intime gioje

chiuder la prigione e buttar la chiave

30 giugno, 2013

Un po’ di Bayreuth a Milano (4)


L’ultimo atto del Ring scaligero – introdotto come gli altri dalla sempre interessante presentazione di Elisabetta Fava – vedeva all’opera due nuovi interpreti, rispetto a quelli della recentissima rappresentazione nella stagione 2012-13 (che aveva anche registrato la defezione di Barenboim alle prime recite). Precisamente un nuovo Siegfried (Andreas Schager a rimpiazzare Ryan) e (in questo secondo ciclo) una nuova Waltraute+Norna2 (Marina Prudenskaya, al posto della Meier).

Dirò che mentre la seconda si è discretamente difesa, mostrando una voce solida e un passabile portamento, il primo è riuscito a far rimpiangere il pur non eccelso Ryan: vibrato sgradevole e difficoltà di intonazione, con calate evidenti, che sono progressivamente emerse con l’andar del tempo, fino al silenzio (almeno alle mie orecchie) sul LA dell’ultimo verso del suo racconto (der schönen Brünnhilde Arm!)

Dagli altri interpreti solo conferme positive: in particolare la Theorin, che ha retto bene, senza ricorrere ad urli, ma anche Grochowski e, nella limitatezza della parte, Kränzle. Pure Petrenko e Samuil, che certo stanno un gradino sotto, non hanno del tutto demeritato, così come la Nekrasova (più una regina-vittoria che una Norna, smile!) e le tre ninfe acquatiche.

Orchestra forse un poco stanca, soprattutto nella sezione critica (ottoni) dove in mezzo a splendide ondate sonore sono emersi qua e là fastidiosi spernacchiamenti. Il coro di Casoni (i maschi ovviamente) ha fatto la dovuta caciara in quel second’atto che è una chiara parodia del GrandOpéra.

Barenboim non ci ha risparmiato qualche elastico nei tempi e qualche eccessivo fracasso a danno delle voci, ma la sua consuetudine con la… materia garantisce sempre prestazioni di rilievo.

Alla fine (pur essendo passata mezzanotte) un interminabile trionfo, non solo alla serata singola ma, credo proprio, a tutto il ciclo. 
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A proposito di bilanci, lascio ora agli esperti di prassi  interpretativa di spiegarci come e quantunque Barenboim abbia seguito un approccio tradizionalista o moderno, se abbia fatto riferimento piuttosto a Knappertsbusch che a Boulez, se abbia cercato di germanizzare il suono degli scaligeri o di italianizzare Wagner; e se questo Ring nel suo complesso sia da incorniciare fra le reliquie più sacre o da archiviare in solaio con altre suppellettili dismesse… Personalmente ascoltare l’intero ciclo in tempi adeguati – anche a dispetto di regìe insignificanti e di cast non più che dignitosi – mi ha gratificato a sufficienza; perciò, almeno una-tantum, dirò: grazie Scala!

29 giugno, 2013

Un po’ di Bayreuth a Milano (seconda pausa)


Per occupare il tempo fra la seconda e l’ultima giornata del Ring, la Scala si è nuovamente trasformata in sala cinematografica, dove è stato proiettato il monumentale (8 ore!) Wagner di Tony Palmer. Il regista in persona si è scomodato per introdurlo, più che altro raccontando aneddoti sulla produzione, in puro british humor. I dieci episodi in cui si suddivide il film sono stati raggruppati in tre tempi, con due intervalli.  

Un’opera assai pretenziosa che impegna un cast (soprattutto ) britannico di prim’ordine, con Burton-Redgrave (Richard-Cosima) e il trio di sir (Laurence Olivier, John Gielgud e Ralph Richardson): quindi recitazione a dir poco superlativa.

Film quasi esclusivamente incentrato sulle vicende biografiche di Wagner, mostrate in dettaglio a partire dagli anni di Dresda, con qualche flash-back sulla fuga dalla Russia, fino alla morte a Venezia, e con largo spazio ovviamente dedicato a Ludwig di Baviera.

Abbastanza poco invece sugli aspetti relativi all’estetica wagneriana e ai contenuti delle sue opere. Molta sua musica, ovviamente, a far da colonna sonora.

Una ricostruzione, mi pare, abbastanza fedele delle controverse attitudini del musicista: fondamentalmente un mangia-pane-a-tradimento, oltre che incallito antisemita, ma che si sentiva (e non a torto) investito di una nobile missione, quella di servire l’Arte con la A maiuscola e in definitiva di fare del bene all’umanità, che perciò non poteva negarli nulla…   
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In attesa di Götterdämmerung ci si può divertire al gioco di prendere Wagner in castagna… con qualche domanda impertinente.

Perché le Norne ci raccontano di Wotan che cede un occhio per bere alla fonte della sapienza (sotto l’Yggdrasil) mentre abbiamo sempre saputo che Wotan cedette un occhio per avere in moglie Fricka?

Perché Brünnhilde, che conosce alla perfezione la natura dell’Anello, la maledizione che matematicamente colpisce chi lo possiede o lo desidera e la vitale importanza che avrebbe (per l’universo intero) la sua restituzione alle acque, non invita l’ignaro Siegfried a liberarsene, e invece lo accetta in dono e poi se lo tiene testardamente per sé, invece di riconsegnarlo alle Figlie del Reno (cosa che farà solo quando sarà troppo tardi…)? 

Perché Hagen afferma che Siegfried ha sottomesso i Nibelunghi, quando il ragazzo non sa nemmeno chi siano?

Qual è il potere farmacologico del filtro preparato da Hagen (e che Gutrune fa bere a Siegfried)? Come mai Siegfried a volte ricorda bene e altre volte ricorda male (oppure dimentica) fatti e persone senza alcuna logica, che non sia quella funzionale all’Autore per portare avanti il suo dramma?

Visto che il Tarnhelm di Alberich è già stato utilizzato con successo da Fafner, perché mai non potrebbe esserlo ugualmente da parte di Gunther (ad esempio per aiutarlo ad attraversare il fuoco senza problemi)? Ciò consentirebbe di evitare tutta la pericolosa manfrina della sostituzione con Siegfried, e tutte le conseguenze che ne derivano.   

Perchè mai Siegfried, arrivando sulla rupe di Brünnhilde per sequestrarla, sotto le mentite spoglie di Gunther, suona col corno il suo proprio inconfondibile tema? E subito dopo, come mai, pur ricordando benissimo di aver preso l’Anello dalla caverna di Fafner, non lo riconosce quando Brünnhilde glielo oppone per difendersi e non si domanda come mai sia al dito della donna?  E ancora: come mai Siegfried, che opera sotto le spoglie di Gunther, dopo aver sequestrato per lui Brünnhilde ed averle strappato l’Anello, affermando che appartiene di diritto al ghibicungo, invece di consegnarlo al sodale insieme alla preda, se lo tiene al dito, innescando così tutto il putiferio che porterà alla drammatica conclusione del Ring?

