trallalalera, trallalalà!

droni di qua, razzi di là, bombe di su, spari di giù...

09 maggio, 2018

A Bologna Romeo&Juliet secondo Bellini


Ieri pomeriggio il Comunale bolognese ha ospitato la seconda delle 6 recite de I Capuleti e i Montecchi, una produzione che promuove nuove leve di interpreti, emerse dalle selezioni di OperaNext, l’iniziativa mirante a sviluppare talenti per il teatro musicale. Co-produzione italo-spagnola, già presentata a Tenerife a fine 2017. Dopo la prima di domenica scorsa (trasmessa da Radio3) ieri in scena il cosiddetto secondo cast.

Devo però spiegare il titolo del post, che dà la falsa impressione che l’opera di Bellini si rifaccia a Shakespeare. Nulla di più impreciso (ma anche in questo caso c’è un po’ di responsabilità della regìa, come vedremo): chè il libretto (riciclato, oltretutto) di Felice Romani ripesca le radici italiane (del ‘400) della storia, radici utilizzate - con ben altra genialità, si dovrà pur ammettere - dallo stesso bardo da Stratford. Così il testo di Romani, rispetto al dramma shakespeariano (ancora poco conosciuto in Italia, va detto, nei primi decenni dell’800) resta parecchi gradini al di sotto, viaggiando nell’aurea mediocrità dei classici libretti di melodramma italico.

Le figure di entrambi i protagonisti mancano della fortissima personalità dei rispettivi corrispondenti albionici, a partire da Giulietta, che in Shakespeare - a dispetto della giovanissima età - mostra una maturità e una forza d’animo straordinarie, quando invece in Romani la troviamo nei panni di una ragazza piena di ansie, dubbi e rimorsi, succube del padre e indisponibile a compiere gesti estremi, come quando rifiuta di fuggire con l’innamorato. Quanto a Romeo, in Shakespeare è un ragazzo che scopre fulmineamente l’amore e se ne fa condizionare in modo assoluto, arrivando a immaginare il suicidio di fronte alla prospettiva di perderlo, e diventando (quasi a sua insaputa) un omicida per voler difenderlo. In Romani-Bellini lui è invece un capo militare che millanta ferocia guerresca, ma poi evita lo scontro con il rivale Tebaldo, a cui anzi offre il petto pur riconoscendolo colpevole indiretto della morte dell’amata. Della quale è già innamorato, ma non si sa nè come nè da quando... e addirittura nella sua proposta da ambasciatore spunta una motivazione super-politica per giustificare la sua richiesta di matrimonio con la figlia del capo della fazione opposta (!?)

Forse l’unico aspetto che si fa preferire in Romani è la figura di Lorenzo, che non è un frate ma un medico, ergo plausibilmente più credibile come inventore (senza speziali intermediari) di preparati galenici (quale il sonnifero somministrato a Giulietta). Però lui non può certo unire i due amanti in matrimonio, nè promuovere e alla fine benedire la riconciliazione fra le opposte fazioni!

Per il resto si osserverà come lo scenario politico in cui si svolge l’azione di Romani sia uno stato di vera e propria guerra permanente fra Guelfi (Capuleti) e Ghibellini (Montecchi) con tanto di schieramento di eserciti e con ambasciatori in missione... altro che una pura e semplice (per quanto cruenta) faida fra ragazzotti viziati di due famiglie-bene dell’opulenta Verona. Come detto, nell’opera di Bellini Romeo e Giulietta sono già da tempo innamorati (cosa poco plausibile proprio a causa dello scenario di guerra, che rende invece verosimile che Tebaldo, braccio destro armato di Capellio, sia promesso alla figlia di costui): la scena del ballo, che in Shakespeare è drammaticamente fondamentale perchè serve proprio a mostrarci il colpo-di-fulmine che scuote i due giovani, in Romani diventa prosaica occasione per festeggiare il matrimonio di Tebaldo e Giulietta, da questa indesiderato.

Insomma, ancora una volta, ciò che salva un soggetto francamente deboluccio è - manco a dirlo - la musica di Bellini!

Federico Santi, giovanissimo Direttore che sta facendo esperienza al Marinski (!) all’ascolto radiofonico mi aveva dato l’impressione di tenere un approccio eccessivamente focoso e bandistico. E purtroppo non si trattava delle inevitabili distorsioni prodotte dalla ripresa audio, poichè dal vivo la sua direzione mi è parsa assai poco equilibrata e meno ancora rispettosa dell’estetica belliniana. Ne hanno fatto le spese le voci, spesso coperte alla grande. La stessa Orchestra non mi è parsa al meglio, già a partire dalla fanfara di corni della Sinfonia...

Le voci (vedi locandina) sono tutte o quasi di giovani e giovanissimi esordienti: ciò va riconosciuto prima di emettere giudizi sommari. Le cinque udite ieri, a parte la perfettibilità di canto e interpretazione (che verrà, caso mai, con anni di studio e di esperienze) non mi hanno impressionato nemmeno dal punto di vista delle doti naturali: voci mediamente piccole (e infatti Santi le ha proprio strapazzate) e carenti soprattutto nelle note gravi, praticamente inudibili.

Ma - appunto - si tratta di nuove leve che non potranno che migliorare... Sui suoi standard il coro di Faidutti.
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Come accennato, note dolenti, ahinoi, per la regìa. Siamo alle solite: Silvia Paoli, volendo o dovendo strafare per giustificare la sua presenza, si inventa (no, per la verità scopiazza cose viste, riviste, trite e ritrite, mi viene in mente il Martone scaligero dell’Oberto del 2013 e poi della Cena delle beffe del 2016) una storia di mafie e ‘ndranghete nel sud-Italia di tempi recenti che avrà pure una sua interna coerenza, ma che è - piccolo, insignificante dettaglio - agli antipodi rispetto al soggetto originale! (E poi... visto che ormai le mafie sono di casa al nord più che al sud, già che c’era la regista poteva mantenere nella Verona di oggidì l’ambientazione della sua immaginifica storia, invece che spostarla nella Calabria anni ‘70...)

La regista pare mescolare Shakespeare e Romani (già sbagliando, per quanto detto sopra) quando sceglie l’ambientazione moderna: nel primo caso quella più calzante sarebbe uno scontro fra tifoserie o baby-gang. Restando invece fedeli a Romani-Bellini, allora il parallelo non potrebbe che basarsi su uno scenario politico. In entrambi i casi, non certo di criminalità organizzata: eh sì, perchè Guelfi e Ghibellini non erano cosche mafiose, ma partiti politici con precisi riferimenti alle due più alte istituzioni pubbliche del tempo, il Papato e il Sacro Romano Impero (o era mafioso anche un certo Dante?)

