affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

06 dicembre, 2017

En attendant Chénier (2)


Il 7 dicembre è ormai alle porte e chi è interessato anche ai contenuti dell’opera – oltre a quelli dei décolleté e déchappé (volgarmente detti: lati A-B) della fauna che popolerà il Piermarini - si prepara (o dovrebbe farlo...) all’evento con una qualche forma di ripasso della lezione, per non farsi cogliere poi di sorpresa dagli avvenimenti.

Mentre ai neofiti di Chénier il sempre semiserio Amfortas ha pensato bene di proporre un autentico decalogo, io provo a dare una mano - per prender confidenza con l’opera - a coloro che sono sprovvisti di CD e DVD (recenti o vintage) affidandomi a registrazioni del tubo (nel senso di presenti in internet, non di fatte con l’organo riproduttivo maschile...)

E fra le numerose offerte disponibili in rete ho scelto quella che da molte parti è considerata tuttora come di riferimento: Vienna 1960, il leggendario vonMatacic sul podio e un trio da favola sul palco, Corelli (il più grande di tutti gli Chénier?) Tebaldi e Bastianini. Come era usanza a quei tempi (ma lo è spesso ancora oggi) le pseudo-arie (o romanze che dir si voglia) dei protagonisti (che secondo partitura mai si chiudono con le classiche cadenze per strappare l’applauso a scena aperta, ma si concatenano direttamente alla scena successiva... un po’ à-la-Wagner) vengono regolarmente interrotte dopo il momento-topico, proprio per lasciare spazio alle esternazioni del pubblico. (Chailly ha dichiarato che farà di tutto per evitare che ciò accada, in modo da rispettare la continuità drammaturgica dell’opera, come voluta dall’Autore.)

Illica, oltre a corpose parti di testo che Giordano ha cassato senza pietà, ha infarcito il libretto di lunghe e meticolose didascalie, che non solo rappresentano (per chi le volesse seguire) preziose indicazioni di regìa, ma spesso dicono cose – anche di una certa rilevanza - che il testo cantato non include, e così: o l’ascoltatore se le legge prima, oppure si perde ciò che vi si trova scritto, e non sono proprio cosette trascurabili. Ad esempio, il nome con cui la donna sconosciuta (Maddalena) si firma nell’ultima lettera a Chénier (Speranza) è solo citato nella didascalia che ci descrive Roucher mentre legge silenzioso la missiva: così noi non lo veniamo a sapere; ma così poco dopo ci sfugge la ragione dell’eccitazione di Chénier (che corre via per armarsi) quando la Bersi gli comunica che la donna che sta arrivando per incontrarlo si chiama proprio... Speranza! Nel terzo quadro è solo la didascalia ad informarci di contenuto e destinatario di un biglietto che Gérard ha scritto per il Presidente Dumas, per proclamare l’innocenza di Chénier; biglietto di cui poi si perdono le tracce. Esemplare infine l’ultimissima annotazione: mentre la musica chiude il dramma, Gérard si dispera leggendo – ma senza recitarla e quindi tenendocela nascosta – la negativa risposta di Robespierre al suo estremo appello per la grazia, risposta che cita addirittura Platone (pure lui mandava a morte i poeti...)  

Il primo quadro, ambientato in una residenza nobiliare di campagna appena fuori Parigi nei giorni immediatamente precedenti lo scoppio della Rivoluzione, ha lo scopo di presentarci i tre protagonisti del dramma: innanzitutto Gérard che, essendo un personaggio inventato, viene impiegato da Illica-Giordano per impersonare simbolicamente la Rivoluzione medesima nella sua storica evoluzione, dai sacrosanti presupposti alla (inevitabile?) degenerazione in dittatura/terrore; quindi naturalmente Chénier, che entra in scena in tono dimesso, per poi sparare quel po’ po’ di Improvviso che ne caratterizza la personalità visionaria (e come tutti gli inguaribili visionari, lui così resterà fino alla fine, senza tentennamenti e senza ripensamenti); infine Maddalena, personaggio storico – incontrato da Chénier in carcere - che gli Autori manipolano però a loro vantaggio, trasformandola da cinica approfittatrice - quale fu in realtà - in eroina pronta a tutti i sacrifici, ma esclusivamente in nome dell’amore, di null’altro.

Al contorno si muove tutto il bestiario dell’establishment nobilastro che la Rivoluzione cercherà (senza riuscirci del tutto) di mandare in pensione diviso in due tronconi ben distinti e separati: capoccia da una parte e resto del corpo dall’altra.

Dopo una breve (solo 16 battute) e concitata introduzione, ecco apparire (40”) Gérard, che ci introduce al costume dei tempi, raccontandoci ciò che accadeva su un lussuoso divano, fra cicisbei e vecchie babbione. Ma l’atmosfera si incupisce (1’45”) all’arrivo del vecchio padre di Gérard, di cui apprendiamo la miserevole condizione esistenziale, cantata dal figlio che poi sbotta (3’49”) nella sua feroce imprecazione (T’odio, casa dorata!) contro quel mondo pieno di cinismo e vuoto di umanità, sfogo che culmina (4’38”) nella terrificante profezia (È l’ora della morte!) dell’imminente avvento del redde-rationem.

Senza soluzione di continuità (4’53”) l’atmosfera cambia, rasserenandosi non appena l’obiettivo della cinepresa (Illica e Giordano sono unanimemente indicati come precursori del cinema) si sposta su Maddalena, che fa il suo ingresso in scena presentando subito il suo animo sensibile, contrappuntata dalle parole di ammirazione di Gérard (5’18”, Quanta dolcezza ne l’alma tetra per te penetra) che immediatamente chiariscono l’attrazione che il servo ha per la padroncina, attrazione che sarà uno dei pilastri portanti dell’opera.

Ma la scena ritorna ad animarsi (5’56”) quando la Contessa padrona di casa si informa da Gérard sui preparativi per la festa e poi (6’35”) rimprovera la figlia di non essersi ancora abbigliata a dovere. Maddalena (con la servetta Bersi che le fa il verso) si lamenta (6’45”) della scomodità di gonne e cappelli e decide (8’25”) di vestirsi più... sobriamente.

Arrivano gli ospiti (8’40”) e l’atmosfera si ravviva nuovamente, mentre la Contessa (9’11”) comincia a scambiare complimenti tanto fatui quanto ipocriti con gli invitati. Fra i quali il romanziere Fléville (10’30”) che sfoggia il ridicolo termine persiflaggio (francesismo per canzonatura) e presenta altri due ospiti: il musicista Fiorinelli e il giovin poeta Chénier.

Ma ora al centro dell’attenzione ecco l’Abate (11’22”) che porta ferali notizie da Parigi, divorando a quattro palmenti una tazza di marmellata: il Re inetto, consiglieri incapaci, il Terzo Stato che incombe e atti di violenza... Il romanziere (12’40”) impiega tutta la sua prosopopea per invitare i convenuti a dimenticare queste disgrazie e a godere dell’imminente primavera. L’atmosfera (13’29”) si fa rarefatta e idilliaca, per accogliere (14’46”) un coro danzato di pastorelle!

Ma adesso è il momento di occuparci di Chénier (17’21”) che la Contessa tira in ballo chiedendogli di far parlare la sua Musa, ma ottenendone un malinconico diniego. Al che la padrona di casa se ne va dal musicista italiano che (18’05”) comincia a strimpellare qualcosa al clavicembalo. Maddalena, che evidentemente è stata colta da improvviso interesse per Chénier, scommette con le amiche che riuscirà a schiodare il poeta dalla sua apatia e così (18’30”) lo invita a declamare un’egloga.

Chénier (19’01”) si schermisce ancora, paragonando i capricci della poesia a quelli dell’amore. All’udire quella parola (19’23”) Maddalena e le amiche scoppiano a ridere e la padroncina di casa spiega (19’50”) scimmiottando il tono aulico del poeta, il contenuto della scommessa: Chénier avrebbe poeticamente tirato in ballo l’amore, quella stessa parola che gli altri rozzi invitati le avevano rivolto senza alcuna poesia!

