Gaetano d’Espinosa, che dalla
prossima stagione sarà Direttore Principale
Ospite de laVerdi, si ripresenta
sul podio con un bel programma che incastona un lavoro di Hindemith fra due
opere di Mendelssohn. Sono due mondi solo apparentemente lontani, in realtà
avvicinati dalla presenza di Weber,
che in qualche modo ispirò il Mendelssohn del Sogno e che Hindemith fece direttamente oggetto della sua Metamorfosi.
Ad aprire la serata l’Ouverture del Sogno: se si pensa che fu
composta praticamente da un ragazzino, vien da dar ragione – magari solo nel
caso specifico - a Schumann che parlava di Mendelssohn come di un nuovo Mozart!
Tanto meravigliosa è la poesia e mirabile la struttura formale di questo
autentico gioiello, certamente ispirato dall’Oberon di Weber prima che da Shakespeare, ma prodotto di un
autentico talento naturale (le idiozie che Wagner scrisse su Mendelssohn nel
suo Das Judenthum in der Musik
trovarono la più palese e clamorosa smentita proprio da Wagner medesimo, che fece
letteralmente razzìa di temi Mendelssohn-iani nel comporre i suoi capolavori).
Se devo fare un piccolo appunto a
D’Espinosa citerei la scarsa enfatizzazione dei famosi quattro accordi che
aprono, intermezzano (?) e chiudono l’Ouverture: quelle corone puntate, secondo i miei gusti, meriterebbero più spazio di
quanto non ne abbia loro riservato il Direttore, proprio per staccare più marcatamente con il
parossismo dei violini che si slanciano sul tema delle fate. Per il resto,
encomiabile direzione ed esecuzione.
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Paul
Hindemith,
che dopo svariati alti-e-bassi nei suoi rapporti con il nazionalsocialismo
aveva finalmente deciso di emigrare (prima in Svizzera, con la moglie ebrea, e
poi in USA, inizialmente da solo) compose la Symphonic Metamorphosis of Themes
by Carl Maria von Weber for Orchestra (il titolo è più lungo della
composizione, smile!) nel 1943 nella
sua casa di New Haven (dove era titolare di una cattedra di Teoria della Musica a Yale) recuperando
materiale che in origine era destinato ad un balletto di Léonide Massine, poi andato a monte.
Il titolo inglese (che è chiaramente
al singolare, quindi la - non le – metamorfosi) fu espressamente voluto in omaggio al mondo che
il compositore aveva abbracciato (almeno temporaneamente, in attesa che Hitler
togliesse il disturbo) come una nuova Patria, tanto che Hindemith si arrabbiò
assai quando il suo editore tedesco, ristampando la partitura per l’Europa
nell’immediato dopoguerra, pensò bene male di tradurlo in tedesco…
I temi di Weber che Hindemith
sottopone a metamorfosi non sono
certo presi da Oberon, o Euryanthe, o dal Freischütz, ma da tre piccole
composizioni per pianoforte a quattro mani (op. 60, del 1818 e op. 10 del 1809)
e dall’ouverture delle musiche di scena per la Turandot di Schiller
(1809). In origine pare che Hindemith intendesse comporre un’opera più estesa:
fra i suoi appunti e schizzi sono stati trovati riferimenti ad altri 4 (o 5)
brani (delle op. 3, 10 e 60) che evidentemente avevano attirato l’attenzione
del compositore.
E non sono solamente i temi, ma
praticamente i brani completi, che Hindemith non si limita ad orchestrare ma,
appunto, a trasformare e reinterpretare a suo modo. Il risultato che ne
consegue è una specie di breve sinfonia in quattro movimenti, per una durata
totale di poco più di 20 minuti. Qui è l’autore stesso che la dirige con i Berliner, una dozzina
d’anni dopo la composizione.
Il materiale weberiano di origine non
è certo di prim’ordine: non è praticamente mai eseguito in concerto e per lo
più è impiegato come esercizio per studenti. Ma Hindemith ne ha saputo cavare qualcosa
di - quanto meno - interessante (non parliamo di capolavori, certo) a
testimonianza della maturità che aveva ormai raggiunto e della capacità di
padroneggiare le forme classiche verso le quali le sue attenzioni di studioso
si erano rivolte.
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Il primo brano (Allegro) viene dal quarto degli Otto Pezzi op. 60. I primi violini
riprendono alla lettera la melodia originale, ma l’orchestra già ribolle di
sonorità sgargianti, come testimoniano gli impertinenti interventi degli
strumentini:
Il brano ricalca fedelmente
l’intero pezzo di Weber, arricchendolo però di esuberanza e di humor.