Brünnhilde è stata derubata dell’anello da Siegfried travestito da Gunther e la mattina dopo passa diverso tempo in barca (per tornare a Gibichheim) con il vero Gunther: perché mai non si accorge che costui non ha più l’anello strappatole la sera prima?

E altre piccole contraddizioni si potrebbero elencare. Quali le cause possibili? Certamente la bizzarra genesi del Ring, con i testi scritti quasi a ritroso, e i conseguenti problemi di coerenza fra essi; poi, l’impresa non facile di dover correttamente riannodare nell’ultima giornata l’enorme numero di fili pendenti che le precedenti opere hanno generato; oltre al fondamentale problema derivante dalla necessità (per Wagner) di quasi stravolgere il significato della Siegfrieds Tod al momento di farne una cosa sostanzialmente e profondamente diversa (dal punto di vista estetico, ma non solo) da ciò che era stato originariamente concepito a partire dal farraginoso Nibelungenlied.

Insomma, tutto ciò ha comportato fatalmente l’emergere di piccole o grandi sfasature e/o incongruenze, che solo la straordinaria qualità della musica fa passare in secondo piano. Perciò meglio dimenticarsi di quelle, e prepararsi a godere di questa…

28 giugno, 2013

Un po’ di Bayreuth a Milano (3)


Un gran temporale (più adatto per la verità allo scenario della Walküre…) scatenatosi su Milano a metà pomeriggio – proprio durante la consueta ed efficace presentazione di Elisabetta Fava - ha introdotto la seconda giornata del Ring scaligero.

Essendo stato dato lo scorso novembre, nel quadro della quadriennale programmazione, del Siegfried si aveva un ricordo ancora abbastanza a fuoco e la presenza dello stesso cast di allora (Uccellino escluso) ha anche permesso di fare qualche confronto a distanza.

Ovviamente le bizzarrìe della regìa sono rimaste tutte al loro posto e non mette conto rigirare il coltello nella piaga. Meglio – a mio personale giudizio – le cose sono andate sul fronte della musica, pur con qualche evidente scompenso.

Barenboim ha un filino esagerato con i tempi, estremizzando lentezze e vivacità: già nella scena della riforgiatura di Nothung e soprattutto poi nel viaggio di Siegfried attraverso il fuoco, dove il tempo era proprio quello di uno che corre all’impazzata per non… scottarsi (smile!) L’orchestra ha avuto qualche sbandamento, come ad esempio nel Preludio del terzo atto, dove per un po’ la voce di tube e fagotti è sembrata scomparire. Poi mi chiedo come mai il corno di Siegfried (parlo del momento topico del second’atto) fosse dislocato al Cordusio invece che in prossimità della scena: si vedeva Siegfried soffiare poderosamente nel suo strumento al proscenio, mentre il suono pareva arrivare dall’aldilà… Come già nella precedente edizione (sarà colpa di Cassiers o di Barenboim?) l’interprete dell’Uccellino, invece che in alto (che so, in uno dei palchi, oppure appesa a qualche trespolo) era dislocata in buca, ottenendo l’effetto comico di un volatile che canta in un pozzo… Alla conclusione del primo atto manca del tutto l’effetto-sorpresa della Nothung che infrange l’incudine: qui per responsabilità soprattutto del regista, ma forse un po’ anche del maestro, che scatena le trombe e poi tutta l’orchestra, coprendo del tutto il RE dello Schwert di Siegfried. Ma anche poco prima lo straordinario effetto delle linee di Siegfried e Mime era stato rovinato dall’assurda postura richiesta al nano, fatto appendere braccia e gambe ad una sbarra orizzontale: la sua voce proprio non si sentiva.

Per il resto buone notizie: Ryan – a parte un paio di calate – ha confermato la sua capacità di tenuta fino in fondo (forse ha dato tutto sapendo che nella Götterdämmerung verrà sostituito!); la Theorin è decisamente più in palla di quanto non fosse al suo debutto lo scorso novembre (lo si era già notato fin dal recente Crepuscolo, oltre che dalla recentissima Walküre); anche la Larsson è stata un’Erda più accettabile, anche se non indimenticabile, rispetto a 7 mesi fa. Note assolutamente positive per Kränzle, credo il migliore nel complesso (e di certo non mi aspetto di essere smentito domani) ma anche per il solido veterano Stensvold, di sicuro il più convincente (tutto è relativo…) dei tre Wotan passati di qui in altrettante serate. Così dicasi di Bronder, un Mime efficace nel canto e nella recitazione (a dispetto di… Cassiers). Senza infamia, ma con poca lode Tsymbalyuk, un Fafner che non fa paura (smile!) Mari Eriksmoen ha fatto bene la sua parte ornitologica, e non è certo colpa sua se doveva cantare da una fossa invece che da una fronda.     

In definitiva, che dire? Personalmente l’emozione che provo ascoltando musica come questa potrebbe essere rovinata solo da interpretazioni davvero sciagurate; in questo caso Wagner è stato messo in condizione di fare in pieno il suo dovere!


Oggi riposo – per gli addetti – e maratona cinematografica per i… paganti.

27 giugno, 2013

Un po’ di Bayreuth a Milano (prima pausa)


Fra Walküre e Siegfried un po’ di sosta ci vuole (vogliamo almeno dare il tempo alla povera Sieglinde di portare a termine il suo Hehrstes Wunder!... ?) E allora provo a proporre qualche cazzeggiamento sui tempi tecnici di alcune vicende del Ring.

Cominciamo col dire che si può calcolare con una certa buona approssimazione il lasso di tempo che intercorre fra la prima e la seconda giornata: diciamo come minimo 15-16-17 anni? visto che Siegfried viene concepito alla fine del primo atto di Walküre (che in tutto dura un giorno…) e lo ritroveremo poi ragazzo grandicello nell’opera successiva.

