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20 dicembre, 2014

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 14


Seconda consecutiva indigestione di Ciajkovski, ancora con Zhang Xian sul podio. Concerto doverosamente dedicato alla memoria - 10 anni dalla scomparsa - di Renata Tebaldi, che è anche al centro di una bella mostra fotografica sulle pareti del bar-foyer dell’Auditorium. In programma ben quattro poemi sinfonici (Ciajkovski li chiamava ouverture-fantasia o semplicemente fantasia) ispirati (direttamente o meno) a Shakespeare.

L’impiego della musica senza parole (e/o senza immagini) per rappresentare contenuti extra-musicali, come sono i testi letterari, inclusi oggetti o concetti o personaggi, è vecchio quanto la musica; e altrettanto vecchie sono le diatribe tra chi sostiene che la musica sia capace di descrivere e chi nega con forza tale prerogativa. Personalmente ho espresso il mio parere (negativo) che non sto a ripetere qui, rimandando i perditempo a questopost di qualche anno fa. 

Ciajkovski - seguendo (in buona compagnia: Dvorak, Franck, Smetana, tanto per citare qualche suo famoso contemporaneo) le orme di Liszt e precorrendo di poco quelle di Strauss, Sibelius e giù giù fino a Respighi – si dedicò assiduamente a questo genere di opera, e i 4 brani inclusi in questo concerto costituiscono il grosso della produzione del nostro.
  
Si comincia con La tempesta, opera abbastanza giovanile (guarda caso invece: l’ultima, o quasi, del bardo) ma forse superiore per ispirazione e struttura anche a lavori successivi e più maturi. In calce alla partitura venne pubblicato un suo succinto programma proposto da Stasov (che forse con questi suggerimenti sperava di attirare Ciajkovski nella ragnatela del Gruppo dei cinque…):
Seguiamone un’esecuzione di Claudio Abbado a Lucerna.
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Lo scenario che Ciajkovski presenta alle nostre orecchie è quello del mare. Siamo in Andante con moto, 3/4 in FA minore. Dopo l’introduzione di un corale statico dei fiati, sono gli archi a muovere le acque, sulle quali udiamo il tema del mare in calma, ampio e maestoso, esposto (30”) dai due corni in unisono:


Da notare la meticolosità con cui Ciajkovski evoca  l’agitarsi, per ora tranquillo, delle onde: tutti gli archi, salvo i bassi, sono divisi in tre, così come pure tre sono i diversi ritmi sui quali suonano (terzine per violini primi e celli, semicrome per violini secondi, crome per le viole, mentre i bassi aprono ogni battuta in sincope). Flauto-oboe e poi clarinetto-fagotto espongono figurazioni mosse (i riflessi del sole sull’acqua? lo svolazzare di gabbiani? o Ariel, lo spirito del vento che per ora sonnecchia?) mentre altri corni e trombe ci fanno udire un inciso marziale, che si ingigantirà fra poco all’arrivo del mago Prospero, padrone dell’isola incantata. Il tema del mare viene reiterato dai corni, anche una terza sotto (dal RE) e poi la sua chiusa (che scala un’intera ottava) viene ripresa in successione dai fiati. Riudiamo le figurazioni mosse, poi ecco un temporaneo ritorno della calma (3’17”) che prelude all’ingresso sulla scena del… padrone.

A 3’36” (Allegro moderato) si presenta infatti Prospero, introdotto da pesanti minime dei violoncelli sulle quali violini e strumentini innestano mulinelli di vento (è Ariel, scalpitante e recalcitrante, ma richiamato all’ordine dal suo padrone) prima che il tema (in LAb maggiore) venga esposto (3’49”) dai legni, con gli archi in pizzicato e i corni a tambureggiarne il ritmo:


Violini, viole e strumentini, con i corni ad incalzare, sembrano proprio evocare l’insofferenza dello spirito eolico davanti al padrone, che infine (4’43”, Andante alla breve) con tutta la sua autorità e prosopopea, marcata da una doppia e solenne esposizione del suo tema negli ottoni in corale, gli ordina di scatenare la tempesta.

Che arriva a 5’24”, in Allegro vivace, annunciata da possenti minime dei fagotti, all’unisono con la tuba, mentre i timpani caricano l’atmosfera di tensione e gli archi cominciano ad evocare il montare delle onde:

Adesso il vento (folate ascendenti dell’ottavino) mette in totale subbuglio anche il mare, il cui tema udiamo ripetutamente (da 5’51”) esposto dei corni, richiesti di suonare con la campana rivolta in alto.

7’00” Ecco una nave (non una qualunque, ma quella per cui tutto l’amba-aradam è stato scatenato da Prospero!) finire in mezzo alla tempesta, squassata e sballottata senza più governo, finchè (da 7’15”) viene irresistibilmente spinta verso l’isola, dove infine (7’27”) si consuma il naufragio! I temi del mare e della tempesta accompagnano i superstiti verso la spiaggia.

