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consulta e zecche rosse

30 maggio, 2019

Il trionfo di Korngold alla Scala


Rieccomi qua, dopo sanitaria sosta, a commentare questa strepitosa Die tote Stadt, finalmente (è bastato aspettare un secolo, ecché ‘ssarà mai...) comparsa sulle tavole del Piermarini.

Note tecnico/musicali: a) contrariamente a quanto annunciato dal sito del Teatro fino a poche ore dall’inizio della prima, l’opera è stata presentata nella sua struttura originaria, quindi con entrambi gli intervalli fra i tre quadri; b) sempre contrariamente a quanto annunciato dal sito del Teatro, il ruolo (secondario?) di Brigitta passa da una brasilera (Kismara Pessatti) ad una rumena (Cristina Damian).

Già detto nel telegrafico intervento di ieri notte di un teatro con ampi spazi vuoti, colpa del secolo d’età di un’opera finita nel dimenticatoio (e conseguente disinteresse - per ignoranza - del vasto pubblico) o della teoria di Pereira sul ritardo dell’allineamento della domanda all’offerta? O di entrambe le cause? Fatto sta che lo spettacolo visto martedi, se non passerà proprio alla storia (mai esagerare con gli epinicii...) di certo resta - parere mio personale - una delle migliori produzioni degli ultimi tempi. E forse qualcosa di più delle pur lodevoli iniziative del Teatro - conferenza e tavola rotonda - andava fatto per promuoverlo.
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Alan Gilbert ha saputo mettere in risalto le diverse qualità della musica, che ha richiami tardoromantici, ammiccamenti da operetta e tratti espressionisti, ma sempre impiegati con appropriatezza e mai lasciati al caso o destinati al puro effetto. L’Orchestra si è evidentemente ritrovata con questa musica, non facile sicuramente da eseguire, ma certamente stimolante per gli esecutori, oltre che per gli spettatori. Da incorniciare i diversi passaggi sinfonici, come il finale primo (il turbamento psichico di Paul e l’apparizione di Marie); l’attacco del secondo quadro (la spettrale Bruges nella quale il protagonista si inoltra); la processione religiosa (che si trasforma in marcia minacciosa e spaventevole); e l’introduzione al terzo quadro, che evoca la notte tumultuosa passata a letto da Paul e Marietta, costellata di... orgasmi! Ma splendidamente resi anche gli afflati più lirici (l’aria del liuto e il Lied di Pierrot) che richiedono delicatezza e raffinatezza di supporto alle voci, senza però scadere in toni eccessivamente operettistici. Insomma un Direttore e un’Orchestra che, in perfetta unità d’intenti, hanno saputo deliziarci con questo coloratissimo caleidoscopio sonoro di Korngold.       

Il Coro di Casoni è impegnato in modo non proibitivo (nel terzo Quadro) e ha fatto benissimo la sua parte. Meglio ancora i piccoli dell’Accademia, perfetti nella scena della processione.

Klaus Florian Vogt è un convincente Paul: la sua vocina è timbricamente perfetta (per me) per caratterizzare questo personaggio-bambino, pieno di complessi e ossessioni. Se in ruoli (pur da lui ricoperti) come Lohengrin, per dire, può sembrare eccessivamente efebico (un Kind-Heldentenor) qui invece rende alla perfezione tutte le turbe mentali che portano Paul ad auto-imprigionarsi nel suo sacrario psicologico, prima ancora che materiale. E passa benissimo dall’assurda euforia iniziale (per il creduto ritrovamento della moglie) alla tremenda dissociazione che la sua psiche subisce (quadro secondo, al momento di assistere alla demoniaca - meyerbeeriana - resurrezione di Marie e di cedere infine a Marietta) all’inferno che invade la sua mente al passaggio della processione-marcia; per finire all’ebete rassegnazione conclusiva, sottolineata musicalmente dalla riapparizione sì della dolcissima canzone del liuto, ma ora a supportare un’amara constatazione: nella vita non c’è resurrezione.  

Marietta (+Marie) è Asmik Grigorian, che si sdoppia benissimo nei due personaggi: quello, limitato nel tempo ma fondamentale, dell’apparizione della moglie defunta e quello ben più esteso della sua pretesa reincarnazione, con tutt’altra personalità. Eccellente la sua performance - con i soci della compagnia teatrale - nel secondo Quadro, dove si è distinta anche per qualità e doti di danzatrice-soubrette. Insomma, una Marietta perfetta nel canto ma anche nella... professione. Per sorridere un po’, mi domando con quale credibilità avrebbe potuto ricoprire questo ruolo una Cerquetti (! ho fatto volutamente un riferimento fuori dall’attualità.)

Anche Markus Werba incarna (come originariamente previsto da Korngold, ma forse anche per ragioni di... spending review) due personaggi. E lui lo fa con la grande professionalità che lo contraddistingue, porgendoci il serioso e quasi pedante Frank (che nella sezione onirica si trasforma però in uno sbifido quanto falso traditore di amici) intercalato dal romantico e patetico Fritz, nell’aria del quale ha modo di mettere in luce tutta la sua vena lirica e quasi belcantista.   

La 42enne Cristina Damian ha sostituito quasi all’ultimo momento la brasilera Kismara Pessatti nei panni di Brigitta, questa anziana badante un po’ bigotta ma assai premurosa. Il mezzosoprano rumeno la interpreta con garbo e discrezione, mostrando voce ben impostata in tutti i registri, anche se non proprio superdotata di decibel.

Da elogiare gli altri quattro interpreti, gli accademici Marika Spadafino, Daria Cherniy e Sergei Ababkin e lo sdoppiato Sascha Emanuel Kramer.
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Vengo ora allo spettacolo, firmato da Graham Vick.

Il soggetto non si presta molto a interpretazioni di carattere ideologico (dove il nostro spesso si lascia prendere troppo la mano dalle sue convinzioni leftist) tuttavia il regista albionico non rinuncia ad inventare anche qui qualcosa di estraneo al libretto e dal sapore politico. Si tratta dell’interpretazione data alla processione e poi soprattutto alla bestiale marcia che occupa la seconda scena del quadro conclusivo, dove vediamo chiarissimi quanto gratuiti riferimenti a nazismo e Shoah: chierichetti fra i quali si mischiano ragazzini della Hitlerjugend (i balilla nazi) e scene di deportazione di ebrei. Fatti che certo Korngold non poteva minimamente divinare nel 1920 quando compose l’opera. Tuttavia mi sento di perdonare volentieri a Vick questa libertà, per due precise ragioni: a) questi riferimenti non intaccano, nè tantomeno sovvertono la drammaturgia originale dell’opera, sono in effetti delle materializzazioni (postume, rispetto ai tempi) di orrori che invadono la mente di Paul, quindi del tutto plausibili; b) si tratta di riferimenti che con Korngold hanno a che fare assai, visto che una quindicina d’anni dopo la composizione dell’opera il nostro fu costretto letteralmente a cambiare vita - materiale ed artistica - proprio a causa dell’avvento di ciò che Vick ci mostra in scena.

Per il resto il regista sfodera tutta la sapienza e maestrìa del consumato uomo di teatro che è. Ben supportato dal suo team - Stuart Nunn per scene e costumi, Giuseppe Di Iorio alle luci e Ron Howell per le coreografie - non ci lascia sfuggire nulla di ciò che il libretto racconta (testo e didascalie).