Altra idea portante della messinscena è la supposizione che l’uccisione del figlio di Capellio da parte di Romeo sia avvenuta quando i due erano in tenera età (diciamo 10-12 anni): la circostanza viene già mostrata durante l’esecuzione della Sinfonia, poi continuamente ricordata dalle apparizioni in scena di bambini. Com’è venuta in mente alla regista questa idea invero strampalata? Dall’interpretazione gratuita quanto assurda di una frase cantata da Capellio nella seconda scena: poiché fanciul partia vagò Romeo di terra in terra... E così, secondo la regista Romeo doveva avere 12 anni al massimo quando, dopo aver ammazzato durante giochi cruenti un coetaneo (delitto nemmeno perseguibile, per un minorenne di quell’età...) si auto-esiliò da Verona, vivendo per anni da latitante chissà dove? Roba da chiodi! Basta invece ascoltare ciò che canta lo stesso Romeo (finto ambasciatore ghibellino) nella scena successiva per riportare le cose nella giusta prospettiva: se Romeo t'uccise un figlio, in battaglia a lui diè morte... Chiaro abbastanza, no? Romeo (un ragazzo sì, ma pienamente in possesso delle sue facoltà, non un bambinello immaturo) uccise il fratello di Giulietta durante uno scontro armato in piena regola fra i due contrapposti gruppi paramilitari. Ma i registi, si sa, del testo che sono pagati per inscenare fanno ciò che più gli aggrada. (La Paoli viene dalla scuola di Michieletto, quello che si è inventato di sana pianta l’infanzia di Faust - La Damnation, Roma 2017 - e la vecchiaia di Elena e Malcom - La donna del lago, ROF 2016.)

Lorenzo: come detto, in Shakespeare è un frate autorevole, in Romani un medico; per la Paoli è un barista! Che evidentemente - dato l’ambiente in cui vive - traffica in droghe leggere e pesanti, così può rifornire Giulietta di sonnifero e Romeo di veleno (mah...) E non essendo lui un religioso, come si è detto, non può sposare i due amanti. Così la regista si inventa un auto-sposalizio dei due durante il duetto che chiude la prima parte.

Altre piacevolezze indotte dall’ambientazione moderna riguardano le solite incongruenze spicciole fra testo e scena, delle quali mi limito a ricordare il confronto fra Romeo e Tebaldo nella terza parte, dove i due ingaggiano un duello impugnando comicamente due revolver, per poi deporli e proseguirlo con più plausibili serramanico... Ma la ciliegina sulla torta la mette Giulietta, sparandosi un colpo di pistola alla tempia sulla salma di Romeo (!)  

Insomma, il Konzept della regista è proprio sballato del tutto e (inutile dirlo) totalmente irrispettoso dell’originale, di cui snatura completamente il soggetto. Che poi lo spettacolo in sè e per sè sia di discreto livello non basta a cancellare il reato, nè ad estinguere la pena (quella che prova lo spettatore appena-appena... informato dei fatti, guardando ciò che avviene in scena nel mentre risuonano le parole di Romani e le note di Bellini).

Pubblico scarseggiante per quantità, ma anche per calore. 

04 maggio, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°25

                                    
Secondo appuntamento stagionale all’Auditorium (ieri sera affollato, ma... non troppo) con Robert Trevino, il giovane texano trapiantato (per ora) presso i Baschi, che ci propone la sua visione della Sesta mahleriana. Che è la più controversa delle nove (dieci... undici?) sinfonie del boemo, a cominciare proprio dalle... controversie con se stesso in cui il compositore si trovò a dibattersi, prima, durante e dopo la presentazione dell’opera (Essen, venerdi 27 maggio, 1906).     

Ho espresso molti anni fa alcune personali valutazioni sulla Sesta, che ripropongo ai curiosi. In Auditorium la sinfonia aveva risuonato l’ultima volta più di 4 anni orsono, e in quell’occasione avevo riportato, oltre ad alcuni miei commenti, il giudizio di uno dei mahleriani più autorevoli, il compianto Ugo Duse. (Mi scuso in anticipo per i vari link, presenti in quei post, che si risolvono in... nulla, ma questo è il web, bellezza!) Come allora, anche stavolta non ci sono brani introduttivi al concerto, ed è un bene, poichè questa è una sinfonia che (come altre di Mahler: 2-3-8-9) merita un trattamento speciale e una serata tutta per sè. (Peraltro non fu così alla prima di Essen, dove la nuova sinfonia fu preceduta - per... prepararne adeguatamente l’atmosfera! - dalla mozartiana Maurerische Trauermusik, diretta da Strauss.)
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Trevino opta per la (tradizionale anche se discussa) versione-Ratz per quanto concerne la sequenza dei movimenti (e pure la terza martellata) quindi suona lo Scherzo in seconda posizione, prima dell’Andante. A mio (e non solo mio) modesto avviso ciò comporta una certa assimilazione della Sesta alla Quinta (due blocchi pesanti ai margini, che incastonano un delicato intermezzo); e anche un cedimento agli elementi extra-musicali da sempre - più o meno a ragione - sospettati essere alla base del lavoro: l’eroe Gustav, Alma, le piccole Putzi-Gucki, il lungo sguardo retrospettivo in attesa della catastrofe e questa che arriva ad abbattere l’eroe.

E la sua interpretazione parrebbe proprio indicare l’adesione personale, si direbbe quasi autobiografica, al lato melodrammatico della partitura: attacco eroico, secondo tema assai espressivo; scherzo a forti contrasti, andante strappalacrime e finale invero a fosche tinte ma con sprazzi intimistici al limite del lezioso. Qualche perdonabile libertà in agogiche e dinamiche non toglie nulla alla qualità e alla coerenza assoluta della sua lettura (sulla quale si può magari non concordare).

Orchestra in gran spolvero e successo clamoroso, con applausi ritmati all’indirizzo del Direttore. Serata da ricordare.

03 maggio, 2018

Dante-D’Annunzio secondo Zandonai alla Scala



La Francesca da Rimini è arrivata ieri a 2/3 (6 delle 9 recite) del suo cammino, in questo ritorno alla Scala dopo solo 59 anni (!) Piermarini piuttosto depresso (parlo delle praterie in platea e palchi) e pure freddino (come il clima esterno, del resto).

Opera bella e interessante (però, attenzione, il termine capolavoro riserviamolo ad altre...) che mertiterebbe maggior attenzione da parte dei teatri, musica che raccoglie l’eredità dell’800, aprendosi contemporaneamente al nuovo: Debussy, Strauss, Ravel e ovviamente Wagner, ma anche la seconda scuola di Vienna, occhieggiano da ogni lato.