8’38” Ora tutto è calma e pace, e l’isola accoglie i naufraghi (qui ci si occuperà solo del più importante di costoro: Ferdinand…) La natura ospitale fa da sfondo al nascere, prima timido, poi irresistibile, di un amore: è Ferdinand a vedere per primo e ad invaghirsi della bella (ma forse infelice, date le circostanze) figlia di Prospero, Miranda, oppure è lei che, accorsa per dare aiuto ai naufraghi, si imbatte nel principe di Napoli e vi trova subito il suo principe azzurro? Mah, questo forse la musica non ce lo chiarisce, sta di fatto che la scena è quella classicamente adatta a costruirci l’immancabile love-theme (senza del quale qualsiasi pezzo musicale di questo tipo perderebbe parecchio senso…) Nella fattispecie si tratta di un caldo tema in SOLb maggiore (Andante con moto, 3/4) esposto inizialmente dai violoncelli abbrunati:


Il tema ha qualche apparente tentennamento (sì, non è proprio un amore che scoppia in modo travolgente, ma un sentimento che cresce e si irrobustisce) ma poi viene ripreso a piena orchestra (da 9’32”, Poco più animato) per lasciar spazio ad un controsoggetto, in Andantino (10’03”):


Motivo che si sviluppa assai, prima di sfociare (10’57”) ancora nel tema principale esposto ora in SIb (Andante mosso) che poi si acqueta per lasciare spazio (11’32”) ad una dolce cadenza dei fiati, subito ripresa dagli archi e che porta lentamente ad un provvisorio epilogo, con il tema principale riproposto sempre in SIb dai corni (12’25”) e quasi cullato dalle terzine dei violini.

Forse è l’amore fra i due giovani ad aver bisogno di qualche… periodo di assestamento, e così ecco che nel racconto musicale si inserisce (12’52”) un siparietto movimentato: si tratta di un alterco fra Ariel e lo sbifido Caliban. L’atmosfera si riscalda parecchio (siamo ora in Allegro animato) e la baruffa fra i due vede protagonisti i fiati (Ariel) e gli archi (Caliban) con picche e ripicche alternate ad autentiche risse sonore, che si protraggono fino ad esplodere in un Allegro vivo, costellato da strappi in ffff (!) finchè i fiati sembrano prendere il sopravvento con ripetuti colpi sotto i quali gli archi rimangono quasi schiacciati e incapaci di muoversi, restando infine come a miagolare su semicrome ribattute, mentre il suono si smorza per fare spazio al ritorno (15’27”) del tema dell’amore, adesso esposto, in LAb, Andante non tanto, con grande nobiltà ed enfasi. Torna anche il secondo motivo (16’27”) che poi sfocia nella riesposizione del primo (16’52”) in forma cadenzante (Allargando) che dà l’impressione di condurre ad un definitivo epilogo dell’episodio amoroso. Ma è proprio una… finta, poiché ecco (18’33”, Allegro molto) un forsennato crescendo di semicrome negli archi portare (18’46”) ad un’autentica apoteosi del tema dell’amore (Andante non tanto, con archi e legni in fffff!)

E non è finita, poiché c’è ancora da… sistemare Prospero: a 19’43” un fragoroso Allegro risoluto dell’intera orchestra ci evoca il mago-duca che, ottenuto il suo scopo, rinuncia alla magia e se ne torna a Milano, seguito dalla fanfara dei corni e dal suo lungo e religioso corale in DO maggiore (20’35”, Andante con moto). Adesso basta? Eh no, poiché Prospero per tornare a casa deve pur rimettersi in mare: ed ecco quindi (21’27”) tornare il tema iniziale, in FA minore nei corni, con gli svolazzi di Ariel, prima del definitivo, lento spegnersi dei suoni, sul FA degli archi in pizzicato e i rintocchi del timpano.
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Ecco poi la più matura Francesca da Rimini (qui Shakespeare non c’entra direttamente, ma trasversalmente, per analogia con la Giulietta). Ciajkovski fece precedere la partitura da un sunto e poi dai versi danteschi che raccontano la storia d’amore e di sangue di cui furono testimoni le mura del castello di Gradara, dove la bella da Polenta e il Bello cognatino suo fecero una bruttissima fine per mano del cornuto Zoctus:


L’opera è macroscopicamente suddivisa in tre sezioni, di cui le due esterne dovrebbero rappresentare lo scenario infernale e quella centrale l’idillio amoroso. In mancanza di indicazioni di dettaglio, sta a ciascuno di noi, guidato dal sommario programma che l’Autore ha proposto, di associare le note a luoghi, fatti, personaggi, concetti, stati d’animo… e quant’altro. (Oppure di ascoltare la musica senza pensare a riferimenti qualsivoglia: a volte conviene!)

