mi sono segnato un improperio che non riporto per decenza. Poi anche lei, col passare del tempo, sempre meno peggio e diciamo pure benino, nella scena madre del secondo atto e poi, con König e Lukas, in un efficacissimo terzetto della camera di consiglio che decreta la morte di Siegfried. Ma la gradevole sorpresa arriva nel finale, dove Brünnhilde deve prendere in mano la situazione e torreggiare su tutti: qui devo dire che la Watson se l’è cavata più che onorevolmente, legando bene ed evitando urla e emissioni forzate. Il che dimostra che – se vuole e si impegna – può anche essere una buona Brünnhilde.

Brava la Waltraute di Christa Mayer, che ha cantato con grande pathos, e nella scena con Brünnhilde spiccava ancor più a confronto delle manchevolezze della Watson.

Gutrune e Gunther (Edith Haller, che fa anche la 3a Norna e Ralf Lukas, già udito come Donner) mi sono piaciuti abbastanza: voci solide e piene, niente (o pochissimi) urli o sgradevoli vibrati.

Hans-Peter König è un grande Hagen. Devo dire che al Maggio, nell’allestimento Fura-Mehta lo avevo assai apprezzato anche dal punto di vista della presenza scenica.

Anche in una parte ristretta, Andrew Shore ha dato il meglio: un Alberich davvero impeccabile!

Norne e Ondine dignitose, senza infamia nè lode, ad eccezione della citata Haller, che ha avuto però la chance della parte solistica.

E ora Thielemann che, nella generale eccellenza della sua direzione, non riesce ormai più a rinunciare ai suoi effetti speciali, ottenuti scrivendo di suo pugno sulla partitura originale dei segni (generalmente di pausa o rallentamento) che Wagner non si era minimamente sognato di annotare. Alcuni (come il chiaro rallentamento alla prima entrata del tema dell’eroismo di Siegfried, nei 6 corni, nel Prologo o quello in prossimità dell’apertura del primo atto) si possono anche tollerare, perché non guastano poi più di tanto l’atmosfera generale. Ma altri personalmente non li digerisco, e non per un malinteso principio di censura a chiunque si macchi del delitto di lesa maestà verso l’autore, ma perché li ritengo musicalmente dannosi, o addirittura fuorvianti nella comprensione dell’intero Ring. Vediamo.

Nella cosiddetta marcia funebre Thielemann rallenta vistosamente al momento di suonare il terzo inciso (tema della morte) subito prima dell’esposizione della seconda sezione del tema dei Wälsi: una scelta invero arbitraria, chè potrebbe allora applicarsi a molti altri passaggi. Ma peggio accade poco dopo, laddove ricompare il tema dell’eroismo di Siegfried (una variante appesantita del tema di Siegfried giovane) già udito – con carattere appena un po’ meno enfatico - nel Prologo. Orbene, nella seconda sezione, poderosamente esposta da ottoni e fagotti, Thielemann introduce un’arbitraria e per nulla impercettibile pausa dopo il primo quarto (LAb-SOL/FA in corni e trombe) e le due successive terzine (SIb-LAb-SOL / LAb-SOL-FA): un effetto per nulla gradevole all’orecchio e carico di un’enfasi retorica del tutto pleonastica e per me controproducente.

Ma il peggio è la pausa di una semiminima che il nostro si inventa prima delle fatidiche ultime sette misure, cioè in corrispondenza della fine del tema del Crepuscolo e l’inizio del tema cosiddetto della Redenzione. Lì c’è condensata l’essenza dell’intero Ring: un mondo muore, nel rogo del Walhall e nell’esondazione del Reno, e un altro mondo nasce, appunto sperando di redimersi. Wagner, dopo la discesa crepuscolare negli strumentini e prima del tema della redenzione, si limita a non mettere alcun segno di legato con le note precedenti. Ma non scrive né una pausa, né tanto meno una corona puntata, e neanche una piccola virgola di respiro. Evidentemente a significare che fra il vecchio mondo che muore e il nuovo che rinasce speranzoso non c’è soluzione di continuità, come ci conferma l’analisi delle prime 4 delle ultime 7 misure, dove sono condensati tutti i cromosomi del mondo morente. C’è poi un altro riferimento inquietante legato al tema della Redenzione: che era apparso molto prima (Walküre, atto III) in SOL e adesso chiude il Ring in REb. Cioè degradato di un tritono, il fetente diabolus in musica! E non è finita; un rapido censimento dei sopravvissuti al grande amba-aradam ci dice che, a parte l’insignificante Gutrune e la folla anonima dei Ghibicunghi, lì restano a cominciare il nuovo corso: le Figlie del Reno e Alberich! Ecco perché quella pausa è per me filosoficamente inaccettabile, come sarebbe far eseguire testo e musica del 1852 o quelli del 1856.