Geniale per efficacia è la scelta di mantenere l’ambientazione scenica di fondo sempre la stessa, nel tre quadri dell’opera: siamo nel sacrario che Paul ha apprestato in casa sua per ricordare la moglie Marie. Nel secondo e terzo quadro il tendaggio bianco sul fondo si solleverà per far entrare nel sacrario tutti gli elementi dissacranti che compaiono nel sogno di Paul: la Bruges bigotta, le beghine con Brigitta, il Frank traditore, la scanzonata e irriverente compagnia di Mariette, la processione-marcia. Ma son tutte visioni che fanno parte del sogno di Paul, quindi è giusto che si mostrino proprio in quello stesso ambiente dove il poveraccio passa le sue giornate a macerarsi nei ricordi. Detto di passaggio: questa scelta di scenografia raggiunge anche lo scopo - non secondario - di evitare allo spettatore (quando non adeguatamente preparato) di fraintendere tutto quanto avviene in scena nel secondo quadro, pensando si tratti di accadimenti reali e non di immagini oniriche che popolano la psiche di Paul.  

L’ambientazione temporale è - per i costumi - vicina agli anni di composizione dell’opera, mentre è a noi contemporanea quanto alle suppellettili del sacrario (divanetto con struttura metallica; maxi-schermo al plasma a sorreggere il quadro con l’immagine di Marie, che vedremo solo alla fine del primo quadro, al momento dell’apparizione; un inginocchiatoio e soprattutto una teca con le reliquie di Marie, fra cui la famigerata treccia di capelli dorati). C’è poi in scena un elemento assai importante: una stilizzata porta (solo lo scheletro, di plastica trasparente) profilata da neon bianchi e lampadine colorate, che rimane in permanenza in primo piano, sulla sinistra del palcoscenico, e che saltuariamente si sposta di poco, ruotando su una piccola piattaforma circolare. Cosa ci rappresenta? Mah, a parte il significato elementare di ingresso al sacrario, può essere interpretata come il punto di passaggio dalla vita reale (che sta al di qua, verso il pubblico) e la vita virtuale e poi onirica che vive il povero Paul. Il quale, ad esempio, nel terzo quadro vi si affaccia per seguire la processione; oppure attraverso la quale - nel secondo quadro - battibecca con l’immagine del Frank traditore.

Ma come non ammirare la raffinata gestione dei movimenti dei personaggi in scena. Qui faccio solo pochi cenni: alla fine della canzone del liuto, nel primo quadro, Paul e Marietta si trovano seduti per terra, con le schiene appoggiate alle estremità del divanetto; ecco, mentre l’orchestra esala le 10 mirabili battute in SIb della cadenza, la mano sinistra di Paul e la destra di Mariette, palme appoggiate al pavimento, traslano lentamente fino ad incontrarsi... un momento di estasi davvero indimenticabile, un esempio di come valorizzare al massimo grado una frase musicale! E poi tutta la scena dei commedianti del secondo quadro è gestita in modo superlativo, fino a trasformare quasi in poesia anche alcune esternazioni dove sarebbe facilissimo sconfinare nella volgarità. Memorabile, come detto, la scena della processione-marcia, che restituisce tutta la drammaticità dell’autentico incubo che invade la mente di Paul, con povera gente che in nome di dio viene maltrattata e deportata. Impressionante (e Kitsch, sì, ma proprio quanto la musica!) la comparsa del gigantesco e sovrastante teschio che alla fine prende fuoco.

Efficacissima infine la conclusione: dopo che tutte le suppellettili del sacrario sono state rimosse e portate via, la scena si svuota e Paul, chiusa la canzone del liuto con le parole Hier gibt es kein Auferstehen, sulle 11 (apparentemente?) eteree battute cadenzanti dell’orchestra si avvia a testa bassa e con atteggiamento sconsolato verso il fondo del palcoscenico. Immagine assolutamente emblematica dell’ambiguità della soluzione del dramma.

29 maggio, 2019

Una splendida città morta finalmente al Piermarini


Quasi a festeggiare l’imminente centenario della comparsa dell’opera sulle scene (1920) la Scala ospita quest’anno per la prima volta in assoluto Die tote Stadt di Erich Wolfgang Korngold. Ieri sera è andata in onda la prima delle sette rappresentazioni in cartellone, in un teatro ancora con evidenti vuoti (anche le gallerie non proprio stipate): lunedi pomeriggio, alla presentazione della nuova stagione agli abbonati, Pereira ha cercato di spiegare il fenomeno come conseguenza dei suoi sforzi per aumentare l’offerta di spettacoli, al quale aumento evidentemente la domanda si starebbe allineando con ritardo (fenomeno che gli esperti chiamano isteresi); parrebbe di capire che gli spettatori totali crescano, ma - per ora almeno - non quanto l’aumento dei posti disponibili... Beh, se lo dice Pereira magari sarà così, chissà.

Dunque, finalmente Korngold è arrivato anche da noi, e devo dire che se lo meritava proprio e che aver atteso quasi il centenario per accoglierlo in Scala sa di scandalo, proprio come la scarsa partecipazione del pubblico.

Mentre invece va dato merito a Direttore, Cast e Regista di aver confezionato uno spettacolo di altissimo livello, valorizzando al massimo le qualità dell’Opera, sul piano strettamente musicale ma anche su quello drammaturgico.

Alla fine il pur scarso pubblico ha tributato a tutti un autentico trionfo. Personalmente ho pochi dubbi che si sia trattato del miglior spettacolo offerto dalla Scala in questa stagione.

Seguirà - dopo un forzato time-out - qualche commento più circostanziato.

27 maggio, 2019

La Scala 19-20


A mezzogiorno di oggi il trio lescano Sala-Pereira-Chailly ha presentato alla stampa la stagione 19-20. 

Sala (che poco tempo fa voleva licenziare in tronco Pereira per via degli arabi) ha elogiato l’opera del sovrintendente e di tutto il teatro, con un discorsetto auto-celebrativo (ma devo dire neanche troppo smaccato) che ha esaltato le magnifiche sorti e progressive della Milano da lui guidata e velatamente polemizzato con il nuovo madonnaro che ieri ha vinto le elezioni...


La stagione (si sapeva) apre con Tosca e poi prevede altri 14 titoli, fra il vetusto-recidivo (Traviata-Cavani) e l’innovativo (Salome-Michieletto).

Chailly (a proposito di Tosca) persiste a far passare come conquiste della cultura le edizioni di opere che lo stesso autore ebbe a disconoscere. Ripeto alla nausea: cose da proporre in qualche festival o come bonus-tracks nei CD. C’è anche un po’ di familismo, con un concerto che, prima di una cosuccia da nulla come la Nona di Beethoven (non so se mi spiego) proporrà un brano corale del suo papi (!)

Il sofferente Mehta (ma certo nessuno lo obbligava, quindi... grazie!) fa quasi la parte del leone fra opere e concerti sinfonici, fra cui una Terza di Mahler che è già stata fatale a... beh, basta così, per carità.

