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da stellantis a stallantis

30 settembre, 2017

laVerdi 17-18 – Concerto n°2


Terza consecutiva presenza sul podio de laVerdi per Patrick Fournillier (lo rivedremo altre due volte nella stagione) che ci guida in una promenade attraverso l’800 operistico francese (con escursione nel primo ‘900) insieme al soprano fiammingo 35enne Iris Hendrickx (nuovo cognome d’arte della Luypaers).

Programma francamente modesto, e non a caso l’Auditorium è rimasto semideserto. La Hendrickx deve aver scambiato il concerto per una sfilata di moda, sfoggiando ben due abiti talmente ingombranti da quasi impedirle l’accesso e l’uscita dal proscenio... Dirò malignamente che sono le cose migliori che ha saputo presentare: voce che negli acuti ha un timbro francamente sgradevole (urla piuttosto che canto) e personalità interpretativa un po’ deboluccia, ecco.

L’Orchestra ha vissuto su qualche assolo (Scarpolini, Santaniello, Stocco, Amatulli, Piva) e su pochi sprazzi di carica dei bersaglieri (Carmen e Samson) per il resto normale amministrazione.

Alla fine bis in pieno ‘900 (Poulenc: Les chemins de l’amour) ma resta la domanda: perchè niente di Meyerbeer, Auber, Halévy? Troppo impegnativi per la voce ? Evabbè, almeno... che non si ripeta.

29 settembre, 2017

27 settembre, 2017

Il Verdi-festival parte per le crociate


Domani 28/9 a Parma si apre l’annuale festival verdiano con una nuova produzione di Jérusalem.  

Singolari le analogie che accomunano le vicissitudini della nascita e poi della vita di quest’opera verdiana con quelle del Siège de Corinthe di Rossini. Verdi percorse infatti nel 1847 (quasi) pari-pari la strada aperta 20 anni prima dal grande Gioachino per la conquista di Parigi (strada che già era stata battuta anche da Donizetti): proporre come prima opera francese un adattamento-rifacimento di un lavoro già presentato e collaudato in Italia. Rossini scelse Maometto II e lo fece usare ai librettisti franco-italiani (Soumet&Balocchi) come base di partenza per la creazione del Siège, poi musicato impiegando buona parte delle note del Maometto, accanto a moltissime composte all’uopo. Successivamente il Siège venne ritradotto in italiano e importato da noi come L’assedio di Corinto, la cui fortuna per la verità fu assai modesta, schiacciato fra i due originali, napoletano e parigino.

Ebbene, una trafila quasi identica caratterizzò la nascita e la vita della Jérusalem: Verdi, richiesto dal più grande teatro parigino di un’opera francese, decise – per ragioni di tempo ma soprattutto per evitare rischi e brutte sorprese – di riciclare una sua opera già collaudata con discreto successo in Italia: I Lombardi alla prima crociata. Così ne affidò la trasformazione (in Jérusalem) ai librettisti francesi Royer&Vaëz, che scrissero un nuovo testo sul quale Verdi trasportò in parte la musica dei Lombardi e ne compose parecchia di completamente nuova (inclusi gli immancabili balletti, tassativamente previsti dal capitolato tecnico de l’Opéra). A fronte del buon successo dell’impresa, Jérusalem fu tradotta in italiano (in Gerusalemme) per essere importata sul nostro mercato. Dove però, proprio come il rossiniano Assedio, fece completamente cilecca, anche lei schiacciata fra l’originale italico e la versione parigina.

Un eccellente studio di David R.B. Kimbell (apparso a gennaio del 1979 sulla rivista Music and Letters) intitolato Il primo rifacimento di Verdi: Lombardi e Jérusalem, analizza le principali differenze (testo e musica) fra le due opere. Il confronto fra i libretti di Solera e di Royer&Vaëz è abbastanza impietoso (per il povero Solera): il testo francese appare nettamente superiore a quello italiano, sia dal punto di vista strettamente drammaturgico (l’organizzazione dell’intero soggetto) che da quello letterario.

Quanto alla musica, Kimbell analizza le differenze fra le due opere distinguendo fra imprestiti (parti riprese pari-pari o con minimi ritocchi), rifacimenti (dove l’originale venne modificato in funzione del nuovo testo, ma a volte semplicemente... migliorato) e novità (musica quasi completamente scritta ad-hoc); vengono poi elencate le parti dei Lombardi puramente cassate. Riassumo nella tabella sottostante (l’oggetto è Jérusalem) queste differenze (i numeri esposti si riferiscono a singoli movimenti musicali, es.: recitativo, tempo di mezzo, cabaletta, scena, etc.)

atto
totale
imprestiti
rifacimenti
nuovi
esclusi
I
20
7
4
9
8
II
16
5
5
6
8
III
15
2
3
10
2
IV
10
-
6
4
6
Totale
61
14
18
29
24

Come si può notare, quasi la metà (29 su 61) dei movimenti è nuova, mentre ben il 42% degli originali dei Lombardi è stato escluso da Jérusalem e solo 1/4 sono quelli re-impiegati nella nuova opera senza sostanziali modifiche.