Viceversa è assai arduo stabilire quanto ne passi fra la vigilia e la prima giornata; di certo parecchio, chè scopriamo dal racconto di Wotan a Brünnhilde (nel second’atto di Walküre) che nel frattempo lui stesso è andato a scovare Erda e l’ha messa incinta delle Valchirie, che adesso sono già grandicelle; e poi, da grande amatore e procreatore, ha anche messo al mondo (da madre sconosciuta) i due gemelli Wälsi, pure essi ormai adulti. Quanto ad Alberich ha a sua volta – e finalmente! – scopato una donna (e che donna, una regina!) dalla quale sta per avere un figlio (Hagen). Peraltro il racconto di Wotan fa nascere al proposito qualche perplessità rispetto al realismo della vicenda, o presenta una contraddizione logica, di cui probabilmente non si accorse lo stesso Wagner. Dunque: Wotan asserisce che una donna (sapremo nel Götterdämmerung trattarsi di Grimhilde, regina dei Ghibicunghi e madre di Gunther e Gutrune) è stata messa incinta da Alberich e si prepara a partorire Hagen. Il che fa pensare che la seduzione di Alberich ai danni di Grimhilde sia avvenuta da pochi mesi. Ma Wotan afferma che Alberich ha sedotto Grimhilde con l’Oro! E in effetti parrebbe chiaro che per sedurre nientemeno che una regina (che è già ricca di suo) un essere repellente come Alberich avrebbe avuto bisogno non di uno, ma di due strumenti: una gran quantità d’oro e in più il Tarnhelm, che gli consentisse di trasformarsi da rospaccio schifoso in principe azzurro (!) Ma quando mai il Nibelungo ha avuto a disposizione queste due risorse? In un solo e ristretto lasso di tempo: quello intercorrente fra la sua prima e seconda comparsa nella terza scena del Rheingold! Dopo, Alberich era tornato ad essere uno sbifido nullatenente. Ma se è così, come si spiega che Grimhilde abbia ancora Hagen in pancia, mentre nel frattempo Wotan ha già messo al mondo figli ormai adulti?

Interessante e curioso anche il discorso sull’età biologica di Brünnhilde, che può assumere due valori diversi (praticamente uno doppio dell’altro!) in dipendenza della natura che si attribuisce al suo sonno: se sia un letargo che blocca totalmente le sue funzioni vitali, nel qual caso, avendo lei al momento dell’ibernazione un’età approssimativa di (minimo-minimo) 16 anni, sempre tanti ne avrà al momento di essere risvegliata dal bacio di Siegfried (suo coetaneo, a questo punto); o se invece sia un sonno durante il quale le fibre di Brünnhilde continuino ad invecchiare, col che al suo risveglio lei avrebbe superato la trentina, ed avrebbe quindi un’età praticamente doppia di quella del suo… nipotastro.

Altra curiosità: nel second’atto di Siegfried incontreremo nuovamente Alberich - che avevamo lasciato (distrutto!) nel Rheingold e di cui avevamo avuto notizie da Wotan nella Walküre - a far perennemente la posta alla caverna di Fafner in quel di Neidhöhle. Domanda: da quanto tempo è lì? Se il Nibelungo avesse seguito le mosse del gigante, poi trasformatosi in drago, dovrebbe trovarsi in quei paraggi addirittura da qualche decennio! Poiché – come minimo – dopo il Rheingold Wotan deve aver avuto il tempo di mettere al mondo i gemelli Siegmund-Sieglinde, genitori del già adolescente Siegfried.

(Al prossimo intervallo altre domande scomode sulla plausibilità del plot…)
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Ieri il Piermarini si è trasformato (per la prima volta? e non sarà l’ultima!) in una sala cinematografica: un siparione candido ha fatto da schermo per la proiezione di Ludwig, il famoso film di Luchino Visconti, che compie precisamente 40 anni (ma non li dimostra affatto, come tutti i capolavori che si rispettino…)

Ovviamente vi è protagonista anche Wagner, di cui si ascoltano a più riprese brani dal Tristan e Lohengrin; poi soprattutto – e in tutte le salse - la famosa O du, mein holder Abendstern, in omaggio evidentemente alla Elisabetta, amore (non tanto) segreto dell’effeminato monarca bavarese; poi il Siegfried-Idyll, accuratamente ambientato a Triebschen e infine l’ultima composizione per piano, che fu una primizia assoluta ai tempi dell’uscita del film.

Iniziativa, almeno a mio avviso, abbastanza gradita dal pubblico, che ha riempito i 3/4 della platea e ha pure manifestato il suo apprezzamento con un applauso finale. 

26 giugno, 2013

Un po’ di Bayreuth a Milano (2)


Dopo l’Allegro maestoso del Rheingold, eccoci al secondo movimento della Ring-Sinfonie: l’Andante mosso della Walküre (i paralleli sono del compianto Teodoro Celli).

Prima dello spettacolo, la presentazione dei contenuti condotta da Elisabetta Fava presso la Fondazione Cariplo: un bigino dell’opera fatto però con intelligenza e soprattutto mettendo sempre in risalto i contenuti più profondi delle vicende (pseudo)mitologiche che ne sono alla base, e la loro declinazione in termini musicali.
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L’apertura di Barenboim è drammatica davvero, anche se le folate dei secondi violini e delle viole (tremolo in corda doppia) sembrano coprire un po’ troppo le semiminime staccate dei violoncelli che evocano la corsa a balzelloni di Siegmund in mezzo alla tempesta.  

Simon O’Neill ha (guarda caso) sempre la stessa voce di due anni fa e gli manca la laurea di Heldentenor: però il suo Siegmund parrebbe migliorato, almeno quanto ad accuratezza di esposizione. La sua cassa toracica è sufficientemente ampia da permettergli un’apnea di 10 secondi sul SOL di Wälse senza scoppiare, né risentirne per il resto dell’opera (ok, ok, muore alla fine del second’atto…) Le sue due arie (Wagner non si offenderà…) non sono propriamente un modello di riferimento, ma l’importante è che trasmettano all’ascoltatore le dovute emozioni.

Waltraud Meier, che ormai veleggia verso i 60, è ancora e sempre una Sieglinde di tutto rispetto, anche se la voce si assottiglia e giù in basso fatica a passare. In ogni caso il duetto d’amore che i due ci propongono resta (certo, grazie al mago Wagner) una delle cose più emozionanti che si vivano a teatro; e Barenboim lo chiude da par suo con un autentico orgasmo orchestrale, prima dello schianto sul LA-SOL che mescola insieme passione e schiavitù.

Nel primo atto compare ovviamente anche lo sbifido Hunding, del quale per la verità Mikhail Petrenko non dà un’interpretazione indimenticabile, avendo una voce non abbastanza truce (in senso estetico, dico). Cosa del resto già emersa (e che fatalmente tornerà) con Hagen.

Irene Theorin si presenta subito con i suoi Hojotohò piuttosto, ehm, selvaggi (smile!) ma in fin dei conti appropriati alle caratteristiche del personaggio, ancora abbastanza goliardiche, prima della drammatica esperienza di vita che la rivolterà come un calzino.