Zandonai, se osserviamo la sua partitura, ci pare quasi voler assumere un atteggiamento didascalico riguardo all’impiego della tavolozza dei suoni. Ecco che scopriamo lunghi passaggi privi (salvo che per clarinetti e corno inglese) di accidenti in chiave (quelli che da sempre implicano e indicano una precisa tonalità di riferimento) e altri passaggi per i quali il compositore ha esplicitamente usato quei tradizionali accidenti.

Si può grossolanamente affermare che i passaggi del primo tipo siano quelli più prosaici, o caratterizzati da crudo realismo o situazioni drammatiche (esempi tipici: la battaglia del second’atto, il primo quadro del quarto, il finale tragico) mentre quelli del secondo tipo attengano alle oasi di serenità, di atmosfere elegiache e - manco a dirlo - di trasporto amoroso fra i due protagonisti. E val la pena, questi, di elencarli: dapprima il Largo, calmissimo che chiude il primo atto (con la viola pomposa, il piffero e il liuto a creare la mirabile atmosfera sospesa dall’innamoramento) dove troviamo i due diesis del RE maggiore; la prima scena (Francesca e ancelle) e la seconda parte della terza scena (arriva la primavera!) del terz’atto (un diesis per il SOL prevalente); sempre nel terz’atto la parte centrale della quarta scena (i primi approcci dei due amanti, REb maggiore); e la chiusura dell’atto (la lettura galeotta, Largo molto, SI maggiore); nel secondo quadro dell’atto conclusivo ecco il RE minore della prima scena (le donne di Francesca che ne vegliano il sonno); poi la seconda parte della seconda scena (Francesca e Biancofiore, SOL minore); ancora RE minore per la chiusa di detta scena; infine ecco il Largo molto, nel celestiale MI maggiore (Ti trarrò dov’è l’oblio) della suprema esaltazione amorosa, prima del tragico epilogo.     

Insomma, possiamo arguire che per Zandonai la musica moderna si attagliasse meglio ad evocare atmosfere non troppo elevate, o cupe se non truci, mentre quella antica fosse la più adatta a supportare le situazioni più nobili e i momenti più idilliaci!
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Fabio Luisi ha diretto senza infamia (beh, qualche ululato alla fine lo ha avuto) e senza lode, con una certa monotonia di approccio, senza particolari slanci che la partitura pur contemplerebbe. L’Orchestra su standard accettabili, ma credo che questa sia una partitura facile, il che significa difficile da valorizzare adeguatamente. Sempre grande il coro di Casoni, meritatamente ovazionato al termine del suo impegno (fine atto secondo).

Cast dignitoso, con Maria José Siri in bella evidenza, pur con qualche menda nelle note gravi, compensata da una pregevole presenza scenica. Bene anche lo sciancato Gabriele Viviani, che non ha trasformato la protervia del personaggio in protervia canora, al contrario. Con lui il fratellino terribile Luciano Ganci, bella voce squillante e intonata. Non così il fratello rubacuori Marcelo Puente, spesso ingolato e in difficoltà sul fiato. Tutti gli altri li accomuno salomonicamente in una sufficienza ampia.

Come detto, prestazione complessiva non più che dignitosa e - se tanto mi dà tanto - se ci son voluti 59 anni per ricordarsi dello Zandonai targato Olivero-DelMonaco-Gavazzeni, mi sa che ne passeranno il doppio per rispolverare questo di Siri-Puente-Luisi...
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L’allestimento di David Pountney è un minestrone che mescola Dante e D’Annunzio un tanto al kilo... La scena di Leslie Travers ha una base praticamente fissa sulla quale si innestano di volta in volta appendici diverse ma sempre ottenute componendo tubi-innocenti e scale metalliche (perfetta ricostruzione del castello di Gradara, hahaha!) I costumi di Marie-Jeanne Lecca sono indifferentemente medievali e novecenteschi, così come le armi impiegate, che vanno dalle balestre al cannone Bertha, dalle frecce alle machine-pistole...

Un po’ meglio vanno le cose sul piano dei movimenti di singoli e masse, ma in generale mi sembra si tratti di un approccio velleitario e poco rispettoso dell’originale. Non infierisco su alcune trovate cervellotiche, come il giullare fatto secco con un paio di colpi di revolver o il doppio omicidio finale, che avviene... per procura.

Insomma, si poteva fare - oltre che pretendere - assai di meglio. 

28 aprile, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°24


Jader Bignamini si riaffaccia in Auditorium per dirigere un insolito programma che accosta l’autore di sinfonie più... autorevole dell’intero ‘800 ad uno dei suoi più autorevoli interpreti del ‘900, a sua volta cimentatosi come autore di sinfonie... I due brani proposti nel concerto sono legati da un labilissimo filo: l’opera di Bernstein è sottotitolata Egloga barocca, e come tale sembrerebbe richiamare (ma solo in apparenza) scenari bucolici che sono poi al centro della Pastorale beethoveniana.

E si parte proprio da Lenny Bernstein e dalla sua sinfonia-a-programma-con-pianoforte-obbligato The age of anxiety, che ci viene riproposta qui da Emanuele Arciuli a più di 6 anni di distanza da quando lui stesso la interpretò con Marshall.

Ascolto sempre interessante, ma obiettivamente di non facile digestione, anche conoscendo dettagliatamente il programma letterario che sottende il brano. Arciuli - che forse tornava a suonare il pezzo dal 2012 - si tiene per sicurezza lo spartito sul leggio, mentre Bignamini pare che diriga la sinfonia ogni santo giorno... visto che si permette di lasciare la partitura in camerino!

Il pubblico - abbastanza folto, il che fa sempre piacere - ha mostrato di gradire assai, accogliendo la prestazione di solista e orchestra con calore e simpatia.
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Di Beethoven ecco poi l’inflazionata Pastorale, di cui Bignamini ha dato un’interpretazione assolutamente convincente, per leggerezza, brio, romanticismo, equilibrio. Evocando e ricreando mirabilmente quelle sensazioni al contatto con la natura che il genio di Bonn intendeva programmaticamente condividere con noi con la sua sesta.

L’orchestra - per l’occasione Bignamini ha disposto al proscenio i violini secondi (che hanno parti di rilievo) rimpiazzati sulle loro sedie dalle viole - a sua volta ha dato il meglio di sè, in tutti i reparti e si è meritata, con il Maestro, ovazioni a non finire. Insomma, una serata da incorniciare.

27 aprile, 2018

Terremoti al Regio



Torino in questi giorni vive ore davvero drammatiche!

