Rieccomi qua, dopo sanitaria sosta, a commentare questa strepitosa Die
tote Stadt, finalmente (è bastato aspettare un secolo, ecché
‘ssarà mai...) comparsa sulle tavole del Piermarini.
Note tecnico/musicali: a) contrariamente
a quanto annunciato dal sito del Teatro fino a poche ore dall’inizio della prima, l’opera è stata presentata nella
sua struttura originaria, quindi con entrambi gli intervalli fra i tre quadri;
b) sempre contrariamente a quanto annunciato dal sito del Teatro, il ruolo
(secondario?) di Brigitta passa da una brasilera (Kismara Pessatti) ad una rumena (Cristina Damian).
Già
detto nel telegrafico intervento di ieri notte di un teatro con ampi spazi vuoti, colpa del secolo d’età di
un’opera finita nel dimenticatoio (e conseguente disinteresse - per ignoranza -
del vasto pubblico) o della teoria di Pereira sul ritardo dell’allineamento
della domanda all’offerta? O di entrambe le cause? Fatto sta che lo spettacolo
visto martedi, se non passerà proprio alla storia (mai esagerare con gli
epinicii...) di certo resta - parere mio personale - una delle migliori
produzioni degli ultimi tempi. E forse qualcosa di più delle pur lodevoli
iniziative del Teatro - conferenza e tavola rotonda - andava fatto per
promuoverlo.
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Alan Gilbert ha saputo mettere in
risalto le diverse qualità della musica, che ha richiami tardoromantici,
ammiccamenti da operetta e tratti espressionisti, ma sempre impiegati con
appropriatezza e mai lasciati al caso o destinati al puro effetto. L’Orchestra
si è evidentemente ritrovata con questa musica, non facile sicuramente da
eseguire, ma certamente stimolante per gli esecutori, oltre che per gli
spettatori. Da incorniciare i diversi passaggi sinfonici, come il finale primo (il turbamento psichico di Paul e l’apparizione
di Marie); l’attacco del secondo quadro (la spettrale Bruges nella quale il
protagonista si inoltra); la processione religiosa (che si trasforma in marcia
minacciosa e spaventevole); e l’introduzione al terzo quadro, che evoca la
notte tumultuosa passata a letto da Paul e Marietta, costellata di... orgasmi!
Ma splendidamente resi anche gli afflati più lirici (l’aria del liuto e il Lied di Pierrot) che richiedono delicatezza e raffinatezza di supporto alle
voci, senza però scadere in toni eccessivamente operettistici. Insomma un Direttore e un’Orchestra che, in perfetta
unità d’intenti, hanno saputo deliziarci con questo coloratissimo caleidoscopio
sonoro di Korngold.
Il Coro di Casoni è impegnato in modo non proibitivo (nel terzo Quadro) e ha
fatto benissimo la sua parte. Meglio ancora i piccoli dell’Accademia, perfetti
nella scena della processione.
Klaus Florian Vogt è un convincente Paul: la sua vocina
è timbricamente perfetta (per me) per caratterizzare questo
personaggio-bambino, pieno di complessi e ossessioni. Se in ruoli (pur da lui ricoperti)
come Lohengrin, per dire, può sembrare eccessivamente efebico (un Kind-Heldentenor)
qui invece rende alla perfezione tutte le turbe mentali che portano Paul ad
auto-imprigionarsi nel suo sacrario psicologico, prima ancora che materiale. E
passa benissimo dall’assurda euforia iniziale (per il creduto ritrovamento
della moglie) alla tremenda dissociazione che la sua psiche subisce (quadro
secondo, al momento di assistere alla demoniaca - meyerbeeriana - resurrezione
di Marie e di cedere infine a Marietta) all’inferno che invade la sua mente al
passaggio della processione-marcia; per finire all’ebete rassegnazione
conclusiva, sottolineata musicalmente dalla riapparizione sì della dolcissima
canzone del liuto, ma ora a supportare un’amara constatazione: nella
vita non c’è resurrezione.
