intime gioje

chiuder la prigione e buttar la chiave

29 aprile, 2011

Stagione dell’OrchestraVerdi - 32


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Quasi tutto francese il programma del concerto di questa settimana. Sul podio Tito Ceccherini, trentottenne di belle speranze, già però in via di trasformazione in altrettanto belle realtà.

Apertura con il Concerto in SOL di Maurice Ravel, interpretato da una vecchia conoscenza de laVerdi, il bravissimo Roberto Cominati.

Concerto composto a cavallo del 1930, dopo che Ravel (1928) aveva girato gli USA in lungo e in largo ed era quindi venuto a contatto diretto con la musica di laggiù (quantunque il jazz fosse già ampiamente di moda anche a Parigi) passando anche diverso tempo con Gershwin. E ascoltando il clarinetto piccolo esporre il motivo in FA#:

uno non può non pensare appunto a Gershwin e all'attacco della Rapsody in Blue.


Tutto il concerto (a parte l'Adagio) mostra chiare influenze jazzistiche, con ampio uso di ritmi sincopati; nell'iniziale Allegramente sentiamo anche del blues, come qui:

Cominati sembra voler alleggerire in tutti i modi lo spessore di questa musica, accentuandone la liquidità, piuttosto che le esasperazioni percussive.


Il lungo centrale Adagio assai è noto per aver impegnato Ravel fino alla consunzione fisica (parole sue). Le prime 33 battute (3/4, MI maggiore) sono affidate al solo pianista, che con la mano sinistra scandisce un ritmo quasi di walzer in 3/8 (battere su nota singola, levare su accordi di due note, e continuerà così – con rare eccezioni - per il resto del movimento) mentre la mano destra descrive la melodia:

Sui tempi di esecuzione si discute sempre all'infinito, però allorquando l'Autore, oltre alla tradizionale indicazione agogica, ha prescritto il tempo in modo perentorio e… meccanico (leggi: metronomo) bisognerebbe pur tenerne conto, cercando almeno di stare all'interno di una forchetta ragionevole (dove il ragionevole potrebbe essere, che so, il più-meno 5%, ma non – direi proprio – il più-meno 20%, pena presentare una parodia delle originali intenzioni dell'Autore).


Un'indagine che può fare chiunque su Youtube ci dice che i diversi interpreti di questo movimento tendono regolarmente a rallentare rispetto al metronomo di Ravel (76 crome). Ad esempio Argerich sfora di meno del 4% nelle prime 33 misure (che sono un po' il biglietto da visita) ed è un metronomo lei stessa, perché in diverse occasioni stacca sempre lo stesso tempo; con Dutoit nel 1990 poi, sul totale dell'intero movimento sfora di meno del 2% rispetto alla durata nominale. Il grandissimo (mio conterraneo) Michelangeli sfora di circa il 5% all'inizio e di poco più del 7% sull'intero movimento. Invece tale Bernstein (imitato anche da Cabassi, per dire…) va talmente da lumaca al punto da sforare di più del 18% nelle prime 33 misure, e di più del 22% sul totale! Ecco, questa è una cosa per me inaccettabile e ingiustificabile da alcun punto di vista estetico (dopo tutta la fatica che Ravel ha fatto per comporre quel pezzo!) Se poi a qualcuno piace anche così… vuol dire che gli piace anche la Gioconda ritoccata con i baffi (smile!)

Posso garantire – ma basta poco allenamento per farsi un'idea della velocità, anche senza un cronometro - che Cominati ha staccato qui un tempo ragionevolmente vicino (pur sempre più lento, ma mai come Bernstein) all'idea di Ravel: e la cosa non ha soltanto una valenza freddamente tecnica, ma squisitamente estetica (quanto meno rispetto alla prospettiva estetica dell'Autore).

Da encomio in questo movimento il lungo, bellissimo intervento del corno inglese di Antonio Palumbo.

Il breve Presto conclusivo è una palestra di virtuosismo, e non solo per il pianista. Ad esempio i due fagotti sono chiamati, nella sezione centrale, ad autentiche acrobazie, con inebrianti volate di semicrome, e lo stesso avviene verso la fine per tutti gli strumentini. Pezzo davvero di grande effetto, che Cominati chiude splendidamente, accolto da un autentico tripudio. Che lui ripaga con una parafrasi della Chanson bohème (tanto per restare in ambientazione spagnola in salsa francese).

Sylvano Bussotti è l'autore – oggi quasi ottantenne – della composizione successiva, praticamente inedita, il dramma in due parti e cinque atti Pater doloroso, di cui vengono eseguiti due frammenti: Sinfonia e Cielo. Vi suona qui anche Nicola Moneta con il suo gigantesco octobasse (il jumbo-contrabbasso) che darà poi il suo contributo anche al Bolero, affiancando i suoi… nipotini.

A me, che di Bussotti avevo ascoltato dal vivo – ma è passata un'eternità – soltanto il suo quartetto I semi di Gramsci, ha fatto un certo effetto ascoltare musica quasi diatonica (!) e per nulla astrusa, né (apparentemente, almeno) complicata. Quando Ceccherini abbassa le braccia, il primo ad applaudire, da centro platea, è un vecchietto che evidentemente quella musica deve conoscere a memoria: l'Autore! Che sale sul palco a ricevere meritati applausi… alla carriera.

Dopo l'intervallo eccoci a Debussy e le sue immagini di Iberia, un trittico incastonato in un altro trittico più ampio (fra Gigues e Rondes de Printemps). C'è chi ha descritto la tecnica compositiva qui usata da Debussy come puntinismo (pointillisme, una scuola pittorica vicina all'impressionismo, i cui adepti usavano dipingere quadri coprendo la tela, anziché di pennellate tradizionali, di una miriade di puntini; una specie di anticipazione manuale dei pixel dei moderni monitor!) In effetti la partitura di Images è ricchissima di piccoli dettagli di colore, che creano uno straordinario effetto d'insieme. Proprio mentre Debussy componeva Iberia, Maurice Ravel aveva appena pubblicato la sua Rapsodie espagnole, che una qualche influenza deve aver avuto sul più anziano e famoso Claude.

Il primo brano (Par les rues et par les chemins) ha un tempo ternario (3/8, da seguidilla, per intenderci) e sono i clarinetti ad esporne il tema principale, in SOL:



Sembra proprio di sentire suoni (e polifonie) che escono da case e locali di un tipico ambiente spagnolo, o semplicemente il brusio della gente che passa o i rumori del traffico. Al centro del brano c'è una sezione più lenta in 2/4 (ma suddivisi in 12/16, quattro terzine) quasi una pausa per la siesta (smile!) o l'inoltrarsi su stradicciole fuori mano. Qui c'è ampio impiego di rubato, prima del ritorno del tempo 3/8, che ci riporta ad una certa concitazione urbana, fino alla chiusura su una mirabile cadenza, che preannuncia il crepuscolo.

Il secondo brano (Les parfums de la nuit) è una cosa davvero strepitosa, un'evocazione di sensazioni che si provano guardando il cielo stellato, ascoltando un usignolo lontano, o inspirando i profumi che emanano dai giardini fioriti. Proprio mentre Debussy completava quest'opera, un suo ammiratore – e amico intimo di Ravel - Manuel de Falla, iniziava a comporre Noches en los jardines de España: che certo deve aver tratto ispirazione da questo brano, oltre che da Ravel. Peraltro de Falla, da spagnolo verace, ha un approccio forse più descrittivo, che non evocativo, rispetto ai suoi colleghi francesi. Tornando a Les parfums, in esso arpa, celesta e xilofono, assieme alle campane che emergono nel finale, vengono sapientemente usati per creare l'atmosfera notturna, una notte dove si fa però risentire anche il tema del primo brano, ad evocare il giorno passato ed anticipare quello che si appresta a sorgere.

Ed infatti il terzo brano (Le matin d'un jour de fête) si apre in modo ancora sonnolento, poi le campane annunciano la festa, che si scatena in ogni dove. C'è anche un intermezzo quasi comico, col violino che improvvisa un bizzarro assolo, disturbato due volte dai sordi colpi del tamburo basco (sembra quasi Sachs che rovina la serenata a Beckmesser, smile!) prima che il tutto precipiti verso una esilarante conclusione in SOL, che suscita grandi applausi del pubblico per l'orchestra e per Ceccherini.