Per me la notizia-bomba (scusate la venalità dell’osservazione) è la definitiva soppressione della famigerata prelazione per gli abbonati (ci voleva Pereira per arrivarci...)

Il quale Pereira fra poche ore arringherà nel Piermarini il pubblico degli abbonati.

25 maggio, 2019

laVerdi 18-19 - Concerto n°30


Per il terz’ultimo concerto della stagione torna in Auditorium il residente (!?) Jader Bignamini per guidare non una, ma ben due orchestre insieme! Si mescola infatti alla sua laVerdi la Filarmonica Arturo Toscanini, soprattutto per moltiplicare il volume di suono richiesto dallo Strauss che riempie la seconda parte del concerto.

Ma il programma è aperto da una vecchia frequentatrice dell’Auditorium, la sempre affascinante (nel fisico e nel... sonoro!) Francesca Dego, che ci propone il Primo concerto di Shostakovich. Opera composta (1947-48) in piena era Stalin-Zdanov e quindi prudentemente tenuta nel cassetto - onde evitare fastidiosi trasferimenti nella lontana Siberia, se non qualcosa di peggio - dal quale fu estratta dopo anni, dopo la presentazione della famosa e apprezzata Decima Sinfonia e in presenza al Kremlino del più mite (si fa per dire... chiedere in proposito agli ukraini) Kruscev. Questo spiega perchè alla sua comparsa le sia stato affibbiato il numero d’opera 99 e successivamente l’originale 77, numero più congruo rispetto al periodo di composizione.

Il dedicatario David Oistrakh e l’amico fraterno Evgeny Mravinski portarono alla luce il concerto sabato 29 ottobre del 1955 a Leningrado. Concerto piuttosto eterodosso (quanto meno rispetto ai canoni classici) a partire dal numero (4) dei movimenti e da contenuti (Notturno-Scherzo-Passacaglia-Burlesque) che lo avvicinano piuttosto ad una suite dove si alternano movimenti lenti e veloci. Orchestra privata degli ottoni più invadenti (trombe e tromboni) per mantenere la massima trasparenza di suono; solista che ha pochissime pause, essendo quasi costantemente protagonista, fra l’altro di una interminabile cadenza che separa e collega i due movimenti conclusivi. Quanto alle tonalità, le armature di chiave sono poco significative: il LA (minore) apre la sinfonia e il LA (maggiore) la chiude; in mezzo troviamo SIb e LAb, ma in realtà abbiamo atmosfere continuamente cangianti.

Seguiamo l’evolversi del concerto proprio in compagnia dei due sommi artisti che lo presentarono per la prima volta al pubblico.
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Si apre con un Notturno, in tempo Moderato, 4/4. Brano assai ispirato e ricco di laica religiosità. Struttura che richiama quella di una fantasia, nulla a che vedere con la classica forma-sonata. Dopo 4 battute in ritmo puntato degli archi bassi, ecco il violino attaccare (17”) una melopea praticamente ininterrotta, basata pure su un motivo puntato, nel quale compaiono sporadiche quartine di crome. L’orchestra tiene un accompagnamento sommesso negli archi, mentre i fiati si inseriscono qua e là, ma sempre con la massima discrezione, come fanno il fagotto (1’27”) e i fiati (2’12”).

Ecco un primo sussulto (2’19”) con la melodia del violino che si apre a intervalli più ampi e con i clarinetti (e i violini) a contrappuntare con un ondeggiante motivo per terze. A 3’08” il solista riprende la sua lirica perorazione, con salite a note sovracute, chiusa da un poco ritardando che lascia un minimo di spazio (4’29”) ai fiati, prima del ritorno (4’51”) del solista che ripropone la melopea iniziale, allargando quindi molto i tempi e facendosi accompagnare da arpa in armonici e celesta, a creare un’atmosfera eterea e sognante.

A 6’12” un improvviso intervento di percussioni e tuba dà inizio ad una sezione più animata, dove la melodia del solista si muove prevalentemente per terzine. Altra breve pausa (6’54”) per il violino, occupata dai fiati e quindi (7’10”) riecco il solista con la sua melodia fatta di terzine, adesso però incalzato dagli archi e poi dall’intera orchestra, in un agitato ribollire di suoni, mentre il violino ancora allarga i propri tempi. È un crescendo che raggiunge un climax al quale fa seguito (8’19”) una nuova ripresa del motivo puntato nel violino, che fa una pausa (8’46”) per poi riprendersi il centro della scena (9’04”) con l’ultima esposizione che ricapitola i diversi spezzoni di motivi uditi in precedenza. A 11’25” ecco le ultime quattro battute del solista, tutte in armonici, con l’arpa e la celesta, morendo, a chiudere con lui questo mirabile sogno.

Segue quindi un movimento veloce, lo Scherzo, tempo Allegro, 3/8. Qui viene sostanzialmente rispettata la classica forma scherzo-trio, con la particolarità che il tema viene inizialmente esposto (11’52”) da flauto e clarinetto basso, con il solista a ritmarne l’accompagnamento, prima di prendere possesso (12’05”) della scena! A 12’48” il solista ripropone (come consuetudine classica) lo Scherzo, che poco dopo (13’03”) modula bruscamente, mentre i fiati espongono, innalzato di un semitono e lievemente storpiato verso il basso alla fine (RE#-MI-DO#-SI) il motto DSCH (RE-MIb-DO-SI, iniziali del compositore) che riascoltiamo subito dopo (13’17”) nei secchi strappi in doppia corda del violino.

Si arriva (13’37”) al Trio, Poco più mosso, 2/4, sempre dominato dal solista, con motivi e ritmo che ricordano il Klezmer (danza ebraica) comportando anche veloci scorribande, fino ad arrivare (15’36”) alla ripresa dello Scherzo, dove ascoltiamo impertinenti interventi dell’oboe prima, del flauto poi e infine dell’ottavino a contrappuntare il solista.

La scansione si fa sempre più frenetica fino a sfociare (17’27”) nella temporanea ripresa del tempo di Trio (2/4, Poco più mosso) che chiude (17’47”) tornando a 3/8 (tempo dello Scherzo) con una riproposizione del motto DSCH (adesso senza storpiature, ma trasposto di un tritono, a LAb-LA-SOLb-FA) e con il solista che insiste nel suonare quartine di crome sul tempo ternario, fino alla brusca chiusura.

Eccoci ora alla Passacaglia, Andante, 3/4. Il basso ricorrente (si ripeterà per 9 volte) copre 17 battute e viene inizialmente suonato (18’11”) dagli archi bassi, con corni a contrappuntare in ottave e timpani a scandire il ritmo. La seconda apparizione (19’06”) coinvolge la tuba e il fagotto, con gli altri fiati a cantare una specie di corale. Sulla terza (20’01”) affidata agli archi bassi ecco arrivare il violino solista, che intona una languida melodia (di atmosfera simile a quella del movimento iniziale). Il suo motivo viene ripreso dal corno inglese alla quarta tornata (20’56”) mentre il solista si lancia in volute più ampie. La quinta ripetizione (21’50”) vede al basso il primo corno, mentre il solista prosegue la sua melopea. Anche alla sesta reiterazione del basso (22’39”) affidata a corni, tuba, celli e contrabbassi, Il solista continua nel suo canto, sempre più accorato, animato ora da ripetute terzine.

