Terza stazione (siamo ormai oltre la
metà del percorso) del ciclo delle 9
sinfonie di Beethoven interpretate dal nuovo Direttore Musicale de laVerdi: è stata ieri la volta della Pastorale
e dell’Apoteosi della danza.
La disposizione
degli strumenti alla tedesca è evidentemente una costante di questo ciclo di
Flor, mentre c’è sempre qualche piccolo o grande (e naturale) avvicendamento
fra i Musikanten. Il Maestro questa volta
ri-sfodera la bacchetta, che aveva lasciato a casa per i due primi concerti;
quanto a leggìo e partitura, sono presenti per la Sesta e poi spariscono per la Settima
(quale che sia il significato di tutto ciò...)
Si comincia
quindi con la Sinfonia in FA, a proposito della quale c’è qualche curiosità
di natura filologica (musicale e extra-) da segnalare. Uno dei titoli
dell’opera (il primo vergato dall’Autore su una copia del manoscritto originale e poi corretto
da altri in Pastorale) era Pastorella (!) Per qualche tempo anche
la numerazione è stata incerta: Beethoven aveva scritto 6a sinfonia, ma poi aveva cancellato il numero e l’opera era stata
catalogata come quinta (e quella in DO minore come sesta). Sul fronte musicale,
un’interessante scoperta fatta leggendo il manoscritto è la chiusa del secondo
tempo: Beethoven l’aveva concepita nella forma divenuta poi definitiva, ma
(temporaneamente) aveva poi sostituito le ultime tre battute con altre quattro,
che ricordavano più da vicino la forma con cui quella sezione del tema compare già
nell’iniziale esposizione (battuta 14). Nella figura seguente la parte bassa
riporta la modifica, come presentata nel Critical Commentary dell’Edizione Bärenreiter (curata da Jonathan Del Mar, che l’ha... messa in
bella copia dal manoscritto, di assai ardua lettura):
Altra stranezza (si fa per dire): nel
manoscritto originale, conservato a Bonn, manca proprio l’ultima pagina, con
l’ultima battuta (anzi, l’ultima semiminima, l’ultimo accordo di FA maggiore)
della Sinfonia: fu un copista, tale Anton
Gräffer, a
re-inserircela (copiandola evidentemente da altre copie precedenti).
Quanto
alle interpretazioni, anche qui spunta fuori (come i funghi!) l’immancabile problema del da-capo dell’esposizione
del movimento di apertura. Esso è chiaramente indicato nel manoscritto
originale (pag 24) con i classici :
(due punti) a ridosso di una grossa barra verticale. Curiosamente, Karajan lo ignora in
tutte le sue innumerevoli interpretazioni, seguendo la scelta di Furtwängler: così non avvicina mai i 40’
complessivi. In pochi seguono l’esempio: Walter,
come pure Böhm, ultimamente Barenboim
e Perlman ma
soprattutto la lumaca Celibidache,
che nonostante ciò riesce a far durare la sinfonia un’eternità, più di 51
minuti (da giovane riusciva
a stare nei 44’) contro i 41-47 degli interpreti che pure eseguono il
da-capo (che pesa circa 2’30”): Toscanini
(ma non sempre) e poi Klemperer (ma da
giovane, poi ha cambiato
idea...) Sawallisch,
Bernstein,
Harnoncourt,
Haitink, Abbado, Muti, Gardiner,
Thielemann, Jansons, Dudamel...
insomma quasi tutti.
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Flor rispetta la volontà di Beethoven ed
esegue dunque (per me, meritoriamente) il ritornello. Se proprio devo fare un
appunto alla sua lettura, mi è parsa a tratti (non sempre) creare un’atmosfera
più da... officina che da scenario agreste, ecco: qualche eccesso di ruvidezza
in alcuni impasti sonori si sarebbe potuto evitare.
Ma nel complesso si è
trattato di un’esecuzione rimarchevole, accolta calorosamente da un pubblico
ancora assai numeroso, il che è un gran bel segno.
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Anche per la Settima si pone – manco a
dirlo! - il problema interpretativo legato all’esecuzione dei ritornelli nei
due movimenti esterni: il che spiega in buona (non completa) misura le grandi
differenze di minutaggio di diverse esecuzioni (si va facilmente da 35 a 47
minuti!) Naturalmente anche l’agogica fa la sua parte, e a questo proposito
(tanto per cazzeggiare un po’) va ricordato come Beethoven rilasciò le sue
prime otto sinfonie con le tradizionali indicazioni qualitative (Allegro, Adagio, Andante con moto, Presto... e via
elencando) che per definizione lasciano all’interprete una forchetta abbastanza ampia all’interno della quale collocare la
propria idea interpretativa. Però, dopo l’invenzione del metronomo (Mälzel, 1812-15) Beethoven si innamorò di
quella diavoleria e nel 1817 operò quello che in inglese tecnico si chiama retrofit (sistemazione a posteriori)
delle indicazioni metronomiche su opere composte da tempo (incluse le
sinfonie).
Tutte le edizioni tradizionali riportano
in bella mostra i metronomi (del 1817) mentre quella Bärenreiter (di Jonathan Del Mar) li indica (per le
prime 6 sinfonie) semplicemente in note a fondo pagina (per la 7 e 8 si fa
eccezione, sulla base di un... ragionamento discutibile). Le differenze di
interpretazione dell’agogica sono talvolta addirittura abissali: prendo un
esempio davvero clamoroso, il Vivace
del movimento iniziale (6/8) che reca l’indicazione di semiminima puntata (3 ottavi) a 104
al minuto; in pratica, in 60” si dovrebbero coprire 52 battute (c’è di
mezzo una corona puntata, ma possiamo tranquillamente trascurarla). Ecco come
lo approccia Arturo Toscanini nel 1951 con la
NBC (da 3’58”): praticamente un metronomo vivente, perfetto a 104! Ma
non da meno gli è l’ottimo Ivan
Fischer
al Concertgebouw nel 2014 (da 3’50”). Invece il Karajan del 1951 (Philharmonia)
si tiene sul sostenuto (da 4’09”): con un metronomo di 89
(diciamo un 15% più lento del normale).
Ma addirittura letargico (francamente al limite dell’indisponenza!) è invece il
Celibidache del 1981 a Stuttgart (da 4’26”):
il suo metronomo equivale a 74, quasi il 30% più lento del normale!
Va da sè che non ha senso giudicare il
livello qualitativo di un’interpretazione esclusivamente dal lato dell’agogica,
caso mai si dovrà verificare se nel complesso i rapporti fra le varie sezioni
del brano vengano mantenuti entro limiti ragionevoli o meno.
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E Flor, come ce l’ha propinata? Sul
punto specifico di cui sopra, io, pur non avendo il cronometro alla mano,
potrei giurare che lui abbia tenuto un metronomo assai vicino a quello di
Beethoven. Ha anche eseguito tutti i ritornelli, escluso solo quello del Finale (che io non avrei affatto
disprezzato, devo dire). Ma ciò che va sottolineato è la strepitosa prestazione
di tutti: non esagero nel dire che si sia trattato di un’esecuzione da far
invidia a parecchie delle orchestre (e dei Direttori) che vanno oggi per la
maggiore!
E il pubblico deve averlo percepito,
dedicando a tutti ovazioni e peana. Già a questo punto si può tranquillamente
affermare che l’iniziativa di proporre questo ciclo beethoveniano stia dando
risultati (artistici e di... cassetta) oltre le più rosee previsioni.
Domenica le sinfonie... cenerentole (ma
sono autentici gioielli!)