L’analisi di Kimbell può essere riassunta – proprio nei minimi termini – così: nei meno di 5 anni che separano Jérusalem dai Lombardi, e grazie al mercato francese, Verdi smise di usare la vanga!

26 settembre, 2017

Il Tamerlan-baffone di Livermore


Ier sera la Scala ha ospitato la quarta delle sette recite di Tamerlano. Per le considerazioni legate alle scelte dei contenuti musicali rimando alla mia breve nota scritta dopo la prima radiofonica del 12 scorso: ribadisco qui le perplessità rispetto ad alcune di tali scelte. Come anche la critica all’orario d’inizio dello spettacolo, che andava tassativamente anticipato, come  minimo, alle 19:30, se non alle 19.

Parlo invece subito dell’allestimento di Davide Livermore. Spettacolo di alto livello, molto ben curato nelle scene e nella recitazione dei protagonisti; si può certo dire che sia – nel suo complesso – uno spettacolo precisamente modellato sul teatro musicale barocco (e londinese in particolare): che privilegiava grandi spiegamenti di mezzi tecnologici a supportare drammi-per-musica aventi come oggetto tipiche vicende umane (il potere, l’amore, l’odio, la vendetta, ...) attribuite a personaggi fantastici o pseudo-storici, vicende come questa versificata da Nicola Haym e musicata da par suo dal grande Georg Friedrich.

Come osserva giustamente il regista nelle note allegate al programmma di sala (titolate L’Antistoria) nessuno all’inizio del ‘700 si sognava nè pretendeva, assistendo all’opera, di approfondire la conoscenza di un pezzo di storia vecchio di (più di 3, nel caso) secoli: quel pubblico (e a maggior ragione noi che arriviamo dopo quasi altri 3 secoli) voleva godersi senza problemi il teatro del dramma umano su cui si basa il libretto. Dove i personaggi storici come Tamerlano&C vengono impiegati dagli autori dell’opera quasi come degli archétipi, prescindendo completamente dalle loro reali vicende vissute, per presentarne di totalmente inventate: sono in sostanza poco più che un pretesto onde costruirci sopra un mirabile spettacolo e della grande musica. E la cosa funziona proprio in quanto la storia autentica di tali personaggi e delle relative relazioni si perde in un passato quasi mitologico, dove realtà e finzione si possono facilmente confondere, o mescolare, o scambiare. Ecco quindi fiorire i Giulio Cesare, gli Orlando, i Rinaldo, come più tardi - in Mozart - troveremo Idomeneo, Silla, Mitridate, Tito e poi - in Rossini - Ciro, Tancredi, Elisabetta, e ancora - in Verdi – Nabucco, Attila, Macbeth, Boccanegra... e giù giù fino alla Lucretia di Britten, tanto per chiudere il ciclo e tornare a Londra.   

Livermore, per questo suo esordio scaligero, sceglie di ri-ambientare l’opera ai tempi della Rivoluzione dell’ottobre 1917 (di cui siamo proprio in piena ricorrenza centenaria) e forse, se si può muovere un appunto alla sua scelta, è di essersi troppo, e pericolosamente, avvicinato all’attualità, calando il soggetto originale su personaggi e vicende a noi ancora troppo vicini e vividi nella memoria per non avvertire l’assurdità di tale accostamento. Poichè, grazie a Livermore, ci troviamo di fronte a Nicola II (che non si suicidò affatto, ma sappiamo bene come venne orrendamente passato per le armi con l’intera famiglia); a sua figlia (ma quale poi delle quattro?); a Stalin, a Lenin e a Rasputin, personaggi dei quali conosciamo a menadito vita-morte-e-miracoli, a partire dai loro volti per finire alle vicende umane e alle loro reciproche relazioni.   

Ecco che, allora, mostrare Stalin che bistratta Lenin e cerca di sottrargli la figlia dello Zar, sua promessa sposa, rischia di farci sorridere, invece che emozionare, così come scoprire che Rasputin è stato resuscitato per essere posto al servizio non già del suo Zar, ma del povero Lenin, del quale si adopera per facilitare le nozze con una rappresentante dell’alta nobiltà (la figlia dello Zar, nientemeno!) 