Il concerto si chiude in bellezza (per la verità una bellezza un pochettino volgarotta, ammettiamolo) con il raveliano Bolero, che pare essere il brano di musica (cosiddetta) classica più eseguito al mondo (qualcuno ha calcolato che venga suonato – in un qualche posto del pianeta - in media ogni quarto d'ora!) e che abbia creato un'autentica montagna di quattrini (in diritti d'autore) finiti però nelle tasche di svariati approfittatori. Si dice che Ravel – figlio di un ingegnere meccanico e lui stesso dotato di una mente matematica - vi volesse immortalare in musica l'incessante martellamento di magli o macchine utensili di fabbriche e officine, mentre qualche psichiatra tende a vederci piuttosto i segni di incipiente demenzialità (smile!)
Chissà cosa ne pensa al proposito lo strumentista più impegnato qui - giacchè non ha letteralmente una sola battuta di pausa – ossia l'addetto al primo dei due tamburi militari. Il quale ha da eseguire quest'unica cosuccia:

Roba da nulla, parrebbe, se non fosse che il povero malcapitato – Ivan Fossati, per l'occasione sistemato proprio davanti al Direttore, come un solista che si rispetti - è tenuto a ripeterla ininterrottamente per 169 volte, non una di meno: una vera e propria tortura cinese! (Magra consolazione: per le ultime 24 ripetizioni il nostro tamburino è raggiunto anche dal suo secondo, che lo sostiene così nell'ultimo supremo sforzo.) Poi resteranno solo due battute per finirla lì, dopo un quarto d'ora (più o meno) di menata di torrone:



E ancora a proposito di durate, Ravel ha indicato (ma dopo vari ripensamenti, in questo caso) il metronomo di 72 semiminime al minuto. Datosi che le battute sono 340 in 3/4, e non vi è mai alcun cambiamento di agogica, si può dedurre matematicamente la durata nominale del brano: 14 minuti e 10 secondi. Si narra che nel 1930 Toscanini suonò il Bolero con la sua NYPO a Parigi, Ravel presente, e tenne come suo solito tempi assai stretti, chiudendo in 13'25". Ci mancò poco che Ravel gli togliesse il saluto! Ma si scoprì che Toscanini aveva – come quasi sempre – ragione: sulla copia della partitura in suo possesso era chiaramente indicato il metronomo 76, corrispondente – ma proprio al secondo - al tempo da lui tenuto. E infatti Ravel aveva, ma solo sulla sua personale copia, impiegata per una incisione con la Lamoureux, corretto il 76 in 66 (corrispondenti a 15'25", due minuti pieni in più). Alla fine il compositore optò per una via di mezzo (72, appunto).

Tornando a bomba, su quell'ossessionante ritmo si appoggiano due soli temi, A e B, entrambi in DO maggiore, ma con il secondo pesantemente inquinato da gradi diminuiti.
Entrambi i temi si estendono su 18 misure, suddivise in 8 (prima sezione del tema) più 8 (seconda sezione) più 2 (transizione). Vengono presentati accorpati in una cellula strutturata in A-A-B-B (per un totale quindi di 72 misure), cellula ripetuta per 4 volte. Dopodichè viene riesposto il tema A, seguito immediatamente dal B, ma un B modificato nella seconda sezione per sfociare nella cadenza conclusiva (che passa fugacemente dal MI maggiore).

Parliamoci chiaro, una simile mappazza, già di per sé stomachevole, risulterebbe del tutto indigeribile se non fosse presentata con qualche opportuno facilitatore digestivo. Che per Ravel consiste in due abili trucchi: sul lato della melodia, far suonare le 18 ripetizioni dei temi A e B ogni volta da strumenti (dapprima singoli, poi a gruppi) diversi; su quello dell'accompagnamento ritmico, aggiungendo di volta in volta al tamburo militare l'intervento di altri e diversi strumenti.

Un ulteriore accorgimento impiegato dal compositore risiede nel far progressivamente aumentare il volume del suono, sia incrementando gradatamente la dinamica dal pianissimo al piano al mezzo-piano al mezzo-forte, al forte, per arrivare al fortissimo di tutta l'orchestra in vista della perorazione finale; sia ingrossando via via le fila degli strumenti in azione: inizialmente uno soltanto e successivamente 2,3,4… fino alla piena orchestra. E un altro accorgimento consiste – a partire dalla terza esposizione della cellula AABB – nel far raddoppiare la melodia a strumenti in tonalità diverse dal DO (ad esempio MI, come nella quinta proposizione del tema A, nell'ottavino).

Tutto ciò e riassunto nello specchietto consultabile qui (costruito a partire dall'edizione Eulenburg 8023 EE6865 del 1994). Anche se la scala orizzontale non rispetta le proporzioni fra i gruppi di battute, dalla figura si ricava un colpo d'occhio immediato del progressivo addensarsi dei suoni e della distribuzione dei compiti fra i diversi strumenti dell'orchestra. Si noti come le melodie dei due temi principali siano in misura preponderante affidate agli strumentini e come agli archi venga riservato prevalentemente un ruolo di armonizzazione e ai corni quello di sottolineatura del ritmo (dettato dal primo tamburo militare). Curioso (e dispendioso assai!) il limitatissimo impiego della celesta (che suona, con i due ottavini, la quinta esposizione del tema A) come quello di piatti, grancassa e tam-tam, che compaiono solo nella cadenza conclusiva.

Inutile dire dell'immancabile successo, con pubblico ubriacato e delirante: ma sì, con i tempi che corrono, cosa si pretende di più…

Il prossimo appuntamento vedrà il ritorno dell'accoppiata Schumann-Mahler. Con opere che – per ragioni del tutto diverse – sono uscite allo scoperto decine di anni dopo essere state composte.
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27 aprile, 2011

Teatro alla Scala e Filarmonica della Scala: rapporto virtuoso o vizioso?

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Si legge sempre più spesso su stampa, e soprattutto su blog, del progressivo decadimento delle prestazioni dell'Orchestra scaligera, nel repertorio operistico e più ancora in quello concertistico. E parecchia confusione sotto il sole esiste fra Orchestra del Teatro alla Scala e Orchestra Filarmonica della Scala. La struttura e la natura dei rapporti fra le due istituzioni meritano qualche osservazione e considerazione.
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Fino al 1982 il Teatro alla Scala aveva alle sue dipendenze gli orchestrali, che per contratto dovevano coprire la stagione principale (opera/balletto) ed anche la stagione sinfonica, che Toscanini aveva voluto a suo tempo per alzare il livello professionale dei musicisti, in base alla considerazione che la musica operistica sia (con rispetto parlando) di serie-B rispetto a quella strumentale-sinfonica e che quindi l'impegno in quest'ultima non possa che giovare ad innalzare la qualità della prima.


Nel 1982, da un'idea di Abbado e con il supporto di alcuni mecenati (Canale5 in testa, Confalonieri però, mica Berlusconi!) nacque l'Associazione Filarmonica della Scala: in sostanza, orchestrali dipendenti del Teatro alla Scala si costituirono in entità separata (l'Associazione) al precipuo scopo di operare in profondità nel campo strumentale e sinfonico. La cosa era fatta dichiaratamente in imitazione dei Wiener Philharmoniker.

I quali Philharmoniker sono sì un'Associazione formata esclusivamente da componenti dell'Orchestra della Staatsoper (oggi 127 su 141) ma con questa hanno un rapporto chiaro ed univoco: la stagione di opera e balletto, punto, e per quella soltanto sono stipendiati. Salvo rarissime eccezioni (una sarà proprio quest'anno, il 18 maggio con Daniele Gatti, per ricordare Mahler, che fu direttore lassù) la Staatsoper non ha un programma di concerti, ma produce esclusivamente opera e balletto. E va da sé che i contratti di lavoro dipendente degli orchestrali con la Staatsoper prevederanno tutti i vincoli e la remunerazione legati al supporto della stagione opera-balletto. Rispettati quei vincoli, i Philharmoniker hanno poi, e la gestiscono in proprio, la loro stagione di concerti, principalmente al Musikverein (che nulla ha a che fare con la Staatsoper, essendo la sala della Società degli Amici della Musica) e poi a Salzburg e in altre tournée. E ovviamente gestiscono tutto il business indotto a livello media.