Quanto all’accoglienza in teatro, è stata assai perplessa – è parso di cogliere – alla fine del primo atto… poi, col progredire della carburazione dei due protagonisti, grande trionfo. Meglio così.
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31 luglio, 2009

Il Ring di Bayreuth09 (III)

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Siegfried

Se per Rheingold avevo scritto di un discreta (quasi buona) torta, guarnita con qualche ciliegina acida, per questo Siegfried - ahimè – mi sa che devo ribaltare le proporzioni, giacchè le manchevolezze sono state tante e tali da superare le pur lodevoli qualità di fondo. Insomma, il pan di spagna della base è ben cotto, ma quasi tutte le ciliegine sono andate a male, la panna è in viraggio al rancido e il cioccolato sa troppo di vegetale…

Wolfgang Schmidt si era evidentemente ben mimetizzato nel Rheingold, uscendone senza troppi danni. Qui, dove per due atti la deve fare da protagonista: un disastro! Mime sarà pur un personaggio spregevole, e la sua parte fu certo scritta da Wagner per esaltarne questa miserevole dote, ma – vivaddio – è pur sempre una parte da cantare! Invece Schmidt ha quasi sempre berciato, urlato, emesso gridolini e risolini, lamenti, miagolìi e altri rumori vari. Tanto per esemplificare, basterà tornare con l’udito alla scena del battibecco con Alberich del secondo atto per capire la differenza che intercorre fra cantare (come ha magnificamente fatto Andrew Shore) e vociferare. Chissà, forse il nostro si è voluto vendicare per esser stato declassato dal ruolo di Siegfried – da lui coperto nelle precedenti stagioni - a quello della sua vittima.

Appunto, Andrew Shore: ha confermato in pieno, e non solo nella scena col fratello, ma in quella precedente, con Wotan e Fafner, di essere un grande Alberich, come voce e portamento adeguati al ruolo.

Così come pure Albert Dohmen, che al di là di un paio di FA eseguiti col cappio al collo, è stato ancora una volta un notevole Wotan, dotato di grande espressività del canto e di capacità di rendere al meglio la personalità complessa del capo degli dèi. In tutte le sue quattro apparizioni, ciascuna delle quali richiede una diversa ambientazione psicologica, mi è parso calarsi ottimamente nel personaggio.

Rimessasi dall’indisposizione che le aveva impedito di uscire dalla sua azzurrognola caverna nel Rheingold (dove aveva dovuto mandare in avanscoperta la Fujimura) Christa Meyer è tornata a farsi sentire come Erda, e mi è parsa la sua una prova rimarchevole, non solo nella precisione dell’esecuzione, ma anche nel pathos che la deve caratterizzare.

Due parole su Christiane Kohl, esordiente nel ruolo del Waldvogel (fa anche Woglinde e poi una delle escort nel Parsifal). Maliziosamente mi viene da dire che Wagner, pur non avendo indicato con precisione la specie del volatile, non pensasse di sicuro ad un gallinaceo! Intendiamoci, la ragazza non ha mancato una sola nota della sua parte assai difficile (su un pedale prevalentemente di 9/8 deve infilare tutta una serie di cambi e asimmetrie di tempo, proprio a simulare il ritmo del gorgheggio di un uccellino) però la sua voce – forte, profonda, stentorea - richiama quella di qualunque animale, tranne che di un piccolo pennuto! (A meno che la colpa non sia da addebitare ai microfoni della ripresa, ma ne dubito).

Veniamo adesso al povero Siegfried. Christian Franz mi ha assolutamente deluso. Anche lui, come il Mime che lo affianca nei primi due atti, ha spesso e volentieri urlato invece di cantare. E anche nella scena tòpica finale con Brünnhilde ha interpretato la parte di un burino selvaggio e pure arrapato, non quella di un ragazzo ignorante e incosciente sì, ma nel quale almeno l’istinto induce atteggiamenti poetici.

Linda Watson è da anni la Brünnhilde padrona di casa a Bayreuth: e ne rappresenta e sintetizza bene la contraddittoria gestione. Stento personalmente a darle la sufficienza, e non solo per il DO sporco della conclusiva lachender Tod (magari fosse solo quello…)

E ora le immangiabili ciliegine (ne cito solo un paio, ma proprio macroscopiche, ma ne ho segnato più di una dozzina…)

Nella scena della riforgiatura di Nothung si devono udire colpi di martello, ad accompagnare il lavoro e il canto di Siegfried. Sono un’infinità, ma tutti meticolosamente scritti da Wagner sul pentagramma: ne ho contati almeno una mezza dozzina o fuori posto o addirittura inventati. Se a batterli era lo stesso Franz, una nota di demerito in più… se era una controfigura, quindi uno strumentista, peggio ancora.