Arriva anche il Wotan di René Pape (che sapremo più tardi essere in condizioni non perfette): fatta salva la sua maestrìa e professionalità, la voce non è proprio quella che ci si aspetterebbe.

Ekaterina Gubanova è la pedante (ma, purtroppo per Wotan, con tutte le ragioni di questo mondo) Fricka. Il loro colloquio-scontro nella prima scena è musicalmente porto in modo eccellente. L’unica critica che mi sento di fare (ma credo sia da indirizzare a Cassiers) è nella piattezza esteriore con cui i personaggi esternano i rispettivi stati d’animo che dovrebbero, per così dire, incrociarsi; all’inizio un Wotan spavaldo e sorridente e una Fricka infuriata; alla fine, Wotan disperato e Fricka trionfante. E in mezzo il progressivo trasmutare degli stati d’animo dei due coniugi. Invece qui assistiamo ad una scena monocorde, dove Wotan sembra già corrucciato fin dall’inizio e Fricka sembra ancora di cattivo umore alla fine, dopo aver cantato quella cosa straordinaria che comincia con Deiner ew’gen Gattin heilige Ehre…        

Da incorniciare invece (voce di Pape a parte, che non ha potuto esplodere come si deve il suo cruccio) la seconda scena, che purtroppo si presta ad essere considerata (soprattutto dallo spettatore superficiale) come un insopportabile mattone: ieri ne è uscito qualcosa di veramente emozionante, grazie anche a Barenboim e alla meticolosità con cui ha fatto emergere di volta in volta dall’orchestra i motivi che accompagnano il drammatico racconto di Wotan e ne evocano mirabilmente lo stato d’animo dissociato.

Dopo la movimentata terza scena, dove la Meier interpreta egregiamente i sensi di colpa di Sieglinde e le sue funeste previsioni, ecco l’incontro di Brünnhilde con Siegmund, un’altra delle pietre miliari dell’opera, culminante nel prodigioso mutamento di registro nella mente della Valchiria. Barenboim qui fa uscire dai violini tutta l’inebriante carica di entusiasmo, ebbrezza, amore e sollecitudine che ha invaso corpo e anima di Brünnhilde, musica che lascia sempre senza fiato e ti fa salire un groppo in gola.

Purtroppo la regìa rovina abbastanza la scena della morte di Siegmund, con quella stupida esagerazione del colpo di grazia che Hunding assesta ad uno che è già morto… Per fortuna salva tutto la musica: straordinario, all’inizio, l’intervento dei violoncelli ad esporre il tema della Primavera, prima dell’udirsi dei corni di Hunding.

La cavalcata che apre l’atto conclusivo è sempre un kolossal, ma forse ieri lo è stato un po’ meno del dovuto, chissà: mi è parso che le sezioni più pesanti (tromboni e tuba) fossero appunto meno pesanti del dovuto. Non strabilianti nemmeno le otto sorelline di Brünnhilde, piuttosto vocianti che cantanti.

Ma in fondo le preziosità vengono dopo, a cominciare dal momento dell’annunciazione che Brünnhilde fa a Sieglinde della prossima maternità, dove Theorin e Meier si sono superate, sull’apparire del tema di Siegfried e di quello della (cosiddetta quanto millantata) Redenzione.

E poi con la lunghissima scena conclusiva, costellata da momenti di musica uno più sbudellante dell’altro. Pape, di cui nel secondo intervallo era stata annunciata un’indisposizione, ha probabilmente tenuto tirato il freno per evitare guai (efficace il triplice Leb’wohl, un poco meno il colossale Wer meines Speeres Spitze fürchtet) tuttavia il suo mestiere gli ha consentito di portare fino in fondo e in modo più che onorevole il suo compito, ben assecondato da Barenboim che ha illuminato l’Incantesimo del fuoco con fantasmagorici bagliori (magari fin troppo accesi, nei due ottavini).

Un interminabile tripudio ha salutato la (prima!) giornata: certo dovuto anche all’eccezionalità dell’avvenimento (di Ring-come-a-Bayreuth la Scala ne fa uno al secolo…) ma credo anche all’obiettiva qualità – non ineguagliabile, sia chiaro – della performance.  
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Adesso una pausa (come a Bayreuth…) con Luchino Visconti e il suo memorabile Ludwig.
  

25 giugno, 2013

Un po’ di Bayreuth a Milano (1)


Dopo il primo, andato in scena dal 17 al 22, ecco al via il secondo ciclo del Ring scaligero.

Nell’ambito delle varie iniziative collaterali e di supporto all’offerta teatrale, le quattro giornate sono precedute da conferenze introduttive, ospitate nella prestigiosa sala dell’Auditorium Giacomo Manzù presso il Centro Congressi Fondazione Cariplo, a due passi dal teatro. A tenerle, accompagnandosi al pianoforte, è Elisabetta Fava, che ieri in meno di un’ora ha percorso le quattro scene del Rheingold con grande chiarezza ed efficacia: un’iniziativa davvero lodevole.

In teatro (il Piermarini presentava qualche posto vuoto) le cose sono andate discretamente bene: non certo per merito della regìa di Cassiers, di cui si sapeva e si era visto tutto, quindi al riguardo nessuna sorpresa, solo la persistente considerazione: la classica montagna (di quattrini!) che partorisce un topolino.   

Accettabile nella media la prestazione musicale: sopra la media Barenboim (cui magari avrei chiesto più… fretta) e l’orchestra, cui l’allenamento intensivo pare abbia giovato assai, e la coppia Johannes Martin Kränzle (Alberich) e Stephan Rügamer (Loge). Nella media il Wotan di Michael Volle (dopo una falsa-partenza…) la Fricka di Ekaterina Gubanova e il Fasolt di Iain Paterson. Un po’ sotto tutti/e gli/le altri/e.
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Dovendo rivedere (o meglio… risentire) il film di questa vigilia, citerei la cupa immobilità dell’attacco dei contrabbassi prima dell’arrivo delle ondate degli otto corni, che sono tanto mirabilmente vergate in partitura, quanto sempre difficili da rendere al meglio: dopo le prime due esposizioni disgiunte del tema (corni 8 e 7) abbiamo l’accavallarsi (a canone) delle onde, con quattro corni (da 8 a 5) che espongono le quattro battute del motivo (i primi 7 armonici naturali, tutte note della triade fondamentale di MIb, dalla tonica alla mediante due ottave sopra) sfalsati fra loro di due battute; quindi gli altri quattro corni (da 4 a 1) che cominciano ad entrare una battuta e mezza dopo il corno 5 e sfalsati fra loro di una sola battuta; infine la mutazione del tema (con la salita alla dominante superiore) per prima nel corno 8 (poi nel 4, nel 6, poi 3, 7, quindi 2, 5 e 1) e la successiva discesa. Ecco, essendo otto linee a canone, ma tutte costituite dalle note della triade, è persino difficile percepire – con tutto il rispetto per gli strumentisti! – se le successive entrate vengano eseguite precisamente come scritte… e anche ieri sera l’orecchio (il mio, quanto meno) non ne è rimasto pienamente appagato.    