Esiste quindi una chiara distinzione di attività fra Opera/Balletto (pertinenza del Teatro, che per questo paga gli strumentisti dipendenti) e Concerti (pertinenza dei Philharmoniker, che si autogestiscono). Ed esistono per le due attività controparti ben distinte e trasparenza massima fra prestazione e remunerazione. L'ampiezza dell'organico della Staatsoper – che oggi include anche una seconda orchestra (Das Bühnenorchester der Wiener Staatsoper) composta da ben 41 strumentisti (non eleggibili ad entrare nei Philharmoniker) - consente anche frequenti sovrapposizioni di date fra il calendario operistico e l'attività autonoma dei Philharmoniker.

Al proposito, un caso speciale è rappresentato dalla Staatskapelle Dresden, forse la più antica orchestra esistente (da quasi mezzo millennio!) che suona prevalentemente alla Semperoper di Dresda, sia per darvi i propri concerti che per supportare la stagione operistica di quel Teatro. Anche loro hanno un organico che gli permette l'ubiquità, ad esempio – il prossimo 10 maggio - accompagnare alle 19 una Gazza ladra a Dresda con il nostro bravissimo Michele Mariotti, e contemporaneamente – alle 20 - tenere un concerto a Parigi col venerabile Eschenbach!

Come funziona invece la cosa a Milano? Intanto c'è una notevole differenza di organici, rispetto a Vienna. L'Orchestra della Scala ha oggi 116 dipendenti e la Filarmonica 97 associati. È evidente che l'una e l'altra dovranno ricorrere spesso ad ingaggiare musicisti esterni per far fronte ai diversi impegni (in nessuno dei due organici è specificamente presente il ruolo del timpanista!) In ogni caso – a differenza di Vienna e Dresda – qui non c'è mai sovrapposizione fra attività di Teatro e di Filarmonica.

Ma la differenza fondamentale rispetto a Vienna riguarda i cartelloni. Il Teatro alla Scala, oltre alla stagione principale (opera/balletto) ha in calendario – a differenza della Staatsoper – anche una propria stagione sinfonica (5 titoli per 15 concerti nel 2010-2011, più altri concerti diversi). Questa stagione non è da confondersi con quella della Filarmonica della Scala (nel 2011: 12 concerti in Scala e 12 fuori-sede) anche se capita che qualche concerto delle due stagioni abbia contenuti simili e stessi protagonisti (direttori, solisti di strumento e di canto).

La cosa curiosa è che entrambe le stagioni sono coperte dalle prestazioni di un unico organismo: la Filarmonica! In sostanza accade che gli strumentisti della Filarmonica, come i viennesi, sono allo stesso tempo lavoratori dipendenti (del Teatro) e lavoratori in proprio (nella loro Associazione, per la propria stagione, e per lo sfruttamento commerciale della loro attività) ma in più qui sono anche prestatori d'opera esterni nei confronti del Teatro (di cui in gran parte sono anche dipendenti!) per coprirne la stagione sinfonica.

Già a questo punto un ingenuo non capisce perché non si sia fatto come a Vienna, cioè il Teatro non si limiti alla stagione opera/balletto e la Filarmonica – rispettati i vincoli di tale stagione – non si faccia totalmente in proprio tutti i concerti che vuole. Vero è che a Milano non esiste un Musikverein, ragion per cui la Scala, reclamando la sua fama, pretende (ma deve?) anche rimanere sede di concerti, ma è altrettanto vero che un teatro non è proprio il luogo più adatto per questo tipo di spettacolo.

Ma passiamo oltre: essendo, per la stagione sinfonica del Teatro (i 15 concerti) i Filarmonici un fornitore esterno e indipendente, essi dovrebbero – secondo sane leggi di mercato - intrattenere con il Teatro medesimo un regolare rapporto di fornitura, che preveda condizioni, prezzi e l'invio di regolare fattura di prestazione, che il Teatro dovrebbe regolarmente pagare. In un regime di mercato poi, il Teatro dovrebbe essere libero di affidare di volta in volta la propria stagione concertistica al miglior offerente, scelto con regolare gara d'appalto, in base a criteri di price/performance (quindi non esclusivamente alla Filarmonica).

Invece le cose stanno in tutt'altro modo. La prima cosa bizzarra è che per queste prestazioni concertistiche la Filarmonica non incassa un solo Euro dal Teatro! Come si spiega questa apparente stranezza? Ecco, il tutto è sancito in una convenzione Teatro-Filarmonica, dove i concerti della stagione del Teatro sono definiti come concerti in restituzione: ma restituzione de chè? Evidentemente di quella parte di stipendio che gli orchestrali continuano bellamente a percepire dal Teatro come ai tempi in cui con esso avevano anche impegni di lavoro dipendente di tipo concertistico, in aggiunta a quelli di tipo operistico.

Altra considerazione: la metà o più dei concerti della Filarmonica (12 quest'anno) si tengono comunque dentro il Teatro alla Scala, dove vengono anche effettuate quasi tutte le prove. Quindi la Filarmonica, per le sue attività, diventa cliente del Teatro, da cui acquista l'impiego della struttura, di cui però paga solo una parte dei costi (costi della tecnica, come definiti in gergo nella suddetta convenzione) quindi anche qui non certamente un prezzo di mercato.

Insomma, per riassumere:
1. Il Teatro ha alle sue dipendenze un organico orchestrale per la sola stagione opera/balletto;
2. Gli orchestrali (oggi 97 su 116) sono anche riuniti in Associazione Filarmonica indipendente;
3. Il Teatro ha in cartellone anche una stagione sinfonica, la cui copertura è appaltata in esclusiva alla Filarmonica, e a costo zero;
4. La Filarmonica utilizza le strutture del Teatro per tenervi prove e concerti della propria stagione, e ne paga soltanto parte dei costi.
I punti 3. e 4. sono regolamentati da una convenzione fra Teatro e Associazione (che prescinde quindi da ogni legge di mercato).

Ora, non c'è bisogno di pensar male nell'immaginare che una situazione di questo genere, che presenta (come minimo) assai scarsa trasparenza, sia stata – come spesso accade da noi – creata a bella posta in modo da lasciare aperti enormi spazi di discrezionalità (a tutte le parti e a tutti i livelli) e consentire i soliti giochini, aumma-aumma, intrallazzi e privilegi diversi.

Insomma, abbiamo messo in moto un'imitazione che temo - come molte cose fatte all'italiana - abbia da Vienna copiato puntualmente i problemi, senza invece conseguirne i benefici. A proposito dei quali: lo scopo principale della fondazione dei Wiener (promossa da Otto Nicolai attorno al 1840, quasi 150 anni prima che ad Abbado venisse la stessa idea) fu quello di far crescere la qualità dell'orchestra – tramite l'impegno concertistico – da cui poi potesse trarre vantaggio la Hofoper (oggi Staatsoper) per la stagione operistica.

Ecco, da quanto si sente e si sente dire, almeno ultimamente, pare che a Milano ci sia invece una rincorsa verso il peggio.
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22 aprile, 2011

AAA cercasi urgentemente regista per il Ring del bicentenario


Per la verità neanche il Kapellmeister sembra più così sicuro. Si vocifera che Kirill Petrenko – che proprio dal 2013 succederà a Nagano all'Opera di Stato bavarese, un posticino che non gli lascerà troppo tempo libero - non abbia ancora messo nero su bianco il contratto con le sorelline Wagner… Ma in ogni caso qui non ci sarebbero problemi, anzi: il de-facto direttore musicale di Bayreuth, Christian Thielemann, è lì pronto e a disposizione per ogni bisogna.

 
Più complicate le cose sul fronte regìa, dopo la recente rinuncia di Wim Wenders, dovuta a diversità di …vedute (leggi: pecunia) con le discendenti del grande Richard. Pare che il regista volesse ricavare anche un film in 3D dalla nuova produzione e ciò ne avrebbe fatto salire i costi di una bazzecola, 3 milioni e mezzo di Euri, da spillare alla società di Kathi Wagner che gestisce tutto il media del Festival. Ritorni? Se ne sarebbe parlato non prima del 2015-16, e poi come sarebbero stati ripartiti gli (eventuali) utili? Ecco, la sbrigativa co-direttrice non ci ha pensato due volte e ha mandato Wenders a quel paese, cosa che lui ha prontamente fatto un paio di settimane fa.