Chénier è punto sul vivo e ribatte quasi con severità (20’24”): l’Amore è una cosa terribilmente seria ed ora ve ne darò dimostrazione. L’Improvviso (21’08”) – l’aria-romanza Un dì all’azzurro spazio che è divenuta simbolo dell’opera – mette finalmente in primo piano il tenore, impegnandolo in un lungo e articolato percorso: una prima frase che dal SIb d’impianto sale (21’08”) al SOL (dominante di DO) sulla parola firmamento; una seconda, che partendo dalla dominante MIb torna alla tonica fino al SIb acuto (T’amo, 22’27”); poi una seconda esternazione (22’43”) dove Chénier condanna l’ipocrisia della religione e le ingiustizie del potere, chiudendo con una specie di anatema (le lacrime dei figli!) Altra accorata dichiarazione, di simpatia per Maddalena, che gli era parsa subito l’unica persona sensibile in quella casa; qui (23’37”, Ecco la bellezza della vita!) ascoltiamo in orchestra un tema che tornerà ancora nel corso dell’opera a impersonare l’amore; ma poi il comportamento offensivo della giovane lo aveva profondamente ferito; e così il poeta, partendo ancora dal MIb sale nuovamente al SIb acuto (25’01”) implorando: Amor, divino dono, non lo schernir del mondo anima e vita è l’Amor!

La chiusa, sulla mediante RE (25’25”) dovrebbe direttamente portare, dall’Andante della romanza, all’Allegro vivo del successivo perdonatemi! di Maddalena e della fuga precipitosa di Chénier. Come si può notare, il Direttore invece si ferma dopo l’accordo di SIb per dar modo al pubblico di sfogare (per 65”) il suo entusiasmo.

Alla ripresa (26’30”) la Contessa invita tutti a perdonare la figlia capricciosetta e a godere di una meritata gavotta, la cui leziosa melodia irrompe (26’46”) a rasserenare l’atmosfera. Ma è presto disturbata (27’17”) da voci cupe e minacciose che provengono da lontano e si avvicinano rapidamente: è una torma di diseredati che (27’51”) lamenta le sue miserevoli condizioni di vita; e che presto irrompe nella lussuosa residenza, guidata ed introdotta (27’51”, Sua grandezza la miseria!) da Gérard. 

La Contessa lo licenzia sui due piedi, facendo allontanare quella feccia introdottasi in casa sua; e allora Gérard (28’05”) togliendosi la livrea, scaglia contro lei e tutta la nobiltà la sua filippica, proclamando la decisione di unirsi ai diseredati per combattere la loro battaglia; trascina con sè (28’36”) anche il vecchio padre che cercava di scusarsi con i padroni. È la Contessa invece (29’10”) che si scusa per Gérard con gli ospiti (L’ha rovinato il leggere!) e poi, dopo aver ipocritamente vantato le proprie virtù di persona caritatevole, come nulla fosse torna (30’01”) ad invitare i presenti alle danze! Così la gavotta (30’17”) riappare in primo piano a chiudere questo prologo al dramma. Ma è - attenzione! - una chiusura in SI minore...
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Il secondo quadro ci mostra uno spaccato (non proprio verosimile al 100%, specie negli aspetti di turbinosa animazione delle strade e dei locali pubblici) della Parigi sotto il Terrore giacobino: vediamo quindi in scena protagonisti minori (Mathieu) e maggiori (Robespierre, ma solo di riflesso) della vita di quei giorni, insieme a figure che in realtà scenderanno in piazza solo più avanti, dopo la decollazione dei due protagonisti e del capintesta giacobino, sotto il Direttorio: Incredibili e Meravigliose. In questo ambiente matura il nuovo e decisivo incontro fra Chénier e Maddalena (sorpresi poi da Gérard) che li porterà infine al patibolo.

Come il primo, anche questo secondo quadro (31’09”) inizia con 16 battute introduttive, prima che compaia (31’26”) il sanculotto Mathieu, rivoluzionario fanatico di Marat, del quale spolvera il busto eretto in una piazza. Ora l’attenzione si sposta sulla servetta Bersi, che ha cambiato vita con la Rivoluzione (che per altro mostra di odiare) e che si sente spiata da Incredibile (una spia di Gérard, appunto) con il quale innesca un battibecco per poi (32’24”) raccontare le sue esperienze di vita nel nuovo corso rivoluzionario. Passa un carro che reca condannati alla ghigliottina, accompagnato in sottofondo (33’48”) dal ça ira, il celebre canto rivoluzionario.

Incredibile (34’17”) ha anche osservato Chénier (sul quale ora si sposta l’inquadratura) che sembra in ansiosa attesa di qualcuno(a). Per ora chi arriva (35’11”) è un suo amico, Roucher, che gli ha portato un passaporto e lo invita ad allontanarsi da Parigi, dove è in grave pericolo. Chénier gli risponde attaccando  (35’54”) una nuova aria-romanza (Credo a una possanza arcana) in cui accetta il suo destino di poeta e di amore. Sogna una donna angelicata, che gli parla con voce ardente, dicendogli Credi all’amor! (dal SIb acuto) e poi confessa all’amico di ricevere strane lettere, precisando (38’48”): Scrive una donna misteriosa ognora! Queste sue parole sono sottolineate dal tema dell’amore (comparso nell’Improvviso).

Chénier ora mostra all’amico l’ultma lettera ricevuta e Roucher (39’23”) crede di decifrarne la provenienza: a scrivere dev’essere una Meravigliosa (donna di facili costumi, almeno secondo... Illica). Chénier (40’57”) vede tutto il suo castello di poesia e di amore crollare miseramente al suolo (Ah, mio bel sogno, addio, ancora dal SIb acuto).

Il poeta sembra convinto a lasciare Parigi, mentre uno stentoreo motivo dei corni (41’22”) che poi sottolinea l’intera scena, annuncia il passaggio dei membri dell’Assemblea (Robespierre compreso) fra cui Gérard. Qui abbiamo un complesso concertato con tre linee di canto parallele (indicate su colonne affiancate nel libretto): Chénier-Roucher-Mathieu / La folla / Incredibile-Gérard. Mentre i primi tre personaggi e la folla osservano e/o acclamano i rappresentanti del popolo, Gérard e Incredibile (42’22”) si scambiano informazioni sulla donna (Maddalena) che Gérard ha incaricato lo spione di rintracciargli. E Incredibile (43’43”) lo rassicura: la sera stessa la vedrà.

Roucher (43’52”) scorge le Meravigliose e le indica a Chénier: le disinibite donne parigine arrivano (44’19”) giusto dopo il passaggio dei politici e la loro sfilata è accompagnata da una musica leggera e svolazzante, come i loro abiti trasparenti... Fra esse Bersi, che chiede a Roucher di trattenere Chénier: lei è spiata da Incredibile, che poi si presenta e la invita al bar (per scoprire dove si trova Maddalena, evidentemente). Mentre Chénier è sempre più desolato (45’32”) e se ne vorrebbe andare (O mio bel sogno, addio!) Bersi ritorna (sempre spiata da Incredibile) e annuncia a Chénier (45’51”) l’arrivo di Speranza (qui ancora il tema dell’amore fa capolino).

Un breve intermezzo strumentale (46’37”) accompagna l’accensione dei lampioni in strada e il passaggio di pattuglie della Rivoluzione, cui segue quello del solito Mathieu (47’17”) che canticchia la Carmagnola. Incredibile si apposta (48’06”) in attesa di eventi, ed infatti su un ponte sulla Senna compare una figura di donna.

É Maddalena, venuta all’appuntamento con Chénier (48’59”) e piena di paura. Pochi attimi e (49’49”) ecco arrivare anche il poeta, avvolto in un mantello. Maddalena lo chiama per nome, lui si fa riconoscere e chiede a lei da chi sia mandata a parlargli. Maddalena (50’38”) si fa riconoscere sulle parole (Non conoscete amor!) e sulla musica dell’Improvviso! Incredibile ha visto e udito tutto, e corre ad avvertire Gérard; Maddalena (51’02”) crede di aver visto un’ombra allontanarsi, ma Chénier la tranquillizza, suggerendole peraltro di abbandonare quel posto poco raccomandabile. Lui (51’22”) sembra ancora incredulo di aver incontrato la donna dei suoi sogni e così Maddalena (51’41”) attacca un cantabile per raccontargli le sue pene, le ragioni delle sue lettere e per implorare aiuto e protezione.

Adesso (54’19”) - sulle parole di Chénier Ora soave - inizia il grande duetto fra i due innamorati (punteggiato ancora dal tema dell’amore) chiuso in SOLb (accordo di terza - con SIb acuto del tenore – o sesta opzionalmente, delle due voci) da uno stentoreo fino alla morte insiem!

Qui (56’44”) sono doverose almeno due osservazioni: la prima riguarda la durata della nota finale del duetto (...siem) che Giordano (un maniaco del metronomo) fissa precisamente in 17 semiminime a 63, il che significa 16,19”, una bella apnea, bisogna ammetterlo. Ma Corelli/Tebaldi cantano per 5” scarsi (ahi ahi). La seconda ha a che fare con il tempo che, secondo l’Autore, deve separare il duetto dal drammatico altolà di Gérard: si tratta di sole tre crome, pari a 1,43”. Invece il direttore ferma tutti per dar modo al pubblico di applaudire e osannare le due voci per ben 120”!