Anche qui, proviamo a districarci con l’aiuto di Vladimir Fedoseyev e dei suoi radio-moscoviti.
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La prima sezione si apre con un rabbrividente colpo di tam-tam, sovrapposto ai LAb di fagotti e archi bassi: siamo in un Andante lugubre in 4/4, che possiamo immaginare come un’introduzione, dove incontriamo Virgilio e Dante che si aggirano nell’oltretomba, e poi (33”) cominciano a discendere - insieme a fagotti, tromboni, tuba e archi bassi – verso il secondo girone. A 1’19” un nuovo colpo di tam-tam (Più mosso. Moderato) apre davanti agli occhi dei due pellegrini (e ai nostri) uno scenario, come dire… infernale? Ancora un paio di interventi del tam-tam, sul secondo dei quali (3’05”) sembra di vedere i nostri due umani attoniti e increduli di fronte allo spettacolo che si prospetta alla loro vista.

3’33” Ecco (siamo passati a 6/8 Allegro vivo) ora possiamo immaginare che si alzi il turbine che avvolge e trascina con sé i dannati lussuriosi. In orchestra si alternano gli archi, ad evocare le raffiche del vento, e gli strumentini, che ne rappresentano il sibilare, tra le gole del girone. A 4’51” un fortissimo generale ci conduce alla vista dei dannati che roteano sballottati dalla bufera:

Gli ottoni a 5’41” sembrano mostrarci il passaggio dei poveracci, che riprende fortissimo (6’40”) per poi sfumare lentamente, finchè un nuovo colpo di tam-tam (7’50”) pare spostare nuovamente la nostra attenzione su Dante e Virgilio, letteralmente allibiti di fronte a tanto spettacolo.

Ma ecco che un paio dei derelitti volanti si deve essere momentaneamente fermato, accostandosi al bordo del girone: a 8’47” Il clarinetto solo espone una lenta melopea, che introduce la seconda sezione del brano, e precisamente il tema-a dell’amore di Francesca e Paolo, suonato dallo stesso clarinetto (9’19”, Andante cantabile non troppo) su accompagnamento molto discreto degli archi. I quali a 9’55” espongono a loro volta il tema-b, che si sviluppa ulteriormente, arricchendosi di un altro paio di motivi, prima di sfumare verso una breve transizione (11’50”) nel clarinetto accompagnato da violini primi e viole. Un frammento del tema-b si ritroverà come citazione nel quasi contemporaneo Onegin, introduzione dell’aria della lettera di Tatjana:
A 12’03” riudiamo il tema-a in flauto e oboe, poi (12’31”) ecco il tema-b riapparire in violini e violoncelli, con gli strumentini ad abbellirlo di veloci terzine. A 13’25” abbiamo un repentino rarefarsi della melodia, rotto poi dagli svolazzi dei flauti, prima che (14’07”) torni il tema-a nei violoncelli, sempre accompagnato dalle veloci crome dei flauti.

A 15’02” segue una lunga transizione dominata dal corno inglese, poi oboe (poco dopo dal flauto) ed arpa, con successivi interventi di corno e clarinetto; è un’atmosfera carica di tensione, forse il momento in cui sta per scoppiare la passione fra i due amanti: svolazzi ascendenti di semicrome e biscrome dei violini alimentano l’attesa, finchè (17’23”) riecco il tema-a in flauti e oboi, poi (17’43”) ripreso dagli archi, che lo sviluppano fino (18’04”) ad un crescendo generale sfociante a 18’36” nell’esplosione del tema-b in trombe, tromboni e tuba nel pieno orchestrale, tema poi ripreso (19’08”) dagli archi e legni che lo conducono alla conclusione, su uno dei motivi secondari.

A 20’00” compare inaspettatamente una fanfara nei corni (la ritroveremo dopo qualche anno nientemeno che nell’Ouverture 1812!) Sarà mica Gianciotto che fa irruzione con la spada sguainata nella sala dove i due amanti trescano ai suoi danni? Fanfara che si scatena ulteriormente e pone fine all’atto impuro! Un mesto corale (20’23”) evoca le esequie dei due poveri destinati all’inferno.

20’38” Eccoci ormai alla terza e conclusiva sezione (Allegro vivo) con la ripresa del turbine che trascina al suo interno i lussuriosi: sono sempre le sezioni degli archi e dei fiati ad alternarsi nel prefigurare l’arrivo della buriana, che (21’52”) torna a fagocitare nei suoi vortici anche i due poveri amanti romagnoli.

A 22’58”, Poco più mosso, si chiude con un concitato crescendo, culminante in 9 mazzate (è forse Dante che stramazza come corpo morto?) e nel conclusivo MI all’unisono.
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Dopo l’intervallo tocca ad Hamlet, opera della maturità (coeva della Quinta) che verrà poi affiancata (e ne sarà alimento) da musiche di scena per una rappresentazione teatrale della tragedia. Qui l’efficacia evocativa del brano non mi pare proprio così alta, e personalmente condivido in pieno la conclusione che Paul Serotsky ha posto in calce alla sua breve ma fulminante analisi del brano: se il titolo fosse Coriolano, cambierebbe qualcosa? (stra-smile!)

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Chiude Romeo e Giulietta, annunciata - fin dal programma generale della stagione - nella prima versione del 1869. Invece quasi all’ultimo momento si è ripiegato sulla versione definitiva del 1880. Sulle differenze strutturali fra questa e quella originale ho scritto qualcosa mesi fa in occasione di un’esecuzione qui in Auditorium con Ceccato.  