La settima proposizione del tema di passacaglia (23’29”) è affidata ora direttamente al solista, con piglio stentoreo, mentre all’ottava (24’16”) sul basso tenuto da tuba e fagotti sono i clarinetti ad accompagnare la prima melodia tornata nel violino. Ai timpani (25’10”) spetta di guidare la nona ricorrenza dell’accompagnamento, con il solista sempre in primo piano, che arricchisce il suo tema di note ribattute. Seguono (26’12”) 12 battute di chiusura, con passaggi anche in doppia corda, che portano inaspettatamente (27’01”) ad una mastodontica Cadenza. Essa inizia riprendendo l’ultimo motivo suonato nella passacaglia, per poi svilupparsi in tempo Maestoso, con qualche moderata variazione agogica e dinamica. A 30’09” un primo Accelerando anima il ritmo e poi un secondo (31’15”) introduce la parte conclusiva, in Allegro, dove troviamo ogni artifizio virtuosistico, compresi passaggi in doppia, tripla ed anche quadrupla corda! 

E così, senza soluzione di continuità, a 31’42” attacca la conclusiva Burlesque, Allegro con brio, 2/4. É uno dei classici, inconfondibili, tarantolati pezzi di questo autore, dove solista e orchestra sembrano inseguirsi in una forsennata discesa senza freni. Il ritmo è spesso puntato, singhiozzante, oppure più regolare ma sempre forsennato. 

L’orchestra apre con 28 battute introduttive che preparano l’entrata (32’02”) del violino solista accompagnato dal clarinetto, con il quale innesca una specie di gioco a rincorrersi, chiuso da reiterati sussulti, quasi dei singhiozzi dei flauti. Il solista d’ora in poi avrà solo poche pause di respiro, alternando motivi in ritmo puntato ad altri (32’46”) più distesi, ma senza mai rallentare il passo. 

Dopo una sezione caratterizzata da passagi sincopati, a 33’18” il solista riprende il motivo dell’introduzione orchestrale, poi continua contrappuntato da strappi di flauti e clarinetti. A 33’50” si concede finalmente una pausa, lasciando momentaneamente spazio all’orchestra, per poi riprendere (34’21”) la sua corsa solitaria (accompagnato solo da violini e viole) e successivamente (34’43”) anche da clarinetti, corno e xilofono. Il passo adesso accelera, con volate di semicrome che portano (34’59”) a nuovi sussulti nei fiati, che accompagnano il solista fino a 35’36”. Qui il violino, ora sostenuto solo dagli archi, attacca una sezione con note ribattute, anche in corda doppia. 

A 35’46” ecco iniziare il Presto che ci conduce al repentino schianto conclusivo. 
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La bella Francesca ce lo ha porto mirabilmente, mettendone in risalto la grande nobiltà dei temi, in specie nei due movimenti lenti. In quelli veloci ha fatto valere le sue eccezionali doti tecniche.

Una prestazione davvero eccellente, salutata dal folto pubblico con grandi applausi. Che lei ha ricambiato, dopo l’impegno proibitivo del Concerto con ben tre encore, aperti da un ossessionato Ysaÿe.
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Ecco quindi la colossale Eine Alpensinfonie. Sui contenuti (naturalisticamente appariscenti o filosoficamente criptati) della quale non mi sto a dilungare, rimandando i curiosi a questo mio ormai lontano scritto di presentazione. Aggiungo solo che lo stesso Strauss, in una lettera ad Hofmannsthal poco dopo il grandioso successo del loro Rosenkavalier, ammise che il poema sinfonico alpestre gli procurava meno eccitazione dello scuotere maggiolini dai rami di un albero! Evidentemente anche le attività più prosaiche mettevano Strauss nelle condizioni ideali per creare grande musica!  

Musica che laVerdi ha eseguito in passato solo una volta (stagione 2006-7). Come detto, qui viene suonata da un organico derivato dall’assemblaggio di due compagini sinfoniche, in modo da rispettare (e forse nemmeno al 100%!) le prescrizioni dell’autore in fatto di strumentisti. Palco quindi affollato come non mai. Apprezzabile l’iniziativa di proiettare passo passo sui due schermi i 22 titoli programmatici delle sezioni del brano, accompagnati anche da fotografie che rimandano alle diverse fasi dell’escursione straussiana.

Bignamini attacca con grande sostenutezza, poi scatena l’orchestra nelle grandi campate sonore che costellano la Sinfonia. Apprezzabile la qualità dell’esecuzione, se si considera che due orchestre si sono dovute fondere, con poco tempo per provare. Gran successo, applausi ritmati per il Direttore, che da parte sua ha fatto alzare le singole prime parti e le intere sezioni per tributare loro il meritato trionfo.

21 maggio, 2019

Freud a Brugge: Die tote Stadt alla Scala


Fra pochi giorni al Piermarini andrà in scena la prima di Die tote Stadt, opera del 1920, uscita dalla penna di un 24enne di origine morava trapiantato a Vienna, Erich Wolfgang Korngold. Opera rimasta quasi unica nella produzione di quel ragazzo-prodigio (ammirato persino da Puccini, Mahler, Strauss...) anche a causa delle dolorose vicissitudini cui il compositore andò incontro a seguito dell’ascesa al potere di tale Hitler. Il che lo obbligò ad espatriare e a stabilirsi in USA, dove peraltro trovò l’america, come si suol dire, facendo fortuna e ricchezze in quel di Hollywood, dove divenne il pioniere delle grandi colonne sonore dei film colà prodotti. Dopo la fine della WWII tornò alla musica colta, con il (relativamente) famoso Concerto per violino e una meno famosa Sinfonia.

Visto con il senno di poi, a noi oggi pare quasi scontato che quel fenomeno - innescato da Liszt e portato a dimensioni quantitative e qualitative eccelse da Strauss - che va sotto il nome improprio di musica descrittiva, finisse per contagiare inevitabilmente il mondo del cinema, che di colonne sonore aveva bisogno come dell’aria. E così il buon Korngold, imbevuto di massicce dosi di Liszt e Strauss in salsa wagneriana, e con l’aggiunta di spruzzatine di Mahler e Lehar su moderate dosi di Debussy e di espressionismo à-la-Berg, divenne in breve il re di quel nuovo business.               

A prima vista anche l’opera che si va a rappresentare, pur di una quindicina d’anni anteriore al periodo americano, presenta già qualche tratto caratteristico della musica-da-film, come si può constatare fin dalle prime battute, con suoni che ci sembrano uscire dagli altoparlanti di una sala cinematografica dove si proietta una pellicola con Errol Flynn! Ma sarebbe ingeneroso non riconoscere a Korngold straordinarie doti creative e capacità come pochi di padroneggiare la tecnica di manipolazione dei motivi musicali al servizio del dramma.     
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Due parole sul soggetto, che poggia su un libretto scritto dallo stesso compositore, con la guida del padre - il famoso critico musicale Julius - a partire da testi preesistenti (essenzialmente Le mirage e Bruges-la-Mort di Georges Rodenbach). La città morta è Bruges (Brugge per i fiamminghi) dove si dipana il dramma di Paul, vedovo inconsolabile che fa della sua casa in quella cittadina decaduta un autentico sacrario per la moglie Marie, con tanto di ritratti, oggetti di abbigliamento e persino una lunga treccia bionda conservati come reliquie.  