Finalmente (58’44”) Gérard può irrompere sulla scena, sbarrando la strada ai due amanti con un perentorio Maddalena di Coigny!
  
Chénier affida la donna a Roucher e affronta Gérard (mediocre spadaccino) ferendolo al volto. Gérard, quando riconosce il poeta nel suo feritore, ha un inconscio senso di colpa, avverte Chénier che il suo nome è sulle liste di proscrizione e lo prega di salvare Maddalena. All’arrivo (sulle note dell’inno rivoluzionario) di Incredibile e dei giacobini, Gérard (59’53”) non rivela il nome del suo aggressore. Il sanculotto Mathieu accusa dell’assassinio gli avversari politici, e il quadro si chiude con il grido Morte ai girondini!
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Nel terzo quadro ci troviamo in una sede della Rivoluzione ospitata nei locali del tribunale rivoluzionario, dove gli aspetti politici del processo si mescolano con quelli di carattere patetico e personale: il sacrificio della povera vecchia Madelon e il rapporto triangolare Gérard-Chénier-Maddalena, con la posizione del primo che ondeggia fra l’ubriacatura da potere (le false accuse contro Chénier) e l‘impotente rimorso per tutto il male che da quel potere discende. Alla fine la macchina del fango messa in moto dall’ex-lacchè di Maddalena travolgerà Chénier e, con lui, anche la povera ragazza.

Il quadro si apre (1h00’34”) con sole 7 battute di pesanti accordi dell’orchestra, che introducono il pistolotto di Mathieu ai cittadini e cittadine convenuti per assistere ai processi (sommari) e che nell’attesa vengono invitati a fare donazioni alla Patria, messa in pericolo da nemici interni ed esterni. Gli appelli di Mathieu – sostenuti anche con minacce di ricorso alla ghigliottina - non sortiscono grande effetto, ma ecco che arriva (1h02’47”) inatteso, Gérard, prontamente rimessosi dalla ferita infertagli da Chénier, come lui stesso spiega (1h03’05”) ai cittadini che lo accolgono calorosamente.

Mathieu (1h03’33”) riprende la sua pedante arringa contro i nemici della Patria, ma accorgendosi che la sua pipa si è spenta, passa la parola a Gérard. E costui (1h03’54”) attacca una perorazione (assai più convincente, anche... musicalmente, di quella del sanculotto) della necessità che ciascuno offra qualcosa di superfluo (e non) per aiutare la Rivoluzione che corre gravi pericoli. L’orchestra supporta il suo accorato appello con efficaci interventi, come (1h04’14”) il baluginare di lingue di fuoco che accompagnano il richiamo alla Vandea in fiamme. Servono oro e sangue (1h04’33”) per difendere la Francia!

Le donne presenti (1h05’05”) accorrono a gettare nella grande urna di raccolta oggetti preziosi e denaro, poi ecco (1h05’47”) farsi largo la vecchia Madelon, che è venuta ad offire... il suo ultimo nipotino! Il suo racconto è davvero strappalacrime (pare che Illica abbia quasi costretto il riluttante Giordano a conservarlo, per farlo cantare ad un suo protetto mezzosoprano!) Gérard (1h07’59”) accetta di coscrivere il ragazzetto e qui abbiamo (1h08’36”) un’altra scena commovente: il distacco della vecchia, ormai morente, dal suo piccolo Alberto, accompagnato da una toccante melopea del violoncello.

Terminata la riunione di raccolta fondi il locale si svuota per essere attrezzato a tribunale. La gente fuori riprende (1h09’52”) a danzare cantando la Carmagnola. Ma intanto Incredibile è tornato e annuncia a Gérard (1h10’37”) che la sua preda è nella rete. Ma non è Maddalena, bensì Chénier, che Incredibile ha scovato e preso al Lussemburgo. Gérard però (1h10’52”) è interessato (personalmente) alla donna, e si mostra scettico (1h11’09”) sulla previsione di Incredibile, che Maddalena si faccia viva per cercare l’innamorato. Ma Incredibile, indicandogli i ragazzini-strilloni che percorrono le strade e le piazze parigine gridando ai quattro venti la notizia dell’arresto del poeta, gli spiega (1h11’34”, Donnina innamorata) come Maddalena, sentendo la notizia dell’arresto dell’amato, si precipiterà in strada e cadrà nella loro rete. Gérard a questo punto (1h12’55”) si preoccupa che Maddalena finisca per odiarlo, ma Incredibile gli spiega con sommo cinismo che la donna è fatta d’anima e corpo e lui... si accontenti del corpo! Poi lo invita a scrivere l’atto d’accusa contro Chénier.

Qui (1h13’41”) inizia il lungo monologo di Gérard, combattuto fra due opposti sentimenti: la vendetta personale (oltre che politica) contro Chénier e la consapevolezza di compiere una viltà contro un innocente. A spingerlo al misfatto (1h14’07”) è una fugace apparizione di Incredibile, che risveglia in lui desideri di piacere. Così (1h14’31”) Gérard comincia a stendere l’atto d’accusa (Nemico della Patria?!) Ma ha presto un ripensamento (1h15’28”) e canta una spietata autocritica, ripassando attraverso le fasi della sua esistenza da rivoluzionario, che lo hanno trasformato da puro e disinteressato (1h15’50”, Un dì m’era di gioia passar fra gli odii e le vendette) a servo di un nuovo padrone (1h16’19”). E qui (1h17’02”) l’ex-lacchè a Coigny ricorda il suo iniziale fervore rivoluzionario, che si sta ormai spegnendo; ricorda commosso (1h18’07”, La coscienza nei cuor ridestar de le genti) i suoi alti ideali di fratellanza e amore.

Qui (1h19’13”) dopo il RE tenuto di Tutte le genti amar!, Giordano prevede meno di due battute (5”) strumentali, prima della parte finale dell’esternazione di Gérard. Ma, come da tradizione, il Direttore fa eseguire un accordo pieno di RE maggiore per consentire al pubblico di portare in trionfo (per 55“) il baritono di turno! Il quale riprende poi (1h20’09”) il suo canto per chiudere l’aria-romanza con l’atroce confessione di essere divenuto schiavo delle più basse passioni. Così (1h20’45”) firma l’atto d’accusa e lo consegna a Incredibile, tornato in quel preciso momento, accompagnato dalla sua musica impertinente.

Ma ora si prepara la scena madre di questo quadro (1h21’32”): sta arrivando, come Incredibiile aveva previsto, Maddalena, ammessa da Mathieu alla presenza di Gérard. La donna (1h21’55”) si fa riconoscere, implorando aiuto. Gérard (1h22’16”) risponde che la stava aspettando e poi (1h22’46”) con una lunga esternazione le declama tutti i retroscena della sua infatuazione per lei, fin da quando lei era bambina e giocava con lui, figlio di uno dei suoi servi... Poi ha uno scatto (à-la-Scarpia) e rivela (1h24’12”, ...un pazzo grande e vile) tutta la sua abiezione e la libidine che lo divora. Maddalena prova a reagire, minacciando di uscire in strada a cercare la morte, piuttosto che concedersi a lui. Il quale la blocca e si prepara a prenderla con la violenza.

Ecco che Maddalena (1h25’21”) ha un’improvvisa ispirazione: si concede al porco senza far resistenza, chiedendo in cambio la libertà per Chénier. E Gérard (1h25’53”), tramortito da tanto coraggio, mentre il violoncello recita stupendamente il tema dell’amore, deve ammettere: Come sa amare!

Maddalena attacca adesso (1h26’51”) la sua nobile aria (La mamma morta) in cui ricorda i drammatici momenti della perdita di tutto: tutto, tranne però l’amore, l’unica ragione ormai della sua vita. E sulle parole Ah! io son l’amor! ecco una nuova gratuita pausa di 55” (1h31’23”) che il Direttore inventa – Giordano prevede solo una semiminima prima della successiva frase - per consentire l’applauso a scena aperta al soprano. Che continua (1h32’20”) offrendo il suo corpo a Gérard. Il quale (1h32’51”) è talmente scosso da proprompere in un disperato grido di pentimento e di maledizione contro le degenerazioni della Rivoluzione, dichiarandosi pronto a sacrificare la vita per salvare Chénier. Maddalena implora aiuto, ma la situazione precipita, e Gérard (1h33’44”, Il tuo perdono è la mia forza!) può solo promettere di difendere il poeta.

La folla (1h34’03”) invade la sala del tribunale, sono principalmente donne, popolane, mercatine che, tenute faticosamente a bada da Mathieu, si accalcano per godersi lo spettacolo, raccontandosi gli ultimi pettegolezzi. Ecco però entrare la corte (1h35’00”) per dar inizio al processo. Arrivano anche gli imputati, ultimo Chénier, quasi indifferente e assorto nei suoi pensieri. Maddalena (1h36’22”) esclama: Egli non guarda! Ah, pensa a me! e il tema dell’amore spiega più delle parole i sentimenti che animano i due pur lontani innamorati.