Marietta (+Marie) è Asmik Grigorian, che si sdoppia benissimo nei due personaggi: quello,
limitato nel tempo ma fondamentale, dell’apparizione della moglie defunta e quello
ben più esteso della sua pretesa reincarnazione, con tutt’altra personalità.
Eccellente la sua performance - con i soci della compagnia teatrale - nel
secondo Quadro, dove si è distinta anche per qualità e doti di danzatrice-soubrette.
Insomma, una Marietta perfetta nel canto ma anche nella... professione. Per
sorridere un po’, mi domando con quale credibilità avrebbe potuto ricoprire
questo ruolo una Cerquetti (! ho fatto
volutamente un riferimento fuori dall’attualità.)
Anche Markus Werba incarna (come
originariamente previsto da Korngold, ma forse anche per ragioni di... spending
review) due personaggi. E lui lo fa con la grande professionalità che lo
contraddistingue, porgendoci il serioso e quasi pedante Frank (che nella
sezione onirica si trasforma però in uno sbifido quanto falso traditore di
amici) intercalato dal romantico e patetico Fritz, nell’aria del quale
ha modo di mettere in luce tutta la sua vena lirica e quasi belcantista.
La 42enne Cristina
Damian ha sostituito quasi all’ultimo momento la brasilera Kismara Pessatti nei panni di Brigitta,
questa anziana badante un po’ bigotta ma assai premurosa. Il mezzosoprano rumeno
la interpreta con garbo e discrezione, mostrando voce ben impostata in tutti i
registri, anche se non proprio superdotata di decibel.
Da
elogiare gli altri quattro interpreti, gli accademici Marika Spadafino, Daria Cherniy e Sergei Ababkin e lo sdoppiato
Sascha Emanuel Kramer.
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Vengo
ora allo spettacolo, firmato da Graham
Vick.
Il soggetto non si presta molto a interpretazioni di
carattere ideologico (dove il nostro spesso si lascia prendere troppo la mano
dalle sue convinzioni leftist)
tuttavia il regista albionico non rinuncia ad inventare anche qui qualcosa di
estraneo al libretto e dal sapore politico. Si tratta dell’interpretazione data
alla processione e poi soprattutto alla bestiale marcia che occupa la seconda
scena del quadro conclusivo, dove vediamo chiarissimi quanto gratuiti riferimenti a nazismo e Shoah: chierichetti fra i quali si mischiano ragazzini della Hitlerjugend (i balilla nazi) e scene di deportazione di ebrei. Fatti che certo
Korngold non poteva minimamente divinare nel 1920 quando compose l’opera.
Tuttavia mi sento di perdonare volentieri a Vick questa libertà, per due precise
ragioni: a) questi riferimenti non intaccano, nè tantomeno sovvertono la
drammaturgia originale dell’opera, sono in effetti delle materializzazioni (postume,
rispetto ai tempi) di orrori che invadono la mente di Paul, quindi del tutto
plausibili; b) si tratta di riferimenti che con Korngold hanno a che fare
assai, visto che una quindicina d’anni dopo la composizione dell’opera il nostro fu
costretto letteralmente a cambiare vita - materiale ed artistica - proprio a
causa dell’avvento di ciò che Vick ci mostra in scena.
Per
il resto il regista sfodera tutta la sapienza e maestrìa del consumato uomo di
teatro che è. Ben supportato dal suo team - Stuart
Nunn per scene e costumi, Giuseppe Di
Iorio alle luci e Ron Howell per
le coreografie - non ci lascia sfuggire nulla di ciò che il libretto racconta
(testo e didascalie).