Però adesso bisogna trovare qualcuno e in fretta, per non rischiare il mezzo flop del precedente ciclo, affidato in fretta e furia a Dorst dopo la rinuncia di vonTrier e salvato solo dalla presenza di Thielemann sul podio. C'è chi ipotizza che sia proprio la megalomane Kathi ad auto-assegnarsi l'incarico, visto lo strepitoso successo (smile!) dei suoi Meistersinger. Poi c'è qualcuno che ha fatto già dei poll (di quelli per la verità abbastanza ridicoli, che hanno un campione di qualche decina di votanti, fra i lettori di blog). Da uno di questi è uscito vincitore Stefan Herheim (di cui si rappresenta ancora quest'anno Parsifal, con Gatti). Qui invece preferiscono Calixto Bieito, un nome, un programma!
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20 aprile, 2011

Stagione dell’OrchestraVerdi - 31


Settimana Santa. E chi meglio di Bach per santificarla?

Ruben Jais (il papà de laVerdi Barocca) sale sul podio dell'Orchestra maggiore per dirigere la monumentale Passione secondo Matteo (tre ore e un quarto nette di musica!)

Ieri sera il primo dei tre appuntamenti, introdotto proprio da Jais con una eccellente presentazione dell'opera, subito prima del concerto. Jais ha ricordato le tradizioni luterane che introdussero la consuetudine delle sacre rappresentazioni e più da vicino le vicende legate alla produzione delle Passioni bachiane a Lipsia e in particolare alla Matthäus-Passion. Di cui ha sottolineato l'impiego di due formazioni strumentali-coristiche, a supporto dei solisti, ricordando come ai tempi di Bach le risorse disponibili fossero assai scarse e ben lontane dall'ipertrofismo di certe esecuzioni moderne (à la Richter, per intenderci) e come certe tecniche (vedi il vibrato) fossero allora di rarissimo impiego, a causa delle caratteristiche delle corde (di budello, e non metallo). Interessante anche il legame ideale con le modalità gregoriane (che Bach contribuì peraltro a superare in favore della tonalità) testimoniato in questo caso dall'impiego, nell'introduzione, della tonalità MI, legata al deuterus, considerato il modo mistico per eccellenza.

Sul palco le due orchestre sono disposte a sinistra (la prima) e a destra (la seconda) guidate rispettivamente da Santaniello e Ricci. Il coro degli adulti e quello delle voci bianche (che è presente nella prima parte) sono sul fondo e a loro volta divisi in due, associati alle due orchestre. Al centro organi e continuo e, nella seconda parte, Amélie Chemin con la viola da gamba. In tutto, meno di 50 strumentisti. Nove i solisti di canto, molti già apparsi in Auditorium in precedenti simili occasioni: tutti encomiabili, con punte di eccellenza per il tenore Sakurada (Evangelista) e il controtenore Hansen (che ha cantato le parti previste per il contralto).

Come sempre pregevole la proiezione sugli schermi dei testi (originale tedesco e traduzione italiana – di Quirino Principe) cosa che nei teatri che pur dispongono di display alla poltrona non viene fatta mai in occasione di concerti.

Pubblico foltissimo, nonostante l'orario anticipato di inizio (19:30, per evitare di chiudere a mezzanotte!) e che ha tributato a tutti - esecutori e maestri/e - un lunghissimo e meritatissimo applauso.

Personalmente mi viene di citare, di tutta una prestazione eccellente a dir poco, il momento della morte di Cristo, quando l'Evangelista recita Aber Jesus schriee abermal laut und verschied. Ecco, il corale successivo (Wenn ich einmal soll scheiden) è emerso in pianissimo, con un effetto emozionante, da stringere il cuore: davvero una perla fra le perle di questa esecuzione.

Dopo Pasqua (ma all'Angelo ci sarà ancora Jais con la Barocca) la stagione principale riprende con il Novecento francese (con intermezzo italico).
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19 aprile, 2011

Gergiev fra una Turandot e l’altra


In questo periodo Valery Gergiev deve aver preso alloggio alla Scala, dato che quasi tutte le sere vi sale sul podio, o per una delle tante repliche di Turandot o per dirigere i tre concerti della Stagione Sinfonica, per i quali l'Orchestra Filarmonica agisce in veste di fornitore esterno di prestazione al Teatro.

Ieri sera secondo concerto (il terzo giovedi 21) con un programma tutto slavo.

Che prevede dapprima il celebre Concerto per violoncello di Dvorak, interpretato dal grande Mario Brunello.

Sappiamo ahinoi che i corni non sono propriamente la punta di diamante dell'orchestra, ma devono anche essere vittima di una discreta dose di sfiga, diciamolo pure. A battuta 56 dell'Allegro iniziale, assai prima dell'entrata del solista, c'è (ritardando, un poco sostenuto) il bellissimo intervento del primo corno, 9 misure, che espone la struggente melodia in RE maggiore:


poi proseguita dal clarinetto. Insomma, non sembrerebbe poi così impegnativa come l'apertura del Till… eppure ci scappa una inopinata, quanto clamorosa stecca, proprio sull'ultimo FA#. Managgia! Perché per il resto, Ciajkovski compreso, le cose non andranno neanche tanto male, anche se la perfezione è molto lontana.

Brunello suona invece da dio, riuscendo a suscitare, da questa pagina pur inflazionata, grandi emozioni, in specie nel centrale Adagio, ma non troppo. Gergiev fa di tutto per lasciargli sempre il primissimo piano, o per far emergere altre voci solistiche (in specie i clarinetti) e facendo poi sfogare l'orchestra nei pochi fracassi di prammatica. Gran trionfo per il solista che regala anche un bis.

Ecco poi Ciajkovski e il suo estremo capolavoro, la Patetica. Gergiev la conosce ovviamente a memoria (Dvorak invece lo leggeva, smile!) ma ogni volta ci mette qualcosa di nuovo. Quando tale Hanslick ascoltava cose come queste, affermava che si tratta di musica che puzza (sic!) Ora, Gergiev, specie nel movimento iniziale, deve aver cercato di dar ragione in tutti i modi al burbero critico ottocentesco. Forse non era proprio puzza quella che emanava dai suoni, magari era pure un profumo, ma di quelli ottenuti buttando melassa sull'incenso. Ecco, tutte le possibili esagerazioni sono state messe in campo: ammiccamenti gigioneschi, brodo di giuggiole in quantità, tempi stirati continuamente, dal lento esasperante ad improvvise quanto gratuite accelerazioni. Insomma, una cosa abbastanza disdicevole.

Dopodichè, tutto d'un fiato, i restanti tre movimenti sono tirati via da Gergiev quasi con fretta e supponenza, come a dire: la mia inventiva ve l'ho propinata all'inizio, il resto sarà per un'altra volta. Il pubblico ringrazia e aspetta la prossima occasione.
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18 aprile, 2011

Milano musicale annuncia l’11-12





Tra venerdi pomeriggio e stamattina le due principali Fondazioni musicali milanesi hanno annunciato le rispettive stagioni 2011-2012.

Noblesse-oblige è toccato per prima alla Scala. Un abbonato (come il sottoscritto) ha ricevuto con congruo anticipo una missiva (sì, proprio cartacea, in busta di colore giallognolo con logo rosso del teatro, come da standard scaligero) inviata tramite Poste Italiane, che ancora maneggiano carta, e recante l'invito formale ad assistere alla presentazione della Stagione 2011-2012 del più famoso teatro al mondo. La Scala ha 10.000 abbonati? Ecco, 10.000 lettere spedite per posta manuale.

Nella busta è contenuto un cartoncino (mica carta riciclata, scherziamo?) con cui si prega l'abbonato di recarsi alla biglietteria centrale della Scala per ritirare il biglietto d'ingresso al teatro. (Precauzione più che logica, del resto, chè il Piermarini può ospitare al massimo 2000 anime, anzi, corpi, e quindi l'accesso va contingentato).