Insomma, qui con l’antistoria mi pare si sia un filino esagerato. Proviamo ad immaginare come avrebbero reagito i londinesi di metà ‘700 se un regista avesse ambientato l’opera un secolo prima, protagonisti Carlo I e Oliver Cromwell (?!?)   

Strettamente legati all’ambientazione che il regista ha scelto per la sua messinscena sono poi – dichiaratamente – alcuni accorgimenti (registici e scenici) del grande Eisenstein, aedo della Rivoluzione bolscevica. Che funzionano assai bene, allo scopo di dare un po’ di sapore ad un soggetto dove di azione non v’è quasi nulla e dove le classiche arie-col-da-capo sono sempre micidiali da gestire scenicamente.

E devo dire che anche le trovate di Livermore non sempre riescono ad evitare momenti di stagnazione o ripetitività. Che ad esempio si manifestano nel primo atto, con il vagone ferroviario in cui i protagonisti si muovono sempre scendendo da una porta e risalendo dall’altra o viceversa, oppure compaiono e scompaiono al centro della carrozza, la cui fiancata si apre e richiude per scorrimento. Altre volte il regista, per animare la scena, ricorre ad ammiccamenti a-luci-rosse, come all’inizio del second’atto, ma anche per lui è difficile inventarsi qualcosa, sempre nell’atto centrale, per accorciare (nella percezione dello spettatore) l’interminabile recitativo che precede il trio Asteria-Tamerlano-Bajazet, e che d’altra parte è essenziale per preparare lo sviluppo della vicenda.

Ma tutto sommato si tratta di uno spettacolo eccellente, cui il pubblico non oceanico del Piermarini ha riservato un’accoglienza assai calorosa.  

Che è stata riservata anche ai protagonisti della parte musicale, Fasolis in-primis, che come suo solito si è sdoppiato nelle vesti di direttore ed accompagnatore al cembalo (uno dei tre dislocati in buca).

Rispetto all’audizione via etere, confermo le perplessità su Domingo, che al di là della voce fatalmente usurata fatica a proporsi come interprete squisitamente barocco: troppe incrostazioni verdiane ne caratterizzano il canto; come attore nulla da eccepire, e non è escluso che lui abbia scelto questo ruolo (di tenore... non spinto) perchè si avvicina, per molti aspetti, a quelli di baritoni che lui ha impersonato di recente, come Simone e Rigoletto, che comportano scene finali di alta drammaticità che lui sa gestire come pochi.

I due controtenori (Mehta e Fagioli) hanno sciorinato tecnica sopraffina e, a differenza del Topone, alta specializzazione (per così dire) in questo genere di opera. Peccato che le loro vocine fatichino assai a percorrere le decine di metri che separano palco da loggione... La vecchia, cara e mai abbastanza rimpianta Piccola Scala sarebbe stato l’ambiente ideale per valorizzare le loro qualità.

Discrete le prestazioni delle due nobildonne, alle quali scambierei gli elogi fatti dopo l’ascolto radio: brave entrambe, ma un filino sopra (per me) la Crebassa rispetto alla Schiavo. Non più che dignitoso (anche qui gli abbasso il voto) l’apporto di Senn, che ho trovato un po’ troppo vociferante (forse anche lui preoccupato dai grandi spazi da... perforare) e non sempre perfettamente intonato.

Ma il pubblico non ha mancato di applaudire tutti, Domingo in testa.

22 settembre, 2017

laVerdi 17-18 – Concerto n°1


Dopo il tradizionale rientro dalle vacanze (si fa per dire) festeggiato con il concerto al Piermarini, laVerdi torna nel suo Auditorium per riprendere il cammino della stagione 2017 (sarebbe il concerto n°26) che però, stante il ritorno al calendario scolastico, diventa l’inizio della stagione 2017-2018 (quindi 9 concerti quest’anno e 22 da gennaio a giugno prossimi).

Sul podio ancora (e lo sarà anche la prossima settimana) il neo-direttore-principale-ospite Patrick Fournillier, con un programma mozartiano arricchito da una (quasi) primizia assoluta. Costituita da una versione rinnovata di Orfeo. Flebile queritur lyra di Silvia Colasanti, una composizione per voce e (piccola) orchestra che ebbe la sua prima a Roma martedi 10 novembre 2009, come concerto per voce e ensemble, recitata da Maddalena Crippa. In seguito rappresentata in varie località, fra cui Parigi (2014) e Venezia (2016, dove per l’occasione fu tenuta a battesimo una versione per clarinetto e pianoforte soli, recitata da Sandro Cappelletto). Per questa ripresa milanese era prevista l’interessante presenza della grande Natalie Dessay, che già ha recitato il melologo di recente in Francia. Ma l’inopinato forfait del celebre soprano ha determinato il richiamo in servizio-permanente-effettivo della voce primigenia della Crippa.