Era già successo credo un paio d’anni fa, ma si è ripetuto quest’anno: il corno solista che sporca miseramente il secondo attacco dell’assòlo nel secondo atto! E, come non bastasse, o forse in conseguenza dello stato ansioso indotto dal primo errore, ne infila altri due nel passaggio successivo, sul pedale del basso-tuba che annuncia il risveglio del drago. Un disastro davvero!

Chiudo con Thielemann. Cantiamo pure per fortuna che c’è Cristiano, perché altrimenti saremmo qui a chiedere il commissariamento del Festival! A parte i suoi ormai canonici marchi (sono come le pisciatine di un cane a delimitare il suo territorio) che lui ha scritto sulle sue partiture e a cui resta infallibilmente fedele (un esempio per tutti: i rallentando che lui fa sulle poderose entrate dei corni dopo i primi due Blase die Gluth della passacaglia della fusione) anche nel Siegfried è stato all’altezza della sua fama. Lui riesce in un’operazione che è una specie di sincretismo: senza nulla togliere alle caratteristiche fondamentali, storiche e fondanti della musica dei drammi wagneriani, e rimanendo un cultore convinto del cupo suono tedesco dell’orchestra, sa però introdurre elementi di lirismo e mettere in risalto particolari in modo assai appropriato. E soprattutto senza cadere in estremismi, quali le interpretazioni mozartiane, apprezzabili comunque, à la Karajan o quelle francamente deplorevoli, perché fatte impiegando strumenti di radiografia fabbricati a Darmstadt, à la Boulez. E forse Thielemann è per queste sue qualità debitore, almeno in parte, all’Italia, avendo trascorso parecchio tempo, negli anni della sua maturazione artistica, a Bologna e Roma.

Il pubblico in sala, che ha il vantaggio di giudicare l’effetto dal vivo e lo svantaggio di non poter disporre dei riferimenti oggettivi di ciò cui sta assistendo, ha portato tutti in trionfo con grandi ovazioni. Pace e amen.
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29 luglio, 2009

Il Ring di Bayreuth09 (II)

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Die Walküre

È unanimemente considerata la perla di tutta la tetralogia e Wagner stesso le assegnava il ruolo fondamentale all’interno del Ring. Specialmente sul piano drammatico-musicale contiene la summa del rivoluzionario pensiero wagneriano, basti ricordare la seconda scena dell’Atto II e poi la scena finale, sempre protagonisti padre e figlia (Wotan-Brünnhilde).

La prestazione della compagnia di Bayreuth mi è parsa di buon livello (non mi metto a tentare confronti, sempre opinabili e condizionati da mille fattori) anche perché da quattro anni, salvo modifiche fatte col bilancino, il cast è praticamente lo stesso, ormai perfettamente affiatato.

Endrik Wottrich (che continua a calcare il palco di Bayreuth anche dopo che la nuova co-direttrice Kathi lo ha lasciato per un pilota…) è un Siegmund assai solido e primitivo, per me incarna assai bene la natura del personaggio.

Eva-Maria Westbroek, che ha esordito lo scorso anno, è una Sieglinde discreta, che ha evidentemente ancora molta esperienza da fare, ma in complesso non mi sento certo di darle un’insufficienza.

E insieme ai due non si può non parlare del duetto d’amore dell’Atto I, una cosa sempre sconvolgente. Diverso, le mille miglia, da quello ancor più famoso del Tristan. Dove là c’è un approccio e uno scenario tutto cerebrale, psichiatrico verrebbe da dire, qui siamo nella più selvaggia e viscerale naturalità; qui non cantano i cuori nè le menti, ma gli istinti; qui non si distingue l’essere umano dalla natura circostante; qui si sente la carne, nel senso più materiale del termine, si vedono le vene delle tempie del maschio e i seni della femmina che si gonfiano sotto la forza dell’amore, ma l’amore istintivo, quello che il vecchio Sachs scopre nell’uccellino, che a maggio canta senza studiare, ma solo perché deve farlo, sotto l’impulso cogente della natura. Wottrich e la Westbroek, pur con qualche imprecisione di entrata lui e qualche urletto sulle note alte lei, hanno tenuto assai bene la scena, supportati da un’orchestra in stato di grazia, guidata da un grande Thielemann. A cui faccio – sempre, perché lui sempre così lo fa – un appunto sulla chiusura dell’atto, quelle due misure e mezza col LA-SOL dove lui tiene troppo - a mio modesto parere, ma espresso partitura alla mano – l’ultima semiminima, togliendo quell’effetto di schianto repentino (che dovrebbe ricordarci la schiavitù e la frustrazione…)