Da incorniciare invece tutta la prima scena, con punte di grande emozione nella serenata di Flosshilde (Wie deine Anmuth mein Aug’ erfreut…) e nella blasfema quanto drammatica esternazione di Alberich (Erzwäng’ ich nicht Liebe…) fino all’impressionante So verfluch’ ich die Liebe! che segna la fine all’Eden e l’inizio della tragedia dell’umanità.

Qualche disagio all’entrata di Wotan (Vollendet das ewige Werk) chiusa da un affrettato e stentato hehrer herrlicher Bau! E anche Fricka non (mi) ha emozionato più di tanto, in quella perla che è herrliche Wohnung, wonniger Hausrath. I due si sono ripresi nel seguito, in specie Wotan, che ha acquisito più… autorevolezza (smile!)

Impressionante invece l’entrata dei giganti, dove timpani e tuba hanno letteralmente fatto tremare il teatro! Ben esposte le ansie amorose di Fasolt, un po’ meno le brutali maniere di Fafner.

Fantastica, proprio da sbudellamento, l’introduzione degli archi al racconto di Loge (So weit Leben und Weben) ed altrettanto mirabile la chiusa, con il fiorire di Freia e la stupefacente cadenza dell’oboe.

Dopo una parte finale non proprio brillantissima della seconda scena, efficace la transizione verso Nibelheim, dove abbiamo ritrovato un Alberich davvero convincente e un Mime piuttosto insipido. Efficacissimi i ritorni del trionfo di Alberich e musicalmente riuscite le sue due trasmutazioni, fino alla cattura, con il tema dell’anello che si avvita su se stesso…

La scena conclusiva ha – per sua natura – qualche momento di… caduta di tensione, dopo la liquidazione di Alberich e la sua drammatica (e splendidamente resa) maledizione. Da incorniciare però il meraviglioso ritorno – a canone – del tema delle Goldnen Äpfel che introduce l’aria (per così dire) di Froh, Wie liebliche Luft, che personalmente avrei gradito un po’ meno… letargica (smile!)

Sempre emozionante il momento dell’apparizione di Erda (qui era meglio chiudere gli occhi, causa Cassiers, che la trasforma in uno spaventapasseri…); un po’ tirato via l’Hedà-Hedò di Donner (fra l’altro non mi è parso di udire il singolo colpo di martello che lo chiude) e un filino coperto dagli ottoni lo sfavillare delle sei arpe che accompagnano la vista del ponte-arcobaleno.

Grandiosa l’entrata della tromba sulla Spada e strappalacrime il lamento finale delle Figlie del Reno. Un pochino in ombra la tubette nella poderosa cadenza finale, sovrastate dal peso degli altri ottoni.    
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In definitiva: un promettente primo movimento di questa colossale sinfonia che va sotto il nome di Ring.

Pubblico generosissimo di applausi e bravi! per tutti.

23 giugno, 2013

In attesa del Ring in 6 giorni


Lunedi 24 inizia il secondo dei due cicli completi del Ring che la Scala ha programmato per il bicentenario: sei giorni di full-immersion, con conferenze introduttive e film a contorno dei quattro appuntamenti.

Si è nel frattempo conclusa l’iniziativa OroWagner della Provincia di Milano, presso lo Spazio Oberdan, dove è andato in onda un programma di Lieder (wagneriani e non) cantati da Sabina Willeit con Giorgio Fasciolo al pianoforte. Quirino Principe ha introdotto e via via presentato il programma, esibendosi anche come recitante in un melologo.

In realtà la serata avrebbe potuto intitolarsi Wagner-nonsoloteatro o anche il-Wagner-dal-volto-umano (smile!) avendo come oggetto – nella prima parte - composizioni assolutamente minori (almeno dal punto di vista della diffusione fra il vasto pubblico) del genio di Lipsia, materiale composto principalmente nei duri anni parigini.

L’idea di Principe – originale e per nulla disprezzabile - era quella di accostare a Wagner altri compositori, presentando alcuni testi musicati sia dall’uno che dagli altri.

Così abbiamo potuto apprezzare il diverso approccio a Goethe di Wagner (1830) e Schubert (1814) sull’oggetto Gretchen am Spinnrade (dal Faust); ma anche del Verdi del 1838, che musicò quelle stesse strofe di Goethe tradotte da Luigi Balestra col titolo Perduta ho la pace.  

Principe ha poi recitato (sempre su testo dal Faust di Goethe) Ach, neige, du Schmerzenreiche, un melòlogo per il quale il diciottenne Wagner scrisse l’accompagnamento. Poi due canti del 1838-1839: Der Tannenbaum (di Scheurlin) e Dors, mon enfant (di anonimo). A seguire una poesia di Pierre de Ronsard (Mignonne) come musicata da Wagner nel 1839 e dalla compositrice francese Cécile Chaminade 55 anni dopo.

Poi ancora un faccia-a-faccia, stavolta fra Wagner e Saint-Saëns, avente come oggetto L’attente di Victor Hugo. Quindi un testo di Jean Reboul (Tout n’est qu’images fugitives) musicato da Wagner nel 1840 e quindi un nuovo confronto (Wagner-Schumann, 1840) sulla base di Le deux Grenadiers (Die beiden Grenadiere) di Heine, con tanto di riferimento alla Marsigliese.

In chiusura una cosa importante, come i Wesendonck-Lieder che meritano alla Willeit calorosi applausi, per i suoi buoni mezzi vocali e per la notevole sensibilità sfoggiata verso i contenuti di tutti i canti da lei interpretati.

Ma ora, silenzio… il Ginnungagap si sta spalancando sotto i nostri piedi.

L’ur-Macbeth è tornato a Firenze


Domenica 14 marzo 1847 il Teatro della Pergola di Firenze ospitava la prima di Macbeth. E quindi non c’era miglior occasione che il bi-centenario verdiano per riproporre la versione originale dell’opera proprio nel teatro che la vide venire alla luce.


Produzione dedicata assai opportunamente alla memoria di un grande personaggio recentemente scomparso: Bruno Bartoletti.