Anche qui noi possiamo apprezzare le capacità evocatrici della musica: sapendo a-priori di che si tratta riusciamo facilmente ad associare il corale a Lorenzo, i fracassi alla faida Montecchi-Capuleti e il languido tema all’amore fra i due sfortunati ragazzi di Verona. Ora, applicando l’argomentazione di Serotsky a proposito dell’Hamlet, domandiamoci: se il titolo fosse Orazi e Curiazi, non potremmo tranquillamente associare il corale a Tullo Ostilio, il fracasso alla faida Roma-Albalonga e il languido tema all’amore fra la Camilla romana e il Curiazio nemico? Ecco, appunto…    
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Torno al concerto, per esprimere una serena critica a queste scelte di confezionare programmi  monopolizzati da uno stesso autore, e per di più (come in questo caso) con opere dello stesso genere: il rischio di saturazione delle capacità… digestive del pubblico diventa assai alto (anche troppo caviale alla fine stanca). Immagino che proprio la consapevolezza del rischio abbia spinto il programmatore del concerto ad introdurvi un elemento di distrazione (in senso buono, come si fa con il classico sorbetto messo tra portate robuste in un pranzo di nozze!) costituito nella fattispecie da letture di brani delle corrispondenti opere letterarie proposte dall’attore Federico Manfredi subito prima di ciascuna esecuzione musicale.

Esecuzione che non ha fatto altro che confermare la compattezza dell’Orchestra e la bravura dei tanti singoli che hanno avuto modo di distinguersi, sotto la bacchetta sempre precisa e senza fronzoli della Xian. Per questo è quanto mai doveroso… 


sostenere laVERDI!

14 dicembre, 2014

Fidelio: dal vivo è un filino meglio…

 

Ieri sera la terza di questa Leonore (sì, tanto vale cambiarle anche il titolo, operazione filologicamente più corretta di quella di cambiarle… l’Ouverture, smile!) Per l’occasione è tornato il titolare Florestanino Vogt dopo la parentesi (a sorpresa, pare assai gradita dal pubblico della seconda, e che è servita al Sovrintendente entrante per darsi grande lustro) del bel Jonas.

Ormai si è detto e scritto tutto di questa apertura di stagione, che sembrerebbe aver capovolto le recenti usanze (contestazioni del loggione e peana della critica paludata): a SantAmbrogio2014 solo applausi anche dal loggione, mentre dai critici solo… critiche (o quasi: personalmente ricordo un’unica eccezione in Gavazzeni sul Giornale). La costante sembrerebbe quindi da individuare nella cronica opposta ricezione dello spettacolo da parte di loggionisti e critici, quasi a prescindere.   

Poi c’è anche chi, come il sottoscritto, ha invece criticato sia le inaugurazioni recenti (Traviata, Lohengrin, DonGiovanni, per restare all’ultima terna) che questa: magari con argomentazioni diverse e riguardanti diverse componenti dello spettacolo.

La visione/ascolto del 7 in TV mi aveva fatto un’impressione decisamente negativa sul lato suoni e, diciamo così, neutra su quello dell’allestimento teatrale. Ecco, la fruizione live ha – appena appena – migliorato il mio giudizio sulla parte musicale e non è servita a migliorarlo su quella registica. Insomma: questo Fidelio per me resta una mezza delusione.

Barenboim conferma il suo approccio all’opera: che affronta come fosse… Parsifal (smile!) Già nell’Ouverture l’Adagio diventa un Largo e l’Allegro un Andante, e così via degradando: tutta la freschezza mozartiana di cui Fidelio è ricco, soprattutto nel primo atto, si perde così in uno stracco e uniforme tran-tran (non è il caso che l’atto duri quasi un’ora e mezza!) Un filino meglio il secondo atto, stante la componente altamente drammatica, ma in complesso la lettura del sostituendo Direttore Musicale non mi ha per nulla convinto. L’orchestra invece non si è comportata male (perdoneremo la tromba che – dislocata probabilmente in loggione nell’Ouverture – ha sfornato due strafalcioni in sole sei battute del secondo richiamo).

Sul fronte delle voci, pessime notizie da Mojca Erdmann e Florian Hoffmann (Marzelline e Jaquino) che evidentemente alla radio-tv si sentivano per via della collocazione… laringea del microfono (smile!) Che poi il pubblico li abbia applauditi quasi con lo stesso calore riservato a Youn, Vogt e alla Kampe la dice lunga sulle illimitate possibilità di rifilargli impunemente (al pubblico) qualunque bufala.

Ecco, la Anja Kampe ha confermato (alle mie orecchie) i limiti che già parecchi anni fa (con Abbado) aveva denunciato: difetto di potenza in particolare nella cosiddetta ottava bassa, dove è risultata poco udibile. Sugli acuti così-così, mescolando cose dignitose ad urletti che è difficile dire se emessi a bella posta per sottolineare frangenti drammatici, o… a bella posta per mascherare delle deficienze congenite. Per me, un voto appena appena sufficiente.