I testi del lavoro sono tratti dai libri X (Orfeo ed Euridice) e XI (Morte di Orfeo) delle Metamorfosi del sommo Ovidio. In particolare, il titolo viene dal passaggio (libro XI) che recita l’universale lutto per la morte dell’aedo di Tracia. Qui i versi conclusivi del lavoro della Colasanti:

Membra iacent diversa locis,
caput, Hebre, lyramque excipis:
et (mirum!) medio dum labitur amne,

flebile nescio quid queritur lyra,
flebile lingua murmurat exanimis,
respondent flebile ripae.
...
...
Umbra subit terras,
et quae loca viderat ante,
cuncta recognoscit
quaerensque per arva piorum
invenit Eurydicen cupidisque
amplectitur ulnis;
hic modo coniunctis spatiantur
passibus ambo,
nunc praecedentem sequitur,
nunc praevius anteit                    

Eurydicenque suam iam tuto
respicit Orpheus.
Disperse intorno giacciono le membra:   capo e lira li accogliesti tu, Ebro;            
è un prodigio: mentre fluttuano 
in mezzo alla corrente,
la lira, non so come, flebile si lamenta,
la lingua esanime mormora un flebile
gemito e flebili rispondono le rive.
...
...
Sottoterra scende l'ombra di Orfeo,
e tutti riconosce i luoghi
che aveva visto prima;
poi, cercandola nei campi dei beati,
ritrova Euridice e la stringe
in un abbraccio appassionato.
Qui ora passeggiano insieme:
a volte accanto,
a volte lei davanti e lui dietro;
altre volte ancora è invece
Orfeo che la precede
e, ormai senza paura, si volge
a guardare la sua Euridice.

Insomma: vita e morte, alfa e omega dell’esperienza umana, evocati dalla musica, che nell’immagine poetica ancora sprigiona dal capo mozzato dell’aedo e dal suo strumento, trasportati dalla corrente dell’Ebro.

Maddalena Crippa, in un lungo e candido pigiama-palazzo-con-spacchi-laterali, è stata la protagonista della serata, senza voler togliere alcunchè ai meriti della Colasanti (entrambe lungamente applaudite alla fine). Talmente drammatico e profondo è il testo ovidiano - e così coinvolgente la lettura che ne dà la recitante - che finisce per essere quasi soverchiato, più che sorretto, dai suoni di una (grande) orchestra. Suoni che hanno certo momenti di pura emozione, primo fra i quali l’intervento del corno solo (di Giuseppe Amatulli) che sottolinea l’ascesa di Orfeo dagli inferi provenendo da dietro le spalle del pubblico (che, come Orfeo, si gira a guardare...)

Ora, dopo aver impiegato un piccolo ensemble, poi addirittura pianoforte e clarinetto soli, e oggi un’orchestra sinfonica a ranghi completi, chissà come giudicherà il suo lavoro la stessa Autrice... Personalmente – ma è una pura illazione – sarei propenso a privilegiare le versioni (come l’originale del 2009) per formazioni strumentali ridotte, credo più adatte a ricreare l’atmosfera e l’ambientazione mitologica del soggetto.  
___
Ad incastonare l’opera della Colasanti il Mozart del Flauto, di cui è stata eseguita in apertura l’Ouverture, e poi dell’inflazionata K550, di cui Fournillier ha proposto una lettura... effervescente: penso in particolare all’Andante, trasformatosi sotto la sua bacchetta in Allegretto. Per contrappasso, inversione di tempi nel Trio, proposto ad un tempo assai sostenuto. In ogni caso, grandi applausi per tutti al termine di una serata davvero interessante.   

21 settembre, 2017

MITO – Chiusura a Milano con Chailly


Riccardo Chailly e la Filarmonica scaligera hanno chiuso ier sera all’Arcimboldi la sessione milanese del MITO (questa sera si ripeteranno per chiudere la manifestazione, sotto la Mole) con un concerto di musiche novecentesche, seguendo un percorso a ritroso che partendo dal ’67 ci ha fatto risalire al ’45 e da qui al ’16 (poi al ’24). Percorso che l’onnipresente Gaia Varon ha presentato in senso contrario, sottolineando le grandi diversità formali e sostanziali fra le opere dei tre autori in programma. L’anfiteatro della Bicocca presentava parecchi vuoti... ma è talmente enorme che riempirlo è impresa davvero ardua.  