Geniale
per efficacia è la scelta di mantenere l’ambientazione scenica di fondo sempre
la stessa, nel tre quadri dell’opera: siamo nel sacrario che Paul ha
apprestato in casa sua per ricordare la moglie Marie. Nel secondo e terzo
quadro il tendaggio bianco sul fondo si solleverà per far entrare nel sacrario tutti gli elementi dissacranti che compaiono nel sogno di
Paul: la Bruges bigotta, le beghine con Brigitta, il Frank traditore, la
scanzonata e irriverente compagnia di Mariette, la processione-marcia. Ma son
tutte visioni che fanno parte del sogno
di Paul, quindi è giusto che si mostrino proprio in quello stesso ambiente dove
il poveraccio passa le sue giornate a macerarsi nei ricordi. Detto di passaggio:
questa scelta di scenografia raggiunge anche lo scopo - non secondario - di
evitare allo spettatore (quando non adeguatamente preparato) di fraintendere
tutto quanto avviene in scena nel secondo quadro, pensando si tratti di accadimenti
reali e non di immagini oniriche che popolano la psiche di Paul.
L’ambientazione temporale è - per i costumi - vicina
agli anni di composizione dell’opera, mentre è a noi contemporanea quanto alle
suppellettili del sacrario (divanetto con struttura metallica; maxi-schermo al
plasma a sorreggere il quadro con l’immagine
di Marie, che vedremo solo alla fine del primo quadro, al momento dell’apparizione;
un inginocchiatoio e soprattutto una teca con le reliquie di Marie, fra cui la
famigerata treccia di capelli dorati). C’è poi in scena un elemento assai
importante: una stilizzata porta (solo lo scheletro, di plastica trasparente) profilata
da neon bianchi e lampadine colorate, che rimane in permanenza in primo piano,
sulla sinistra del palcoscenico, e che saltuariamente si sposta di poco,
ruotando su una piccola piattaforma circolare. Cosa ci rappresenta? Mah, a parte
il significato elementare di ingresso al
sacrario, può essere interpretata come il punto di passaggio dalla vita
reale (che sta al di qua, verso il pubblico) e la vita virtuale e poi onirica
che vive il povero Paul. Il quale, ad esempio, nel terzo quadro vi si affaccia
per seguire la processione; oppure attraverso la quale - nel secondo quadro -
battibecca con l’immagine del Frank traditore.
Ma come non ammirare la raffinata gestione dei
movimenti dei personaggi in scena. Qui faccio solo pochi cenni: alla fine della
canzone del liuto, nel primo quadro, Paul
e Marietta si trovano seduti per terra, con le schiene appoggiate alle
estremità del divanetto; ecco, mentre l’orchestra esala le 10 mirabili battute in
SIb della cadenza, la mano sinistra di Paul e la destra di Mariette, palme appoggiate
al pavimento, traslano lentamente fino ad incontrarsi... un momento di estasi davvero
indimenticabile, un esempio di come valorizzare al massimo grado una frase
musicale! E poi tutta la scena dei commedianti del secondo quadro è gestita in
modo superlativo, fino a trasformare quasi in poesia anche alcune esternazioni
dove sarebbe facilissimo sconfinare nella volgarità. Memorabile, come detto, la
scena della processione-marcia, che restituisce tutta la drammaticità dell’autentico
incubo che invade la mente di Paul, con povera gente che in nome di dio viene
maltrattata e deportata. Impressionante (e Kitsch,
sì, ma proprio quanto la musica!) la comparsa del gigantesco e sovrastante teschio
che alla fine prende fuoco.
Efficacissima infine la conclusione: dopo che tutte le
suppellettili del sacrario sono state rimosse e portate via, la scena si svuota
e Paul, chiusa la canzone del liuto
con le parole Hier gibt es kein
Auferstehen, sulle 11 (apparentemente?) eteree battute cadenzanti
dell’orchestra si avvia a testa bassa e con atteggiamento sconsolato verso il
fondo del palcoscenico. Immagine assolutamente emblematica dell’ambiguità della
soluzione del dramma.