affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

15 marzo, 2018

Dialoghi di convento a Bologna


Il Comunale di Bologna ha in cartellone in questi giorni (ultima recita domani) la più famosa opera di Francis Poulenc, i Dialogues, una produzione franco-belga del 2013 ripresa poche settimane fa anche a Parigi.
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Antoine Quentin Fouquier-Tinville. Chi era costui? Beh, senza volerlo è un personaggio (materialmente in scena o... appostato dietro le quinte) implicato in ben due diverse opere liriche ambientate negli ultimi giorni del terrore rivoluzionario del 1794. Precisamente gli otto giorni che vanno da giovedi 17 luglio (ghigliottinamento delle 16 carmelitane) a venerdi 25 luglio, quando la testa fu separata dal corpo di tale André Chénier.

Il nostro era il Procuratore del Tribunale Rivoluzionario, che in pochi mesi spedì al patibolo qualche migliaio (un’inezia...) di francesi - privati dei diritti di difesa! - fra i quali le 16 carmelitane di Compiègne (esaltate da Bernanos e poi da Poulenc) e subito dopo il poeta immortalato dalla coppia Giordano-Illica.

Per la cronaca già lunedi 28 luglio (tre giorni dopo la sentenza Chénier) la spietata legge del contrappasso reclamò i suoi diritti dal ghigliottinatore Maximilien-François-Marie-Isidore de Robespierre. Ma non molto dopo il contrappasso colpì anche il solerte magistrato, poichè giovedi 7 maggio 1795 toccò alla sua testa rotolare ai piedi dell’affilata lama del dottor Guillotin.

Piccoli dettagli che nulla tolgono alla gloria di quella Rivoluzione che ci ha regalato le meravigliose istituzioni che ancora reggono la nostra convivenza civile, oggi così degnamente illustrate da tipi come Renzi, Berlusconi, Salvini e DiMaio... Evabbè.
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Fra l’ispiratore Bernanos (il suo dramma teatrale è del 1947, rappresentato postumo nel ‘52) e il compositore Poulenc (l’opera venne composta fra il ’53 e il ’57) c’erano differenze quasi abissali sul piano, diciamo così, ideologico-filosofico-politico: il drammaturgo fu un monarchico conservatore (per non dire tout-court un reazionario, ma di quelli di sani principii, che gli impedirono di schierarsi con le dittature) mentre il musicista era un repubblicano sincero democratico. Forse l’unico comun denominatore fra i due era la fede cattolica, il che plausibilmente può spiegare l’innamoramento di Poulenc per il soggetto di Bernanos.

Peraltro l’opera - ancor più che il dramma teatrale - si concentra prevalentemente sugli aspetti controversi e problematici della personalità della protagonista Blanche, che portano in secondo piano quelli legati allo scenario politico in cui è ambientato il soggetto. Blanche è - si può ben dire - figlia della paura, quella che attanagliò sua madre e ne provocò il parto prematuro e fatale. La paura che la rende diffidente della realtà che la circonda e le consiglia il (sicuro?) rifugio in convento. La paura che la coglie di fronte al cadavere della Superiora che è spirata sotto i suoi occhi. La paura che le fa prillare fra le mani il piccolo Re, che cade in frantumi. La paura che la coglie dopo aver pronunciato (ma ne siamo proprio sicuri?) il voto del martirio, e che la fa fuggire verso la vecchia dimora, pur diventata per lei un luogo di schiavitù e non di agiatezza e sicurezza. La paura che alla fine sarà vinta (forse) da una paura ancor più insopportabile: quella di dover continuare a vivere!

Al proposito sono nate scuole di pensiero sulla definizione da dare del sacrificio di Blanche: un eroico gesto di martirio, di professione di fede, di compassione e comunità con le consorelle; oppure un suicidio in piena regola, proprio per sfuggire le proprie responsabilità, e come tale da condannare e non da santificare.

E immancabilmente anche le regìe teatrali non si sono lasciate sfuggire l’occasione. Il colmo è stato raggiunto quando il genio Cherniakov (Monaco 2010) si inventò, ma proprio nel vero senso della parola, un racconto invero strampalato (rispetto al soggetto originale): mostrando le suore come adepte di una sorta di setta satanica che alla fine decide un suicidio collettivo e Blanche che arriva ad impedirlo, per poi morire lei stessa. Per la prima (e credo unica) volta nella storia, organi di giustizia (primo, secondo grado e Cassazione francesi) sono stati chiamati a pronunciarsi sulla legittimità dei contenuti di una regìa di teatro (musicale). L’accusa (degli eredi di Bernanos e Poulenc) era di contraffazione dell’originale, e la pena richiesta era la proibizione della vendita del DVD. Primo grado a favore di Cherniakov (in realtà della BelAir, casa distributrice del DVD). Il secondo grado ribalta la sentenza, dando ragione ai ricorrenti e bandendo la vendita del DVD. La Cassazione (giugno 2017) ripristina la sentenza di primo grado. (Cosa che deve aver fatto felici gli adulteratori di Rolex e Lacoste e i madonnari che spacciano per autentici i loro vanGogh!)
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Il povero Olivier Py non ebbe e non avrà la soddisfazione - e la pubblicità - di subire un triplice grado di giudizio per vilipendio dell’abito monacale e falsificazione di soggetti teatrali, così impara a mettere in scena precisamente ciò che il librettista-musicista ha pensato, scritto e composto (peggio per lui...)

L’allestimento è in effetti quanto di più calato nello spirito (la lettera qui conta davvero poco...) del testo di Bernanos e della musica di Poulenc. Dei quali restituisce la profonda riflessione sulla vita, la morte, l’ossessione esistenziale, il distacco fra l’individuo e il mondo circostante, la fede e la disperazione: semplicemente rendendo visibili quei concetti che il testo e la musica così mirabilmente evocano.