Il secondo tempo (Scherzo, Moderato) è derivato dalla Turandot. Qui la storia assomiglia ad
una catena di SantAntonio, così sintetizzabile: Hindemith prende a soggetto
l’Ouverture di Weber, il quale
per dare un sapore d’oriente al pezzo senza doversi immaginare o inventare la
musica cinese, non aveva trovato di meglio che sfogliare il Dizionario musicale di Jean-Jacques Rousseau, dove aveva
scovato una melodia cinese, che Rousseau aveva a sua volta scopiazzato (impercettibilmente
modificandola) da un trattato sulla Cina di tale Jean-Baptiste Du Halde. Insomma, una genealogia che arriva,
compreso lo sconosciuto e supposto originale cinese, alla quinta generazione! E
ogni generazione ovviamente cambia qualcosa nel soggetto, in primo luogo la
tonalità…
Mentre
Weber aveva preso alla lettera la melodia di Rousseau, costruendoci sopra una
(relativamente) breve ouverture attraverso ripetizioni variate del tema, Hindemith
si permette anche qualche piccolo intervento sul soggetto weberiano, oltre ad
abbassarne la tonalità di un grado.
Poi
dilata ipertroficamente il brano, in pratica raddoppiandone la durata rispetto
a Weber, ma sempre attraverso l’uso della variazione (o… metamorfosi?) o
spostando il tema principale da una sezione all’altra dell’orchestra e
contrappuntandolo con incisi o frammenti suonati dalle altre (trilli nei legni,
veloci scale negli archi). In forma di passacaglia
e con un procedimento abbastanza vicino a quello impiegato da Ravel nel suo Bolero, Hindemith ottiene un crescendo
del volume del suono fino a raggiungere un climax,
su un accordo tenuto dell’intera orchestra, al quale segue una specie di pausa
di riflessione, rappresentata da un agitato recitativo dei primi violini.
E
qui ecco l’esilarante sorpresa: arriva il jazz!
Combinato con la fuga! Manco a dirlo
sono i tromboni ad introdurre una versione fortemente sincopata del tema, che
poi contagia l’intera sezione degli ottoni, cui in seguito dà il cambio quella
dei legni, mentre percussioni e timpano dettano il ritmo proprio come in una band.
Il
suono si dirada e sono i violoncelli a riprendere il tema principale, ma i
fiati tornano a contrappuntarlo con stile jazzistico. C’è un siparietto di
gloria anche per le percussioni (campane, triangolo, tomtom, gong, blocchi di
legno) che vengono in primo piano e creano un curioso contrattempo, suonando sei battute in 4/4 mentre i timpani e i radi
strumenti suonano una battuta in 3/4, due in 2/2, una in 3/4, una in 2/2 e una
in 3/4… La chiusa è anch’essa sorprendente: un dolcissimo accordo di FA
maggiore di legni, corni e archi bassi, impreziosito dal gong.
Il terzo brano è un Andantino, mutuato dal secondo dei Sei
Pezzi op. 10:
Hindemith
inizialmente espone alla lettera l’originale di Weber, ma poi ci mette
parecchio di suo, ad esempio nella sezione corrispondente all’indicazione tranquillo.
Alla
ripresa del tema principale, affidata al fagotto, il flauto occupa
prepotentemente la scena, con un lungo recitativo di biscrome, che porta il
brano alla conclusione.
L’ultimo tempo di questa specie
di sinfonietta si rifà ancora all’op.60, precisamente al n°7, una Marcia. Notiamo un inciso che Hindemith
sottolinea proprio come aveva fatto Mahler nel primo tema della sua Sesta:
E infatti non è difficile
immaginare qualche sotterraneo legame che unisce circolarmente Hindemith,
Mahler e Weber. Dunque: Mahler era ebreo (come la moglie di Hindemith) e come
Hindemith aveva dovuto subire una qualche – più o meno blanda – angheria da
parte degli ambienti legati all’antisemitismo; entrambi avevano trovato più o
meno grande accoglienza in America, mentre la loro musica era bollata dal
nazismo come degenerata; da parte
sua, Mahler aveva avuto con Weber dei rapporti… post-mortem: quando aveva completato, dopo geniale decifrazione di
schizzi e appunti, l’opera Die drei
Pintos che Weber aveva lasciato allo stato di abbozzo. Non meraviglia
quindi che Hindemith abbia in qualche modo voluto coinvolgere anche Mahler nel
suo affaire con Weber!
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Gagliarda l’esecuzione dei ragazzi,
che D’Espinosa ringrazia alla fine quasi uno per uno…
Chiude la bella serata l’Italiana.
L’Orchestra la deve conoscere a memoria e D’Espinosa deve soltanto (ma questa
non è una denigrazione, sia chiaro…) rinfrescargliela. Lui dà il suo sigillo
personale con una clamorosa, quanto indebita, accelerazione nelle ultime cinque
battute del finale, ma gli si può tranquillamente perdonare l’ardimento!
Per chi ama letture impegnative, ecco
qui un corposo saggio su Mendelssohn del sommo Quirino Principe, comparso nel gennaio
1992 su Musica&Dossier.
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