Ieri pomeriggio è andata in scena la penultima delle sei rappresentazioni, in un teatro quasi al completo, che alla fine ha accolto la recita con gran calore; e anche con grande partecipazione per la situazione a dir poco drammatica in cui si trova l’Istituzione teatrale fiorentina, sintetizzata da uno striscione recato dalle maestranze del teatro, che reclama di scongiurarne la chiusura:


Peraltro si direbbe che Graham Vick non nutra soverchie illusioni, se già suggerisce verso quale professione alternativa avviare le ragazze del coro:


(Lo so, può sembrare una freddura fuori luogo, ma spero abbia almeno un effetto scaramantico…)

E visto che ho tirato in ballo Vick, dirò che la sua proposta (coriste a parte, smile!) non mi ha particolarmente colpito: niente di trascendentale, qualcosa di simile (appena un pochino meglio, diciamo) a quanto propinatoci mesi fa alla Scala da Giorgio Barberio Corsetti.

Macbeth è un soggetto solo apparentemente storico, in realtà è per Shakespeare (e per Verdi!) un pretesto per trattare problemi universali e senza tempo: pulsioni dell’animo umano (soprattutto debolezze…) come sete di potere, complessi di inferiorità o turbe psichiche derivanti da malsani rapporti di coppia, e così via, freudianamente elencando. Quindi si tratta di archètipi di problemi anche nostri, perfettamente calabili nella realtà contemporanea. 

In linea di principio quindi, nessuno scandalo se Vick sposta l’ambientazione dal medioevo ai giorni nostri. Però il problema del regista è quello di trovare degli scenari non solo compatibili con quelli dell’originale, ma anche verosimili e plausibili proprio sul piano dell’attualità: viceversa, tanto varrebbe attenersi pedestremente al libretto, che se non altro garantisce (o dovrebbe farlo) il massimo livello di consistenza. 

Ma non basta: l’allestimento dovrebbe anche garantire coerenza con la parte musicale, che in fin dei conti è quella che conta di più. Per chiarire il concetto, proprio Vick, con il suo Mosè al ROF, aveva in pieno contraddetto quest’ultimo principio, mostrandoci uno scenario plausibile (le vicende recenti della lotta di Israele per la libertà, atrocità incluse) sulla colonna sonora rossiniana, la quale non supportava minimamente quell’ambientazione.

Qui Vick compie l’errore speculare: per fortuna non pretende di darci, a spese di Verdi, lezioni di storia o di (in)civiltà. Ma lo scenario che ci presenta può solo far sorridere: ma come, nel terzo millennio (o alla fine del secondo) vediamo bande armate di mercenari e agenti segreti inglesi e scozzesi che si fronteggiano, armate di mitra e kalashnikov, per supportare o scongiurare colpi di stato, in mezzo ad ogni genere di atrocità e ad esodi di massa (!?) Ohibò, ce lo vedete il patriota Sean Connery a cantare Patria oppressa in mezzo a profughi scozzesi bivaccanti nella stazioncina di Birna?

Purtroppo per Vick, la mediocre e prosaica modernità degli ambienti finisce per togliere all’allestimento quell’aura di mistero e di orrore garantita nell’originale dalle cupe muraglie e dai tetri ambienti dei medievali castelli scozzesi. Oltre a creare ridicole incongruenze con il testo; per dirne una: perché mai Macbeth deve ammazzare Duncano usando un pugnale, quando potrebbe evitare di sporcarsi le mani di sangue, impiegando comodamente una pistola con silenziatore? A proposito di pistole, all’annuncio della morte della moglie, il nostro non trova di meglio che sparare a bruciapelo alla di lei badante, sentenziando che tanto La vita!... che importa! (?!) Particolare curioso: la tuta qui indossata dal sovrano, ormai sulla soglia della follia, reca un marchio inconfondibile:


Per concludere: un allestimento né carne né pesce, che nulla aggiunge alla fama dell’estroso regista albionico.
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Sul fronte musicale c’è da registrare – contrariamente alla cervellotica edizione scaligera di Gergev-Corsetti - il rispetto totale della versione 1847. O meglio, quasi totale, dovendosi segnalare un paio di (peraltro non drammatiche) eccezioni: la mancata ripetizione dell’aria Trionfai! e l’apertura del coro dei profughi con le parole Patria oppressa e non Scozia oppressa.

Sulla prima eccezione andrebbe appurato se sia stata un’idea del concertatore o del soprano: vero è che Verdi per primo espunse quest’aria nel 1865, evidentemente ritenendola indegna del contesto, ma se si fa, tanto varrebbe farla come scritta. A supporto della seconda eccezione: l’esistenza di spartiti ben anteriori al 1865 che già recano Patria al posto di Scozia, segno che la variazione era intervenuta assai prima di Parigi.      

James Conlon ha diretto con grande sobrietà e sicurezza; mi sento però di imputargli una generale tendenza ad allungare, o allargare, i tempi. Ottima la prestazione della (ridotta) Orchestra del Maggio, con alcuni strumentisti (arpa e grancassa, poi le trombe della battaglia) dislocati anche nei palchi di proscenio.

Il coro di Lorenzo Fratini ha dato il meglio di sé, e gli facciamo tutti gli auguri del caso per non far davvero la fine delle… streghe!

Su un livello dal discreto in su tutti gli interpreti: Luca Salsi e Tatiana Serjan formano una coppia ben assortita, oltre che essere singolarmente apprezzabili. Lui ha fatto emergere tutti i risvolti della complessa personalità di Macbeth; a lei è forse mancato un filino di cattiveria in più, però ha il merito di non aver usato i suggerimenti dell’Autore (che voleva una Lady più parlante che cantante) come pretesto per… cantar male!

Marco Spotti ha qualche difficoltà a farsi udire sulle note più gravi, ma è stato un Banco (o Banquo) più che dignitoso.

Saimir Pirgu (Macduff) è stato bravo a porgere… la paterna mano, ricevendo applausi a scena aperta, cosa avvenuta praticamente al termine di ogni aria dell’opera.  

Antonio Corianò (Malcolm) si è onestamente comportato nella sua parte non proprio banale. Così come onesta e apprezzabile è stata la prestazione degli altri comprimari.
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Caro Maggio, che dire? Speriamo che te la cavi! (perché te lo meriti…)

14 giugno, 2013

Orchestraverdi – concerto n.38


Sta diventando un’abitudine per laVerdi chiudere la stagione principale con l’esecuzione di un’opera lirica in forma di concerto.

Dopo la positiva prova di Chénier dello scorso anno (con Bignamini) ecco questa volta Cavalleria rusticana diretta da Zhang Xian, in un Auditorium strapieno e trasformato in un forno (nessuno si aspettava di passare in poche ore da freddo e pioggia autunnali a caldo torrido sahariano, così il termostato della sala deve essere rimasto in posizione inverno… e a nulla è valso lasciare aperti i due portoni di ingresso): a parte il pubblico, chi ne ha sofferto di più è stata proprio la povera Zhang, che alla fine era bagnata come il classico pulcino. Ma in fondo questo è stato un prezzo piacevole da pagare per un successo pieno e meritato, per lei e per tutti.