La Juve dei sovrani Agnelli le ha prese (contrappasso micidiale) dal Napoli dell’ex-raccattapalle DiMaio e se la vede brutta sul fronte scudetto (si rischia di dover rinfoderare l’antico adagio: non c’è sei senza sette!)

E adesso: una che è stata messa lì da quello stesso DiMaio (o Casaleggio per lui) e ha già portato abbastanza sfiga alla Juve al costo di morti e feriti, si permette di mandare affanculo il glorioso Teatro cittadino, assurto (grazie a gente tosta come Castellani, Chiamparino e Fassino) a modello di oculata quanto sabauda gestione del patrimonio musicale del Regno d’Italia, Torino capitale!

In due giorni: se ne va sbattendo la porta il sovrintendente Vergnano (che 19 anni di pressione deretanica non hanno potuto trattenere incollato alla sedia) e poi lo segue il direttore musicale Noseda (che un paio d’anni fa poco mancava che sfidasse il detto Vergnano a duello...) e con loro se la vede brutta un extracomunitario che occupa(va) la poltrona di direttore artistico (rischia il rimpatrio forzato in Costarica, celebre culla di melomani verdiani).

E per di più a Roma non c’è Franceschini che possa opporsi alla deriva.

O tempora, o mores!

23 aprile, 2018

Crociati al Regio



Al Regio di Torino è andata in scena ieri pomeriggio la quinta delle sette recite dei verdiani Lombardi. Primo ma classico esemplare di opera degli anni-di-galera, nacque sull’onda del clamoroso successo di Nabucco, del quale ripete (purtroppo in peggio) il canovaccio: scenario (pseudo-)storico, che offre il destro per grandi affreschi epico-corali, sul quale innestare vicende private, occasione per scolpire in musica ogni sorta di sentimenti e paranoie umane. Ma mentre Nabucco ha una solida struttura drammatica, i Lombardi (ispirati al poema di Grossi, dal soggetto che definire contorto è un complimento, e così da Solera trasformato maldestramente in libretto) appaiono come un’accozzaglia di elementi eterogenei e spesso letteralmente inverosimili.

Tanto per cominciare: lo sfondo storico resta alquanto sfumato, e si materializza appena-appena solo nel secondo, terzo e quarto atto; per il resto tengono banco le prosaiche vicende di amori e vendette che maturano all’interno della famiglia del signore di Rò.

Sul fronte della ridicola plausibilità della trama basti notare che Pagano è andato una prima volta in esilio in Terrasanta dopo aver tramato contro il fratello Arvino, reo di avergli strappato l’amore di Viclinda, ed ora torna a Milano nientemeno dopo 18-20 anni (quanti ne deve avere Giselda, sua... nipote, ancora di là da venire ai tempi del misfatto). Poi pensa bene (con l’aiuto dello sbifido Pirro) di vendicarsi del fratello ammazzando lui per rapire per sè una babbiona ormai sulla soglia della menopausa (!)

E poi: la Viclinda medesima che fa a tempo a declamare giusto quattro versi smozzicati e poi a cantare un paio di concertati del primo atto, dopodichè scompare letteralmente nel nulla (sapremo della sua morte dalle parole della figlia nel second’atto...)   

A proposito di Viclinda e del suo matrimonio: forse ha poca importanza stabilirlo, ma è un fatto che nè Grossi, nè quindi Solera si degnano di chiarire chi, fra Pagano e Arvino, sia il primogenito. In casi simili al più anziano viene affidata la tessitura più bassa, al giovane quella acuta. Ma nella vicenda in questione si dovrebbe pensare che Arvino sia il maggiore dei fratelli e si sia preso Viclinda solo perchè a quei tempi la primogenitura garantiva anche il diritto di prelazione sulla femmina da impalmare, indipendentemente dal piano dei sentimenti. E ciò spiegherebbe il comportamento invidioso e vendicativo di Pagano. Ergo la tessitura di basso sarebbe stata da Verdi affibbiata al fratello cattivone (e poi... santone) anche se più giovane, e quella di tenore al fratello maggiore, nato con la camicia.

Ancora: Arvino, Pagano, Giselda e Pirro che partono separatamente per la Terrasanta - il primo come capo dei Crociati lombardi; il secondo per un nuovo turno di penitenza; la terza per adempiere il voto fatto con la madre (nel frattempo scomparsa appunto non si sa come nè dove); e il quarto che per il rimorso va in Palestina a... convertirsi all’Islam! - e che però, dopo un’interminabile peregrinazione attraverso Italia, Dalmazia, Grecia e Turchia, si ritroveranno tutti insieme, miracolosamente e con cronometrica puntualità, dalle parti di Antiochia! A proposito faccio qui un’osservazione critica al regista Mazzonis: negli atti 2-3-4, ambientati in Palestina a pochi mesi dal primo di Milano, tre dei quattro succitati personaggi (Arvino, Giselda e Pirro) mantengono pienamente le loro caratteristiche somatiche; invece Pagano, trasformatosi in eremita, pare invecchiato di 50 anni almeno: da giovanottone imberbe e dalla lunga chioma corvina raccolta a coda di cavallo, ora mostra capelli bianchi sciolti e una lunghissima barba pure bianca, talchè pare diventato il bisnonno di suo fratello Arvino! Pensavo di spiegare la cosa con il desiderio del regista di rendere plausibile ciò che in Solera è ridicolo (nessuno riconosce Pagano) immaginando che il cattivone si sia dotato (stando al regista) di capelli e barba finti. Ma alla fine, quando lui si rivela, il regista non gli fa togliere i peli posticci, e così al ridicolo di Solera dobbiamo aggiungere quello di Mazzonis...

Il tema di un amore che nasce fra due individui di religione ed etnia diverse e nemiche (nel Nabucco impersonati da Ismaele e Fenena) è qui riproposto nelle figure di Oronte e Giselda: là a convertirsi è la femmina, qui - par condicio - il maschio!   

(Buona parte di queste bizzarrie verrà lodevolmente rimossa da Royer&Vaëz, autori del libretto francese di Jérusalem, derivata 5 anni dopo dai Lombardi.)

Ciò che - a dispetto dell’inconsistenza del libretto - consente all’opera di rimanere saldamente presente nei cartelloni di tutto il mondo è (manco a dirlo) la musica del giovane Verdi, quella musica sanguigna, proterva, sfrontata, proprio dissodata con la vanga, come è stato coloritamente sentenziato. Ma musica che presenta anche preziosità e raffinatezze, includendo persino una specie di romanza per violino solista, una delle dimostrazioni di cosa avrebbe potuto fare Verdi nel sinfonico, solo ne avesse avuto voglia e soprattutto... gli stessi lauti proventi che gli garantiva il melodramma.