Gli ambienti spogli e prevalentemente bui, illuminati da lame di luce taglienti come le spade che trafiggono i cuori (e mozzano... le teste); la gestualità dei personaggi, la mancanza di cromatismo di scene e costumi: tutto congiura nel portare lo spettatore ad immergersi in quest’atmosfera da esercizi spirituali, senza peraltro aggiungere alcunchè di estraneo o di surrogato al soggetto originale.

Lodevole anche la parte tecnica dell’allestimento, che impiega mezzi apparentemente semplici, ma manovrati con grande sapienza, e sfrutta anche un paio di palchi di proscenio (nel terzo atto) per rendere fluido il procedere del dramma, senza dover ricorrere a complicati cambi di scena.

Meritati gli applausi che alla fine hanno accolto, primi ad uscire, i tecnici protagonisti della parte scenica.
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Poulenc dichiarò pubblicamente di rifarsi a Debussy, Monteverdi, Verdi e Musorgski (più Mozart, non nominato per... rispetto) mentre si tenne sempre alla larga dal modello wagneriano. Tuttavia (proprio come Debussy nel suo Pelléas) anche Poulenc nei Dialogues fa ampio uso dei Leit-motive, temi ricorrenti associabili a personaggi e soprattutto ad atmosfere e stati d’animo. Come ad esempio i temi della paura, dell’ansietà e del timore, che evocano principalmente le pulsioni della psiche di Blanche; alla cui personalità viene peraltro riservato un motivo delicato e dolcemente mosso; e poi il tema della pacificazione (o della rinuncia, o del conforto divino) che chiude il primo quadro e che significativamente ricompare proprio nelle battute finali dell’opera. E così via, una rete di motivi che sottolineano i caratteri dei personaggi e le situazioni che si dipanano sotto i loro (e i nostri) occhi.

Davvero memorabile la scena conclusiva, con uno dei Salve Regina più strazianti che si ricordino in musica. Poulenc altera la sequenza delle esecuzioni rispetto alla storia, invertendo le posizioni di Constance e della Priora: nell’opera è quest’ultima la prima ad essere ghigliottinata, Constance l’ultima, dovendo incontrare Blanche e vedere compiuto così il suo sogno di morire con lei.

Le 15 suore (Marie è fuggita) sono divise in due gruppi: primo gruppo (soprani): Priora, Constance e 6 Suore; secondo gruppo (mezzosoprani): Jeanne, Mathilde e 5 Suore. Blanche arriverà poi, cantando la giaculatoria conclusiva dal Veni Creator. I due gruppi di suore cantano praticamente in unisono (le sole eccezioni essendo rappresentate da poche note che sono abbassate di un’ottava per i mezzosoprani). In sottofondo il coro completo (SATB) che rappresenta la folla, commenta a bocca chiusa o con semplici vocali (oi-a-o-u) le esecuzioni. Qui sotto ho inserito nel testo sacro cantato i 16 sordi tonfi della lama e (a fianco; suora-gruppo) la vittima di ciascuna calata:

Salve, Regina, Mater misericordiae,
vita, dulcedo et spes nostra, salve.
et spes nostra, salve.<1>                                                (Priora)
Salve, Regina, Mater misericordiae,   
vita, dul<2>cedo et spes nostra, salve.                            (S1 g2)
Salve, Regina, Mater misericordiae,
vita, dulcedo et <3>spes nostra, salve.                            (S1 g1)
Ad te clamamus, ex<4>sules filii Hevae.<5>                    (S2 g2) - (S2 g1)
Ad te suspira<6>mus, gementes et flentes                       (S3 g2)
Ad<7> te suspiramus, gemen<8>tes et flentes                 (S3 g1) - (S4 g2)
in hac lacrimarum, lacrimarum valle.
E<9>ia ergo, advocata nostra, illos tuos                          (S4 g1)
misericor<10>des oculos ad nos converte.                      (S5 g2)
Et<11> Jesum, benedictum fructum ven<12>tris tui,      (S5 g1) - (S6 g1)
nobis, post hoc exilium, osten<13>de.                            (Mathilde)
O clemens, o pia, o dulcis Virgo Maria.                     
O dulcis Virgo Mari<14>a.                                              (Jeanne)
O clemens, o pia, o dulcis Virgo M<15>...                       (Constance)

Deo Patri sit gloria
Et Filio qui a mortuis surrexit Paraclito
In saeculorum saecula. In saeculorum<16>...                  (Blanche)

I colpi di ghigliottina arrivano a intervalli irregolari, talvolta nel bel mezzo di una parola: un tocco questo di macabro realismo.
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Il giovane Jérémie Rhorer ha guidato l’Orchestra del Comunale (cui non possono andare che elogi) con forse eccessiva foga: con il risultato di mettere sì in risalto tutte le preziosità della partitura, ma al prezzo di non valorizzare al meglio le voci, spesso coperte allorquando chiamate a declamare e quasi a parlare.

A proposito di voce, lo stesso Poulenc indicò persino dei modelli di vocalità per le sue 5 protagoniste, mutuati dai suoi modelli di compositore: Thaïs (Blanche), Amneris (Croissy), Desdemona (Lidoine), Kundry (Marie) e Zerlina (Constance). E devo dire che la compagnia (tutta francofona) di carmelitane ha degnamente risposto all’appello. Su tutte metto personalmente la Lidoine di Marie Adeline Henry, che ha sciorinato una gran voce, in potenza ed espressività (il suo arioso è stato davvero travolgente). Ma anche la Croissy di Sylvie Brunet e la Marie di Sophie Koch sono state assolutamente all’altezza. Benissimo anche la Constance di Sandrine Piau, efficacissima con la sua voce acuta e impertinente; appena un filino sotto la pur brava protagonista, Hélène Guilmette, un poco in difficoltà sui centri e sui gravi (ma complice, come detto, il Direttore).