Simpatico il prologo che Ruben Jais ha introdotto, ricordando i 150 anni dalla nascita di Mascagni, e consistito nella proiezione di un filmato con immagini e suoni del compositore livornese (presenti in sala due sue eredi che ne gestiscono… l’immagine). Una parte del filmato è dedicato alla Parisina, così si commemora anche D’Annunzio (coetaneo di Mascagni). Poi, proprio un attimo prima che la Xian salga sul podio, viene anche diffuso l’audio della presentazione che il Maestro fece dell’incisione di Cavalleria da lui diretta nel 1940 (50° anniversario della prima dell’opera). 

Qui un breve ma acuto scritto di Gerardo Vignoli sul verismo e sul confronto di civiltà musicali (italiana vs mitteleuropea) comparso in Musica&Dossier del settembre 1987.  
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Devo dire che queste esecuzioni in forma di concerto (o semi-scenica, poiché gli interpreti non si limitano a cantare, come fossero in sala registrazione, ma si muovono e si atteggiano proprio come fossero in scena) danno spesso un risultato migliore rispetto a spettacoli diretti da famosi (e stra-pagati) registi, che pensano più a proporre le loro idee che non a presentare quelle degli autori. In più c’è il vantaggio che lo spettatore si concentra sull’opera (soprattutto sulla musica) essendo dispensato dal lambiccarsi il cervello per decifrare il Konzept del regista di turno, distraendosi di conseguenza dall’oggetto principale.

E così ieri sera abbiamo potuto apprezzare quest’opera in tutta la sua modernità, a dispetto dei 123 anni di esistenza. Xian ne ha messo in risalto ogni più piccola sfumatura, dagli eccessi rumoristici ai tratti più zuccherosi e ammiccanti, dalle sguaiatezze veriste alle chiare deviazioni operettistiche: insomma, un’interpretazione coinvolgente e convincente. Cui ha contribuito la sicura prova del coro di Erina Gambarini, capace di passare dalle sognanti atmosfere degli aranci a quelle sanguigne del vino spumeggiante.

Quanto ai protagonisti, su tutti la Santuzza di Chiara Angella, splendidamente calata nella parte, che ha reso con grande efficacia, senza che mai gli eccessi veristici avvenissero a spese del canto.  

Poi Alberto Gazale, un Alfio autorevole e navigato, che ha ovviamente dato il meglio nella bizetiana aria del cavallo scalpitante.

Discreta la prestazione di Paolo Bartolucci (Turiddu): forse un poco a disagio nella siciliana di apertura (che non può non richiamare alla memoria il canto del marinaio che apre il Tristan) da cantarsi… a freddo e in qualche angusto spazio dell’ingresso al palco; poi mi pare si sia dignitosamente ripreso, specie nel duetto con Santa.

Elena Lo Forte era Lola: una parte non impervia, affrontata con sicurezza. E poi, diciamolo francamente, con quel vestito scarlatto (in mezzo a tutti gli altri neri) dalla generosa scollatura che ne metteva in grande evidenza le giunoniche forme, non poteva non attirare l’attenzione di tutti, mica solo di Turiddu (smile!)

Bene se l’è cavata anche l’abbondante (ri-smile!) Erika Fonzar nella parte di mamma Lucia.

Alla fine grandi ovazioni e applausi per tutti, a chiusura di una grande stagione. 

Ma laVerdi non chiude mai e, in attesa di settembre, offre al suo pubblico ben 20 spettacoli fra fine giugno e fine agosto.

07 giugno, 2013

Orchestraverdi – concerto n.37


Gaetano d’Espinosa, che dalla prossima stagione sarà Direttore Principale Ospite de laVerdi, si ripresenta sul podio con un bel programma che incastona un lavoro di Hindemith fra due opere di Mendelssohn. Sono due mondi solo apparentemente lontani, in realtà avvicinati dalla presenza di Weber, che in qualche modo ispirò il Mendelssohn del Sogno e che Hindemith fece direttamente oggetto della sua Metamorfosi.  

Ad aprire la serata l’Ouverture del Sogno: se si pensa che fu composta praticamente da un ragazzino, vien da dar ragione – magari solo nel caso specifico - a Schumann che parlava di Mendelssohn come di un nuovo Mozart! Tanto meravigliosa è la poesia e mirabile la struttura formale di questo autentico gioiello, certamente ispirato dall’Oberon di Weber prima che da Shakespeare, ma prodotto di un autentico talento naturale (le idiozie che Wagner scrisse su Mendelssohn nel suo Das Judenthum in der Musik trovarono la più palese e clamorosa smentita proprio da Wagner medesimo, che fece letteralmente razzìa di temi Mendelssohn-iani nel comporre i suoi capolavori).         

Se devo fare un piccolo appunto a D’Espinosa citerei la scarsa enfatizzazione dei famosi quattro accordi che aprono, intermezzano (?) e chiudono l’Ouverture: quelle corone puntate, secondo i miei gusti, meriterebbero più spazio di quanto non ne abbia loro riservato il Direttore, proprio per staccare più marcatamente con il parossismo dei violini che si slanciano sul tema delle fate. Per il resto, encomiabile direzione ed esecuzione.
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Paul Hindemith, che dopo svariati alti-e-bassi nei suoi rapporti con il nazionalsocialismo aveva finalmente deciso di emigrare (prima in Svizzera, con la moglie ebrea, e poi in USA, inizialmente da solo) compose la Symphonic Metamorphosis of Themes by Carl Maria von Weber for Orchestra (il titolo è più lungo della composizione, smile!) nel 1943 nella sua casa di New Haven (dove era titolare di una cattedra di Teoria della Musica a Yale) recuperando materiale che in origine era destinato ad un balletto di Léonide Massine, poi andato a monte.

Il titolo inglese (che è chiaramente al singolare, quindi la - non le – metamorfosi) fu espressamente voluto in omaggio al mondo che il compositore aveva abbracciato (almeno temporaneamente, in attesa che Hitler togliesse il disturbo) come una nuova Patria, tanto che Hindemith si arrabbiò assai quando il suo editore tedesco, ristampando la partitura per l’Europa nell’immediato dopoguerra, pensò bene male di tradurlo in tedesco…

I temi di Weber che Hindemith sottopone a metamorfosi non sono certo presi da Oberon, o Euryanthe, o dal Freischütz, ma da tre piccole composizioni per pianoforte a quattro mani (op. 60, del 1818 e op. 10 del 1809) e dall’ouverture delle musiche di scena per la Turandot di Schiller (1809). In origine pare che Hindemith intendesse comporre un’opera più estesa: fra i suoi appunti e schizzi sono stati trovati riferimenti ad altri 4 (o 5) brani (delle op. 3, 10 e 60) che evidentemente avevano attirato l’attenzione del compositore.