Un bel giorno Paul incontra per caso Mariette, un’estroversa danzatrice di una compagnia itinerante che pare la copia-carbone della moglie defunta: se ne innamora come se quella fosse la reincarnazione della povera Marie, la invita nella sua casa-cappella, ma deve constatare che invece Mariette ha una personalità agli antipodi rispetto a quella della sua Marie. Così la sua psiche deraglia e, quando Mariette - dopo una notte d’amore di sesso con lui - deturpa deliberatamente l’immagine di Marie, Paul sbrocca e strangola la ballerina.

Finito qui, come nei riferimenti letterari originali? No no, qui c’è addirittura il lieto-fine, o perlomeno un’ambigua morale-della-favola, sospesa fra il rassegnato e il consolante. Perchè scopriamo che tutta la tragica vicenda che ha portato allo strangolamento di Mariette altro non è stato che un sogno di Paul: Mariette è viva e vegeta e se ne torna alla sua compagnia, e Paul - grazie al sogno - si può infine capacitare che la vita può continuare (mah, sarà poi così?) senza rimanere schiavi del passato nè delle futili illusioni del presente.

Abbiamo quindi scoperto una caratteristica peculiare della struttura dell’opera: che mescola un tempo reale con un tempo onirico, proprio come accade spesso nei film, che diventeranno, in USA, il pane quotidiano dell’Autore! Lo schema che segue - dove sono rappresentati i tre quadri e le 13 scene dell’opera - vuol rendere plasticamente il concetto:



Il tempo reale occupa le prime 5 scene del primo quadro e l’ultima del terzo: tutto si compie in una sola serata. Il tempo onirico occupa invece pochi minuti di quello reale (insomma, Paul fa solo un pisolino, il tempo per Marietta - dopo esserne uscita - di tornare in casa sua a recuperare l’ombrellino...) ma vi scorre, come in un film accelerato in FFW, un’intera serata-nottata-mattinata, articolato com’è nella sesta scena del primo quadro, nelle 4 del secondo e nelle prime due del terzo. Grosso modo, su circa 130 minuti di durata complessiva, il tempo reale ne occupa più o meno 50; quello onirico quasi 80, compressi in 5 minuti del primo!

Dallo schema si evince anche come il sogno di Paul sia distribuito su tutti e tre i quadri - che hanno durata simile, attorno ai 45 minuti - il che comporta che venga interrotto dagli intervalli addirittura due volte, cosa che può disorientare lo spettatore o comunque produrre cali di tensione drammatica. In particolare è la prima interruzione, dopo che il sogno è appena iniziato, a rischiare di essere deleteria. Così lo stesso Korngold ha previsto la possibilità di legare senza soluzione di continuità i primi due quadri e all’uopo ha predisposto gli opportuni tagli (138 battute: 93 alla fine del primo e 45 all’inizio del secondo quadro) alla partitura. In questo modo il sogno viene interrotto soltanto una volta, prima della notte che Paul e Marietta trascorreranno insieme. Peraltro una conseguenza di questo approccio è lo squilibrio che si crea fra le durate delle due parti: la prima di circa 90 minuti, la seconda di 40-45. Beh... non si può aver tutto.
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Per fare (o rinfrescare) la conoscenza dell’opera a buon mercato, la si può seguire in rete (fra alcune altre) in questa registrazione vintage (1975) di Erich Leinsdorf con il trio dei protagonisti (Paul, Marietta, Frank) Kollo-Neblett-Luxon, più il Fritz di Prey e la Brigitta di Wagemann.

In omaggio alla notorietà americana di Korngold, l’opera sarà affidata ad Alan Gilbert, fino al 2017 Direttore musicale della prestigiosa NYPO, in procinto di insediarsi alla Elbphilharmonie.

Paul sarà impersonato da Klaus Florian Vogt, che si può apprezzare qui, impegnato in Finlandia nel 2011, e che pare ben calato nella personalità piuttosto... disturbata del protagonista.   

Come è prassi ormai quasi consolidata (del resto è un’indicazione dello stesso Korngold) anche in questa produzione il ruolo minore (come presenza in scena, ma al quale è affidata una delle due arie più famose dell’opera, Da Ihr befehlet, Königin, nel second’atto) di Fritz (il Pierrot della compagnia di Marietta) viene accorpato - visto che ha la stessa tessitura di baritono e mai compare in scena insieme all’altro - con quello un filino più presente, anche se musicalmente meno pregiato, di Frank. Così il simpatico, oltre che bravo, Markus Werba si guadagnerà qualche minuto in più di attenzione del pubblico (e magari, glielo auguriamo, di applausi).

Ad Asmik Grigorian da Vilnius è affidato il ruolo di Marietta, che dà anche la voce all’apparizione di Marie nel primo atto; atto in cui spicca la bellissima aria (del liuto) Glück, das mir verblieb. La carioca Kismara Pessatti completa il quartetto dei protagonisti, interpretando Brigitta.

L’Accademia scaligera dà anche qui un sostanzioso contributo ai ruoli di contorno, con tre delle quattro voci. Contributo che darà anche il Coro di Casoni.

L’allestimento è del genio-(e-sregolatezza) Graham Vick, il che garantisce come minimo accese discussioni sulla sua vision del dramma. 

Dalla locandina del Teatro si dovrebbe evincere che lo spettacolo abbia un solo intervallo, come ad esempio in questa recente produzione berlinese di Carsen. Radio3 riprenderà in diretta (ore 20:00) la prima del 28 maggio. 

20 maggio, 2019

Il Bellini desueto all’OF


Firenze ha ospitato in settimana (ieri ultima delle tre recite in cartellone) il suo nuovo allestmento della quarta opera di Vincenzo Bellini, La straniera. La prima è stata trasmessa sia da Radio3 che da RAI5 e ciò ha consentito e consente di fare una sommaria conoscenza con questa produzione, affidata alla bacchetta di Fabio Luisi e alla regìa del neofita (nell’opera lirica) Mateo Zoni.

La versione presentata è la prima, del 1829 - come ricostruita nella più recente edizione critica, di Marco Uvietta - più sobria e stringata di quella del 1830 (cosidddetta versione Rubini poichè riveduta e corretta per il famoso tenore).

È questo un Bellini arrivato, dopo soli 4 anni, già quasi a metà strada della sua vita artistica (che si chiuderà con quella biologica nel 1835) e l’opera segna proprio il punto di svolta nel suo percorso evolutivo, proteso a distanziarsi dall’imperante Rossini e a porre le basi (in una con Donizetti) del melodramma romantico, che Verdi poi svilupperà da par suo. Credo che parlare di grande capolavoro sia francamente eccessivo, ancora vi si notano segni di immaturità, passaggi poco ispirati e cadute di tensione; ma i lati positivi abbondano, a partire dalla qualità delle melodie, che prefigura ciò che arriverà poi con Capuleti, Sonnambula, Norma e Puritani. Insomma, un titolo del quale si fatica a spiegare l’assenza dal repertorio dei principali teatri (qui a Firenze non si rappresentava dal 1830!)