Splendido lo Chevalier di Stanislas de Barbeyrac, una gran voce da tenore lirico-eroico che penso farà sempre più parlare di sè. Da elogiare in blocco tutti/e gli/le altri/e, incluso il coro di Faidutti che arriva solo alla fine, fuori scena e senza profferire parole articolate, ma contribuisce a creare quella mirabile atmosfera del Salve Regina.

Successo davvero strepitoso, salutato da un pubblico non proprio foltissimo ma entusiasta.

10 marzo, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°17



Il padrone di casa Claus Peter Flor risale sul podio dell’Auditorium per proporci una strana coppia: l’ultimo (o quasi) lavoro di un grande sconfitto e il pianto di chi sarà vincitore ma pagando un prezzo insopportabile per la vittoria (non sto parlando di musica, ovviamente, ma di guerre!)

Il ciclo dei Vier letzte Lieder (la penultima, se non ultima, fatica compositiva di Richard Strauss) fu composto nel corso del 1948 in Svizzera, tra Montreux e Pontresina, dove l’84enne bavarese (morirà di lì a un anno senza poterlo ascoltare) era esiliato dopo la caduta del nazismo, al quale lui mai si era opposto con fermezza, pur mantenendo con esso rapporti non certo di plateale connivenza. Un mondo fatto di notorietà, ricchezza e predominio culturale gli era letteralmente crollato addosso, con tutte le croci uncinate di cui quel mondo si era stoltamente fregiato per più di un decennio. Ebbene, in condizioni di autentica indigenza, quasi costretto a chiedere elemosine per strada, il grande Richard trovò modo di sfornare questo incredibile capolavoro. Poco più di 20 minuti di musica ottocentesca che esteticamente - per me - valgono più di tutta quanta la produzione di musica novecentesca messa insieme.

Il ciclo peraltro non fu concepito come tale (Strauss accettò quasi di malavoglia di comporlo solo per soddisfare una richiesta dei suoi famiiari) e l’Autore nemmeno indicò con precisione un titolo nè una sequenza esecutiva dei 4 brani. Titolo e sequenza che furono opera dell’editore Bosey (Ernest Roth) al momento di pubblicarli per la prima esecuzione, che avvenne nella sterminata Royal Albert Hall lunedi 22 maggio 1950, interpreti Flagstadt e Furtwängler). Da allora viene eseguito ed inciso in quella fatta.

La sequenza di esecuzione - pur non essendo verosimilmente farina del sacco di Strauss - segue un canovaccio che si potrebbe liberamente definire Le quattro stagioni dell’esistenza. Le prime tre sono su testi di Hesse e la quarta su testo di von Eichendorff. È probabilmente casuale che la durata dei quattro Lieder sia continuamente crescente, ma mi piace vedere in questo la percezione (di progressiva decelerazione, o di aumento di entropia) che del suo ciclo vitale ha chi si sente consapevolmente vicino alla meta.
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Qualche nota sui contenuti, seguendo questa apprezzabile interpretazione della grande Lucia Popp con il grande Klaus Tennstedt. 

- Frühling è una Primavera che l’anima vive nella sua aspettativa, nel buio invernale di grotte e sepolcri, prima di vederla esplodere davanti a sé in tutta la sua magnificenza. Tempo Allegretto, 6/8. Dopo la breve e concitata introduzione strumentale (tonalità appropriatamente di DO minore) nella prima delle tre strofe (8”, In dämmrigen Grüften) il poeta ricorda i sogni d’inverno, fatti in ambienti freddi e cupi. Sogni però che (20”, von deinen Bäumen, con la tonalità che modula arditamente a SI maggiore) sono popolati da alberi in fiore, azzurre brezze primaverili e (32”, von deinen Duft, mentre la tonalità ancora modula faticosamente a MIb maggiore, la Natura!) da profumi e uccellini cinguettanti.

Un breve interludio strumentale porta verso il DO maggiore (altra tonalità classicamente legata alla Natura) per l’attacco della seconda strofa (1’12”, Nun liegt du erschlossen) dove si canta l’arrivo della Primavera, come un prodigio.

Una nuova modulazione ci ha portati, passando dal MI, al LA maggiore e il tempo muta a 9/8, più tranquillo, per la terza strofa (2’02”, Du kennst mich wieder): è l’estasi da godimento della stagione che fa vibrare nuovamente tutte le membra del poeta, accompagnandone lo stupore di fronte allo spettacolo del creato. Sei battute strumentali in LA maggiore chiudono languidamente il Lied.  

- In September (3’51”) è l’Estate che giunge alla fine, ma che ancora sorride stupenda e languida, splendida nel suo crepuscolo. Tempo Andante, 4/4. Dopo quattro battute strumentali, la prima strofa (4’09”, Der Garten trauert) è in RE maggiore come l’introduzione, ma degrada subito (4’14”) a RE minore all’evocazione delle gocce di pioggia che cadono sui fiori. I versi 3-4 (4’33”, Der Sommer schauert) si spostano sulla sottodominante SOL maggiore per poi modulare a SIb: è l‘Estate che lentamente e tranquillamente si avvia a concludersi.

La seconda strofa (4’59”, Golden tropft Blatt um Blatt) degrada dolcemente a SOLb maggiore, evocando la caduta delle dorate foglie dell’acacia; chiude però il secondo verso ancora sul SOL naturale, che permane per i due restanti versi (5’30”, Sommer lächelt). Essi però chiudono modulando (6’06”, 4 battute strumentali) a MI maggiore.

Degradando di un semitono (MIb) si apre la terza strofa (6’22”, Lange noch bei der Rosen) dove poi (6‘54“) la tonalità si adagia ulteriormente al RE maggiore per chiudere (7‘50“) con 9 battute aperte da una cadenza del corno, a dir nulla stupefacente.