Finalmente l'abbonato ha in tasca il biglietto (non numerato) per l'ingresso all'epocale (ma sì, facciamo i grandi!) evento. Dico, cosa si aspetterebbe un qualunque suddito di zia-Letizia? Ecco, io, ingenuo naif alle prime armi, avevo pensato a quanto segue.

Intanto le poltrone delle prime 5 file di platea saranno di certo ricoperte da cartelli con la scritta "Riservato" (ad autorità, cardinali, generali di corpo d'armata e amici-degli-amici, oltre che a stuoli di rappresentanti della stampa). Fotografi e cineoperatori in ogni angolo. Poi sul palco ci sarà un tavolo largo almeno 15 metri, dove prenderanno posto: il sovrintendente, almeno un vice-zia-Letizia (se non proprio lei in persona) il direttore musicale (o facente funzione) e poi come minimo un rappresentante dell'orchestra e uno delle cosiddette masse. Un famoso critico musicale farà da conduttore, cedendo via via la parola agli oratori e presentando il materiale audiovisivo. Infatti, di sicuro dietro il tavolo ci sarà uno schermo gigante (o magari 3-4-5) su cui verranno via via proiettate le immagini degli oratori che parlano e una serie esaustiva di video-clip in cui ci verranno mostrate le anteprime delle produzioni in cartellone, o schizzi e idee di quelle nuove di zecca, e poi interviste a direttori, registi e cantanti che ci allieteranno nella prossima stagione. Alla fine, una sessione di Q&A fra giornalisti accreditati e management del più importante teatro del pianeta. Durata della kermesse: diciamo un'ora e mezza (17-18:30) in modo da chiudere in tempo per preparare il teatro alla Turandot, in programma alle 20.

Ecco, questo era il sogno (ma in realtà qualunque convention o kick-off aziendale è organizzato più o meno così, e non da oggi). La realtà? All'ingresso troviamo i dépliant con il programma della prossima stagione. Io entro in platea e vado avanti, avanti, avanti fino a sbattere contro il parapetto che divide la platea dall'orchestra. Dico, mi siedo in fila A (la prima!) posto 15, esattamente al centro; nessun posto riservato, nessuna uniforme militare o religiosa nei paraggi. Giornalisti? Non parvenu. Fotografi e telecamere? Manco l'ombra. Sul palco c'è un patetico e traballante tavolino 150x60, ricoperto di un panno rosso, su cui stanno un microfono, una minerale da 50cl e un bicchiere. Dietro, il rosso siparione bordato oro. Sono le ore 16:40. Io, come tutti i (diciamo 500?) intervenuti, mi leggo, rileggo, analizzo e mando a memoria il programma, già facendo commenti e valutazioni sul Don, sulla Frau, sui Contes, sul Grimes; mando anche qualche bestemmia (per tenermi in allenamento, smile!) leggendo che fra le 10 opere in abbonamento c'è la Tosca di Bondy, mannaggia a lui (ma dico: perché non il Don Pasquale accademico?) 

Alle ore 17:10 scende sul palco monsieur Lissner, solo soletto, che si siede al tavolino. Stappa con un certo sforzo la minerale, riempie a metà il bicchiere e poi saluta gli intervenuti. Indi, con studiato accento francese, legge ad uno ad uno i titoli delle opere in cartellone, che già avevamo mandato a memoria nell'aspettarlo. Fa anche qualche commento, meno interessante della lettura dell'elenco telefonico. Beve pure un sorso d'acqua perché, si sa, i lunghi discorsi inaridiscono le labbra. Alle 17:35 saluta e se ne va. Applausi, fine. Così è la grande Scala.

Stamattina con laVerdi è andata un po' meglio (bella forza, si dirà!)

Intanto l'invito ad abbonati e soci (circa 5.000, complessivamente) è arrivato via e-mail. Siamo o no nel terzo millennio? E del resto persino la nostra borbonica amministrazione pubblica non accetta più su carta nemmeno il 740, figuriamoci! Pregasi confermare presenza via e-mail, come logico: il foyer dell'Auditorium di Largo Mahler non accoglie più di 150 persone, viceversa si dovrebbe impiegare la sala principale.

Ecco, nel foyer ci saranno 150 sedie. Le prime tre file centrali (per 25 posti) recano il cartello "Riservato" e verranno riempite dagli aventi diritto (nessuna uniforme nemmeno qui…) per il 30%, poi da normali cittadini. Il tavolo è largo 5-6 metri e ci sono ben 7 posti apparecchiati. Dove si siedono, da sinistra a destra: Erina Gambarini (Direttore del Coro), Ruben Jais (Direttore Artistico), Zhang Xian (Direttore Musicale), Gianni Cervetti (Presidente), John Axelrod (che sorpresa! nuovo Direttore principale), Giuseppe Grazioli (Direttore che segue iniziative speciali), Luigi Corbani (Direttore Generale). In giro anche un paio di fotografi e un cine-operatore.

Fra gli intervenuti (alla fine saranno circa 200, molti rimasti in piedi, in fondo) Maria Teresa Tramontin, che guida il Coro di Voci bianche, alcuni orchestrali e soprattutto il compositore Flavio Testi, di cui nella stagione si eseguirà Sacrae Symphoniae.

Cervetti, alle 11:40, dà il benvenuto e qualche notizia confortante: pubblico in crescita, finanziamenti dallo Stato finalmente sbloccati, primo posto fra le istituzioni musicali nella preferenza del 5 per mille, visione serena, se non idilliaca, per il futuro (nel 2013, oltre ai bicentenari di Verdi e Wagner c'è anche il ventesimo dell'Orchestra, smile!)

Xian commenta il concerto inaugurale, che si terrà ancora alla Scala, quest'anno l'11 settembre, una ricorrenza particolare, 10 anni dalle TwinTowers, che la cinesina ricorda con commozione, essendo lei – ai tempi – in procinto di iniziare la sua avventura americana, presso la NYPO. Poi ci sarà ancora tanto Mahler (tutta la produzione liederistica, Klagende incluso), assai Beethoven (tutti i concerti, compreso il Triplo interpretato da professori della casa) e soprattutto Ciajkovski, l'integrale delle sinfonie e i principali concerti, che verranno interpretati dai vincitori del prossimo Premio Ciajkovski (quello presieduto da Gergiev, per intendersi).

Parla anche Axelrod, in italiano (complimenti!) che si dice entusiasta del suo nuovo rapporto con l'Orchestra, dove assicura di trovarsi in famiglia.

Due parole anche da parte di Grazioli, che continuerà a seguire iniziative speciali (verranno annunciate successivamente, insieme a tutte le altre ormai consuete attività – Verdi Barocca in testa) oltre a dirigere un concerto a base di Jazz.

La Gambarini ricorda con commozione Romano Gandolfi, il papà del coro, cui sarà dedicato il Requiem mozartiano.

Ruben Jais annuncia altri eventi topici, come un concerto in cui i Quadri di Musorgski verranno eseguiti prima al pianoforte, con proiezione delle immagini originali di Kandinski del 1924, e poi dall'Orchestra (Ravel) guidata da Jader Bignamini, che prosegue la sua traiettoria dal clarinetto verso il podio. Tre autori italiani contemporanei (Testa, Colasanti e Battistelli) testimoniano dell'attenzione verso la musica moderna. Aldo Ceccato tornerà più di una volta, dirigendo il Requiem verdiano e – in un programma triennale – tutto lo Dvorak sinfonico. Altro ritorno quello di Claus Peter Flor, che in tre stagioni offrirà tutte le sinfonie di Bruckner. Wayne Marshall interpreterà una cosa insolita, la Swing Symphony di Winton Marsalis, con jazz-band aggiunta all'orchestra. Trasferta confermata a Spoleto, poi una a Francoforte per chiudere la settimana italiana alla BCE (l'apertura sarà della Mozart con Abbado) e giro nell'Oman con una speciale Carmen! Jais in persona, oltre al Bach delle Passioni, dirigerà il Rinaldo di Händel, in forma semi-scenica, così come sarà l'Andrea Chenier diretto da Ceccato in chiusura di stagione.

Infine Corbani, dopo aver ricordato l'Elija di Mendelssohn, diretto da Rilling, annuncia che la Fondazione ha commissionato a Matteo D'Amico un'opera (da Eschilo) per ricordare il ventennale dell'assassinio di Giovanni Falcone. Inoltre preannuncia per le prossime stagioni altri importanti ritorni sul podio de laVerdi, il più gradito ed atteso dei quali sarà quello del Direttore Onorario Riccardo Chailly.