Dopo che Mathieu ha imposto il silenzio, il Presidente Dumas comincia a chiamare gli imputati e per ciascuno il Procuratore Fouquier annuncia la sua accusa. C’è anche una donna (1h37’29”) tale Legray, una giovane madre che ritroveremo nel quarto quadro, e infine (1h37’37”) Andrea Chénier, per il quale viene formulata l’accusa di tradimento! Il poeta reagisce con veemenza (1h37’59”, Tu menti!) e poco dopo attacca la sua aria in LAb (1h38’07”, Sì, fui soldato) per proclamare a tutto il mondo i suoi grandi ideali e il suo amore per la Patria. Chiude la sua perorazione (1h40’26”, Ma lasciami l’onor) sulla dominante MIb, e una sola semiminima dovrebbe precedere la replica di Fouquier, mentre ancora ci si ferma per 45” ad applaudire il tenore.

Il Procuratore chiama i testimoni e Gérard (1h41’11”) si fa avanti, confessando di aver sottoscritto una denuncia falsa contro Chénier. Ma nessuno vuol credergli, anzi tutti lo accusano di tradimento. Lui allora (1h42’15”) esaltando le giovani reclute che si avviano a combattere per la Patria, accusa il tribunale di uccidere i poeti patrioti. Chénier (1h42’41”, O generoso!) è commosso e – mentre fa capolino in orchestra il Tristankkord! - va a ringraziare del suo coraggio Gérard, che gli indica Maddalena. Poi si illumina e si prepara a morir contento, mentre Gérard ancora vuol sperare. Ma tutto è ormai scritto e Dumas (1h43’35”) pronuncia il fatidico Morte!  

A Maddalena non resta che gridare il nome di Andrea e supplicare Gérard di farglielo ancora rivedere un’ultima volta. Il sipario cala accompagnato da un tragico RE minore.
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Il breve quarto quadro chiude il dramma con il sacrificio di Maddalena e l’inutile, estremo tentativo di Gérard di salvarli.

Sono le solite sette battute orchestrali ad introdurre (1h44’20”) il cupo scenario di morte che caratterizza il cortile del carcere in cui sono rinchiusi Chénier e l’amico Roucher. È notte fonda e Chénier ancora scrive versi, gli ultimi, che l’amico lo prega di recitare, dopo aver convinto il carceriere Schmidt di pazientare ancora. E così Chénier (1h45’43”) canta l’ultima sua romanza in SOLb (Come un bel dì di maggio) che è un vero e proprio addio alla vita e contemporaneamente un supremo inno alla poesia! E l’aria chiude (1h48’33”) con le parole darò per rima il gelido spiro d’un uom che muore. Ancora una volta, invece di attaccare quasi subito con la cantilena di Mathieu, ci si ferma (qui per solo 25”) ad applaudire il tenore.

Mathieu, appunto, si ode da lontano (1h48’58”) cantar la Marsigliese, mentre alla prigione arriva Gérard (1h49’30”) con Maddalena, cui è stato concesso un ultimo colloquio. Andrea Chénier, risponde Gérard alla domanda del carceriere su chi sia il condannato. Maddalena (1h49’50”) ricorda a Gérard la sua promessa, di cui scopriamo presto l’oggetto, allorquando la donna (1h50’03”) accenna alla condannata Legray, che dovrà essere liberata. In sua vece lei stessa (1h50’32”) salirà sul carro che reca i condannati al patibolo!

Schmidt si lascia convincere da gioielli e denaro passatigli da Maddalena, che (1h51’32”) benedice il suo destino di morte. Gérard, sempre più addolorato, mentre in orchestra (1h51’50”) si ode un tema wagneriano che ricorda l’amore (di Sieglinde per Siegmund) decide di fare ancora un tentativo, addirittura con Robespierre.

Intanto Chénier si avvicina e l’orchestra (1h52’22”) scoppia in un lungo accordo, che porta al REb con cui inizia il duetto finale fra i due amanti. Chénier (1h52’46”, Vicino a te s’acqueta l’irrequieta anima mia) lo introduce, poi Maddalena – la tonalità vira a FA maggiore - gli risponde confermandogli tutto il suo amore. E gli rivela lo stratagemma che le consentirà di morire con lui. Poi (1h55’20”) mentre la tonalità modula a SIb, lo invita ad un ultimo abbraccio e così i due si abbandonano alla più grande estasi, che ci ricorda l’esaltazione tristaniana al ritrovare Isolde.

La morte si avvicina con l’aurora, la tonalità modula a SOLb per accogliere le ultime esternazioni dei due amanti fino all’estremo (1h58’33”): Amor!

Dal SOLb per enarmonia si sale al SI, mentre il carceriere fa l’appello dei condannati, cui rispondono prima Chénier e poi Maddalena. Che sul SI acuto gridano (1h58’54”) l’ultimo Insiem!

Giordano muta quel SI in mediante di SOL, sulla quale tonalità l’opera si conclude trionfalmente.
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Bene, ora non ci resta che attendere al varco i coniugi Netrebko!

02 dicembre, 2017

Milano Musica chiude all'Auditorium


Largo Mahler ha ospitato ieri una delle tappe (anzi l’ultima, che si replica domenica) della rassegna Milano Musica, dedicata come sappiamo a Salvatore Sciarrino. Del quale era in programma la prima esecuzione italiana del Libro notturno delle voci, una specie di eterodosso Concerto per flauto dedicato all’esecutore di oggi, Mario Caroli (speriamo il flauto non si offenda, e nemmeno il concerto...) del 2009.

L’opera (!) si suddivide in tre parti, con tanto di sottotitoli:

1. In val d'abisso
2. Fauci dell'emozione
3. Mario Caroli e l'iridescenza di un Re

Purtroppo nè i titoli, nè (soprattutto) i contenuti musicali ci aiutano a distinguere chiaramente una parte dall’altra. Quindi possiamo sentenziare trattarsi di un’opera caratterizzata da grande unità tematica...

Sciarrino si è specializzato nel riprodurre in musica qualunque tipo di suono(/rumore) in ciò prendendo spunto dalla filosofia di Mahler (a proposito dei suoi Naturlaute) ma portandola all’estremo. Così non ascoltiamo più i classici cuculi, o le melodie stiracchiate di un violino di strada, o i campanacci di vacca su un alpeggio... ma arrivano alle nostre orecchie muggir di buoi, latrar di cani o miagolar di felini in calore, per citare solo qualche esempio. Poi ci sono anche sirene antifurto, porte metalliche di vecchi ascensori che sbattono, sinistri cigolìi, sgocciolar di rubinetti guasti... tutti suoni che rompono il silenzio notturno, ci pare di udirli nel dormiveglia, ritmato dal respiro affannoso di due violoncelli.

Il flauto qui è usato nel primo movimento come un fischietto di quelli che un tempo corredavano i nostri vestitini da marinaretto; nel secondo come strumento per produrre... starnuti; e nel terzo per emettere il suono che si ottiene naturalmente soffiando in una canna di bambù.

Che dire, restarne rapiti? Farci prendere da esasperazione? Sghignazzarci sopra? Beh, ognuno si attrezzi un po’ come gli pare... c’è libertà di scelta, di gusti e di critica; e per fortuna (dei compositori, soprattutto) non c’è in giro nessun nipotino di Zdanov, ecco. Però dobbiamo riconoscere che qualche progresso si è compiuto: rispetto alla registrazione della prima assoluta in terra tedesca (citata più sopra, del 2009) ieri la durata del brano ha superato di poco i 25 minuti. Grazie!

PS: Caroli deve avere comunque un buon rapporto con il suo flauto: per farsi perdonare di averlo bistrattato a quel modo, ha concesso un bis dove lo strumento è stato impiegato precisamente per lo scopo per il quale fu inventato: emettere suoni e non rumori (!)
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La serata era stata aperta (come da prassi che vuole che, in presenza di un brano moderno, gli si anteponga uno di tradizione, per in qualche modo obbligare il pubblico a sorbirsi il moderno...) da Ravel, con la sua Valse, ovviamente in versione orchestrale. Si tratta di un grottesco sberleffo alla Vienna presuntuosa e godereccia di metà ‘800, dove sentiamo raffinate atmosfere impressioniste intercalate a volgarità da fetida balera… Però il tutto è sempre un piacere per l’ascolto, e qui difficilmente si pone il problema di come reagire di fronte a ciò che arriva alle nostre orecchie. Va da sè che i ragazzi (e Angius ovviamente) han dato il loro fattivo contributo alla riuscita dell’impresa..
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Dopo la pausa ecco Debussy, con in suoi tre Nocturnes, una particolare variante di musica-a-programma.