Una sufficienza più ampia darò alla voce sempre efebizzante (si può dire?) del redivivo Klaus Florian Vogt, che però ha almeno il pregio di farsi sentire benissimo e di avere ottima intonazione.

Kwangchul Youn è uno che in teatro ci guadagna, rispetto alla radio, che tende ad ingrossarne la voce (sempre per via dei microfoni, immagino). Forse non è un basso profondo, ma il ruolo di Rocco non è mica detto che tale debba essere per forza.

Il Pizarro di Falk Struckmann tende pericolosamente allo schiamazzo, e come al solito gli andrebbe ricordato che il cattivo non è autorizzato anche ad essere cattivo cantante, anzi! Peter Mattei fa il suo compitino (cammeo, si dice in gergo) con diligenza ed è quanto basta. Il Coro di Bruno Casoni mi è parso migliorato rispetto alla prima, e bene hanno fatto i suoi due membri (Oreste Cosimo e Devis Longo) chiamati a parti solistiche nel primo atto.

A proposito di udibilità, quasi nulla si è sentito delle parti parlate: qualcuno potrebbe concludere con un grandissimo chi-se-ne-frega (tanto nessuno capisce il crucco e anche se lo capisce chi se ne frega lo stesso perché non è cantato…) Allora però andrebbe riconsiderata la decisione di continuare a proporre (sia pure ampiamente mutilati) questi residui obsoleti del Singspiel!

La regìa della Deborah Warner guadagna poco rispetto alla ripresa TV (che ha il vantaggio, se usata sapientemente, di alternare primi piani a campi lunghi). Al di là di tutte le dotte spiegazioni filo-socio-antropologiche, si tratta di una pura e semplice lettura del libretto, il quale presenta un soggetto archetipico, ergo facilmente trasportabile sotto qualunque tempo e latitudine. Quindi la Warner, come si dice in gergo, ha solo fatto il suo dovere, mettendoci poi qualche puerile ingrediente di attualità: costumi casual e strumenti di lavoro da oltre-cortina-anni50. Se c’è una critica seria da fare all’allestimento è probabilmente il suo costo: secondo me, ogni euro speso in più di 100.000 è stato buttato al vento (e sono soldi nostri!)

Sembra un paradosso, ma uno dei pochi pregi di questa produzione è la rinuncia all’inserimento della Leonore3 prima dell’ultima scena: a parte che non avrebbe avuto senso a fronte della scellerata decisione del Direttore di cambiare l’Ouverture, ma almeno ci ha permesso di apprezzare la grande efficacia drammatica del finale così come mirabilmente concepito – e con quale fatica! - da Beethoven. Non saprei dire se l’unico, isolato buh che è arrivato dal loggione al calar del sipario fosse per Warner o Barenboim (che però all’uscita ha ricevuto solo applausi).  

Tirando tutte le somme, siamo alle solite: con i costi e la prosopopea della Scala abbiamo uno spettacolo di livello non superiore a quello di molte produzioni cosiddette provinciali. Con le tutte le risorse che ci si investono, si avrebbe il dovere di dare di più.

12 dicembre, 2014

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 13


Zhang Xian torna a guidare la sua Orchestra nella prima di due kermesse tutte ciajkovskiane. Questa è decisamente musica classico-leggera, come titolava un’antica collana editoriale che personalmente contribuì (appunto, nell’antichità…) a farmi avvicinare alla musica nobile (!)

Si comincia con due ballabili (smile!) dall’Onegin. Il walzer è quello piuttosto casereccio che si suona, si balla (e si canta) in campagna, a casa della peraltro letterata (come minimo nell’accezione di scrittrice di missive…) Tatjana:


In realtà nell’opera il walzer accompagna per quasi l’intera durata il canto degli invitati, suddivisi in sezioni del coro: ospiti, vecchi gentiluomini, vecchie dame, ragazze; e poi un capitano, infine Onegin e Lenski, che proprio durante questo ballo avranno il primo attrito (a proposito di Olga). Per fortuna l’orchestra suona sempre la melodia principale, il che rende possibile l’esecuzione puramente strumentale del brano, senza fargli perdere praticamente nulla della freschezza originale.    

La polonaise invece accompagna una festa vip, dove però, guarda caso, ancora è protagonista quella medesima Tatjana, nel frattempo arrivata nei migliori salotti della città, grazie alle solite nozze d’amore di convenienza. A cui però lei attribuisce carattere sacro (ma qui non è il caso di ripetere la sinossi dell’opera…)


Questa polacca assomiglia vagamente ad altre polacche (o mazurke, che è poi quasi lo stesso, a parte sfumature di agogica): ad esempio quella che sempre mi viene all’orecchio, per simpatia, è la mazurka di Léo Delibes, dal primo atto di Coppelia:

E in effetti la velocità con cui la Xian la abborda la fa assomigliare più ad una mazurka. Calorosa accoglienza del pubblico, anche ieri non proprio foltissimo, ma quasi desideroso di stringere i ragazzi in un caldo abbraccio, dati i tempi grami che corrono…
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Però il calendario ci dice che siamo in pieno clima festaiolo, e così si prosegue con la Suite da La bella addormentata. I cui 5 numeri non rispettano per nulla la trama del balletto, ma la cosa non provoca certo alcun problema estetico.