Segue una sessione di domande-risposte e la conferenza si chiude alle 13.
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16 aprile, 2011

La (solita?) Turandot alla Scala





Ieri sera alla Scala quarta rappresentazione di Turandot, già miracolosamente passata indenne dalla prima di domenica scorsa (questa sì che è una notizia, smile!)

Opera che ha fatto nascere luoghi comuni e leggende metropolitane e soprattutto la ricorrente domanda: ma che finale fanno? Un po' come accade per Boris (l'ur? quale ur? il primo o il secondo? quello di Rimsky? no, di Shostakovich… anzi no, di Lamm) oppure la Carmen (edizione Guiraud o Oeser? no no, Didion… o forse Smith!) o ancora il Tannhäuser (di Dresda o Parigi? ah sì, quello di Parigi rivisto a Vienna) e così via investigando.

Questa - diretta da Gergiev - è una Turandot tradizionale, nel senso di statisticamente più eseguita: quella con il finale II di Franco Alfano (Alfano chi? l'ammazza-processi di Berlusconi? smile!) E per una semplice ragione: è l'edizione ufficiale di Ricordi. Gli altri finali (compreso l'Alfano I) sono difficili da recuperare e quindi proposti solo da qualche intraprendente Festival, o da iniziative più o meno velleitarie. E dire che ci sarebbe una versione che metterebbe tutti d'accordo!

La produzione è nuova, firmata da Giorgio Barberio Corsetti. Nulla di cerebrale (per fortuna, aggiungo io!) ma anche nulla di particolarmente eccitante. La caratteristica saliente è la mobilità, ma non delle persone, bensì delle cose. Case, ponticelli, palazzi che salgono e scendono senza particolare motivo, forse soltanto per tenere in esercizio i martinetti del sottoscena, ad evitare che arrugginiscano con l'inattività (smile!) In compenso, quando sarebbe servito, ad esempio a far scendere Turandot verso Calaf nella scena degli enigmi, nessun meccanismo viene impiegato e tutto si svolge rasoterra. Dopo l'intervento degli anni scorsi, il fondo-scena del Piermarini si è approfondito di parecchio, ma i registi dovrebbero ricordare che invece gli spettatori sono sempre là dove erano dalla fine del 1700: e che, dalla terza fila di palchi, il nuovo fondo-scena non si vede. Quindi a che serve proiettarci immagini, se un terzo dell'uditorio non le vede?

C'è anche un'idea portante (?!) in questa regìa, che è quella di natura onirica: Calaf si sta solo sognando tutto, e alla fine dorme beato con la benedizione di Turandot&C, contenti di avergli animato la notte dopo una difficile digestione… Orpo!

Vengo alla musica: Gergiev dirige come fosse un russo (smile!) movimentando un po' le cose con qualche fracasso, ma dovendo per la più parte tenere volume basso, affinchè qualcosa di ciò che è cantato in scena arrivi alle nostre orecchie (non parlo dei cori di Casoni, che sanno benissimo come farsi sentire!)

Berti e Guleghina per la verità di voce ne hanno a sufficienza. Il primo se la cava senza infamia e senza lode, mentre la seconda – per me – merita un'ampia insufficienza: stacca appena discretamente i suoi DO acuti, ma per il resto canta (si fa per dire) un incomprensibile grammelot (o forse era proprio cinese antico?) con voce sgradevole e animalesca.

Molto meglio la Kovalevska, una Liù più che decente, che mi è parsa la migliore della serata. E con lei Spotti, che non ha demeritato come Timur.

Chi ha fatto ridere sono Ping, Pang e Pong, e su tutti il Ping di Veccia, che forse qualcuno nelle prime tre file di platea sarà anche riuscito a sentire. Ma pure Casalin e Bosi non hanno scherzato: nel terzetto del second'atto, pur essendo al proscenio, pareva che cantassero immersi in un acquario (o forse erano proprio sul fondo del laghetto blu dell'Honan?)

Anche il povero Ceron, Imperatore per l'occasione, ha faticato a farsi sentire, ma almeno lui ha l'attenuante di essere stato collocato dal regista più vicino al Castello Sforzesco che agli spettatori (a proposito di impiego scellerato del fondo-scena!) Sembra paradossale, ma il prezzemolo Panariello (qui nei panni del Mandarino) ha fatto una figura migliore.

Alla fine nessuna uscita singola (ahi, ahi, coda di paglia?) salvo quella dei due Maestri, giustamente, credo io, acclamati.
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Post scriptum
Che si continui a presentare il finale posticcio e abborracciato di Alfano-Toscanini (conseguenza, del resto, della totale inconsistenza del libretto) è cosa spiegabile soltanto con il degrado della nostra civiltà: il pubblico pagante – oggi cinese in quota rilevante, guarda caso - vuole il lieto fine (ma sarebbe altrettanto contento di un finale macabro, con Calaf decapitato dalla glaciale principessa) e va perciò accontentato, a costo di rigirare per la millesima volta il coltello nella polvere del grande Giacomo. Se n'è accorto persino il regista, che ha fatto salire un terrapieno fra Puccini e Alfano, precisamente su questa pagina, che è anche l'ultima pagina della Turandot autentica:



Il resto, esattamente 60 pagine (402-461) dell'ultima edizione Ricordi (2000) è invenzione di Alfano, oltretutto depurata (da Toscanini&C) di molti improbabili wagnerismi che l'autore di Sakuntala ci aveva infilato, credendo così di interpretare la volontà di Puccini. Ma potrebbe eseguirsi quello – a sua volta vagamente tristaniano, sempre per via di un appunto scritto da Puccini sul 17° dei 23 fogli lasciati sul comodino del letto di morte - di Luciano Berio; o anche quello della zelante americana Janet Maguire; o persino l'ultimo – la Cina è vicina, toh! - di Hao Weiya. Ma perché – già che ci siamo - non commissionarne uno nuovo di zecca al nostro grande Mozart contemporaneo, Giovanni Allevi? E se è difficile mettersi nei panni di Puccini, non c'è proprio nessuno che si provi almeno a mettersi in quelli (postumi) di uno Zandonai o di un Ravel, da più parti indicati come i musicisti più adeguati a compiere l'impresa?

In realtà, la verità è una e dovrebbe ormai essere chiara a tutti, e prenderne atto risolverebbe alla radice il problema del finale: la Turandot è opera che finisce con Liù perché Puccini – o più probabilmente il suo subconscio – aveva preso atto che così dovesse ineluttabilmente accadere. E infatti fino all'ultimo – pur avendo buttato giù parecchi schizzi – il compositore non fece che cincischiare, e con infinita pena, attorno ad un finale che non gli veniva proprio, fra continui rimpalli di responsabilità con i suoi librettisti e laceranti dubbi sulla consistenza drammatica ed estetica del lieto fine e soprattutto della sua necessaria premessa: l'inopinata ed improvvisa virata di 180° nell'atteggiamento di Turandot.

Dunque: Turandot, per 2 atti e mezzo su 3 (i 5/6 dell'opera!) ci appare come una donna (anzi, una ragazzina) fondamentalmente e congenitamente cattiva. Nel primo atto non canta una sola sillaba, ma il suo pollice verso nei confronti del principino di Persia ci basta ed avanza per inquadrarne la sbifida personalità. Nel second'atto perde la tenzone di sapienza con Calaf e, invece di accettarne il verdetto e le relative conseguenze, magari adducendo la solita, ipocrita scusa: lo faccio per dio, non per piacer mio (smile!) va a piagnucolare dal padre, reclamando l'annullamento della prova! Sbeffeggia a tal punto il vincitore Calaf da ottenerne, perso per perso, una prova d'appello (la scoperta della di lui identità). Nel terzo atto la carognaggine della principessa rasenta addirittura l'efferatezza, allorquando Turandot emana un editto che impone a tutti i suoi sudditi – pena la morte, quisquilie! - di scoprire per lei il nome del principe; e i tre porcellini offrono a Calaf escort in eccesso a quante circolano nelle residenze del nostro pluri-prescritto PM, per cercare (inutilmente) di convincerlo a rinunciare al meritato trofeo.