Ha aperto la serata Lontano di György Ligeti, che qui si può ascoltare diretto da uno dei più strenui ammiratori del musicista ungherese nato in Transilvania, Claudio Abbado con i Wiener nel 1988.
Musica che sembra provenire dallo spazio siderale (è in effetti parente di quella che Kubrick impiegò nel celebre 2001, a Space Odissey) a partire dalla quinta vuota (LAb-REb) dei due violoncelli soli sulla quale flauti, clarinetti e fagotti in sequenza (seguiti poi da corni, viole, oboe, tromba, violini...) tutti in pppp e/o con sordina, fanno nascere la prima delle tre ondate sonore che – separate da due intermezzi – richiamano visioni ancestrali, oniriche, come di galassie che si vanno formando per continua espansione ed arricchimento (grazie alla cosiddetta micropolifonia che ne costituisce il tessuto sonoro) salvo poi magari finire risucchiate da qualche buco nero... ultimo dei quali evocato dal diminuendo-morendo-niente dei due clarinetti e clarinetto basso.   

Musica unica e irripetibile, uscita dalla mente di un essere umano la cui esistenza aveva attraversato i tempi più bui del ‘900, passando dai campi di lavoro del ’44 (e da quelli di concentramento – Mauthausen e Auschwitz - che ospitarono fratello e genitori) all’Ungheria del ’56. Forse oggi non ci fa più quell’effetto di sconvolgente novità, ma resta un’esperienza di ascolto davvero emozionante, che i Filarmonici e il loro Direttore hanno saputo rinnovare con grande efficacia.
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Julian Rachlin ci ha poi proposto quello che è in pratica il canto del cigno di Béla Bartók, il Concerto per viola, composto nel 1945 - su commissione del famoso William Primrose - a poche settimane dalla morte e rimasto purtroppo allo stato di abbozzo (la linea del solista e scarne-scarse indicazioni di strumentazione) poi completato dal fido allievo Tibor Serly. Su una pagina del manoscritto si trova anche l’indicazione dei tempi di esecuzione del Concerto: 20’15” (10’20” + 5’10”+ 4’45”):


Qui un’ormai storica interpretazione del grande Yehudi Menhuin. Pezzo di grande modernità, a dispetto della struttura assolutamente classica dei tre movimenti, la cui verve non è per nulla offuscata dalla miseria delle condizioni materiali in cui versava l’Autore quando vergava queste note sui righi. Rachlin l’ha interpretata da par suo, ben spalleggiato dall’orchestra, che evidentemente Serly (dovendola... inventare) ha tenuto su un profilo di... non ingerenza sulle linee bartokiane della viola. Applausi e ripetute chiamate per il 43enne lituano, che si sottrae a un bis uscendo per l’ultima volta... a mani vuote!
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Dopo la pausa, i due più eseguiti poemi della trilogia romana di Ottorino Respighi: Fontane e Pini di Roma. Debussy-iano il primo, Strauss-iano il secondo, si potrebbe arguire con massima semplificazione, due output certamente influenzati dall’atmosfera del post-tardo-romanticismo ed estranei alle novità (digeribili – Stravinski – o meno – Schönberg&C) di quel primo quarto del secolo scorso.

L’Orchestra li suona assai di frequente e non si smentisce, guidata con polso sicuro e gesto energico da Chailly. Così c’è modo anche per un encore, altro cavallo di battaglia degli scaligeri (qui mentre lo provano in quella che per anni fu la casa del Direttore!)

20 settembre, 2017

laVerdi va in Spagna col MITO


L’Orchestra milanese ha fornito il suo contributo al MITO con un concerto (dato a Torino il 18 e replicato ieri in Auditorium) intitolato Paesaggi spagnoli, introdotto da Gaia Varon. Sul podio un giovane direttore, ovviamente iberico in omaggio al programma, il 34enne Andrés Salado da Madrid. 

Il primo brano in programma è una primizia per l’Italia, il Concerto per violino e orchestra, titolato Al-Andalus, del 32enne compositore americano Mohammed Fairouz (il nome ne tradisce chiaramente l’origine araba). L’Andalusia è quindi il soggetto ispiratore del concerto, composto nel 2013 per la violinista americana Rachel Barton Pine e l’Orchestra dell’Alabama e qui interpretato dalla 30enne cicciottella albionica Chloë Hanslip.