- In Beim Schlafengeh’n (9’09”) siamo davanti all’Autunno dei sensi che si assopiscono, mentre l’anima in liberi voli si librerà. Tempo Andante, 4/8. L’attacco strumentale è in LAb maggiore (FA minore) e così pure quello della voce (9’36”, Nun der Tag mich müd gemacht): il poeta è stanco e si prepara al riposo.

La prima strofa si chiude modulando a MI maggiore e sulla relativa DO# minore si apre la seconda (10’24”, Hände lasst von allem Tun). Dopo un fugace passaggio in RE maggiore, sulle parole che esprimono il desiderio dei sensi di sprofondare, ecco che la musica se ne fa interprete, degradando dal RE (attraverso relazione enarmonica della sua sensibile DO#) al REb maggiore!

Qui (11’08”) ecco uno sbudellante assolo del violino - una delle cose più sublimi mai uscite dalla penna di un compositore (a qualcuno di Darmstadt dovettero fischiare le orecchie!)  - che introduce la voce per la strofa finale del Lied (12’20”, Und die Seele unbewacht): è l’anima che si libra nel magico cerchio della notte per vivere... mille volte ancora. 10 battute strumentali di estatica contemplazione suggellano questo autentico gioiello.

Nell’epilogo di Im Abendrot (15’31”, questo Lied di von Eichendorff ha quattro invece di tre strofe) arriviamo (ciclicamente...) all’Inverno della vita, quello della vasta e silenziosa pace. Uno sguardo sereno (sì, ma con un magone così…) al tramonto dell’esistenza, ma insieme a quello del grande, glorioso, indimenticabile e irripetibile ‘800 romantico. Tempo Andante, 4/4 e 3/2, tonalità di attacco - della lunga introduzione strumentale - MIb maggiore (con sfumature di DO minore) e sulla stessa tonalità (16’41”, Wir sind durch Not und Freude) entra la voce: il poeta invita la sua musa a riposare con lui su una terra tranquilla, dopo che insieme sono passati - mano nella mano - attraverso i dolori e le gioie della vita.

La strofa si chiude sulla dominante SIb, che nella seconda strofa (17’42”, Rings sich die Täler neigen) porta al SOLb maggiore, anche qui con sfumature di minore: è l’oscurità della sera che comincia ad incombere e solo due allodole (evocate da trilli dei flauti) svolazzano nell’aria. La tonalità sfiora ora, innalzadosi, il LA maggiore (18’10”, zwei Lerchen).  

Nella terza strofa (18’34”, Tritt her und lass sie schwirren) si torna a MIb maggiore: il poeta invita la sua musa a dormire con lui. Si modula ancora alla dominante SIb, sempre alternando maggiore e minore.

La strofa conclusiva (19’31”, O weiter, stiller Friede!) ci riporta dal SIb al MIb maggiore (20’04”, So tief im Abendrot): il poeta manifesta la sua stanchezza per il lungo vagare e si domanda se è quello, per caso, l’annuncio della morte. Un SOLb (20’51”, ist dies) è diventato enarmonicamente la mediante di RE maggiore, sulla quale tonalità (20’56”) il corno presenta un motivo che viene dal remoto ‘800, motivo reiterato dopo l’ultima parola (21’29” Tod, appunto).

Si tratta di un frammento del tema dell’ideale, da Tod und Verklärung, scritto appena sessant’anni prima: là concludeva – la trasfigurazione! – in un affermativo DO maggiore… qui c’è ancora grande serenità, ma dal 1889 i tempi sono cambiati, ciò che là si era descritto dal di fuori adesso lo si vive dal di dentro, ma soprattutto tante illusioni e tanti ideali (appunto!) sono annegati in un diluvio di sangue, quindi bisogna... abbassare i toni; precisamente di un semitono, a DO bemolle. Per poi chiudere (23’07”) citando l’adagio della settima bruckneriana – già di per sé carico di simboli, essendo l’estremo omaggio al maestro Wagner, compromesso a sua insaputa nella catastrofe - anche qui abbassato di un semitono, a MIb, con i flauti a seguire ancora gli svolazzi delle allodole. Ecco: rimandi, significati, segnali, allusioni, ammiccamenti e ripensamenti che soltanto la musica consente di esprimere in modo così stupefacente!
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Ieri devo dire che sono rimasto un po’ deluso dalla prestazione complessiva: la cicciottella Gal James ha mostrato una voce ben tornita negli acuti, pur con vibrato poco gradevole; ma decisamente carente nei centri e nei gravi (il REb non è proprio uscito...); all’inizio ho avuto l’impressione anche di qualche problema di intonazione. Flor da parte sua mi è parso un po’ troppo uniforme, con una tavolozza di colori piuttosto sbiaditi; ha anche talvolta coperto la voce del soprano. Insomma, è pur sempre musica sublime, ma... si poteva sperare di meglio, ecco.
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Per fortuna il meglio è arrivato con l’Ottava di Shostakovich, che tornava a risuonare in Auditorium (Caetani) dopo più di quattro anni. Sinfonia assai difficile e complessa (non dirò contorta) che non è certo di facile digestione. Ma l’esecuzione dei ragazzi (autentici esperti di questo repertorio) è stata davvero encomiabile. Meritati i lunghissimi (e anche ritmati) applausi che il folto, pur non oceanico, pubblico ha riservato a tutti.

04 marzo, 2018

In musica tutto ritorna



É nota l’influenza che su Béla Bartók ebbero i rappresentanti della Scuola di Vienna, oltre a Debussy, Stravinski ed altri innovatori in musica del ‘900.