E della musica si è occupato assai bene Michele Mariotti, del quale è da lodare soprattutto l’accuratezza della concertazione: precisione negli attacchi (con la sua maninamorta-à-la-Abbado) ed accompagnamento sempre rispettoso delle voci, mai messe in difficoltà. Forse - ma è questione davvero di gusti - il direttore pesarese ha smussato un tantino di troppo le (supposte) volgarità di questo primo Verdi, che personalmente preferirei risaltassero maggiormente, essendo proprio una delle componenti di base di opere come questa (non parlo di decibel del suono, ma di una certa rusticità di fraseggio). Ma il mio voto resta comunque alto, magari senza la lode, ecco. Alto anche il voto per l’Orchestra, guidata da Stefano Vagnarelli, esibitosi nel pezzo solistico del terz’atto (applaudito a scena aperta) e alla fine chiamato da Mariotti sul palco.

Trionfatori del pomeriggio i due innamorati Angela Meade e Francesco Meli. Lui non ha bisogno di conferme, essendo in Italia il top. Lei invece è una piacevole conferma: voce di invidiabile corposità, acuti pulitissimi (un paio in pianissimo davvero pregevoli; su un paio di forzature si può sorvolare) e agilità brillanti. Ottima anche la sua espressività e la capacità di passare (come nel quart’atto) dal religioso raccoglimento alla gioia più sfrenata. (Qualcuno storcerà il naso per le sue ehm... dimensioni, ma meglio una sfera che canta così che una top-model gallinacea.)

Alex Esposito è andato un po’ a corrente alternata: stranamente apatico all’inizio, è cresciuto verso la fine, ma ai miei occhi (e orecchi, soprattutto) gli è mancata l’autorevolezza e la drammaticità del ruolo. Insomma, mi aspettavo di più, ecco.

L’Arvino di Gipali e il Pirro di Di Matteo non mi hanno francamente entusiasmato: voci modeste e poco penetranti, senza infamia e senza lode.

Gli altri 4 comprimari hanno dato il loro onesto contributo, del quale vanno ringraziati.

Discorso a parte merita il coro di Andrea Secchi, davvero all’altezza in quest’opera che lo mette duramente alla prova. Peraltro ne hanno fatto le spese Esposito e Gipali soprattutto, che nei concertati sono stati letteralmente ingluviati da quella debordante massa sonora.

Alla fine successo enorme per tutti, con ovazioni alle singole e ripetute chiamate al proscenio.
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La regìa di Mazzonis (viene dalla sua Liegi ed è mutuata da quella di Jérusalem) è precisamente ciò che si definisce tradizionale. Cioè ci si vedono (sullo sfondo) dapprima SantAmbrogio, un palazzo (di Folco) e poi ambienti orientaleggianti (Antiochia) e infine la Città Santa. Poco altro in scena. Costumi presunti degli anni attorno al 1100.

Unica concezione al modernismo è il filmato che scorre sulle note della battaglia fra crociati e musulmani: sono immagini del Nevsky di Eisenstein e ci si può domandare la ragione di tale accostamento. Mah, di certo c’è che nel Nevsky i crociati (cavalieri teutonici) vengono sconfitti! E Mazzonis in effetti chiude con una visione ecumenica, un abbraccio generale fra gli opposti combattenti.

Certo però che il soggetto sarebbe davvero allettante per farci delle geniali de-strutturazioni. Ad esempio, trasformandolo in un caso clinico di sapore freudiano... che so, Pagano che è affetto da complessi di inferiorità e da sete di vendetta a causa di uno sgarbo bullistico inflittogli da piccolo dal fratello maggiore, reo di avergli rubato e dato alle fiamme un’automobilina a pedali, o di averlo battuto con un imbroglio alla play-station. Oppure proponendo un’attualizzazione politica che ambienti la vicenda nella Siria di oggi, con Arvino(-Trump) che riempie di missili il povero Pagano (-Assad) reo di aver messo dei dazi sull’importazione di Coca-Cola.

Sì, perchè Verdi mica componeva opere, come questa, con cori e bande, per farci trascorrere un paio d’ore di sano svago musicale... no no, lui si proponeva di darci dei gran pugni nello stomaco, di costringerci a pensare e a macerarci sui massimi sistemi!

Peccato che il pubblico di Torino (quantomeno quello di ieri) sia apparso assai contento di non aver preso pugni, almeno a giudicare dall’accoglienza trionfale riservata a questa produzione. Amen.

20 aprile, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°23

                         
Claus Peter Flor si sposta a Vienna per un programma (di fine ‘700 - inizio ‘800) dall’impaginazione classica.

Si parte con Egmont, la beethoveniana Ouverture delle musiche di scena per il dramma di Goethe, composte nel 1809. Il Conte di Egmont fu un nobile fiammingo che a metà del ‘500, dopo aver militato al servizio di Carlo V ed essersi distinto per le sue imprese militari, si oppose fieramente all’occupazione delle Fiandre da parte del Conte d’Alba, fino a venire da costui condannato alla decapitazione, affrontata con virile fermezza.

L’Ouverture, strettamente in forma-sonata (un autentico gioiello nel suo genere) è costruita su temi che evocano la vicenda umana di Egmont, e in particolare la sua eroica fine in difesa della libertà. Un soggetto assai caro, come sappiamo, a Beethoven, che in più sentiva come proprio l’eroismo del Conte delle Fiandre, paladino di una terra dalla quale provenivano anche i suoi antenati, come del resto testimonia scopertamente il suo stesso cognome.
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Seguiamone lo sviluppo attraverso un‘interpretazione di Claudio Abbado con i Berliner.    