Nuages, lo dice il titolo, evoca un incessante passare di nuvole sopra la Senna, precisamente presso il ponte di Solférino, ma qui l’indicazione è tanto minuziosa quanto ininfluente sul contenuto musicale, che mai pretende l’impossibile (la descrizione di un fenomeno naturale) bensì esprime in modo mirabile l’impressione provata da chi osserva il muoversi delle nuvole, sempre diverso, ma allo stesso tempo sempre uguale a se stesso. Chissà se quella specie di Dies Irae esposto da clarinetti e fagotti è un riferimento voluto o casuale... 

In Fêtes Debussy si ispira poeticamente ad una serata al Bois de Boulogne, evocandone però non tanto le prosaiche manifestazioni (tarantelle, marce della Guardia repubblicana, fanfare che arrivano da lontano, passano e si perdono) ma le sensazioni (meglio… le impressioni) che esse provocano nel suo animo, e sono queste che il compositore ci vuol trasmettere con i suoi suoni.

Sirènes si riallaccia in quache modo a Sciarrino, che ha trattato il mito di Orfeo più volte, non ultima la sua recente opera data in prima mondiale alla Scala. In più, è davvero raro ascoltare questo brano in sala da concerto, poichè richiede tassativamente la presenza di un coro femminile (che fa solo vocalizzi peraltro): così è un merito de laVerdi (che un coro, e coi fiocchi, ce l’ha) averci fatto questo bel regalo. Per la cronaca Angius ha schierato le signore di Erina Gambarini proprio in mezzo all’orchestra, scelta appropriata data la natura degli interventi canori.
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Ha chiuso la serata un ennesimo bolerodisciarrinoravel, che il tamburino militare del solito Ivan Fossati (rimastosene stavolta in piccionaia fra i colleghi percussionisti, invece di accomodarsi davanti al Direttore, come fa di solito) ha scandito imperterrito, dalla prima all’ultima battuta. Anche questa è musica discutibile e persino offensiva nella sua struttura, eppure - chissà mai perchè? - la si ascolta sempre con gran trasporto e alla fine la sala addirittura trema sotto lo scrosciare degli applausi.   


Ma ora vedo profilarsi minacciosa all’orizzonte un’affilatissima ghigliottina...

30 novembre, 2017

En attendant Chénier


Si avvicina ormai a grandi passi (e minacciosamente...) l’appuntamento che (quasi) tutto il mondo sta attendendo con ansiosa trepidazione fin dallo scorso 8 dicembre: un nuovo 7 dicembre (!) Naturalmente tutti gli occhi saranno puntati su Maddalena Netrebko, mentre le orecchie passeranno al micro(steto)scopio la voce del di lei maritino, sospettato dai soliti malpensanti di essere capitato lì solo in forza del sacrosanto e universale diritto al ricongiungimento familiare...

In attesa dell’evento gli inguaribili perditempo come il sottoscritto si esercitano (con la scusa di un ripasso della lezione) a cazzeggiare su questo o quell’aspetto del testo e della musica che allieteranno (si spera, stante la montagna di euri investita nell’operazione) il pomeriggio di SantAmbrogio e poi le meno effimere (sempre si spera) sette serate successive, fin quasi alla Befana.

Comincio con il plot messo in piedi dal buon Luigi Illica. Sul fatto che si tratti di soggetto verista sono in molti ad avanzare dubbi: perchè la vicenda sentimentale (il classico triangolo tenore-soprano-baritono) non è ambientata in qualche remoto villaggio del sud del mondo, in prosaici scenari di stampo popolaresco, ma precisamente dalle parti di Parigi, e in un periodo storico segnato da grandi eventi socio-politici, insomma qualcosa che assomiglia più ad Aida (il finale, poi...) che a Cavalleria! E i protagonisti non paiono proprio sanguigni esemplari di figli del popolo, che esternano passioni forti e incontrollate, ma al contrario lui è un nobil poeta, mite e visionario, e lei una ragazza non solo di famiglia nobile, ma pure colta, sensibile e idealista, in una parola: gente romantica. Ecco, forse il solo Gérard presenta – per sua estrazione sociale, ahilui – qualche tratto di verismo.

Ma ora passo ad occuparmi di quella che a prima vista parrebbe essere una gratuita forzatura riscontrabile nel testo di Illica. Domandandomi la ragione della presenza in scena di un Incredibile e di una frotta di Meravigliose (Inc’oyables et Me’veilleuses, secondo la pronuncia degli anti-giacobini, che avevano abolito la r-come-rivoluzione). Personaggi che nell’opera hanno la funzione di perseguitare il povero Chénier: il primo cercando le prove (proteggere una nobile) del suo tradimento della rivoluzione, le seconde – involontariamente, ma tramite gli inequivocabili riferimenti che ne fa Roucher – distruggendo provvisoriamente la visione angelicata che il protagonista si era fatto della misteriosa donna che lo inseguiva con le sue missive. La presenza di quei bizzarri personaggi è però del tutto incoerente con il resto della vicenda (a basi storiche) narrata da Illica e musicata da Giordano.

Incroyables (o Muscadins) et Merveilleuses furono in realtà due movimenti di costume (potremmo dire: due mode) nati all’interno della ricca borghesia, del ceto dei boiardi pubblici e della pur decaduta nobiltà parassitaria (insomma: tutti figli-di-papà o... figli-dei-fiori ante-litteram) che mettevano al centro delle loro esistenze il puro esibizionismo: i maschi attraverso abbigliamenti bizzarri ed appariscenti (più una nodosa clava – chiamata simpaticamente constitution o potere esecutivo - da impiegare in caso di... discussioni); le femmine con altre forme di esibizionismo, del corpo tipicamente, ricoperto da vestimenti pseudo-antica-grecia o simili, roba spesso trasparente e al limite dell’oscenità-in-luogo pubblico (Illica ne deduce conclusioni drastiche quanto eccessive: eran tutte prostitute!)

Orbene, va detto che queste mode esplosero soltanto (anche se subito) dopo la defenestrazione di Robespierre, e proprio in reazione alla di lui (ehm) severità (ghigliottina per chi si vestiva in modo stravagante) e quindi soltanto dopo la fase storica che fa da sfondo all’opera. Che oltretutto ci presenta l’Incredibile nelle vesti di una spia – che deve incastrare due nobili illuminati, Chénier e Maddalena - al servizio di Gérard, fedelissimo di Robespierre: cosa del tutto inverosimile, per quanto si è detto, ai tempi del famigerato (ma forse ben meritato) Terrore. Saranno proprio i padri degli Incredibili e delle Meravigliose a separare Robespierre dal potere (e la testa dal suo collo) per imporre – col loro Direttorio - un altro tipo di terrore (bianco) contro le classi proletarie, serbatoio indispensabile per i loro lauti profitti con cui si foraggiò anche l’esibizionismo di quella prole di gaudenti!

E allora, torniamo a chiederci: perchè introdurre surrettiziamente in un soggetto che ha uno sfondo storico ben preciso e per protagonista un personaggio realmente esistito, elementi estranei e incoerenti con lo stesso scenario del dramma? Elementi oltretutto (e ovviamente) assenti anche nelle opere (vedi Méry) che lo stesso Illica cita esplicitamente come riferimenti per il suo testo?  

Ognuno può dare le sue spiegazioni... e di sicuro una plausibile riguarda l’opportunità drammaturgica di tale scelta. Ma io ne azzardo anche un’altra che ha a che fare con la posizione, diciamo così, politico-ideologica del librettista (principalmente, ma forse anche del compositore). Se guardiamo la sequenza dei fatti e la presenza dei personaggi nel libretto, cosa possiamo stabilire? Che si parte da una situazione di profonda e cronica ingiustizia sociale (il primo atto, 1789) per approdare ad un’altra (1794) che è caratterizzzata – pur in un assetto socio-politico opposto al precedente – da altrettanta ingiustizia (alla faccia del tricolore e dei tre sostantivi che rappresenta). Ebbene, nel second’atto Illica, mostrandoci anzitempo (e fuori tempo) Incredibili&Meravigliose (per denigrarli: spie e puttane) intende mostrarci anche ciò che verrà dopo il Terrore (cioè precisamente subito dopo il sacrificio di Chénier e Maddalena, che precede di pochi giorni la ghigliottina per Robespierre): una nuova forma - magari più subdola perchè ammantata di futili libertà - di terrore, dove nuove classi andate al potere sottometteranno altre classi per perpetuarne lo sfruttamento. 