Ebbene, dopo che ha dovuto constatare il proprio completo fallimento, la nostra simpaticona assiste al sacrificio di Liù (scena che muoverebbe a pietà persino Osama bin Laden!) e invece di aprire gli occhi sulla realtà e sulla forza dell'Amore (col che il quadro finale avrebbe sì, allora, una sua piena e nobile giustificazione) rimane ancora e sempre impassibile e sprezzante (statuaria, senza un gesto né un movimento) al punto tale che lo stesso innamorato pazzo Calaf le si avventa contro apostrofandola con Principessa di morte! Principessa di gelo!

Ora ricapitoliamo, manca solo un sesto di opera da completare – tutto il resto è già perfettamente strumentato, e da mo' - ma ancora non si vede il benché minimo spiraglio che possa plausibilmente giustificare il voltafaccia della principessa e il suo miracoloso finale scongelamento: tutt'altro, lei è sempre più ibernata e incarognita! Che fare, una volta scartata la possibilità offerta dal sacrificio di Liù? Inventarsi un filtro magico à la Tristan (era forse questo cui voleva alludere l'appunto di Puccini?) oppure far comparire lo spettro dell'ava Lo-u-Ling che convinca Turandot che non tutti i maschi sono poi così vomitevoli come quel pipistrello che l'aveva violata?

Ecco, in questa situazione, i librettisti del sempre più infastidito Puccini non sanno che pesci pigliare né proporgli - di scongelante - nulla di più e di meglio che una bella ingroppata (stra-smile!) Con la frigida cattivona che – praticamente fatta segno di un mezzo-stupro da parte di Calaf - sbrodola un ridicolo Che è mai di me? e pare convincersi a cedere, arrivando ad ammettere che lei, in fondo, si era già un pochino innamorata fin dal primo incontro. Ma poi torna a rinchiudersi a riccio e ordina a Calaf di andarsene, visto che ha ottenuto – fare sesso con lei? - ciò che desiderava. E così abbiamo questa ulteriore strampalata manfrina, con lui che le rivela il nome, lei che pare volerlo carognescamente buggerare coram-populo, come avesse vinto una gara regolare, e infine la sorpresa (ma per favore…) della dichiarazione d'amore che consente la chiusa in gloria e magna pompa.

E Puccini, secondo voi, era uno disposto ad accettare questo guazzabuglio, oltretutto dopo il poco onorevole precedente della Fanciulla? Forse preferì davvero togliere il disturbo, prima di fare una penosa figuraccia.

Al proposito mi pare fulminante questa considerazione che Michele Girardi ha proposto nella sua introduzione all'Opera, comparsa sul programma di sala de LaFenice, pochi anni orsono: …un compositore che non voleva morire artisticamente, per non morire fisicamente, avendo scelto una principessa frigida per comunicarlo a tutto il mondo.

Però fu proprio la frigidezza della principessa a creare l'ultimo problema – irresolubile, e perciò fatale - della sua vita. Ma per ragioni di bassa cassetta ci si continua invece a propinare il finale da avanspettacolo, della serie: dì la verità che hai goduto, zoccola!

Ecco perché, esalato il MIb di archi e ottavino, personalmente preferirei che il Direttore posasse la bacchetta, come fece alla prima assoluta proprio Toscanini, pentitosi (per poi contro-pentirsi il giorno dopo) di aver avallato un misfatto.
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15 aprile, 2011

L’OrchestraVerdi porta l’Apocalisse a Monza


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Niente paura: non si tratta di un'azione di commando anti-lega. Ma di un concerto straordinario a scopo benefico de laVerdi che ieri, nel Duomo di Monza e sotto la bacchetta dell'autore, ha eseguito l'oratorio Apokàlypsis di Marcello Panni. Opera presentata per la prima volta a Spoleto per il Festival del 2009. Qui il prezioso video-RAI di quella serata.

Stessi interpreti principali – voci recitanti - anche ieri: Andrea Giordana e Sonia Bergamasco. Orchestra priva di archi, ma arricchita di assai insolite percussioni. Oltre al Coro di Erina Gambarini, le voci bianche (rossocrociate!) di Brunella Clerici e i quattro solisti Carola Gay, Giuliana Scaccabarozzi, Massimiliano Tarli e Marco Calabrese.
 
 
Immancabile e preziosa la presenza del Cardinale-musicologo Gianfranco Ravasi (la musica non descrive, evoca: davvero da incorniciare!) selezionatore dei testi giovannei, ad introdurre le due parti dell'Oratorio. Che tende a cogliere, dell'apocalittica visione del mondo di un cristiano del primo secolo - perseguitato come tutti i cristiani da Domiziano e internato a Patmos - gli aspetti positivi, e specialmente il messaggio di speranza che vi è – magari un po' cripticamente – contenuto. Visione e messaggio perfettamente appropriati anche per questo nostro mondo di inizio di terzo millennio, che per molti versi sembra ben avviato a riprodurre alcuni fenomeni che caratterizzarono quello di 2000 anni or sono (della serie: la storia non insegna proprio nulla, smile!)

Le due parti dell'Oratorio sono suddivise in sette quadri (4+3) per una durata totale di meno di un'ora. La prima parte contiene un quadro introduttivo, in cui Giovanni – al secolo Andrea Giordana – presenta se stesso per presentarci la sua visione; sono flauti e clarinetti a dettare una specie di motto (un motivo che parte dal RE# per scendere, quasi cadendo, sul SI naturale, e di qui in una specie di baratro rappresentato dal sordo rutto della tuba). Preceduto dai tromboni bassi, che contrappuntano il motto con una sorta di corale in SOL, entrano le voci bianche a supportare il grido di Giovanni che annuncia la gloria di Cristo.
 
 
Ora Giovanni narra della voce di tromba che a Patmos lo ha chiamato e invitato a scrivere la sua testimonianza: e i quattro solisti contrappuntano sinistramente le parole dell'Apostolo, invitato a scrivere il suo Libro, da inviare alle sette Chiese dell'Asia Minore.
 
 
Qui inizia la sequenza dei settenari: per prime le sette lettere. L'opera accenna a due di esse, la prima ad Efeso, alla cui lettura segue nel coro e negli ottoni un pesante pedale di DO. L'ultima lettera riguarda Laodicea, la tiepida (ti vomiterò dalla mia bocca!) anche qui sostenuta da coro e ottoni, oltre alle percussioni, con una cupa melodia che spazia da DO a FA, chiudendo a REb.

Si passa poi al terzo quadro: i sette sigilli del libro della Vita. Introdotto da un martellante ritmo di percussioni, risentiamo il motto iniziale (RE#-SI) che accompagna la sfida dell'Angelo a chi saprà infrangere i sigilli. Ed ecco che, sull'annuncio dell'impresa – compiuta dal leone di Giuda - l'incipit del motto sale di tre semitoni, al FA#.

All'arrivo dell'Agnello che aprirà i sigilli i cori cantano in suo onore l'inno nuovo, in un diatonico LA maggiore. Subito dopo, le voci bianche, che rappresentano gli Angeli, accompagnate qui dalla cornamusa, e poi tutti i cori intonano la seconda parte dell'inno, in un solare SOL maggiore!

Spezzati i sigilli, la macchina del tuono (l'agitazione di una semplice lamiera appesa ad un trespolo) e le due ruote giganti accompagnano la liberazione dei quattro cavalli (bianco-potere, rosso-guerra, nero-fame, verdastro-morte) che imperversano come flagelli dell'Umanità.

E infine – alla rottura del settimo sigillo - ecco un corno naturale (LA-RE) rappresentare le sette trombe che annunciano cataclismi (invero… apocalittici). Il terzo dei quali è la stella Assenzio che cade sulla terra e inquina e avvelena le acque del pianeta e i suoi abitanti.

Ma da ultima, la settima tromba annuncia il regno di Dio; e qui fa il suo teatrale ingresso Sonia Bergamasco, che attraversa parte della navata per raggiungere la sua postazione. Narra l'apparizione della donna incinta minacciata dal drago dalle sette teste, il satana che viene poi precipitato sulla terra dagli angeli di Michele. E la gioia per la vittoria di Cristo è intonata da una delle soliste, ancora con accompagnamento di cornamusa e ottavino, su una leggera melodia in RE maggiore, che chiude la prima parte dell'Oratorio.