Come spesso accade, il soggetto (dovuto al pur grande Felice Romani che lo mutuò a sua volta dall'abate Prévost) è di quelli che si fanno baffo della plausibilità (per non dire di peggio) e l’unico pregio del testo (qui Romani è peraltro da elogiare) è di fare adeguatamente da supporto per la musica di Bellini. In estrema sintesi: una specie di Donna del lago con finale tragico.

L’allestimento di Mateo Zoni porta l’ambientazione dal 1300 all’X300, un medioevo in un improbabile futuro: la scena di Tonino Zera e Renzo Bellanca è sostanzialmente vuota, con poche strutture verticali e uno stilizzato gazebo a far da capanna di Alaide; il tutto di sapore metallico e freddo, come il regista forse immagina l’inesistente lago di Montolino. I costumi di Stefano Ciammitti sono un pot-pourri di stili e di fogge, appariscenti e a volte ridicoli, come le maschere a grata  che velano il volto delle donne e l’abbigliamento della protagonista che, dovendo richiamare la vita un po’ selvaggia dell’ex-regina, è un riciclo di un costume di Papageno di un qualche vecchio Flauto magico (e meno male che la gabbietta dei volatili è andata persa...) Poco efficaci e di impiego scolastico anche le luci di Daniele Cipri.

Quanto a movimenti di singoli e masse, siamo alla più vetusta tradizione: coro che entra, se ne sta immobile sul fondo, poi esce alla chetichella; protagonisti che tendenzialmente parlano al pubblico e mai fra di loro... Del trattamento che questo medioevo riserva alla donna fa fede l’ottava scena del primo atto: Campo ai veltri cantano Osburgo e coro, visto che sta per iniziare una caccia al cervo; e in effetti due animali tenuti al guinzaglio attraversano il palco: ecco, sono due ragazze che camminano carponi!

Insomma, una cosa fra il velleitario e l’insulso, che ancora una volta fa concludere che una rappresentazione in forma di concerto avrebbe dato risultati migliori.
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Sul fronte dei suoni le cose sono andate un filino (ma proprio un filino) meglio, grazie a Fabio Luisi: lui si dice innamorato di quest’opera e cerca di farne emergere i lati interessanti e innovativi; senza però riuscire a renderci digeribili quelli meno ispirati: insomma, una direzione onesta e dignitosa, ma non trascendentale.

Salome Jicia fu sparata sulla scena del ROF nell’agosto 2016 (quando era appena trentenne) nell’impervia parte di Elena (un’altra e ben più famosa Donna del lago, appunto) e poi tornò ancora a Pesaro come Dorliska e nello Stabat del 2017. Avendola sentita in tutte queste occasioni mi sento di affermare che in tre anni scarsi la georgiana di progressi ne ha fatti parecchi, migliorando la qualità degli acuti e la penetrazione della sua voce nelle note gravi (anche se qui mi pare di aver colto un paio di frasette furbescamente innalzate all’ottava superiore...) Ma in sostanza lei ha retto bene l’impegno e giustamente è stata la più applaudita alla fine.

Più che discreta la prestazone di un’altra giovane, la trentenne Laura Verrecchia, che ha impersonato la povera Isoletta mettendo in mostra una voce rotonda e ben proiettata, oltre che una buona caratterizzazone psicologica di questo personaggio assai sfigato.

Decisamente sotto il livello delle signore le prestazioni dei maschi: l’Arturo di Dario Schmunck è piuttosto incolore (chissà, forse gli riuscirebbe meglio la versione-Rubini!) e appena meglio risulta essere Serban Vasile in Valdeburgo. I due non entusiasmano comunque nei loro incontri-scontri, che dovrebbero essere fra i momenti più pregnanti dell’opera.

Le altre tre voci maschili (tutte provenienti dall’Accademia del Teatro) su un livello di onesta sufficienza: il Priore di Adriano Gramigni non spicca per autorevolezza (parlo della voce, cavernosa e ingolata, e non della svettante presenza scenica); Dave Monaco è un Osburgo piuttosto opaco (in tutti i sensi) e Shuxin Li è un Montolino anonimo, proprio come il Priore: imponenza scenica, ma canto da migliorare assai.

Più che buona la prestazione del coro di Lorenzo Fratini, che nell’opera riveste un ruolo di primo piano, spesso a supporto dialogante con i protagonisti.
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Che dire, in conclusione? Che questa riapparizione dell’opera a Firenze dopo 189 anni forse meritava qualcosina di più? Ieri per la verità l’accoglienza è stata abbastanza calorosa, da parte di un pubblico assai folto e soprattutto (cosa che fa un gran piacere) imbottito di frotte di giovani e giovanissimi!

18 maggio, 2019

laVerdi 18-19 - Concerto n°29


Secondo appuntamento con Robert Trevino per l’integrale delle sinfonie di Brahms. Ieri (replica domani) è stata la volta delle 3 e 4, composte (come la prima coppia, del 76-77) a stretto giro l’una dall’altra (83-85). Poi, a parte il doppio concerto, Brahms abbandonerà la grande orchestra e le grandi forme per ritornare, in fondo, alle sue origini liederistiche, cameristiche e corali, peraltro ora temprate dalle esperienze sinfoniche.

Si parte quindi con la Terza, in FA maggiore. Dai tempi di Hanslick si usa dire che la musica di Brahms è assoluta, in opposizione a quella a programma di Liszt, di Wagner (ovviamente) di Strauss e anche di Mahler. Ma allora come si spiega che una musicista raffinata, colta e sensibile come l’amata Clara (Schumann) nel felicitarsi con l’autore per la sua Terza gli confida di vederci i boschi e le foreste, i boscaioli inginocchiati ai piedi di una cappella nel verde, e ancora lo sciacquio del ruscello ed il ronzio degli insetti?

In realtà a questa, come a qualunque altra sinfonia o musica in genere, si possono appiccicare dall’esterno tutti i programmi di questo mondo, quanto infinite sono le sensazioni che ciascuno di noi può provare ascoltando quei suoni.

E questa Terza non comincia per caso con un motivo preso da un’altra Terza, precisamente quella dell’amato Schumann, esplicitamente sottotitolata renana? E non era proprio il Reno che Brahms poteva ammirare dalle finestre della casa che lo ospitava a Wiesbaden mentre componeva la Terza? Ma c’è di più: se in quel tema di Schumann sostituiamo la tonica di partenza (SOL) con una sesta (MI) non troviamo forse l’incipit del motivo - assolutamente renano - del Weia-Waga di Wagner (che poi è anche quello del Sonno e dell’Uccellino del bosco?) Beh, ce n’è abbastanza per ripensare certe categorie piuttosto stucchevoli che ancora vengono usate per catalogare musiche e musicisti… 

Trevino? Ha letto - e sono pienamente con lui - quest’opera come un raffinato connubio fra romanticismo e decadentismo, una cosa piuttosto lontana dalla burbera serietà dell’Hamburger... Così ha attaccato l’Allegro con brio, appunto, con... brio! (spesso i direttori che si credono brahmsiani il brio lo dimenticano proprio.) Delizioso e lezioso l’Andante, dove le indicazioni espressivo, dolce vengono mirabilmente tradotte in suoni eterei. Un minuto buono di silenzio viene rispettato prima dell’attacco del Poco allegretto (un diminutivo del diminutivo) reso celebre da racconti e celluloide. Nell’Allegro finale resta memorabile l’avvicinamento - e poi l’esplosione dell’intera orchestra, ma degli ottoni in particolare - allo Höhepunkt, in FA maggiore.