In sostanza, qual’è il messaggio che Illica ci vuol trasmettere? Di totale presa di distanza non solo dal potere assoluto pre-rivoluzione e dal potere terroristico di Robespierre, ma anche da ciò che venne dopo, in reazione alle degenerazioni giacobine. E siccome da quel dopo era nato il presente in cui Illica viveva, ecco che Chénier diventa l’occasione per prendere le distanze anche dall’establishment contemporaneo, il che è in perfetta coerenza con le idee politiche e i conseguenti comportamenti del librettista.

Alla fine ciò che emerge alla catastrofe è Chénier-Illica, il poeta, l’artista, il visionario, l’utopista, che è però anche il vero patriota:

Fui letterato,
ho fatto di mia penna arma feroce
contro gli ipocriti!
Colla mia voce
         ho cantato la patria!

29 novembre, 2017

Jansons e i bavaresi incantano la Scala con Bruckner

 

Ieri sera la Scala (concerto in memoria di Umberto Veronesi e a sostegno della sua Fondazione contro il cancro) ha ospitato la mitica Orchestra della Radio bavarese, guidata da colui che ne è da quasi 15 anni non solo l’alfiere, ma quasi un padre: Mariss Jansons.

In programma la sterminata Ottava di Anton Bruckner (versione 1890) che il 74enne Maestro lettone ha diretto per la prima volta con la sua orchestra pochi giorni fa a Monaco (qui una entusiastica recensione di quel concerto).

Dedicata all’Imperatore Franz Joseph (che si vuole compaia a cavallo nel Finale... mentre la successiva ed incompiuta Nona avrà come dedicatario nientemeno che... il buon Dio!) questa penultima sinfonia è un’ennesima (perchè tali sono tutte le altre) ardita costruzione architettonica, una di quelle cattedrali barocche tanto care al sempliciotto organista di SanktFlorian (precisamente il luogo dove lui è sepolto e dove Karajan si esibisce qui con i viennesi.) Sinfonia sulla cui struttura e contenuto ho scritto alcune note anni fa, in occasione di un concerto de laVerdi con Flor.

Prima dell’inizio, doveroso richiamo al nobile fine cui è devoluto l’incasso del concerto: lo fa Paolo Veronesi, figlio e continuatore dell’opera paterna. Meno doveroso, anche se ha a che fare in qualche modo (!) con la musica, l’intervento dell’altro rampollo del grande Umberto, tale Alberto, che ci viene a raccontare di aver convinto suo padre ad apprezzare Puccini e Mahler, che l’illustre genitore considerava troppo sentimentali. Evabbè...

In via Verdi erano parcheggiati un tir e un camion&rimorchio dei radiofonici bavaresi (reduci da Vienna) roba di lusso, che evidentemente loro si possono permettere: forse perchè... se li meritano, almeno a giudicare da ciò che si è udito ier sera. Jansons li ha schierati in configurazione rigorosamente alto-tedesca, con violini secondi al proscenio, bassi a sinistra e corni a destra. A proposito dei quali, agli otto di ordinanza (4 prendono alla bisogna le tubette wagneriane) si è aggiunto significativamente il primo corno scaligero, Danilo Stagni, che ha preso posto proprio a fianco del pari-grado bavarese: per lui dev’essere stata, immagino, una bella soddisfazione suonare a fianco di cotanti colleghi e di cotal Direttore.

E Jansons, con il suo gesto ampio che sembra voler abbracciare l’immensa compagine dei suoi Musikanten non ha tradito le aspettative, con una lettura invero magistrale di questo monumento di suoni. Difficile fare graduatorie dei momenti più coinvolgenti, poichè tutto, da primo all’ultimo degli 80 minuti, è stato di una straordinaria bellezza, creata dalla purezza del suono di questa orchestra che merita in pieno la sua fama. Ricorderò solo a mo’ di esempio l’Adagio, con i poderosi interventi degli archi, i nobili passaggi delle tubette e soprattutto la stupefacente cadenza finale di violini e ottoni.

Alla fine pareva di esser tornati ai tempi della Callas e della Tebaldi: pioggia di fiori sull’orchestra e addirittura nuvole di coriandoloni sberluscenti (quelli con cui si festeggiano le vittorie nello sport). Insomma, un trionfo come pochi è dato vedere oggigiorno in teatro. Cose che ti riconciliano con la vita.

27 novembre, 2017

Un Ballo in gondola


La Fenice ha aperto la stagione 17-18 con una nuova produzione del Ballo verdiano, di cui ieri pomeriggio - sala piacevolmente affollata - è andata in scena la seconda recita. La prima, trasmessa venerdi da Radio3, (mi) aveva lasciato una discreta impressione, confermata nella sostanza dall’ascolto dal vivo.

Per l’occasione il sito web che pubblica i contenuti multimediali dell’Archivio Storico del Teatro ha reso disponibile una fulminante conferenza tenuta da Massimo Mila in occasione della produzione del Ballo del lontano 1971 (un breve estratto di essa è stato messo in onda durante il collegamento di Radio3): trattasi di un documento che chiunque voglia apprezzare in pieno quest’opera (invece di limitarsi a gustarla passivamente) dovrebbe ascoltare con attenzione.

E credo che farebbero bene ad ascoltarlo anche tanti registi che si esercitano ad inventare interpretazioni cervellotiche del soggetto di (Scribe-)Somma-Verdi. Per nostra fortuna non è il caso di Gianmaria Aliverta, che già in questa interessante intervista lasciava intendere come lui... intenda la messinscena di un’opera e in particolare del Ballo. Anche lui non si è sottratto alla tentazione di cambiare qualcosa nell’ambientazione, avanzando l’epoca di un paio di secoli (da fine-600 a fine-800) il che comporta inevitabilmente qualche disallineamento con il testo, ma senza stravolgerlo più di tanto, nè soprattutto adulterare i caratteri di fondo delle personalità dei protagonisti del dramma: insomma, una cosa meno pretenziosa ma in compenso molto meno perniciosa di questa.


I riferimenti al problema nero sono enunciati in teoria dal regista, ma in pratica si riducono a qualche moderato maltrattamento di un servitore proprio durante l’esecuzione del Preludio, per il resto rimangono... nella testa di Aliverta, ecco. Le scene di Checchetto e i costumi di Tieppo richiamano l’800 più che altro per qualche stars&stripes e per la fiaccola e la testa della Statua della Libertà, in grandezza quasi naturale (!) dove nel finale si appostano, a sinistra, i 7 elementi dell’orchestrina di archi che Verdi prevede sulla scena e, a destra, i due innamorati per l’ultimo addio, che verrà brutalmente interrotto da un colpo di pistola che Renato esplode proprio dalle scale che conducono alla fiaccola (evabbè).

Altre amenità riguardano il second’atto, dove in scena troviamo un luogo effettivamente lugubre, ma che ha più l’apparenza di uno scavo archeologico (a Boston evidentemente abbondano... !) e dove – per convincere lo spettatore che la figura dello zombie che si para dinanzi ad Amelia non sia un’allucinazione, ma invece un moribondo in carne ed ossa - Aliverta ci mostra un vero agguato di sicari che lasciano sul posto l’anonimo malcapitato. Comunque, cose infantili e tutto sommato perdonabili: come detto, c’è in giro di molto peggio.

La festa finale all’ombra dei pezzi di Statua è stata dignitosamente proposta dai movimenti coreografici di Barbara Pessina. Appropriato l’impiego delle luci di Barettin, forse discutibile la serie di fari accecanti posti sul fondo-scena nella fase cruciale del second’atto.
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Il cast di questa produzione fenicea è (in 4/5 dei ruoli principali, Ulrica l’eccezione) lo stesso che anni fa aveva cantato l’opera al Regio di Parma sotto l’esperta direzione di Gelmetti. Qui le redini sono state affidate al sommo Myung-Whun Chung, che ancora una volta non ha deluso le attese, con una lettura di altissimo livello ed una concertazione che non definisco perfetta solo per via di un paio di... coperture di voci.

Meli su tutti: non solo per la voce (di Pavarotti non ne son più nati...) ma anche per la sensibilità nel porgere le diverse anime del personaggio: qui spaccone e goliardico, là capo autorevole-illuminato, ma soprattutto poi innamorato sincero ed appassionato. La Lewis conferma di essere in crescita con una prestazione all’altezza: acuti ben portati (inclusa la salita al DO nel second’atto) a fronte di qualche centro meno efficace.

Il Renato di Stoyanov (che Aliverta-Tieppo dotano di parrucchino a coprire la naturale capigliatura di uomo di mezz’età, mah...) non incanta, ma nemmeno scontenta, ecco: la voce è solida e ben impostata, il suo eri tu porto con passione e varietà di accenti.