Introduzione - Sostenuto ma non troppo, 3/2 FA minore. Possiamo plausibilmente vederci evocata la triste condizione di Egmont, perseguitato dall’invasore e condannato a morte, compianto dai suoi cari (moglie e... 11 figli!) Apre (2”) un poderoso unisono generale di FA, seguito (8”) da tre battute dei soli archi che compiono due salite: una terza maggiore armonizzata (15”) in LAb (relativa della tonalità d’impianto) e una terza minore che si appoggia (19”) a DO minore, poi ribadito (22”) in quinta vuota. Oboe e poi clarinetto e fagotto (24”) rispondono con una melodia lamentosa, in DO minore, che dalla tonica scende alla sensibile per poi salire alla sesta minore e scendere alla mediante MIb. Gli archi (36”) la riprendono chiudendola però sul MI naturale, sensibile del FA di impianto che torna (45”) ancora in unisono a piena orchestra. Si ripete la figura precedente, che sale (56”) al LAb maggiore, ma qui si interrompe, seguita (1’00”) dal tema lamentoso esposto da clarinetto, fagotto, oboe e flauto in REb maggiore, tonalità nella quale (1’15”) i violini primi espongono un grazioso e languido motivo (Ti) che dalla dominante LAb sale alla sesta per poi scendere per gradi congiunti alla mediante FA, subito ripetuto anche dal clarinetto, per terze. Un motivo che si può ricondurre agli affetti personali di Egmont (Famiglia e Patria) e che viene ripetuto ancora per ben otto volte, abbassandosi progressivamente (dalla sopratonica MIb, a 1’24”, due volte, in violini e flauto) poi dalla tonica REb (1’33”, violini-flauto); quindi dalla sesta SIb (1’37”, violini, oboe); ancora dalla quarta SOL (1’41”, violini, oboe); dalla seconda aumentata MI (1’46”, oboe e clarinetti); dalla sesta SIb (1’51”, violoncelli) e infine, a lunghezze raddoppiate, nei violini dalla sesta aumentata SI naturale (1’56”). Queste reiterazioni hanno di fatto riportato la tonalità all’originario FA minore, sul quale attacca ora...

L’Esposizione, Allegro 3/4. Qui (2’01”) si evoca lo spirito battagliero di Egmont, che affronta eroicamente le brutaità dell’invasore. Dopo 4 battute in cui il tema Ti svolazza in violini e violoncelli, ecco apparire (2’05”) proprio in questi ultimi il primo tema (T1) che è chiaramente mutuato dal Ti, quanto meno nell’inicpit: come a dire che Egmont lotta anche per la propria famiglia e la propria patria. La prima parte del tema (piano, sforzato) si adagia sulla sensibile (2’08”); la seconda lo riprende appoggiandosi sulla tonica (2’12”) dalla quale si dipartono tre reiterazioni di un motivo discendente - sulla scala minore - da tonica a dominante. Dopo questo temporaneo ripegamento riflessivo, effetto forse delle vessazioni dell’invasore, ecco una lunga transizione (2’18”) caratterizzata da una figura (Tr) di tre crome + semiminima, reiterata ben 16 volte dai violini, che evoca verosimilmente la faticosa e ansimante ripresa di fiato dell’eroe, il cui tema T1 si ripresenta ora (2’35”) in fortissimo, nei violini supportati dall’intera orchestra. Segue il ritorno di una variante della figura Tr che sfocia (2’49”) in una modulazione alla relativa LAb maggiore sulla quale si dipana un ponte di 8 battute che porta (2’58”) all’esposizione del secondo tema (T2) che è una riformulazione veloce del motivo che nell’Introduzione seguiva il FA di attacco e sale da dominante a sesta (MIb-FA). Esso è esposto dagli archi ai quali rispondono i legni (3’01”) con un inciso elegiaco. La cosa si ripete due volte, poi sulla terza il tema T2 sfocia (3’08”) sulla sesta abbassata (FAb, enarmonicamene MI naturale) e i legni rispondono immediatamente con una salita dal MI al LA maggiore, ripetuta, e poi culminante (3’15”) in un FA naturale sul quale i violini, con un salto SIb-MIb innescano il ritorno a LAb maggiore. Qui (3’22”) tre scale ascendenti dei violini seguite da sei cadute dalla dominante MIb chiudono l’esposizione.

Lo Sviluppo è assai breve: presenta (3’35”) il tema T1 in modo maggiore (LAb) e poi lo reitera più volte (3’44”) in minore, ogni volta chiudendolo con strappi di due semiminime in forte. Il ritorno (4’06”) sommesso e variato della figura Tr conclude lo sviluppo.         

La Ricapitolazione (4’21”) ripropone il tema T1 in FA minore, poi (4’35”) la transizione Tr e ancora (4’51”) T1 in modo enfatico.  A 5’05” si modula a REb maggiore in vista della canonica riproposizione del tema T2 (5’24”) in questa tonalità, cui segue il passaggio un semitono più alto (quindi qui in RE maggiore, 5’34”). Ritorno a REb maggiore (5’44”) con le tre salite dei violini e le sei cadute dalla dominante LAb. A 6’00” rientra il secondo tema T2, negli ottoni, che si alterna tre volte con cadute nei violini, mentre la tonalità vira a DO minore. Ora  (6’20”) i soli violini espongono una spettrale caduta DO-SOL (sarà per caso la bipenne che scende sul collo dell’eroe?) dopodichè subentra quasi un silenzio religioso seguito (6’25”) da 8 battute meditabonde dei legni, chiuse scendendo da REb a DO. È il prologo alla travolgente...

Coda - Allegro con brio, 4/4 FA maggiore. Siamo all’apoteosi di Egmont. Una figurazione ascendente si ripete (6’42”) 4 volte in pianissimo, poi (6’46”) altre 6 volte a frequenza doppia e in crescendo. Ancora una battuta di velocissima ascesa fino alla mediante LA, ed ecco esplodere (6’52”) il trionfale motivo della vittoria morale dell’eroe sui suoi carnefici. Sono 6 reiterate salite dalla tonica FA alla mediante LA, ripetute (a 7’00”) e seguite (7’08”) da ben 6 ricomparse, sempre più cariche di suono, di un nuovo motivo di due battute che dal FA scende alla sesta RE, sale alla sopratonica SOL, scende ancora alla dominante DO per risalire alla tonica. I violini (7’11”) contrappuntano la seconda e terza apparizione con festosi svolazzi, poi (7’21”) ecco l’imperiosa salita da tonica FA a dominante DO, nota che viene ribadita enfaticamente. Il passaggio si ripete (7’29”) e finalmente (7’38”) arriva la trionfale fanfara delle trombe che porta, con ripetute scalate alla dominante, alla spettacolare conclusione. 
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Esecuzione trascinante, però a Flor mi sentirei di rimproverare uno scarso equilibrio delle dinamiche nei passaggi più enfatici, dove il suono dell’orchestra tende a divenire un magma che finisce per inghiottire (e quindi coprire) le linee melodiche.   
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La Concertante di Haydn è da anni impiegata come vetrina dove esporre quattro delle prime parti dell’Orchestra (violino, cello, oboe e fagotto) impegnati come solisti in questo brano che nel catalogo Hoboken è denominato abbastanza impropriamente Sinfonia (lo stesso accade per Mozart ai titoli K297b e K364).