E non sono solamente i temi, ma praticamente i brani completi, che Hindemith non si limita ad orchestrare ma, appunto, a trasformare e reinterpretare a suo modo. Il risultato che ne consegue è una specie di breve sinfonia in quattro movimenti, per una durata totale di poco più di 20 minuti. Qui è l’autore stesso che la dirige con i Berliner, una dozzina d’anni dopo la composizione.

Il materiale weberiano di origine non è certo di prim’ordine: non è praticamente mai eseguito in concerto e per lo più è impiegato come esercizio per studenti. Ma Hindemith ne ha saputo cavare qualcosa di - quanto meno - interessante (non parliamo di capolavori, certo) a testimonianza della maturità che aveva ormai raggiunto e della capacità di padroneggiare le forme classiche verso le quali le sue attenzioni di studioso si erano rivolte. 
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Il primo brano (Allegro) viene dal quarto degli Otto Pezzi op. 60. I primi violini riprendono alla lettera la melodia originale, ma l’orchestra già ribolle di sonorità sgargianti, come testimoniano gli impertinenti interventi degli strumentini:


Il brano ricalca fedelmente l’intero pezzo di Weber, arricchendolo però di esuberanza e di humor.

Il secondo tempo (Scherzo, Moderato) è derivato dalla Turandot. Qui la storia assomiglia ad una catena di SantAntonio, così sintetizzabile: Hindemith prende a soggetto l’Ouverture di Weber, il quale per dare un sapore d’oriente al pezzo senza doversi immaginare o inventare la musica cinese, non aveva trovato di meglio che sfogliare il Dizionario musicale di Jean-Jacques Rousseau, dove aveva scovato una melodia cinese, che Rousseau aveva a sua volta scopiazzato (impercettibilmente modificandola) da un trattato sulla Cina di tale Jean-Baptiste Du Halde. Insomma, una genealogia che arriva, compreso lo sconosciuto e supposto originale cinese, alla quinta generazione! E ogni generazione ovviamente cambia qualcosa nel soggetto, in primo luogo la tonalità…

Mentre Weber aveva preso alla lettera la melodia di Rousseau, costruendoci sopra una (relativamente) breve ouverture attraverso ripetizioni variate del tema, Hindemith si permette anche qualche piccolo intervento sul soggetto weberiano, oltre ad abbassarne la tonalità di un grado.

Poi dilata ipertroficamente il brano, in pratica raddoppiandone la durata rispetto a Weber, ma sempre attraverso l’uso della variazione (o… metamorfosi?) o spostando il tema principale da una sezione all’altra dell’orchestra e contrappuntandolo con incisi o frammenti suonati dalle altre (trilli nei legni, veloci scale negli archi). In forma di passacaglia e con un procedimento abbastanza vicino a quello impiegato da Ravel nel suo Bolero, Hindemith ottiene un crescendo del volume del suono fino a raggiungere un climax, su un accordo tenuto dell’intera orchestra, al quale segue una specie di pausa di riflessione, rappresentata da un agitato recitativo dei primi violini.

E qui ecco l’esilarante sorpresa: arriva il jazz! Combinato con la fuga! Manco a dirlo sono i tromboni ad introdurre una versione fortemente sincopata del tema, che poi contagia l’intera sezione degli ottoni, cui in seguito dà il cambio quella dei legni, mentre percussioni e timpano dettano il ritmo proprio come in una band.

Il suono si dirada e sono i violoncelli a riprendere il tema principale, ma i fiati tornano a contrappuntarlo con stile jazzistico. C’è un siparietto di gloria anche per le percussioni (campane, triangolo, tomtom, gong, blocchi di legno) che vengono in primo piano e creano un curioso contrattempo, suonando sei battute in 4/4 mentre i timpani e i radi strumenti suonano una battuta in 3/4, due in 2/2, una in 3/4, una in 2/2 e una in 3/4… La chiusa è anch’essa sorprendente: un dolcissimo accordo di FA maggiore di legni, corni e archi bassi, impreziosito dal gong.

Il terzo brano è un Andantino, mutuato dal secondo dei Sei Pezzi op. 10:
Hindemith inizialmente espone alla lettera l’originale di Weber, ma poi ci mette parecchio di suo, ad esempio nella sezione corrispondente all’indicazione tranquillo.

Alla ripresa del tema principale, affidata al fagotto, il flauto occupa prepotentemente la scena, con un lungo recitativo di biscrome, che porta il brano alla conclusione.

L’ultimo tempo di questa specie di sinfonietta si rifà ancora all’op.60, precisamente al n°7, una Marcia. Notiamo un inciso che Hindemith sottolinea proprio come aveva fatto Mahler nel primo tema della sua Sesta:

E infatti non è difficile immaginare qualche sotterraneo legame che unisce circolarmente Hindemith, Mahler e Weber. Dunque: Mahler era ebreo (come la moglie di Hindemith) e come Hindemith aveva dovuto subire una qualche – più o meno blanda – angheria da parte degli ambienti legati all’antisemitismo; entrambi avevano trovato più o meno grande accoglienza in America, mentre la loro musica era bollata dal nazismo come degenerata; da parte sua, Mahler aveva avuto con Weber dei rapporti… post-mortem: quando aveva completato, dopo geniale decifrazione di schizzi e appunti, l’opera Die drei Pintos che Weber aveva lasciato allo stato di abbozzo. Non meraviglia quindi che Hindemith abbia in qualche modo voluto coinvolgere anche Mahler nel suo affaire con Weber!    
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Gagliarda l’esecuzione dei ragazzi, che D’Espinosa ringrazia alla fine quasi uno per uno… 

Chiude la bella serata l’Italiana. L’Orchestra la deve conoscere a memoria e D’Espinosa deve soltanto (ma questa non è una denigrazione, sia chiaro…) rinfrescargliela. Lui dà il suo sigillo personale con una clamorosa, quanto indebita, accelerazione nelle ultime cinque battute del finale, ma gli si può tranquillamente perdonare l’ardimento!

Per chi ama letture impegnative, ecco qui un corposo saggio su Mendelssohn del sommo Quirino Principe, comparso nel gennaio 1992 su Musica&Dossier.
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Chiusura di stagione… all’opera: Xian entra in Cavalleria