Nel primo abbiamo la giustapposizione di due temi dal finale del prologo: quello della perfida Carabosse (la fata sbifida che scaglia la maledizione sulla povera Aurore) e della fata Lillà, che invece rintuzza, almeno in parte, quella maledizione. Il secondo è il celebre Adagio della rosa del primo atto, introdotto dagli svolazzi dell’arpa e chiuso con enfatiche perorazioni dell’orchestra. Poi dal terzo atto ecco il brevissimo intermezzo del Gatto con gli stivali. Quindi il bellissimo Panorama, dall’atto secondo (uno dei brani prediletti dal grande Vladimir Delman) e infine il celeberrimo Gran walzer campagnolo dal primo atto.

Ieri il Gatto è stato sacrificato (smile!) Il che non ha però fatto mancare applausi scroscianti per la trascinante esecuzione.
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Ora tocca al solista di violoncello Alban Gerhardt affrontare la prima delle sue due fatiche: il Pezzo capriccioso, un lavoro breve ma assai impegnativo.

La tonalità di base è SI minore, ma l’apertura è in MI, e poi ci sono ovviamente dei passaggi nella relativa RE maggiore. Curiosamente il tempo è sempre (salvo pochi e temporanei scostamenti) l’Andante con moto posto all’inizio del brano, eppure nella parte centrale (e poi conclusiva) abbiamo un deciso scatto di velocità: esso è però semplicemente determinato dall’affollarsi nel solista di successioni continue di biscrome, laddove in precedenza si toccavano al massimo le semicrome:


Chissà se fu questa parte virtuosistica del violoncello ad ispirare a Leroy Anderson, nel 1950, il suo simpatico pezzo per macchina da scrivere:

Ecco, il bravissimo Alban va davvero come un treno, superando come nulla fosse anche le difficoltà più ardite, come un trillo sul SI acutissimo, proprio a… fondo scala, dove l’esecutore rischia di impastarsi le dita di pece e di rovinare il successivo glissando. Insomma, una prova di grandissima tecnica.
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Come seconda fatica della serata Gerhardt ci propone le Variazioni rococò, nella versione realizzata, già ai tempi di Ciajkovski, da Wilhelm Fitzenhagen e dall’Autore tollerata a denti stretti. Sulle differenze fra questa versione (di gran lunga la più eseguita) e quella originale di Ciajkovski ho scritto qualcosa a suo tempo, in occasione di una precedente esecuzione qui in Auditorium.

Questo è un brano più lungo del precedente, ma con difficoltà virtuosistiche più concentrate, come la cadenza che chiude la variazione V o gli armonici fino al LA sovracuto che chiudono la VI. Gran trionfo per lui che ringrazia con un omaggio a Rostropovich. Dopodichè, proprio come aveva fatto nel 2010 dopo averci deliziato col concerto di Dvorak, si va a sedere nella seconda fila dei celli, dietro a Grigolato e a fianco di Scarpolini (le due prime parti dell’orchestra) per suonare l’ultimo brano in programma!
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Che è il… fracasso della 1812, la cosa forse più disdicevole composta da Ciajkovski, a parte proprio l’incipit dei violoncelli con l’inno Signore, salva il tuo popolo. Per il resto, musica buona magari per colonne sonore di cartoni animati, ecco. Qui si possono solo lodare i ragazzi per l’abnegazione dimostrata, come sempre. E fare a loro e a tutta laVERDI i più sinceri auguri per il futuro. 

10 dicembre, 2014

Orchestraverdi: la crisi ritorna…


Non ho bisogno di spiegare, né di commentare, ciò che si può leggere nel comunicato del Presidente Cervetti, rilasciato a margine di una conferenza stampa tenutasi stamani nella sede della Fondazione:


Milano, 10 dicembre 2014
  
L’esistenza de laVerdi è messa a dura prova dalla cronica mancanza di contributi pubblici, in particolare, statali.

Il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo non ha erogato nel 2014 neppure un centesimo del finanziamento di 3.000.000 di euro. Né è stato ancora versato un milione del contributo concordato per il 2013.

Fin dal 2008 il Ministero aveva assunto l’impegno di erogare annualmente tre milioni per l’attività de laVerdi, cifra comunque ben inferiore a quanto versato ad altre istituzioni, le quali peraltro realizzano programmi meno ampi e impegnativi di quelli de laVerdi. Nei primi undici mesi del corrente anno, vale a dire fino al 30 novembre scorso, infatti, laVerdi ha offerto al pubblico 450 iniziative, con ben 200 concerti di grande musica eseguita dall’Orchestra sinfonica e da laBarocca, a volte con la partecipazione del Coro, e 250 altre manifestazioni musicali spesso rivolte a bambini e ragazzi.