Ascoltando il Quartetto op.3 di Alban Berg, all’inizio del secondo movimento (Mäßige Viertel) la mia attenzione era sempre stata attirata da un breve motivo, esposto da viola e cello, al quale non avevo in precedenza dato troppo peso, ma che mi ricordava qualcosa di già udito da qualche altra parte, che non riuscivo però a mettere a fuoco.

Poi, all’improvviso, ecco il lampo che ha illuminato lo scenario: quel motivo del giovane Berg (1910) è stato citato, non proprio alla lettera (cadute di quarte anzichè quinte) ma in modo - almeno secondo me - consapevole, dal tardo Bartók (1945) nel primo movimento del suo Concerto per Orchestra. Dove il motivo appare tre volte, le prime due come ponte fra i temi principali, la terza come cadenza conclusiva.


Ecco i reperti: per Berg a 10’30”; per Bartók a 9’53”.

02 marzo, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°16



É Kolja Blacher, gran virtuoso di violino e pure direttore, a tornare dopo poco più di un anno sul podio dell’Auditorium per dirigervi questa settimana un programma inconsueto, che accosta il fanciullesco, ottimistico Mendelssohn al disincantato e problematico Bartók. Sul palco una formazione sparuta, così per par-condicio anche il pubblico si adegua e lascia in sala un gran numero di poltrone vuote (poi ci sono gelo e neve a sconsigliare uscite temerarie...)

Come suo costume, Blacher si siede al posto della spalla (Dellingshausen trasla al concertino... poi recupera il posto nel Concerto, dove Blacher ovviamente se ne sta in piedi) e da lì dirige l’Orchestra: insomma, una sintesi Kapellmeister-Konzertmeister di antica memoria.

Mendelssohn era poco più di un ragazzino quando compose l’Ouverture del Sogno (anni e anni più tardi ci aggiungerà altre musiche di scena): una cosa geniale, degna di Mozart. Ascoltarla è sempre un balsamo contro ogni malattia, comprese quelle trasmesse dalla campagna elettorale (che per fortuna è in vista della chiusura). Splendida l’esecuzione, con i quattro accordi dei fiati a chiudere nel celestiale MI maggiore.

Si resta in MI (dapprima minore, ma alla fine maggiore) per il più celebre dei Concerti per violino. Blacher ci dà dentro con energia, ne dà una lettura eroica, senza troppe concessioni a leziosità settecentesche, anche il tenero Andante viene approcciato quasi come un Allegro moderato e non si risparmiano forti tinte nei ripieni orchestrali. Insomma, un’interpretazione maschia e un po’ lontana da certi stereotipi troppo apollinei.

Pubblico entusiasta ed applausi ritmati, con speranza di bis, che però (comprensibilmente) non arriva.
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Dopo l’intervallo ecco il Divertimento per archi di Bartók, composto nel ’39, alla vigiia dell’esilio americano del compositore, che non potè sopportare oltre l’avvento del nazismo anche a casa sua.

L’organico previsto è di 22 escutori (6+6-4-4-2). Per pura curiosità le straussiane Metamorphosen, di pochi anni posteriori, prevedono 23 esecutori (10-5-5-3) con un organico quindi di baricentro più spostato verso i bassi. Blacher comunque non ci fa caso e aumenta il pacchetto di un buon 50% (a occhio) il che può giudicarsi un bene o un male a seconda dei gusti di ciascuno.

Interessante notare come sulla partitura di Bosey siano indicati i tempi di esecuzione addirittura di singole sezioni del brano (forse non precisamente corrispondenti ai classici segmenti delle forme classiche); un dato tecnico (diciamo così) che certamente proviene dal compositore, o da lui è stato espressamente accettato, e che ci può aiutare a decifrare la struttura dei tre movimenti e la loro teorica durata: 8’16”+7’24”+6’33 = 22’13”.

Non ho impugnato il cronometro, ma a orecchio direi che Blacher abbia allungato un po’ i tempi, anche se mai tanto quanto fa qui il grande Boulez con la CSO, che sfora i 26’.

L’Allegro non troppo iniziale presenta una struttura assai articolata (c’è chi ci vede una forma-sonata piuttosto eterodossa) con almeno tre temi principali, che creano contrasti sonori legati all’alternarsi di interventi solistici al tutti orchestrale.

Mirabile l’attacco in pianissimo del Molto adagio, nel quale si possono distinguere tre sezioni, la prima delle quali torna in chiusura, seguita da una coda in cui il suono va letteralmente a morire.

Gagliardo il conclusivo Allegro assai, un rondò impreziosito nella sezione centrale da un breve ma accattivante assolo del violino. La chiusura è esilarante, a dispetto delle non certo serene condizioni psicologiche che l’Autore viveva mentre ne vergava le note.

Successo caloroso per questa che pare essere stata la prima esecuzione del pezzo qui a laVerdi. Adesso lo si potrà mettere in repertorio, perchè se lo merita proprio.

01 marzo, 2018

L’Orfeo parigino importato da Londra a Milano



Ieri sera alla Scala (con parecchi vuoti) seconda delle sette recite del parigino Orphée, approdato finalmente da noi a quasi due secoli e mezzo dal suo esordio (segno comunque che buon sangue non mente...)

La prima di sabato era stata unanimemente (pubblico e critica, almeno a giudicare da ciò che si legge su carta e pixel) accolta con grande calore, per non dire con entusiasmo. E ieri la cosa si è puntualmente ripetuta, a testimonianza evidente della bontà del prodotto di Gluck e del suo allestimento londinese, importato qui e riproposto impiegando forze locali (parlo ovviamente di orchestra, cori, direttore e strutture).

Opera indubbiamente problematica da mettere in scena oggi, date le sue peculiari caratteristiche: non ha l’austera concisione e l’apollinea bellezza dell’Orfeo viennese, e in compenso ciò che vi fu aggiunto per Parigi non è (in larga misura) materia che si sposi perfettamente con i nostri gusti, di pubblico del terzo millennio.