Che dire: che nel terzo millennio si può ancora comporre musica tonale come ai tempi di DeFalla e Ravel (che seguiranno nel programma) senza per questo apparire retrogradi e scopiazzatori... Un brano che nella forma, ma anche nei contenuti, è assai lontano da quella del concerto classico, in realtà si tratta di tre fantasie, scritte si direbbe con tecnica durchkomponiert, dove è difficile, almeno a primo ascolto, riconoscere temi ricorrenti o chiare strutture formali. I tre movimenti si ispirano programmaticamente ad altrettanti personaggi dell’epoca d’oro della civiltà islamica (800-1200) prosperata nella Spagna moresca e – ahinoi – inariditasi dopo la riconquista cattolica e mai più capace di un Rinascimento quale quello maturato da noi grazie alla progressiva conquista del principio di laicità delle istituzioni, tuttora pervicacemente negato dal mondo islamico. Che peraltro noi tendiamo a criminalizzare in-toto come ben sa lo stesso Fairouz, oggetto di tutti i sospetti che oggigiorno nascono su chi ha la sola colpa di avere nomi di origine araba.

Il primo movimento (Ibn-Firnas’ flight) è un’orgia sonora nella quale il suono del violino solista scompare, subissato da quelli dell’orchestra, salvo sporadicamente isolarsi in slanci... aerei con salite a note acutissime in armonici; deve durare 11 minuti, quanto il primo volo di Abbas Ibn Firnas, precursore nientemeno che dei fratelli Wright! Per contrappasso, il secondo movimento (The Ring of Doves, tratto da un trattato sull’amore di Ibn Hazm) è per lunghi tratti una melopea per violino solo, cui si accompagnano qua e là il violino di spalla, il clarinetto, il violoncello e la tromba, che ricorda scopertamente ambientazioni orientaleggianti. Il conclusivo movimento (Dancing Boy, poesia di Ibn Kharouf) mescola stilemi prettamente arabi ad altri andalusi e gitani, esposti dal violino (in quattro sezioni, corrispondenti alle stanze della poesia) che trascina l’intera orchestra verso un’esilarante conclusione.

Beh, una cosa godibile, che anche il pubblico – ieri foltissimo, direi sopra la media delle presenze alla stagione principale, segno che MITO attira... – ha mostrato di apprezzare assai.
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Lilya Zilberstein, un’affezionata visitatrice dell’Auditorium, è poi arrivata per porgerci il celebre Noches en los jardines de España di Manuel  deFalla, già ascoltata qui meno di un anno fa (con altri interpreti). La pianista russa ma ormai cosmopolita ha sciorinato la sua solidissima tecnica e la grande sensibilità nel percorrere l’immaginario cammino notturno da Granada a Córdoba, dove la Spagna di deFalla, composta a Parigi, mutua atmosfere... francesi. Anche qui grande successo e ripetute chiamate.
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Ha chiuso in bellezza il BolerodiRavel, che laVerdi ormai suona a memoria (anche perchè le note da ricordare sono davvero poche, solo che vanno ripetute qualche dozzina di volte...) Ivan Fossati, primo percussionista dell’Orchestra, ha ancora una volta preso posto sul suo trespolo proprio davanti al Direttore e ha segnato per tutto il tempo il ritmo ai colleghi; sono (non una di meno) ben 169 ripetizioni di queste due battute:


Insomma, roba da uscirne praticamente pazzi! Ma il bravo Ivan non manca un colpo e si merita alla fine ben due chiamate al proscenio! Trionfo per tutti e... viva MITO!

15 settembre, 2017

MITO – Rimpatriata di migranti russi in USA


In ambito MITO, ieri sera il Conservatorio di Milano (in una Sala Verdi piena come un uovo) ha ospitato l'OSN-RAI in un concerto tutto russi-in-america (!) Già, perchè i due autori dei pezzi in programma rispondono ai nomi di Rachmaninov e Stravinski, che nei primi decenni del ‘900 pensarono bene di stare alla larga da Russia e, poi, URSS per guadagnarsi fama in Europa e poi dollaroni in USA. Ma anche i due interpreti, Kirill Gerstein e Semyon Bychkov, pur non minacciati da subdoli nipotini di Stalin, sono ormai di casa in America e la Russia la visitano solo se hanno dei buoni ingaggi.

Dopo la chiaccherata introduttiva di Gaia Varon abbiamo ascoltato il più celebre dei 4 concerti di Rachmaninov, il Secondo (quello composto dopo la guarigione dalla semi-pazzia che aveva colto il giovane Sergei per colpa di... Glazunov) che Gerstein ha suonato mille volte e anche un anno fa con i Berliner (anche lì con Bychkov). Musica tanto tardo-romantica che il severo Hanslick (non credo abbia avuto occcasione di ascoltare il concerto) avrebbe tacciato di olezzare di vodka, giudizio a suo tempo affibbiato al concerto per violino di Ciajkovski. E questo Rachmaninov, da certi punti di vista, è anche peggio del modello...