Kwangchul Youn è un Hunding compìto, se non proprio bonario (forse pensa già a Gurnemanz?) Grande voce ma senza quella rabbia e rozzezza che l’agiografia pretende dal personaggio. Per la verità, se si scava un poco nella partitura si potrebbe scoprire che il nostro non è in effetti un puro e incivile energumeno: se lo fosse, farebbe secco Siegmund già la sera del loro incontro, invece di ospitarlo a casa sua e addirittura lasciarlo solo con la moglie, andandosene tranquillamente a letto! Anche l’etimologia (equivoca, peraltro) del nome (Hund=cane) può esser vista dal lato buono, datosi che molti cani, se non quasi tutti, sono in fondo animali domestici e amici dell’uomo. Certo più dei lupi, specie animale cui si rifà l’eroe Siegmund!

Linda Watson è ormai da 11 anni ospite fissa del Festival, dove ha compiuto un percorso piuttosto strano: da Kundry a Ortrud a Brünnhilde. Devo dire che non mi ha convinto più di tanto, fin dai primi Hojotoho! E – microfoni innocenti? – ha anche stonacchiato i SI che precedono l’arrivo di Fricka. Poco efficace (al solo udito) il suo Zu Wotans Willen sprichts du, quell’autentica perla in LA maggiore che introduce il soliloquio di Wotan. Meglio ha fatto – credo io – nella scena conclusiva, quella della sua giustificazione e del suo confronto col padre, anche se in un altro passaggio topico (Der diese Liebe…) non mi è parsa impeccabile.

Il quale Wotan è qui bene reso da Albert Dohmen, che si deve far perdonare solo qualche piccola amnesia, con relativo scambio di parole, ma che supera di slancio le prove difficili, sia di puro canto (il SOLb del Gold!) che di espressione: le quattro prove a carico contro la figlia, principianti con Wunschmaid warst du mir; il sempre sbudellante Leb’wohl; lo straordinario Der Augen leuchtendes Paar e per finire il grandioso Wer meines Speeres Spitze fürchtet.

La Fricka di Michelle Breedt, alle luci del Rheingold aggiunge qui qualche ombra: è una parte relativamente contenuta come impegno, ma che per questo necessita della massima cura. Che la cantante non è sembrata esprimere in modo adeguato; un esempio per tutti il fondamentale Deine ewigen Gattin heilige Ehre, dove per la verità anche Thielemann – sempre ritenendo innocenti i microfoni – non è sembrato dare il massimo, su quelle terzine ribattute di violini e viole.

Le Walkirie (sempre le stesse, imperterrite, dal 2006!) han fatto bene la loro dovuta confusione. Una nota di colore extramusicale riguarda Waltraute: Martina Dicke viene nel Götterdämmerung ancora declassata a 2a Norna, per far posto a Christa Mayer, la mancata Erda della prima di quest’anno; evidentemente la svedese è ancora considerata inadeguata per la parte più solistica che la sorella di Brünnhilde deve sostenere nel Crepuscolo.

A proposito della cavalcata, qui avrei un altro appunto da fare a Thielemann. Lui ha ormai l’abitudine di introdurre un arbitrario rallentando al momento in cui arrivano Rossweisse e Grimgerde. È anche il momento in cui il poderoso contrabbasso tuba si aggiunge a tromboni e tromba bassa per esporre il tema in SI maggiore. Che l’effetto della personale dinamica del Maestro sia enorme, è garantito, però è lecito chiedersi chi o cosa avrebbe impedito a Wagner di scrivere uno Schwerer o qualcosa di simile sul pentagramma. Invece, nulla di nulla, probabilmente perché l’Autore pensò che bastasse l’ingresso del bassotuba, oltre al fortissimo di corni e strumentini, per creare l’effetto desiderato di accentuazione della pompa e dell’enfasi. Io – non c’è Thielemann che tenga – sto con Wagner (anche se non sto neanche con quei detrattori di Thielemann che lo accusano di tendenze, non solo artistiche, reazionarie).

Però tutto si può perdonare a Thielemann, dopo aver ascoltato passi come la grandiosa giustificazione (che segue lo stupefacente der freier als ich der Gott! di Wotan) e l’intero finale, dove nulla è fuori posto. L’emozione è qui davvero difficile da descrivere, la droga impossibile da neutralizzare…
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