Le due donne co-protagoniste hanno ben meritato: la Gamberoni (che dice di voler appendere al chiodo il ruolo di Oscar) ha sciorinato agilità e brillantezza nei suoi interventi sbarazzini, oltre che una perfetta rispondenza al ruolo en-travesti, sempre di difficile interpretazione in un’opera del secondo ‘800. La maga-sibilla di Silvia Beltrami ha sciorinato sufficiente brutalità e protervia, coerenti peraltro con il ruolo e la musica che Verdi le appiccica addosso, evitando eccessive volgarità o forzature: in complesso una prestazione da accogliere favorevolmente.

I comprimari (Corrò, Lim e Denti) se la son cavata con onore, Giannino e D’Ostuni han fatto diligentemente le loro piccole parti. Benissimo il Coro di Moretti, compresi i piccoli di Diana D’Alessio, rispolverati per l’occasione.
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Che dire, in conclusione? Che la Fenice ha proposto aperture di stagione più eccitanti di questa? Forse, ma credo – parlo per me, ovviamente - che ci si possa accontentare.

24 novembre, 2017

laVerdi 17-18 – Concerto n°7


Il Direttore Musicale de laVerdi, Claus Peter Flor, nel suo percorso di esplorazione delle sinfonie mahleriane, affronta questa settimana quella che rappresenta il culmine della produzione del boemo e quindi il suo lascito artistico e spirituale: la Nona.

Ieri sera, in un Auditorium strapieno, il Direttore Musicale (con qualche problema... deambulatorio) ne ha dato una lettura che definirei laica, evitando ogni interpretazione di tipo strappalacrime (ah, la morte che si avvicina, il cuore malmesso, la certezza di durare ancora poco... insomma, l’agiografia preferita dall’inaffidabile Alma). Tempi sempre al limite superiore delle indicazioni agogiche, niente rubati da strapazzo, ma un Mahler che serenamente espone il suo programma, non scritto, di consapevolezza nella caducità delle terrene cose, e di serena rassegnazione. Non alla morte fisica, che arrivò prematuramente ben due anni dopo la composizione della sinfonia, e a causa di una banale infezione virale alle vie respiratorie (mal curata, anche perchè non c’erano ancora in giro gli antibiotici...) ma ad una terza età che certo escludeva per lui il ritorno ai trionfi (pubblici e privati) della gioventù, ma che era pronto ad affrontare con il piglio di sempre. Non per nulla, appena completata la nona, metterà subito in cantiere e comincerà a lavorare alacremente alla sua decima!

Anche la conclusione, dopo il girotondo delle viole attorno alla dominante di REb, non ha contemplato minuti di raccoglimento come si fosse dinanzi ad un feretro, ma pochi secondi per far semplicemente decantare l’emozione che si prova sempre ascoltando questa musica. Io sinceramente non chiedevo di meglio.

19 novembre, 2017

Sciarrino si traveste da Stradella per la Scala


In attesa della materializzazione dell’ectoplasma denominato Fin de partie (che aleggia da anni negli spazi del Piermarini) ecco arrivare a tambur battente una primizia nostrana, dovuta a quel genio che risponde al nome di Salvatore Sciarrino (cui è contemporaneamente dedicata la 26ma edizione di Milano Musica). Ieri sera è andata in onda la terza delle sei recite in cartellone, in una sala non propriamente presa d’assalto (tanto per usare un pietoso eufemismo...)

Ti vedo, ti sento, mi perdo... Parole che potrebbe aver pronunciato, rapita dalla musica - o magari anche da qualcosa di meno, ehm, immateriale... - di Alessandro Stradella, tale Agnese van Huffele, che nella Venezia del 1677 era amante di un certo Alvise Contarini (il Doge in persona, o un suo omonimo?) E il rapimento si materializzò all’istante con la fuga a Torino dei due, ben presto colà raggiunti da sicari fedelissimi del... becco, decisi a far polpette del disinvolto 38enne musicista viterbese. Impresa mancata non di molto, che convinse comunque il nostro a lasciare Torino per fare – pochi anni dopo - proprio la fine miracolosamente scansata lassù: morire ammazzato come un cane in piazza Banchi a Genova, dove – per avere a portata di mano la materia prima per il suo hobby preferito – si era fatto ospitare dal musicista dilettante Giovambattista Guani, titolare di una bottega di parrucchiere per signora (!)

L’opera di Sciarrino è però verosimilmente ambientata a Roma, nel Palazzo Colonna, dove una decina d’anni prima di togliere il disturbo Stradella aveva fatto i suoi primi passi come musicante. Ma solo dopo aver avuto rapporti di... camera nientedopodomanichè con la Regina Cristina di Svezia! Ecco, sul palcoscenico vediamo – sullo sfondo - un... palcoscenico dove si prova uno spettacolo musicale (una cantata con soprano, coro e strumenti); al centro si muovono servi e lacchè del palazzo addetti alle incombenze più materiali, e ai pettegolezzi più volgari; al proscenio due intellettuali (musicista e poeta) si scambiano battute sulla tresca dello Stradella con una famosa cantante, e attendono l’arrivo proprio del musicista in persona – che tuttavia mai arriverà, nemmeno fosse Godot, sostituito dalla notizia del suo poco onorevole ammazzamento, recata da un giovin cantore con violinista al seguito - disquisendo di arte e filosofia, raggiunti di tanto in tanto dal soprano protagonista della cantata.

Nel secondo atto dell’opera – dove (pare) sono passati anni – si ha una compressione della dimensione-tempo: in pratica tutte le vicende delle avventure (galanti e non) di Stradella (fuga da Roma, fuga da Venezia, fuga da Torino e morte a Genova) scorrono davanti ai nostri occhi raccontate da secche notizie che arrivano in poche scene successive: è una bizzarra (ma non nuova, vedi Wagner-Parsifal) applicazione della relatività ristretta del buon Einstein, una variante rovesciata del paradosso dei due gemelli: qui c’è Stradella che fugge da Roma e passa un bel po' d'anni vagando per mezza Italia (spingendosi pure a Vienna...) mentre in tutto questo tempo i suoi coetanei rimasti a Roma invecchiano solo di un’ora scarsa (!?)

Evabbè... a parte questi sconfinamenti nella fisica pura che andrebbero studiati con il calcolo tensoriale, il soggetto - che Sciarrino ha inventato da letture di Ovidio, Apollonio Rodio, Rilke, Bashō, Stromboli, Giazotto, Iudica e Frassica (ma io consiglierei a tutti questo thriller) – porta in primo piano problematiche non da poco, quali il principio di libertà e di totale indipendenza dell’Arte e dell’Artista da qualsivoglia vincolo (materiale ma anche estetico) e poi l’intrinseco connubio fra Arte (e in particolare Musica) ed Eros. E Stradella fu di sicuro la personificazione dell’Artista rivoluzionario, insofferente di padroni, di regole e convenzioni ed anche conquistatore di cuori (ed esploratore di... orifizi). 

Ma c’è di più: Orfeo vs Sirene! Il campione della musica umana contro le subdole rappresentanti della musica naturale (A.Stradella vs A.Scarlatti?) E poi ancora: Stradella antesignano di Schubert e di Chopin! E da composizioni di Stradella arrivano nell’opera di Sciarrino melodie e vaghi ricordi, reminiscenze più che citazioni, che il nostro riveste di suoni dal carattere impressionista (Debussy docet...)

Suoni che provengono da ogni dove: ovviamente dalla buca, ma anche dalla scena (concertino e poi legni) e da dietro le quinte (fiati, arpa e pianoforte). Suoni non convenzionali, con ampio uso di glissandi, di fruscii, di armonici acutissimi: insomma una tavolozza personalissima e davvero ricercata.

Il canto è un’applicazione estesa del principio del recitar-cantando, una sorta di declamato arricchito da inflessioni, tic, persino balbuzie: un canto che cerca di modellarsi sui fonemi della lingua, un approccio che è stato - più o meno appropriatamente - paragonato a quello di un Musorgski o di uno Janáček.

Insomma, tante idee, tanta carne al fuoco; che testimoniano quanto meno della serietà ed onestà dell’approccio del compositore palermitano, oggi apprezzato e stimato in tutto il mondo. Per quel che può valere (poco più di nulla) il mio giudizio, colloco questa proposta ben al di sopra di altre (Francesconi, Raskatov e Battistelli) che la Scala ha commissionato per poi propinarcele in anni recenti.