Due secondi di braccia alzate dopo l’ultimo accordo in pianissimo precedono lo scrosciare degli applausi del pubblico. Trevino fa, come suo solito, il giro del palco per omaggiare da vicino tutte le prime parti (e i colleghi) delle diverse sezioni.   
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Ecco infine la Quarta. Brahms, da grande alchimista dei suoni, la apre con un trucco: prende due insulse serie di terze (prima discendenti e poi ascendenti) e ci ricava un tema raffinato che ci lascia stupefatti. Il tutto semplicemente introducendo quattro rivolti dell’intervallo di terza...

Motivo che tornerà anche nel finale, dopo la variazione 29. Finale a sua volta costruito prendendo un tema (8 battute) di Bach (dalla Cantata Nach dir Herr verlanget mich, BWV150, Ciaccona Meine Tage in den Leiden, basso) sul quale Brahms costruisce un colossale movimento di passacaglia! In mezzo, l’Andante moderato, un Brahms che si riconosce... a prima vista. E poi l’Allegro giocoso, degno in tutto e per tutto di... Beethoven!

Trevino? A differenza della Terza, qui mi pare usare un approccio abbastanza conservativo, nel senso che non forza mai i contrasti di agogica e dinamica, proponendo un Brahms tutto sommato rigoroso e austero. Certo non mancano momenti esaltanti, come l’Allegro giocoso, al cui termine uno spettatore (troppo esaltatosi, o poco... informato) ha urlato uno stentoreo bravo! Trevino non ci ha fatto caso ed ha attaccato la conclusiva passacaglia con grande risolutezza, mettendone in risalto le mille mutevoli facce. 

Parlare di trionfo non è esagerato. Prima ancora che dal pubblico, è dagli orchestrali (guidati da Dellingshausen) che sono arrivate manifestazioni di apprezzamento (innesco di applauso ritmato) al direttore texano, che ha ripetuto il suo giro fra le sezioni dell’orchestra per complimentarsi con tutti.

17 maggio, 2019

Il ritorno di Idomeneo... alla Scala


Ieri sera al Piermarini è andata in scena la prima di Idomeneo, tornato in Scala dopo quasi 10 anni dall’ultima comparsa (Chung nel 2009) che riprendeva l’edizione del Sant’Ambrogio 2005 dove si rivelò (almeno a noi di queste parti) un tipo (Daniel Harding) che ha poi fatto molta strada. Teatro con evidentissimi vuoti, anche in platea, vuoti ulteriormente allargatisi nell’intervallo (ahiahi...)

Sappiamo che la musica di cui Mozart rivestì Idomeneo è di un valore inestimabile, ma soprattutto inversamente proporzionale a quello del testo che il librettista Giambattista Varesco predispose per lui, mutuandolo da Antoine Danchet, oltre che dalla mitologia greca. Già la figura del protagonista ha contorni ambigui assai: sovrano illuminato ed amato dal suo popolo, valorosissimo combattente, addirittura testa di cuoio a bordo del cavallone-trappolone in quel di Troia, dove era sbarcato con una flotta di ben 80 navi cretesi. E – riportano le cronache – anche un gran bell’uomo, con il fascino del classico quarantenne in carriera. Insomma, un personaggio giganteggiante nel panorama mitologico dell’antica Grecia.

Però questo colosso d’acciaio mostra di avere i piedi di… cartapesta. Dico, non appena un po’ di maretta sorprende la sua nave di ritorno da Troia e ormai in vista di Creta, il colosso se la fa letteralmente addosso e per cercare misericordia dal manovratore-di-maree-e-marette (tale Poseidon o Nettuno che dir si voglia) cosa gli promette? Di fargli costruire un tempio in ogni città cretese? Di fare in suo onore un pellegrinaggio a piedi scalzi fino a Cnosso e Festo e ritorno? Di fargli dono di un tridente d’oro tempestato di perle e diamanti? No, lui fa molto di più, gli promette nientemeno che un sacrificio umano (allora andava di moda). Sì, ma di chi si tratta? Di se stesso, al fine di salvare i compagni? Di un figlio (stile Agamennone)? Di una nipotina? Toh, della suocera? Di un parente anche lontano? No no, gli promette di immolargli… il primo malcapitato che passa sulla spiaggia! Apperò che coraggio, che spirito di sacrificio, che lodevole abnegazione!  

E allora, scusate, che il malcapitato si riveli proprio essere il suo unico figlio Idamante, lui se lo è ampiamente meritato e pochi dubbi sussistono che fosse lo stesso protettore-degli-acquari (la didascalia della Pantomima recita: Nettuno riguardandolo con occhio torvo e minaccevole) a combinargli a bella posta quel simpatico incontro (lui stesso se ne capacita imprecando: spietatissimi dei, ma è lui che se l’è voluta!) Dopodichè, una volta in salvo, si mostra ipocritamente pentito – a frittata fatta! - della sua promessa. E per di più cerca poi con maldestri sotterfugi persino di disattenderla, attirandosi così le ulteriori ire di Nettuno (sotto forma del famelico mostro) col che procura una moltitudine di vittime innocenti al suo stesso popolo (per essere un sovrano illuminato non c’è davvero male...) Soltanto quando finalmente accetterà tutte le conseguenze del suo gesto inconsulto e (come Abramo con Isacco) si appresterà a vibrare il colpo mortale sul figlio, solo allora potrà trovare comprensione e perdono dal dio offeso, e comunque a condizione di farsi da parte e cedere il trono ad Idamante e ad Ilia, che si sono offerti - dandogli una bella lezione in fatto di spirito di sacrificio - come vittime da offrire a Nettuno.

Per insaporire la trama con un minimo di amori e gelosie assortite, ecco che su Creta convergono miracolosamente da lontani e opposti lidi due donne, che si contenderanno l’amore del futuro sovrano Idamante. Una arriva dal continente, in particolare da Argo-Micene, dopo aver compiuto con il fratellino una simpatica vendetta… facendo secchi la madre e l’amante di costei: trattasi di tale Elettra, figlia di Agamennone. L’altra invece è una nobile prigioniera di guerra: la troiana Ilia, figlia di Priamo, che Idomeneo ha spedito a Creta in anticipo su una delle sue 80 navi; guarda caso anche lei fa naufragio, ma Idamante la porta in salvo e così… nasce l’amore, che ovviamente è per Elettra come fumo negli occhi.

Completano il cast un confidente di Idomeneo, tale Arbace e il Gran Sacerdote di Nettuno, oltre ai cori del popolo cretese, di prigionieri troiani e di marinai al seguito di Elettra. In più si ode la Voce (o meglio il porta-voce) di Nettuno che reca il perdono e consente così il lieto fine (salvo che per Elettra, che toglie il disturbo proprio un attimo prima). 
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Beh, dobbiamo ammettere che il soggetto è deboluccio assai, ma ciò non impedì al Teofilo di costruirci sopra un autentico capolavoro, quasi rivoluzionario per quei tempi e per lo stesso percorso estetico del 24enne genio di Salzburg.