Gerstein e Bychkov non ci fanno mancare nemmeno un grammo della melassa, l’Adagio sostenuto è proprio strappalacrime, il finale (da incorniciare qui l’attacco delle viole – messe al proscenio - del secondo tema) trascina il pubblico all’entusiasmo. Così il robusto Kirill ci propina il Rachmaninov giovanissimo dell’op.3, versione originale, conclusa da un impertinente fff, al posto del ppp indicato sullo spartito. Per lui davvero un trionfo.
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Ha chiuso la serata lo stravinskiano Sacre du Printemps, autentico banco di prova per ogni orchestra e ogni direttore. E qui orchestra e direttore hanno dato il meglio, sciorinando in modo invero superlativo questa mirabile barbarie musicale, che dopo più di un secolo ancora fa rizzare i capelli in testa anche a chi – come me – li ha persi da tempo. Alla fine tifo da stadio per tutti e ripetute chiamate al grassottello Semyon, per l’occasione bardato con uniforme regolamentare (cosa rara a vedersi da lui).   

Per i giandoja, si replica domani sera a casa dell’OSN-RAI.

13 settembre, 2017

Alla Scala un Tamerlano à-la-carte


Ieri sera Radio3 ha trasmesso la prima delle sette recite di Tamerlano nella nuova produzione scaligera, targata Fasolis-Livermore, appositamente approntata per il battesimo dell’opera al Piermarini, avvenuto a soli 293 (!) anni dall’esordio londinese.

È una nuova tappa del percorso barocco (o... baroccaro?) del Teatro, che ha in Diego Fasolis il suo mentore per quanto attiene la parte musicale: approccio HIP (no, non è l’incipit dell’esclamazione di giubilo...) che significa – oltre a rispolverare strumenti d’epoca - anche fare un po’ i c... propri quanto a contenuti da proporre al pubblico, in ciò seguendo le mode dei tempi andati, dove ad ogni ripresa dell’opera si operavano (da parte dell’Autore, però) rimaneggiamenti, tagli, aggiunte e varianti giustificate dai più svariati motivi, in specie le qualità (o i limiti) ma anche le fisime dei cantanti coinvolti nella recita.

E a proposito di cantanti, qui c’è il vecchio Topone che non sa più cosa inventarsi per sbarcare il lunario: così, dopo il downsizing da tenore a baritono (rigoletti, simoni &C) adesso torna a fare il tenore, però... mezzo tono sotto (i 415Hz del diapason barocco...) In più, dato che il fiato è... corto, ecco che si fa aiutare dal Direttore con qualche sapiente trucco: nel primo atto, aria Ciel e terra armi di sdegno, la ripresa della prima strofa dovrebbe avvenire immediatamente al termine della seconda... invece Fasolis fa un da-capo anche delle 8 battute strumentali, così il nostro ha il tempo di respirare. Nel second’atto, aria A’ suoi piedi padre esangue, vengono omesse brevi ripetizioni di versi, ma il colmo (scandaloso, invero) si raggiunge nel terz’atto, laddove l’aria Empio, per farti guerra si riduce ad un moncherino, un’arietta, causa taglio totale della seconda strofa (E l’ira delli Dei) e della conseguente ripresa della prima!

Ma anche il controtenore protagonista - Bejun Mehta – ha le sue fisime, così nel second’atto rifiuta di cantare Bella gara e la rimpiazza infilando nel Tamerlano un’aria da Amadigi (Sento la gioia) con tanto di trombette.

Per il basso Christian Senn si rispolvera nell’atto terzo (e non è per niente un male, in sè) il recitativo e aria (Nel mondo e nell’abisso) di Leone composti da Händel appositamente per Antonio Montagnana per le riprese del 1731; però si cassa proditoriamente, oltre al recitativo antistante, anche l’aria di Andronico Se non mi rendi il mio tesoro.

Il libretto del Teatro reca un’inversione di numeri (70b e 70c) ma in realtà il 70c viene omesso e si passa direttamente al duetto Coronata di gigli, che però viene mutilato della seconda strofa (E fra mille facelle) e della ripresa della prima.