Dopo la ricomparsa di Monsignor Ravasi per introdurla appropriatamente, ecco la seconda parte. Che inizia con una quarta materializzazione del fatidico numero sette: le sette coppe dell'ira divina. Riudiamo qui il motto iniziale (RE#-SI) che fa da pedale al racconto dei due recitanti, contrappuntato dagli ottoni e dal coro con linee melodiche indipendenti, a creare via via consonanze e dissonanze, mentre un ostinato martellare di tamburo prepara l'arrivo dei sette flagelli, ancora sostenuto dalle percussioni, macchina del tuono inclusa. Il quadro si chiude sul lugubre suono dei gong.

Il sesto quadro presenta la condanna e la caduta di Babilonia. La fine della città, grande quanto degradata (si tratta in realtà di Roma…) è qui simbolizzata da un motivo in RE, cantato dal coro su versi in lingue diverse, caratterizzato da un ritmo che pare un misto di samba e reggae, quasi a sbeffeggiare la fallace ed effimera potenza della città - che ridendo e scherzando andava incontro alla propria catastrofe - ora colpita dalla punizione divina. Alcuni schianti, in FA, dei corni sottolineano la disperazione di coloro che con Babilonia avevano fornicato ed ora la vedono ridotta in cenere. Una campana riprende quel FA e introduce l'ultimo quadro: la nuova Gerusalemme, la speranza che pare qui agitarsi languidamente nella melopea del clarinetto, che chiude l'Oratorio.

Ecco un'opera che mostra come ancor oggi si possa fare della musica, e del teatro anche, di alto livello e di seri contenuti. Meriterebbe di certo più pubblicità ed esecuzioni. Complimenti quindi a tutti coloro che ce l'hanno fatta conoscere ed apprezzare dal vivo.
 
 
Per quanto riguarda laVerdi, per Pasqua torna Bach con una grande Passione.
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12 aprile, 2011

Pappano e una grande Cecilia alla Scala


Ieri sera i santi romani della Cecilia, guidati da Antonio Pappano, sono stati ospiti della Scala per un Concerto benefico, a favore della CRI. Teatro non propriamente esaurito, ma questa volta gli assenti hanno avuto decisamente torto.

Qualcuno forse ricorderà che esattamente un anno fa una analoga visita già programmata da tempo (con la Seconda mahleriana in locandina) venne inopinatamente cancellata per non disturbarne un'altra, evidentemente considerata di priorità superiore (parlo del forestale ritorno di Abbado). Poi il destino (o qualcos'altro, per chi non gradisce gli eufemismi) ci mise lo zampino e così i milanesi, dalla possibilità di ascoltare due Auferstehung interpretate a breve distanza di tempo dalla prima orchestra italiana (guidata da un italo-albionico immigrato in Italia) e dall'orchestra del primo teatro italiano (guidata da un italiano che l'ha abbandonata da tempo per emigrare fra i crucchi) si ritrovarono con un pugno di mosche.

Ecco, la visita di ieri era una specie di risarcimento per il danno subito. E che risarcimento, accipicchia. Schumann-Brahms, un'accoppiata tanto classica quanto corposa, due cosucce proprio da niente: la Quarta e il Requiem!

Con Schumann si ha subito l'idea del valore di questa Orchestra (disposta precisamente secondo il layout tradizionale tedesco, violini secondi al proscenio e archi bassi al centro-sinistra) compatta in ogni sezione, suono chiaro, pulito e senza sbavature (gli ottoni hanno subito modo di mettere in mostra le loro qualità) e del suo Direttore, il cui gesto può magari sembrare goffo, ma dev'essere assolutamente efficace, a giudicare dai risultati. Una Quarta tirata tutta d'un fiato, con punte di diamante nella Romanza, con oboe e primo violino in bella evidenza, e nello strepitoso Presto conclusivo, dove il suono sale progressivamente dagli strumenti bassi (strepitosa qui la prestazione di contrabbassi e violoncelli) a quelli alti, come una serie di ondate successive.

Dopo l'intervallo arriva anche il coro di Ciro Visco, in uno con i solisti Rebecca Evans e Peter Mattei, per deliziarci con il brahmsiano Ein Deutsches Requiem. Le cui note hanno risuonato ieri a Milano dopo aver riempito di sé sabato e domenica l'Auditorium di Renzo Piano, prima di tornarvi ancora questa sera stessa.

Un Requiem tedesco: Brahms in effetti lo pensò come Una specie di Requiem; e nemmeno tedesco, ma semplicemente… umano! Che l'ispirazione musicale sia venuta da Bach non stupisce affatto (Mendelssohn aveva ormai resuscitato il grande Johann Sebastian) ed è stata ammessa candidamente dallo stesso Brahms, che rivelò di aver preso spunto per i temi del primo e secondo brano da un famoso corale di Bach, normalmente individuato come Wer nur den lieben Gott (quello della cantata BWV93). Il motivo è però rintracciabile prima ancora in un'altra cantata, la BWV27 (Wer weiss, wie nahe mir mein Ende?):

Quest'ultimo testo si avvicina fra l'altro in modo assai chiaro a quello del N°3 del Requiem: Herr, lehre doch mich, dass ein Ende mit mir haben muss.

La radice dello stesso tema si trova anche nel famoso Inno dell'Imperatore, musicato da Haydn in un quartetto e oggi Inno nazionale tedesco. E Brahms la richiamerà ancora vagamente, nel suo secondo concerto per pianoforte.

E non c'è dubbio che Brahms abbia anche pensato a Schumann (che aveva incluso un Requiem nei suoi incompiuti programmi): è stato già notato il richiamo ad un passo del Paradies und Peri nella seconda sezione del N°2:


Ma il momento (per me) più emozionante dell'intero Requiem è (nel N°3) il passaggio dal Nun, Herr, wes soll ich mich trösten (Adesso, Signore, con chi mi debbo consolare?) - ripetuto in piano dopo essere stato gridato in fortissimo - al canone di Ich hoffe auf dich (Io ripongo la mia speranza su di te). È il passaggio da una domanda angosciosa, quasi sconfortata, alla speranza – appunto - nel Creatore:
E che introduce la successiva fuga di proporzioni gigantesche, su Der Gerechten Seelen sind in Gottes Hand (Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio).

Ma a proposito di fughe colossali, come non restare colpiti ed ammirati da quella, in SIb maggiore, principiante con Die erlöseten des Herrn (I redenti dal Signore) che chiude il N°2. E poi da quella in DO maggiore, che conclude il N°6: Herr, du bist würdig zu nehmen Preis und Ehre und Kraft (Signore, tu sei meritevole di ricevere elogio e onore e potenza). Veri e propri monumenti eretti ad imperitura gloria di una stagione della civiltà musicale occidentale, anzi mitteleuropea, che non ha (for the time being) uguali al mondo.

Si è giustamente scritto che il Requiem brahmsiano è distante le mille miglia da quelli cattolici, tutti incentrati sul tremendo - e assai poco divino, diciamolo chiaramente - Dies Irae (ecco, se Dio è soggetto all'ira… ma che c. di dio è?) e non per nulla nel N°6 Brahms musica versi del tutto lontani dalla liturgia cattolica:

Poichè la tromba suonerà,
e i morti saranno resuscitati
incorruttibili,
e noi saremo trasformati.
Allora si adempirà
la parola, che sta scritta:
La morte è divorata nella vittoria.
Morte, dov'è il tuo aculeo?
Inferno, dov'è la tua vittoria?

(Peccato che Lutero non ce l'abbia fatta a valicare le Alpi, smile!!!)

Ecco, musica come questa sa conciliare come null'altro fede e ragione, anelito al trascendente e orgogliosa rivendicazione delle straordinarie prerogative dell'Uomo. Merito di Pappano, Visco e dei loro eccezionali musicisti, oltre che degli impeccabili Evans-Mattei, di averci emozionato ancora una volta ascoltando questo capolavoro. Alla fine grandi ovazioni per tutti (con qualche isolata disapprovazione per il solo Pappano? Forse c'era qualcuno dai gusti troppo raffinati o dal cuore troppo freddo…) Certo è che alla Scala non capita spesso di ascoltare musica a questi livelli.