La soluzione scelta dalla coppia coreografo-regista (Hofesh Shechter - John Fulljames, non a caso è il coreografo ad avere fra i due la precedenza) ha il merito di tenere sempre viva l’attenzione dello spettatore, anche attraverso movimenti scenici piuttosto inconsueti: alludo a quelli dell’intera orchestra, sistemata nella zona centrale del palcoscenico in modo da creare spazi sia verso il proscenio che verso il fondo-scena, e soprattutto traslabile in verticale, per aprire o chiudere spazi in cui far muovere non solo i tre protagonisti, ma soprattutto i mimi/danzatori e il coro, che operano a volte disgiunti e a volte fra loro mescolati (sempre distinguibili peraltro dal diverso abbigliamento). La buca dell’orchestra rimane vuota, trovandovi spazio soltando i grandi schermi sui quali i cantanti possono televisivamente vedere il Direttore (al quale danno materialmente le spalle) più qualche faro che illumina la scena dal basso.

Insomma, un allestimento che scongiura il pericolo di cadute di tensione, legato precisamente ai contenuti dell’opera, in particolare ai lunghi minuti occupati da intermezzi di danza, dove l’alta qualità della musica gluckiana potrebbe non bastare da sola a sopperire alla staticità dell’azione scenica.

E ovviamente una condizione necessaria (non sempre sufficiente) per la riuscita dello spettacolo è costituita dal livello della prestazione di tutti gli addetti-ai-suoni. Qui devo dire che tutti meritano encomi, a partire dal Concertatore: Mariotti ha superato di slancio anche il test con questo particolarissimo repertorio (non è barocco, ma non è certo... Rossini) con una direzione raffinata e attenta ad ogni preziosità della partitura. Solo un paio di esempi: l’introduzione alla seconda scena dall’atto secondo, con il celestiale (siamo nei Campi elisi) assolo del flauto di Marco Zoni (poi affiancato da quello di Max Crepaldi, vecchia conoscenza de laVerdi) e l’accompagnamenmto dell’oboe di Armel Descotte al mirabile recitativo di Orfeo, nella scena successiva. (Non a caso alla fine il Direttore ha fatto alzare i tre strumentisti per ricevere un applauso singolo.)

Benissimo anche il Coro di Casoni, chimato ad un compito non proprio facile, perchè assai lontano dal repertorio, diciamo così, di tradizione.

Juan Diego Florez ha suscitato ovazioni entusiastiche: il suo Orphée ha pienamente convinto: certo lui non è (nessuno oggi lo è) un haute-contre come  presumibilmente era il famoso Joseph Legros, per il quale la parte fu scritta in origine (un tenore capace di raggiungere iperbolici sovracuti ma con uso del falsetto, del canto di testa); cionondimeno il divo peruviano, che ovviamente canta sulla voce, ha prestato al personaggio il suo timbro chiaro, limpido e allo stesso tempo sensuale.

Le due voci sopranili (Euridice di Christiane Karg e Amore di Fatma Said) non toccano le vette di JDF, ma meritano entrambe un encomio, da estendere a chi le ha scelte per i due ruoli, ai quali le due voci si attagliano perfettamente: più corposa quella della Karg, le cui qualità emergono nel lungo e straziante recitativo di apertura dell’atto terzo; e più leggera e acuta quella della Said che impersona, en-travesti, il giovinetto e ammiccante Cupido.

In definitiva, una proposta di eccellente livello, che il pubblico ha mostrato di apprezzare assai, a giudicare dal calore dell’accoglienza riservata a tutti.

28 febbraio, 2018

L’ipertrofico Mahler di Chailly alla Scala

 

Il Direttore Musicale è stato protagonista di una 3-giorni dedicata a quello sterminato lavoro mahleriano che va sotto il nome di Terza Sinfonia. Ieri sera un Piermarini non proprio stracolmo ma alla fine osannante ha ospitato l’ultima delle tre esecuzioni.   

Questo lavoro è ancor oggi oggetto di diatribe tra chi, continuando a riferirsi al programma extramusicale che - ahilui - lo stesso compositore aveva originariamente esplicitato (in non meno di 8 versioni diverse e persino contraddittorie!) ne disconosce la qualità estetica, liquidandolo come velleitario e vuoto prodotto di Kapellmeister-Musik (musica-da-direttore-d’orchestra); e chi invece gli riconosce alto valore estetico in quanto... etico. Personalmente propendo per una via di mezzo: che si tratti di un gran bel minestrone, che ti appaga la vista, ti riempie lo stomaco e, quindi, ti concilia con la vita e ti permette di vedere il mondo con un certo ottimismo, dimenticando per qualche ora tutto quanto di negativo e fastidioso circonda l’umana esistenza.         

Che sia un minestrone (in senso buono, per carità) lo attesta la nutrita serie di ingredienti (dei quali una lista certo incompleta si può leggere in questo mio commento ad una ormai lontana esecuzione de laVerdi) che Mahler raccoglie in giro per il mondo (musicale) per cucinarlo. E pensare che in origine ci doveva essere pure... l’ammazza-caffè (un settimo movimento, tematicamente legato al quinto) poi risparmiatoci per diventare l’epilogo della sinfonia successiva (siamo al concetto di... meccano).  