Può essere che alcuni interventi siano motivati dall’esigenza di... stringere i tempi, il che però non ha scongiurato che lo spettacolo terminasse fuori tempo massimo rispetto all’ultima corsa della linea1 del metro’ (stazione Duomo, ore 00:31): meglio sarebbe anticipare l’inizio alle 19. Fra l’altro (e non è un caso isolato) l’inaccuratezza delle informazioni comunicate al pubblico sul sito del Teatro è davvero deplorevole: fino all’inizio della prima la durata totale era indicata in 4 ore lorde; poi si è in corsa modificata l’indicazione (tuttora presente) in 4 ore e 15 minuti, ma la realtà vi ha aggiunto altri 15 minuti!
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Beh, che dire dei suoni arrivati via etere? Domingo davvero non si... spiega, forse ha fatto bene ciò che per radio non si può giudicare (l’attore) ecco. Bejun Mehta e Franco Fagioli (controtenore e contralto, invenzioni discutibili delle pratiche HIP) non mi sono dispiaciuti, ma voglio proprio sentire se e come le loro vocine passano negli immensi spazi del Piermarini. Bene Christiann Senn e Maria Grazia Schiavo, benino Marianne Crebassa.

Fasolis è indubbiamente un esperto in materia e l’orchestra barocca della Scala sta facendosi con lui le ossa: il fatto che la spalla De Angelis ne faccia parte è un segno di serietà di approccio.
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Sull’allestimento si sa che Livermore ha ambientato il tutto nella Russia del 1917, un  modo come un altro per celebrare il centenario della rivoluzione bolscevica: staremo a vedere quanto valore aggiunto l’idea porti allo spettacolo.

A chi andrà ad una delle prossime recite consiglio (se non lo ha già fatto) di prepararsi a dovere ascoltando (da youtube) la pregevole edizione firmata da Riccardo Minasi (della quale si può anche scaricare il booklet).

11 settembre, 2017

laVerdi al Piermarini


Fra le ormai consolidate consuetudini de laVerdi c’è quella di riaprire i battenti a settembre con una visita alla Scala; il che è avvenuto ieri sera in un teatro piacevolmente affollato e soprattutto preso d'assalto anche da giovani e giovanissimi, come raramente capita di vedere in queso tempio frequentato per lo più da matusa.    

Sul podio Patrick Fournillier, che già nei mesi scorsi si era presentato in Auditorium, dove ritornerà per i prossimi due concerti della stagione, come Direttore Principale ospite. Apre il programma un estratto dalle due Suite dell’Arlesienne, che combina tre brani della prima e due della seconda, e dove il famoso tema in DO minore che apre il Preludio torna poi – in RE minore - nell’ultimo numero della seconda Suite, dove è seguito dall’altrettanto famoso e trascinante motivo della Farandole, in RE maggiore:


Il Direttore francese esibisce il suo gesto piuttosto enfatico e non ci risparmia anche qualche mossetta gigioneggiante... ma l’orchestra suona comunque da par suo e scalda in fretta un pubblico piuttosto infreddolito da questo autunno anticipato (almeno qui al nord).

Alexandre Tharaud, un pianista che in Francia è ormai considerato un padreterno ma che, con la sua aria da ragazzino, non dimostra per nulla i (quasi) 50 anni che porta sulle spalle è stato interprete del Concerto in sol di Maurice Ravel, che fin dall’inizio mostra chiaramente l’influenza di musica d’oltre oceano (jazz e blues).

Tharaud, che suona regolarmente con gli spartiti sul leggio (evidentemente si fida più dell’autore che della sua memoria...) tiene un approccio assai sostenuto, mettendo in risalto i caratteri più lirici del concerto, rispetto a quelli più spigolosi. In particolare è da incorniciare l’incipit del centrale Adagio assai, con quelle 33 battute del mirabile recitativo del pianoforte solo, che Tharaud ha proprio centellinato, prima di essere raggiunto da archi e legni. Da antologia l’intervento del corno inglese di Paola Scotti (che avrà modo poi di distinguersi anche in Dvořák e infine... nel bis). Vibrante il breve e conclusivo Presto, dove al virtuosismo del solista si accompagna anche quello dei due fagotti e alla fine degli altri legni.  

La sinfonia più inflazionata di Dvořák ha chiuso la parte ufficiale della serata. Una speciale menzione per la bellissima resa del Largo, merito della sensibilità del Direttore e soprattutto della bravura dei ragazzi, che poi si sono scatenati da par loro nel finale. Trionfo annunciato e così Fournillier annuncia un regalo supplementare, riportandoci a Parigi, dove il concerto aveva preso l’avvio e dove il grande Gioachino compose la sua ultima opera. L’Ouverture della quale è da tempo uno speciale biglietto da visita de laVerdi, che anche ieri non ha tradito le aspettative: sugli scudi, oltre alla citata Scotti, il pacchetto dei 5 celli, guidato da Scarpolini. Evviva!