Per restare solo agli anni più recenti e alla stagione principale, a gennaio 2012 i solisti furono Santaniello, Shirai, Stocco e Magnani; a novembre del 2015 Dellingshausen, Scarpolini, Greci e Magnani. Questa volta tocca a Dellingshausen, Shirai, Stocco e Magnani (quest’ultimo è davvero... inamovibile). I 4 moschettieri si sono ben distinti e il successo è stato caloroso (con tanto di omaggi floreali) così ci hanno regalato come bis una simpatica trascrizione del Chorale St.Antoni.
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Si chiude nel nome di Mozart con la sua ultima sinfonia, la celeberrima Jupiter. Qui Flor si riscatta, facendo emergere ogni particolare della partitura mozartiana e inoltre proponendocela con (parafrasando Schumann su Schubert) le sue celestiali lungaggini: che sarebbero poi tutti i ritornelli, nessuno escluso.

Auditorium a... scartamento ridotto, ma pubblico convinto e prodigo di applausi.

16 aprile, 2018

La furia di Orlando in Laguna


Ieri pomeriggio il piccolo ma glorioso Malibran ha ospitato la seconda recita di Orlando furioso di Antonio Vivaldi. Si tratta di un allestimento che fu presentato con gran successo la scorsa estate al Festival di Martina Franca, e di cui è ascoltabile in rete l’audio (pessimo, ahinoi, poichè piratescamente ripreso con mezzi di fortuna) grazie ai peripatetici melomani de L’impiccione viaggiatore.

Ultima delle tre opere dedicate da Vivaldi al soggetto ariostesco, si inserisce in pieno nella tradizione del barocco, sia dal punto di vista della grandiosità dello spettacolo, che da quello della struttura della parte musicale. Questa produzione di basa sull’edizione critica dello specialista Federico Maria Sardelli, che la coppia regista-concertatore (Fabio Ceresa - Diego Fasolis) ha poi liberamente rimaneggiato, attraverso qualche taglio (doloroso per la soppressione di alcune arie; meno critico, ma sempre dannoso per la coerenza del tutto, per quella di robusta parte dei recitativi) accompagnato a diversi arbitrari spostamenti di numeri all’interno della struttura del dramma. Lo spettacolo si riduce (per così dire...) a meno di tre ore lorde (20‘ di intervallo) rispetto alle più di 3 ore nette di un’esecuzione completa (come questa francese). In appendice un elenco dei principali numeri e della relativa ristrutturazione compiuta per questo allestimento: tra spostamenti di arie ed espunzioni (di arie e recitativi) sono il secondo ed il terzo atto ad essere pesantemente manipolati rispetto all’originale.   

La trama dovuta a Grazio Braccioli - da Ariosto, ma estremamente contorta - serviva (ai tempi) più che altro a giustificare le mirabolanti trovate sceniche (ippogrifi, mostri, naufragi, viaggi spaziali...) e le innumerevoli arie che consentivano agli interpreti di mettere in mostra le loro qualità di gorgheggiatori, oltre che di attori. Vi troviamo un quadrilatero e un triangolo sentimentali, rispettivamente rappresentati dai diversamente assortiti legami affettivi che a cascata collegano, da un lato, Bradamante<>Ruggiero<>Alcina<>Astolfo; e dall’altro Medoro<>Angelica<>Orlando.   

L’allestimento è piacevole e intelligente: non si perde alcunchè del classico clima dell’opera barocca, grazie alle scene di Massimo Checchetto, assai efficaci pur nella relativa essenzialità: la luna di Orlando, il mondo incantato e sexy di Alcina, l’ippogrifo di Ruggiero e il naufragio di Medoro... Insomma, un simpatico revival delle atmosfere che nel primo ‘700 caratterizzavano i teatri musicali. Il tutto impreziosito dai coloratissimi e raffinati costumi di Giuseppe Palella e ravvivato dalle luci di Fabio Barettin. Essenziali anche le coreografie di Riccardo Olivier.
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Sul piano musicale, doverose lodi a Diego Fasolis, che ha fatto valere la sua indiscussa esperienza in questo repertorio, accompagnando personalmente ad uno dei due cembali e trascinando strumentisti e coristi della Fenice a confermare a loro volta la dimestichezza con il barocco, raggiunta anche grazie alle esecuzioni monteverdiane di questi ultimi anni.

Le voci si sono dimostrate tutte all’altezza del compito. A partire dall’Alcina di Lucia Cirillo e dall’Angelica di Francesca Aspromonte. Subito dietro collocherei la Bradamante di Loredana Castellano e la protagonista Sonia Prina, che ho personalmemte apprezzato spesso in Auditorium a Milano con laBarocca di Jais, ma che ieri non mi è parsa al meglio (incassando anche un eccessivamente severo buh nel second’atto).  

Apprezzabili il Medoro di Raffaele Pe, il Ruggiero di Carlo Vistoli e autorevole l’Astolfo di Riccardo Novaro.

Pubblico non oceanico e freddino negli applausi a scena aperta dopo le arie (ha fatto eccezione Sol per te, grazie soprattutto all’accompagnamento del magico traversiere, collocato in un palchetto). Anche alla fine applausi calorosi ma... centellinati.

Comunque uno spettacolo sicuramente da consigliare.
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Struttura dell’opera in questa edizione-produzione

I
Ang Un raggio di speme
Alc Alza in quegli occhi
Ast Costanza tu m’insegni
Bra Asconderò il mio sdegno
Orl Sorge l’irato nembo (da atto II) sostituisce Nel profondo, cieco mondo, spostato in atto II
Ang Tu sei degli occhi miei
Orl Troppo è fiero il nume arciero (espunto)
Med Rompo i ceppi (Nel libretto originale: Se tacendo, se soffrendo)
Rug Sol per te mio dolce amore (flauto traverso)
Alc Amorose ai rai del sole

II
Alc Vorresti amor da me?
Ast Benchè nasconda la serpe in seno
Bra Taci, non ti lagnar
Rug Piangerò sinchè l’onda del pianto (assente nel libretto originale)
(Orl Sorge l’irato nembo, spostato in atto I)
Med Qual candido fiore
Ang Chiara al pari di lucida stella (spostata poco avanti)
Orl Nel profondo, cieco mondo (da atto I)
Rug Come l’onda (da atto III) sostituisce Che bel morirti in sen, espunto
Bra Io son ne’ lacci tuoi (da atto III) sostituisce Se cresce un torrente, espunto
Cor Al fragor de’ corni audaci
Cor Gran madre Venere
Cor Diva dell’Espero
Ang-Med Belle pianticelle (espunto)
Ang-Med Sei mia fiamma - Sei mia gioia
Alc Così potessi anch’io (spostato qui da prima del duetto Ang-Med)
Orl Ah sleale, ah spergiura

III
Ast Dove il valor combatte
Alc L’arco vuò frangerti
Alc Che dolce più (espunto)
Ang Poveri affetti miei (espunto)
 (Bra Io son ne’ lacci tuoi, spostato in atto II)
Alc Non è felice un’alma (espunto)
(Rug Come l’onda, spostato in atto II)
Med Vorrebbe amando il cor (espunto)
Orl No no ti dico no
Alc Infelice, ove fuggo
Alc Anderò, chiamerò
Cor Con mirti e fiori (Nel libretto originale: Vien dal cielo in noi l’Amore)

13 aprile, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°22


                                           
Claus Peter Flor si fa russo per il concerto di questa settimana. Programma che percorre a ritroso la prima metà del ‘900, nel nome di tre dei principali compositori russi di quel periodo.