E al proposito mi permetto, ma sì, una provocazione: é vero o no che oggi nessuno si scandalizza se un regista o un direttore propongono un Boris costruito (a proposito di meccani!) a partire dai due ben distinti Boris originali? E che nessuno obietta più di tanto se nel DonCarlo si ripristina l’espunto (per trovar posto nel Requiem) Lacrymosa? E qualcuno ha forse gridato allo scandalo quando si è presentato un Macbeth del ’47 con il coro Patria oppressa del ’65? E così via rimescolando... Ora, perchè un Direttore che si voglia distinguere non prova a proporre questa Terza con aggiunto il finale originariamente immaginato dal compositore? E ancora, cosa che sarebbe davvero epocale, che si aspetta a presentare in prima assoluta mondiale un’opera inedita di Mahler, dal titolo 4. Symphonie / Eine Humoreske? Fine della provocazione.
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Ricapitolando, possiamo ascoltare la terza del boemo secondo le di lui originarie (e infine ritrattate) indicazioni programmatiche, con le quali vorrebbe spiegarci nientemeno cosa gli raccontano le diverse manifestazioni del creato. Un interminabile poema sinfonico che parte dalle montagne del Salzkammergut per arrivare fino a… Dio! Transitando - magari in un giorno di festa, tipo 1°maggio - per il Prater di Vienna, con le sue bande peripatetiche al seguito di variopinti cortei; camminando (a piedi nudi sull'erba…) attraverso prati e boschi (di Boemia?); ascoltando particolari storielle del bosco (viennese?) con tanto di passaggio di consegne (Ablösung im Sommer) dal defunto cuculo all'usignolo, cerimonia disturbata dalla languida melopea della trombetta di uno svogliato postiglione; meditando poi su notturni complessi freudiani (pardon, nietzschiani); ascoltando angeli che cantano con accompagnamento infantile, onomatopeicamente bombarolo; fino ad arrivare al creatore. Il rischio qui è di restare delusi, proprio come capita al sommo Quirino Principe:


Oppure ascoltarla come fosse soltanto nulla più e nulla meno che... musica! Che in fondo è proprio l’approccio che lo stesso Mahler, ordinandoci alla fin fine di ignorare tutti i programmi da lui stesso proposti, ci invita a praticare: abbandonarsi al rapsodo.

E in effetti non si può negare che questa sia musica che ha una sua inequivocabile narrativa: dapprima ci porta nel bel mezzo del weltlich Getümmel - proprio ciò che nel Lied originariamente pensato a chiudere la Sinfonia viene dichiarato come bandito lassù, dove si vive la vita celestiale - il gran casino e fracasso (materiale e morale) del nostro mondo, carico di ipocrisia, retorica, qualunquismo, volgarità, sguaiatezze e banalità: come trovare un solo tema nobile nell’iniziale Kräftig? Un movimento in forma-sonata di dimensioni inaudite, estenuante e a un certo punto persino insopportabile (la ripresa che arriva dopo 25 minuti, quando una normale sinfonia è ben oltre la metà del suo cammino!) che è specchio fedele delle mostruosità sesquipedali che già la civiltà di fine ‘800 aveva creato, in tutti i campi.

Poi abbiamo due movimenti (un Menuetto più uno Scherzo, il che già la dice lunga sull’ipertrofia della narrazione musicale di Mahler) che ci portano fuori città, quasi a passare un distensivo week-end, lontani dal logorio della vita moderna. Della quale per la verità qualche lontana eco ci raggiunge anche lì, con squilli di cornette, marcette meno sguaiate, ma non certo sublimi, e rumorosi scoppi che ci risvegliano di soprassalto. Quindi (nel Misterioso, con l’aiuto determinante di una parola autorevole abbinata a musica da balera vestita di seriosità) Mahler comincia a far filosofia, per indurci a meditare sui concetti di terreno e di eterno. E ancora (nel Lustig, sempre esplicitamente) per indicarci ingenuamente la salvezza dai nostri peccati.

Infine, nel colossale Langsam (grazie a Beethoven, Wagner e Verdi, tre che di buona musica ne sapevano qualcosa...) ecco che Mahler ci porta faticosamente, proprio in modo estenuante, quasi fosse una musicale via-crucis (o il parsifaliano percorso verso il Gral) dentro una specie di luminoso nirvana. Interessante al proposito notare la differenza fra la conclusione della Terza e quella della Seconda: quest’ultima chiude in MIb maggiore (tonalità quanto mai liturgica!) con una secca croma di tutta l’orchestra, compresi i due timpani che devono martellarla in fff, un perentorio schianto che evoca tutto tranne che... l’eternità. Nella Terza invece il poderoso accordo dell’intera orchestra di RE maggiore (tonalità trionfale ma anche pastorale) si prolunga nell’ultima battuta su una semibreve con corona puntata (teoricamente in eterno, quindi, e per sicurezza Mahler aggiunge un esplicito Lange) mentre i due timpani, dopo una serie di precedenti proterve martellate, suonano solo per una minima, poi tacciono, a conferma che... non c’è una porta che ci vien sbattuta in faccia.
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Chailly? Beh, lui di Mahler ne mastica fin da bambino, poi ha potuto seguire quello che Abbado portava di peso alla Scala, quindi sperimentarlo dal vivo con un’orchestrina giovane come laVerdi, ancora studiarlo e dirigerlo nella seconda patria musicale del boemo, lassù in mezzo ai tulipani; infine perfezionarlo a casa di Mendelssohn, non so se mi spiego. Insomma: un pedigree di tutto rispetto, per non dire quasi unico al mondo. 

Per ieri mi permetto di dargli due voti separati: un bel 9 per le dinamiche, davvero quasi perfette: enfasi e fracassi quando e solo se necessari, ma soprattutto arte di cesello nelle molte sezioni dove l’espressività deve farla da padrone (passaggi dove archi e strumentini nulla avevano da invidiare allo Strauss del Rosenkavalier, per dire...); non più di 7 invece - ma qui è davvero questione di gusti - per l’agogica: la partitura Universal indica come durata complessiva circa 90 minuti; Chailly (qui al Concertgebouw) già va lungo di quasi 10 minuti; ma ieri finisce (al netto della pausa dopo il Kräftig) per avvicinare i 110! Insomma, più di un quarto d’ora mi pare un ritardo eccessivo, ecco: vuoi vedere che a Chailly l’avanzare degli anni faccia l’effetto che fece già a Celibidache, o a Knappertsbusch, o a Klemperer? In ogni caso, la sua lettura è stata assolutamente coerente, distribuendo l’extra-time in modo quasi equanime nei 6 movimenti. 
  