Del resto, l'entità del finanziamento pubblico non è mai stata adeguata alla dimensione nazionale e internazionale della nostra Fondazione: nel corso dei vent’anni di vita de laVerdi, tale finanziamento è stato pari al 26% dei ricavi complessivi, mentre per le Fondazioni lirico-sinfoniche esso è stato pari al 66% e quello alle orchestre in genere è stato pari all’83%.

Nel 2014, la Regione Lombardia ha stanziato 30.000 euro, la Provincia di Milano 4.500 euro. Dal canto suo, e viceversa, il Comune di Milano si appresta a dare un contributo di 500.000 euro. In totale, tuttavia, i contributi pubblici sarebbero nel 2014 pari al 15% dei ricavi complessivi. In queste condizioni è praticamente impossibile proseguire nell’azione meritoria fino qui svolta tra mille difficoltà, ma con indubbio successo.

D’altra parte, è opinione diffusa che la vita e l'attività della Fondazione sono importanti per il valore culturale, artistico e sociale che rappresentano, non solo per la città di Milano, ma per tutto il Paese, nonché per la diffusione della cultura musicale, in Italia e nel mondo.

Per questi motivi vi chiediamo di far sentire la vostra opinione al Ministro con lettere, fax ed email efirmando la petizione messa a disposizione in Auditorium e sul sito de laVerdi.

Né vogliamo cedere all’ineluttabile proprio nell’anno di Expo 2015, per la quale laVerdi è impegnata con una importante programmazione, cosicché, accanto all’opportuna e giusta iniziativa, volta a far sentire la nostra voce alle Autorità responsabili, facciamo appello ai cittadini e alle aziende perché sostengano laVerdi, aderendo alla sottoscrizione straordinaria “Con laVERDI per Milano”. A tale proposito, di seguito i riferimenti per aderire immediatamente. Per ulteriori informazioni consultate il sito www.laverdi.org o chiedete in Auditorium.

Una diffusa partecipazione a questa sottoscrizione sarà anche un elemento di stimolo verso le istituzioni pubbliche, che in tal modo dovranno capire che laVerdi è una istituzione culturale importante per Milano, attorno alla quale si manifesta un vasto consenso, morale e materiale dei cittadini.

Il Presidente
Gianni Cervetti






SOTTOSCRIZIONE STRAORDINARIA      Con laVERDI per Milano

CAUSALE:     Nome, Cognome, Con laVERDI per Milano

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09 dicembre, 2014

Chiarito l’equivoco Florestan




















Certo, da un direttore d’orchestra cosa pretendere di più?

08 dicembre, 2014

La Scala vista da Parigi


La benemerita rivista L’Avant-Scène Opéra ha recentemente pubblicato un numero speciale sulla Scala.

Sono quasi 180 pagine di storia: del teatro, dei direttori, dei sovrintendenti, delle più famose rappresentazioni e prime assolute. Più testimonianze di personaggi famosi, riferimenti discografici, un'intervista a Lissner e articoli di attualità, fra i quali uno di Alberto Mattioli, che a Parigi è di casa.

La rivista è lodevolmente accessibile anche in via elettronica (download di PDF) e quindi praticamente all’istante (giusto il tempo di… digitare i dati della propria cc).

07 dicembre, 2014

Un Fidelio… lumaca apre la stagione scaligera

Eccomi qua a commentare a caldo immagini e suoni (arrivati sotto forma di… pixel&bit) del Fidelio scaligero che ha aperto la (lunga, causa Expo) stagione del Piermarini.

La prima constatazione è l’insopportabile lunghezza dell’interpretazione di Barenboim: che è troppo abituato a Wagner (dove effettivamente eccelle, bisogna riconoscerglielo) ma poi pretende di mettere tutti su quel letto di procuste. Se si esclude il finale (e ci mancava pure…) i suoi sono stati tempi letargici, a partire già dall’Ouverture.

E a proposito non posso esimermi dal fare l’ennesima considerazione sulla bizzarra idea di Barenboim di propinarci la Leonore 2 in luogo dell’Ouverture che Beethoven (sì, proprio un tale Beethoven, guarda te!) aveva faticosissimamente composto per la versione definitiva dell’opera (mai più riveduta o emendata nemmeno col binocolo, nei 14 anni che ancora restarono da vivere al genio di Bonn!) Il colmo della faccenda è che la presentazione dell’allestimento dell’opera nel video pubblicato sul sito del Teatro é accompagnata proprio dalle note dell’Ouverture giusta!

Siamo alle solite, il Kapellmeister di turno (mi spiace dir questo di un Direttore che considero un grande uomo, prima ancora che famoso musicista) vuol farci credere di saperne di più dell’Autore in persona, così butta nel cesso l’ultima trovata dell’Autore medesimo per ripescare… che cosa? La penultima? Che sarebbe perlomeno una gustosissima mela matura: la Leonore 3. Invece no, proprio no, quella che ci viene propinata è la Leonore 2! Il che ti fa lo stesso effetto del mangiare una mela ancora un filino acerba, quando in testa hai il dolce gusto della mela matura: un effetto decisamente sgradevole. Sì, perché sappiamo che per l’uomo tutto è relativo, e tornare indietro è sempre in qualche modo irritante; o ammissibile soltanto se motivato da ragioni, diciamo così, scientifiche. Il che nel mondo musicale si traduce in pratiche ben precise: un festival, o un concerto o al massimo un CD. Ma un SantAmbrogio è – nel bene e nel male – un pranzo di gala dove, se proprio si decide di boicottare le arance, andrebbero almeno servite le mele mature, mica quelle acerbe!