Musica che fu composta con tale sovrabbondanza (e anche con alcuni rifacimenti successivi alla prima di Monaco di Baviera del 1781, in particolare per Vienna, 1786) da non essere mai eseguibile integralmente! Ed anche in questa produzione della Scala i tagli abbondano, pur riguardando prevalentemente dei recitativi, che però in quest’opera sono quasi sempre accompagnati, e quindi ricchi di grande musica. Contrariamente a quanto riportato nella prefazione di Olimpio Cescatti al libretto, non viene reinserita nel recitativo del N°27 - prima dell’Allegro Ma che più tardi - l’aria di Idamante (No, la morte io non pavento). Viene in compenso eseguita nel finale - dopo il fantastico recitativo, in versione integrale - l’aria (N°29a) di Elettra (D’Oreste, d’Aiace).

Un discorso a parte meritano i balletti, che impreziosiscono musicalmente l’opera ma che, per ragioni drammaturgiche, vengono quasi sempre omessi: e lo furono anche nell’edizione del 2005 (Muti li eseguì quasi integralmente nel lontano 1990). Qui la locandina mette in evidenza la presenza del Corpo di Ballo scaligero, che in effetti si è presentato subito danzando... l’Ouverture! Dopodichè ha fatto brevi comparse qua e là, per tornare nel finale dell’opera. Cassato l’Intermezzo fra primo e secondo atto (concatenati senza soluzione di continuità) è stato invece eseguito un estratto del balletto finale (che peraltro Mozart stesso non indicò con precisione dove collocare e fu catalogato con numero K367, diverso dal K366 dell’opera!)

I tagli, che colpiscono in misura preponderante il lunghissimo atto finale, riducono la durata dello spettacolo a dimensioni normali (2h40’ netti) e in questa produzione viene operato un solo intervallo, fra il secondo e il terz’atto. Un’esecuzione (quasi) integrale (3h20’) e corredata anche di alcuni... extra si può ascoltare in rete: è quella diretta da Gardiner nel 1990

Diego Fasolis ha lasciato temporaneamente il suo amato barocco per cimentarsi in questo Mozart preromantico, subentrando al venerando von Dohnányi che Pereira aveva originariamente ingaggiato e che aveva preparato con il regista Hartmann le linee generali dello spettacolo. Fasolis spiega sul programma di sala di aver parzialmente rivisto quell’impostazione originaria: il risultato dell’operazione mi è parso piuttosto discutibile, ecco. La sua direzione è stata caratterizzata da grandi contrasti, fra fracassi eccessivi (vedi la secchezza dei colpi di timpano) ed altrettanto eccessivi languori. Accettabile la concertazione, almeno attenta a non coprire le (non potentissime) voci.

Il Coro di Bruno Casoni, beneficiato da alcuni tagli, ha mantenuto il suo ottimo standard abituale, negli interventi lirici come in quelli più drammatici (vedi chiusa del second’atto).

Il protagonista è Bernard Richter, tornato in Scala dopo le due non entusiasmanti visite del 2018 (Fierrabras e Giardiniera): la sua è stata una prestazione non più che discreta sul fronte musicale, piuttosto incolore su quello attoriale.

Da quando i castrati sono scomparsi (meno male...) dalla faccia della terra (quanto meno nei nostri paesi cosiddetti civilizzati) e quindi anche dalle scene, il ruolo di Idamante viene affidato a soprani o - più spesso, per non ammassarne addirittura tre (dopo Ilia ed Elettra) - a mezzosoprani. Così avviene anche qui, con la travestita Michèle Losier ad impersonare il figlio del Re. Anche a lei darò un voto di sufficienza e non di più: il suo Idamante mi ha assai poco emozionato, ad essere sinceri.  

La mite e dimessa Ilia è Julia Kleiter, che ha ben meritato, mostrando solidità negli acuti, anche se un filino carente nella cosiddetta ottava bassa.    

Alle mie orecchie (ma anche agli occhi) la migliore in scena è stata l’ex-accademica Federica Lombardi: che ha sostenuto brillantemente il difficile ruolo di Elettra, donna evidentemente segnata dalle pregresse vicissitudini famigliari (che pretende di imitare la sorellina Chrisothemis mettendo su famiglia sì, ma solo con un sovrano, mica pizza&fichi...) e dal carattere divenuto intrattabile. Voce corposa e benissimo gestita, nelle due arie arrabbiate come nei passaggi più lirici. Unanimi consensi per lei alla fine.

Nei panni del modesto (drammaturgicamente parlando) Arbace è Giorgio Misseri. Mozart però lo gratifica nientemeno che di due arie e lui se la cava con onore.

Buone cose ha fatto Kresimir Spicer nel suo isolato ma importante intervento (da Gran Sacerdote). Così come Emanuele Cordaro (Voce di Nettuno) esibitosi dal Palco Reale, che ormai è diventato una dépendance del palcoscenico: a lui è stata riservata la più corposa delle tre versioni del suo intervento musicate da Mozart. Dignitose/i le le due cretesi (Silvia Spruzzola e Olivia Antoshkina) e i due troiani (Massimiliano Di Fino e Marco Granata).

Pubblico, come detto, scarseggiante di numero e anche di entusiasmo: pochi e modesti applausi a scena aperta e qualche approvazione in più alle uscite finali. Ma certo non si può parlare di trionfo...
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La regìa di Matthias Hartmann (coadiuvato dal drammaturgo - quello che di solito inventa di bel nuovo il soggetto per il regista - Michael Küster) vorrebbe programmaticamente mostrare l’involuzione del rapporto fra potere e popolo: un potere insicuro e ossessionato dalle proprie colpe e un popolo che rischia di andare allo sbando senza una guida sicura; tutti salvati dall’intervento dell’amore, quello di Ilia per Idamante. Buone le intenzioni, meno efficace la loro realizzazione. Comunque va riconosciuto al regista (e al suo drammaturgo) di non aver inventato nulla di gratuito, insomma di averci propinato onestamente il soggetto originale. Nulla di trascendentale per ciò che attiene alla gestione di movimenti e atteggiamenti di personaggi e masse.

La scena (di Volker Hintermeier) è fissa, come contenuti (un’enorme testa di minotauro e lo scheletro, o il fasciame, di una nave) e però continuamente girevole, in modo da mettere sempre in primo piano uno dei due componenti. Le luci di Mathias Märker sono sapientemente impiegate per creare di volta in volta l’atmosfera che caratterizza le varie scene. Impressionante, in particolare, quella della tempesta.

I costumi di Malte Lübben sono un misto di fogge e stili diversi, nessuno precisamente inquadrabile (certo nulla di cretese mitologico!) ma tutti mediamente plausibili.

Il Corpo di Ballo della Scala ha interpretato le coreografie di Reginaldo Oliveira, improntate a modernismo assai lontano (credo io) da ciò che nel ‘700 (e oltre) si mostrava sulle scene.

In conclusione, uno spettacolo dignitoso ma non trascendentale: come detto, alla fine il pubblico (rimasto) ha mostrato moderata soddisfazione; personalmente devo dire che speravo in qualcosa di più e meglio...