L’immane Orchestra, disposta insolitamente con violini secondi al proscenio rimpiazzati al loro posto dalle viole, sempre concentratissima. Alcune galeotte quanto indesiderate acciaccature dei corni, un paio di note rimaste nella coulisse del trombone (peraltro superbo) non inficiano certo una prestazione sontuosa (anzi a volte piccole imperfezioni ti confermano che a suonare sono esseri umani con un’anima e non freddi robot). I cori (signore e... signorini/e) di Casoni hanno ben meritato nella loro filastrocca a sfondo mistico. Gerhild Romberger ha prestato la sua voce ben tornita a tale Nietzsche e poi ha dialogato da par suo con i cori.

Alla fine un autentico tripudio ha salutato la sterminata compagnia dei Musikanten, con chiamate a ripetizione per Chailly, Casoni, Romberger e il postiglione Nicola Martelli, accolti da ovazioni da stadio. Eroe della serata, manco a dirlo, Chailly, che non si crederebbe essere lo stesso direttore che meno di un anno fa fu smaccatamente buato dopo l’ouverture della Gazza ladra, da qualcuno che ne richiedeva a gran voce la cacciata da Milano per indegnità...  Ecco, il tempo è sempre galantuomo.

26 febbraio, 2018

Un bel Trittico a Reggio E. dopo 10 anni


Nel suo imprescindibile testo su Puccini, Michele Girardi cita un aneddoto (riportato originariamente da Ferruccio Pagni e Guido Marotti nel loro Giacomo Puccini intimo del 1926, poi ristampato nel 1943) che riguarda le curiose circostanze nelle quali sarebbe stato attribuito il nome Trittico ai tre atti unici di Puccini. Dunque, la cosa avvenne in un circolo di pittori (Pagni era uno di loro) di Torre del Lago, dove emersero le proposte più bizzarre, quali treppiede, triangolo, tritono, trinità. Chissà (ma questo lo immagino io) se qualcuno per caso suggerì anche... tricolore

E con ciò? direte voi. Niente, solo che ieri stavo per caso nella città del Tricolore che ha ospitato (al Valli) la prima delle due recite del Trittico pucciniano, tornato colà - passando per Modena e Piacenza e prima di muovere verso Ferrara - a 10 anni di distanza dalla precedente visita. Quella ripresa oggi è la produzione del Teatro modenese del 2007, per la regìa di Cristina Pezzoli.

Credo sia doveroso elogiare subito l’organizzazione di questo tour del Trittico, che comporta evidentemente enormi e molteplici difficoltà (dalla composizione di un cast pletorico, ai relativi problemi economici); difficoltà che da sempre hanno fortemente limitato la messa in scena di questa trilogia, abitualmente spacchettata nelle sue componenti, magari poi abbinate ad altre opere brevi. Al proposito cedo la parola ad un’altra autorità pucciniana, Julian Budden:

Budden fa riferimento all’interpretazione drammaturgica del Trittico di Mosco Carner, con relativo riferimento ai tre cantici della Commedia dantesca:


Budden giustamente osserva come quel parallelo sia assai azzardato (lo stesso spunto per lo Schicchi - l’Inferno - lo smentirebbe per definizione). E quindi l’ostilità di Puccini verso lo smembramento della trilogia (come correttamente ricorda Carner, testimoniando anche la sua personale predilezione per la messinscena unitaria) fu più probabilmente legata a ragioni estetiche che non al supposto riferimento dantesco.

Peraltro non si può escludere che Puccini abbia pensato ad un qualche filo rosso che leghi le tre operine. Come minimo, non v’è dubbio che in tutte sia protagonista, sotto forme pur diversissime, la morte. Violenta e verista nel Tabarro, nobile e trasfigurata nell’Angelica, infine trattata parodisticamente quanto prosaicamente nello Schicchi. Insomma, una trilogia da necrologio!
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Ieri credo che il protervo fratellone russo dell’innocua buriana abbia dissuaso molti dal muoversi da casa: fatto sta che parecchi posti del Valli sono andati deserti... In compenso chi ha assistito ha applaudito anche per gli assenti, ecco.

L’allestimento - di quelli che sarebbero da catalogare nella categoria tradizionali, nel senso che mostrano il soggetto originale e non una sua genialoide contraffazione - mantiene ancor oggi, a 10 anni di distanza, tutta la sua freschezza e gradevolezza, restituendoci con grande efficacia la sostanza di queste tre varianti sul tema del trapasso: quella di un abietto scenario di precarietà e degrado; l’altra, di psicologica soperchieria della società ai danni di una donna colpevole di reato-d’amore; la terza, di somma ipocrisia di chi (eredi legittimi o approfittatori, fa lo stesso) nella morte cerca solo il proprio tornaconto.

Da encomiare la compagnia di canto, ovviamente con alti (Ambrogio Maestri, chi se no) e... diversamente alti (la Svetlana Kasyan, un gran vocione ma di qualità da migliorare assai). Brava la Anna Maria Chiuri (unica presente nelle tre opere) e bravissimi, direi, i due tenori (Rubens Pelizzari nel Tabarro e Matteo Desole nello Schicchi). Tutti e tutte le altre da elogiare in blocco, così come i cori (adulti e... minorenni) di Modena. 

La ORER ha offerto una brillante esecuzione di queste difficili partiture, ben condotta da Aldo Sisillo, preciso e puntuale nella concertazione.
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Allego con l’occasione un bel profilo pucciniano comparso nel luglio del 1990 su Musica&Dossier a firma di Gustavo Marchesi.