Quanto alla sequenza dei primi due numeri dell’opera (duetto e aria di Marzelline) nel video succitato (a 3’43”) la Warner accenna ad una discussione avuta con Barenboim e a divergenze di vedute rispetto alle sue (di lei) consuetudini. Ora, lei ha già messo in scena Fidelio a Glyndebourne, dapprima nel 2001, poi ancora nel 2006 (da dove è stato prodotto un CD) e sempre nella versione definitiva, quindi quelle che lei chiama sue consuetudini sono in realtà lo standard: prima il duetto e poi l’aria. Ma allora perché parla di divergenze con il maestro? La spiegazione più plausibile è che Barenboim, come fa nel suo CD, scegliendo la Leonore 2 dovesse poi anticipare l’aria, per ragioni di rapporti tonali. E questo è ciò che ci si aspettava facesse anche qui. Invece non è così: abbiamo ascoltato tutti che in apertura c’è il duetto. Come si spiega? Evidentemente lo scambio voluto dal maestro non era accettabile dalla Warner perché ne sconvolgeva l’impostazione registica! E così alla fine la regista deve aver convinto il maestro a ripristinare la sequenza di Beethoven (che però male si armonizza con l’ouverture scelta da Barenboim!) Ora, il solo pensare che due personaggi profumatamente pagati (dai soldi nostri!) abbiano passato ore e ore e forse giorni a discutere del miglior modo per travisare la volontà di Beethoven è davvero deprimente. Purtroppo queste sono, lo ripeto, pisciatine di cane, spacciate per filologia/filosofia. Shame!     

Lo spettacolo della Warner è sostanzialmente lo stesso di Glyndebourne, nel bene e nel male. Domanda: perché non acquistare il prodotto esistente, invece di rifarlo (con tutto ciò che questo avrà comportato a livello di costi) praticamente uguale?

Ho detto nel bene e nel male perché la regista non si inventa cose strane né storie fantasiose: siamo in una prigione (che poi sia una ex-fabbrica, è cosa che nè guasta, né arricchisce) dove una donna travestita cerca il marito ingiustamente incarcerato e alla fine riesce a farlo liberare, approfittando di una provvidenziale ispezione del ministro della giustizia. Apperò, proprio come scritto nel libretto… che noia (smile!) Quindi tutto bene, non fosse che la Warner si fa contagiare dalla stessa malattia di Barenboim (quella delle mele acerbe) e così fa finire l’opera, mentre suona un DO maggiore da spaccare i timpani e abbagliare le pupille, come era nella prima versione del 1805, al buio e sotto una nevicata, invece che sulla piazza assolata del carcere! Certo che Beethoven era proprio un bambino ingenuo che credeva alle favole…

Anja Kampe è Leonore/Fidelio: siccome la ricordo nel ruolo con Abbado (2008) dove nel piccolo Valli di Reggio Emilia già si sentiva poco, aspetto di sentirla dal vivo per verificare se nel frattempo ha imparato a… farsi sentire (smile!) anche senza un microfono in bocca.

Klaus Florian Vogt è il Florestan all’età di 12 anni (stra-smile!) Effettivamente Pizarro doveva essere proprio un pazzo maniaco  per incarcerare un bambino. A parte le battute, va bene che il personaggio non è proprio da Heldentenor, anzi, ma qui si sta esagerando in senso contrario. Perché non basta fare le note giuste, o sbaglio? E il fatto che a Bayreuth lo abbiano catapultato nei panni di Lohengrin dimostra soltanto che anche lassù sono fuori di testa. Fra l’altro, nei parlati sembra invece avere una voce da adulto!

Il migliore, e di gran lunga, del cast è il Rocco di Kwangchul Youn: ma non lo scopriamo oggi, e in fondo ha fatto lodevolmente ciò che ci si aspetta da un grande professionista.

Falk Struckmann è un Pizarro dignitoso, ma nulla più: forse i tempi strascicati di Barenboim non lo aiutano, e così sembra faticare a reggere il fiato.

Onesta e non più la prestazione di Peter Mattei come Don Fernando.

La seconda coppia dell’opera non mi è parsa particolarmente eccitante: Mojca Erdmann e Florian Hoffmann si arrabattano alla meglio, come Marzelline e Jaquino, ma senza mai dare un colpo d’ala.

A parte un incespicamento (così mi è parso, potrei sbagliare) nel finale, si salva per fortuna il coro di Bruno Casoni, che fornisce anche due solisti (Oreste Cosimo e Devis Longo) che non avrebbero fatto peggio dei titolari dei ruoli di Jaquino e Pizarro.

Per il pubblico pare sia andato tutto bene, e anche di più: beati loro e per quanto mi riguarda spero proprio di essere smentito a breve.