Si comincia da Shostakovich e dalla sua Ouverture festiva, composta nel 1947 in occasione dei 30 anni della Rivoluzione.


Il fatto che un brano come questo - abbastanza carico di facile retorica e di ingenuo entusiasmo - sia stato ideato da Shostakovich per iniziativa personale e non per compiacere all’establishment del PCUS (lo testimoniano la pubblicazione e la prima esecuzione, avvenute soltanto parecchi anni dopo la composizione) è l’ennesima prova della sincerità dei sentimenti rivoluzionari del compositore, a dispetto di tutte le angherie che aveva dovuto (e ancora avrebbe dovuto) sopportare da parte dei bidelli (nonchè aguzzini) di quello stesso establishment.   

L’Ouverture ha una struttura assai semplice, essendo in forma-sonata priva di sviluppo. Seguiamola per sommi capi in questa travolgente esecuzione di Temirkanov a Stoccolma nel 2009 (cerimonia del Nobel).

Introduzione (Allegretto 3/4 LA maggiore);

Esposizione (Presto, 4/4 alla breve).  
44” Primo tema in LA maggiore;   
1’59” Secondo tema nella dominante MI maggiore;   

Ricapitolazione
2’51” Primo tema in LA maggiore;  
3’45”  Secondo tema ripreso nella tonica LA maggiore;

Coda
4’45” (Poco meno mosso, 3/2, Tema dell’Introduzione);

Stretta finale
5’16” (Presto, 4/4 alla breve, Tema B accelerato).

Gagliarda l’esecuzione de laVerdi, che serve a riscaldare gli animi (ma anche i corpi) raffreddati da questo inverno... precoce.
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Ecco poi il giovane Luca Buratto cimentarsi per la terza volta con laVerdi, e dopo due Rach (2-3) interpretare il ben più ostico Secondo Concerto di Prokofiev, del quale è ancora vivo il ricordo dell’ultima esecuzione qui in Auditorium, dovuta a Valentina Lisitsa nel 2014.

Il 26enne milanese non tradisce le aspettative e strapazza come si deve (a... Prokofiev) il prezioso strumento, senza farsi intimidire dalla colossale cadenza che occupa buona parte del primo movimento, superata con fredda determinazione. Certo non è strano che il pubblico che udì per la prima volta quest’opera ne fosse rimasto in prevalenza orripilato... ma il tempo è galantuomo, se a più (o meno) di un secolo di distanza ancora il brano occupa le locandine dei concerti in tutto il mondo. Per contrappasso Luca ci offre un celestiale bis monteverdiano, apprezzato ed applaudito (anche dal suo maestro Davide Cabassi...)
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Ha chiuso la serata la celebre Suite dall’Uccello di Fuoco di Stravinski, uno dei tanti cavalli di battaglia dell’Orchestra. Che anche stavolta non si smentisce. Farei un unico appunto a Flor: aver fatto annegare il tema principale del Maestoso finale nell’incandescente ma indistinto magma orchestrale. Ma il pubblico ha apprezzato assai.

12 aprile, 2018

Un modesto Don Pasquale è tornato alla Scala


Ieri sera la Scala (innumerevoli i posti vuoti) ha ospitato la terza recita del nuovo Don Pasquale, allestito da Davide Livermore e diretto da Riccardo Chailly.

Per introdurre il mio telegrafico commento allo spettacolo mi faccio aiutare da Riccardo Muti, che - nei primi 4 minuti e mezzo di questa registrazione del 2017 -  inquadra l’opera nel contesto storico in cui venne composta e ne sintetizza le principali qualità: dramma buffo che si rifà a Mozart (e all’opera napoletana); opera che mirabilmente amalgama il comico al patetico (quindi buffa e non buffonesca). Tradotto in termini di approccio di Direttore e Regista, sarebbe a dire: leggerezza di concertazione e raffinatezza di ambientazione.

Ecco, poco di tutto ciò si riscontra in questa produzione, caratterizzata - sul piano musicale - da eccessi bandistici e sonorità grevi (si salva solo il terzo atto); su quello registico, da volgarotte goliardate da avanspettacolo anni-60.

Quando Chailly è già sul podio Alex Pereira si affaccia al proscenio, bucando il sipario: annuncia che non ci sono malati o defezioni... ma che l’Orchestra scaligera ha ricevuto a Londra il prestigioso award che la colloca sul piedistallo del mondo. Forse così si spiega l’eccessiva foga di strumentisti e direttore, che per i primi due atti hanno voluto far sentire solo il loro suono, coprendo regolarmente le voci. Persino Maestri si faticava a udire come si deve. Non parliamo di Rosa Feola che, se non è male sugli acuti, scompare nei centri e nei gravi. Pessimo l’inizio di Mattia Olivieri, intonazione periclitante e più rumori che suoni. Si salva per fortuna René Barbera, che almeno si riesce ad udire distintamente. E insieme a lui il coro, che nessun fracasso orchestrale sarebbe in grado di coprire.

Come detto, il terzo atto è stato abbastanza accettabile, anche perchè la partitura proibisce... escandescenze.
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Livermore si inventa per il protagonista il complesso materno, che ci viene esposto mentre l’Orchestra suona la Sinfonia: Pasquale, ormai vecchio decrepito, si può finalmente sposare solo perchè la madre-padrona-matusa s’è decisa una buona volta a togliere il disturbo... Poi il regista si appella al cinema italiano anni-60 (idea da lui già applicata altre volte, cito il Turco in Italia al ROF-2016) per ambientare colà il soggetto di Giovanni Ruffini.

Trattandosi di un dramma sì, ma buffo, è quasi impossibile stravolgerne il soggetto o farne una parodia, così ciò a cui assistiamo è una commedia agrodolce che si può anche digerire senza troppo sforzo. E il pubblico ha mostrato di gradire.
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Ma devo dire che la produzione dell’Accademia del 2012 mi aveva convinto di più, ecco.