Resta il fatto che per lo spettatore medio (che dello Stradella forse conosce a malapena l’esistenza) risulta obiettivamente difficile apprezzare la messe di riferimenti, sottintesi, allusioni (soprattutto musicali!) di cui Sciarrino riempie la sua partitura. Alla fine ciò che di primo acchito si apprezza di tutta l’opera sono il prologo e un paio di intermezzi, dove all’orecchio arrivano suoni che richiamano effettivamente il barocco. Con una malignità potrei dire che una Suite di 10-12 minuti che raccolga quei pochi sprazzi di musica vagamente orecchiabile potrebbe avere in sala da concerto assai più presa dell’intera opera vista ed ascoltata in teatro...
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Sulla messinscena che dire? Dato che l’Autore ha già in partenza dettato le linee generali della scenografia (oltre al precisissimo riferimento storico) al regista non resta in questi casi che applicarsi per eseguire al meglio la volontà dell’Autore, oltretutto presente di persona all’intero processo di costruzione dello spettacolo. Si deve perciò dare per sicuro che ciò che Jürgen Flimm e il suo scenografo George Tsypin ci mostrano sia precisamente ciò che Sciarrino intende farci vedere, cosa che in molte regìe moderne (di opere del passato) accade sempre meno spesso...

Apprezzabili i costumi allegri e dai colori sgargianti di Ursula Kudrna, e le luci (Olaf Freese) che di volta in volta ci indirizzano l’attenzione sui tre diversi livelli della scena. Dove sono da segnalare anche le divertenti coreografie di Tiziana Colombo.
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Il 32enne Maxime Pascal pare un ragazzino ma ha già alle (e sulle) spalle una carriera brillante e persino un’orchestra (Le Balcon). La sua dimestichezza con la musica d’oggi ne fa interprete ideale di opere come questa e lui lo dimostra padroneggiando ogni sfumatura di ogni singola nota di Sciarrino. L’Orchestra – come detto distribuita su tre livelli – pare assecondarlo al meglio (dico pare perchè forse solo Sciarrino potrebbe dare un giudizio di merito sull’interpretazione e sull'esecuzione...) cavando fuori sonorità inconsuete e timbri a volte irriconoscibili, che evidentemente il compositore ha inteso creare appositamente per supportare i suoi testi.   
  
Fra le voci, la protagonista assoluta è la Cantatrice di Laura Aikin, che ha oggettivamente la parte più ricca e pesante di tutte: lei la sostiene con grande cura dei dettagli, non solo nel canto più (diciamo così) tradizionale ma anche in quella sorta di declamato alla Sprechgesang di cui Sciarrino riveste il suo ruolo (e non solo il suo). Peccato che la sua voce scarseggi di decibel il che, in aggiunta alle dinamiche particolarissime imposte dalla partitura, la rende scarsamente udibile negli sterminati volumi del Piermarini. Il massimo (minimo, anzi) si raggiunge nella bella arietta del second’atto, dove la sua voce viene irrimediabilmente coperta dalla pur non gigantesca orchestra che l’accompagna (qui Pascal ha forse qualcosa da farsi perdonare).

Degli altri interpreti, quello che canta (in senso comune) di più (anche se arriva solo alla fine...) è il Giovane Cantore (appunto) qui impersonato da Ramiro Maturana (accademico scaligero) che ha fatto una più che discreta figura. Tutti gli altri sono chiamati a declamare e/o emettere suoni che un ascoltatore naif potrebbe francamente prendere per lamenti, mugolii o rantoli di musicalità assai discutibile, ecco.
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Alla fine applausi di stima e cortesia, ma direi ben meritati per tutti: una chiusura di stagione se non altro interessante. Un commento conclusivo (trito e ritrito, lo so perfettamente): opere come queste rischiano di essere rovinate dal rappresentarle in questo teatro (nelle più piccole sale berlinesi magari tutto cambierà...): ennesima occasione per stigmatizzare la stolta chiusura della Piccola Scala, ambiente ideale (per cantanti-orchestra ma anche per il pubblico) per questo tipo di rappresentazioni. Amen.

16 novembre, 2017

La Messa per Rossini

 

Ieri sera alla Scala è risuonata per la terza volta in pochi giorni la Messa per Rossini, che prima di oggi si era ascoltata in Italia solo in anni non recenti, e interpretata dai complessi teutonici di Helmuth Rilling.

L’ascolto dal vivo è stato per me un’ulteriore conferma della bontà della scelta di Chailly di riproporre quest’opera che per un secolo e mezzo è stata dimenticata e pure snobbata. Per carità, non parleremo certo di capolavoro, ma questi 13 pezzi usciti da mani e teste diverse (ma tutte italiane!) del 1869 mostrano quanta ricchezza musicale – di cui si fatica altrimenti ad avere percezione - allignasse nel nostro Paese a quei tempi e ci dovrebbero far riflettere su come purtroppo quel patrimonio sia stato via via dilapidato e sia tuttora in corso di dilapidazione.

Onorevole la prova delle voci, soprattutto delle tre maschili, su cui è spiccata quella del tenore Giorgio Berrugi; le due cantanti hanno mostrato i loro (noti) limiti nella zona grave della tessitura. Benissimo come sempre il coro di Casoni, che in questa Messa è chiamato ad un impegno non inferiore a quello del Requiem verdiano. Orchestra sempre concentrata e reattiva alle sollecitazioni del Direttore, che ha portato alla luce tante piccole perle di questa collana multicolore ma non per questo pacchiana o trasandata.    

Teatro quasi gremito da un pubblico che è parso apprezzare assai questa inconsueta proposta, che merita di essere rinnovata in futuro.

11 novembre, 2017

laVerdi 17-18 – Concerto n°6


È ancora il venerabile  Elio Boncompagni a calcare il podio dell’Auditorium per dirigere un programma dal taglio classico: ouverture, concerto solistico e sinfonia. Dopo due brani di Beethoven ci si sarebbe aspettato che lo fosse anche il terzo (che so, una delle sinfonie pari...) e invece ecco spuntare il Brahms pastorale... 

L’Ouverture Die Weihe des Hauses (op.124) occupa una posizione assai scomoda nel catalogo beethoveniano, stretta com’è nella stritolante tenaglia di Missa (op.123) e Nona (op.125). E sono anche gli anni delle ultime tre sonate e delle variazioni Diabelli!


Il titolo dell’Ouverture è stato tradotto in italiano in modo letterale (La consacrazione della casa) il che porta francamente fuori strada chi non sia informato delle circostanze che ne determinarono la composizione. Chiunque infatti penserebbe subito alla casa nell’accezione di dimora e quindi, in senso lato, di famiglia: quindi immaginerebbe che si tratti della solennizzazione della classica benedizione delle famiglie (a pochi verrebbe in mente di pensare alla consacrazione di una... ditta!)

Invece Haus in crucco (così come House in albionico) è un termine impiegato (anche) per definire i teatri (es.: Royal Opera House, Opernhaus Zürich); ed è proprio l’inaugurazione di un teatro viennese (Theater in der Josefstadt) che fece arrivare a Beethoven la commissione per un lavoro che celebrasse l’avvenimento. Per risparmiare tempo e fatica Beethoven propose un rifacimento delle Rovine di Atene (altro pezzo di circostanza composto 11 anni prima per l’inaugurazione di un teatro tedesco a Pest). Dopodichè, oltre a rimaneggiamenti vari del corpo dell’opera, Beethoven ne scrisse una nuova Ouverture, quella che si ascolta normalmente e anche qui.

Si dice che l’ispirazione estetico-formale sia venuta a Beethoven da Händel, ed in effetti sentiamo atmosfere da pomposità tipiche delle musiche che il tedesco trapiantato in Albione componeva per i Reali di lassù, ma anche un complesso contrappunto che caratterizza il nucleo della composizione. Il cui monotematismo rischia di rendercela un tantino indigesta, soprattutto se ulteriormente appesantita nell’agogica, come ad esempio fa qui Klemperer. Molto meglio – per me, ovviamente – il solito Toscanini, che la propone con il suo proverbiale piglio.

Boncompagni direi che sta più con Toscanini che con Klemperer, il che secondo me gli rende merito: smaglianti le sonorità dell’orchestra, guidata da Dellingshausen e disposta ancora con le viole a sinistra e i secondi violini al proscenio.  
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Giuseppe Andaloro fa il suo ritorno in Auditorium dopo tre anni per presentarci il Primo Concerto del genio di Bonn. Lui e il Direttore sembrano voler spiegare in musica l’irrompere dell’800 nel ‘700: Boncompagni attacca le prime 15 battute come fosse un lezioso Mozart giovanile, quasi col solo concertino; per poi esplodere col vigore tipico dello spirito beethoveniano. Il solista fa lo stesso, attaccando con leggerezza per poi mettere in risalto gli accenti quasi eroici che spuntano qua e là nella partitura. Grandiosa la cadenza del primo movimento, nobile e sognante il Largo, brillante il finale Rondo.

Un’esecuzione decisamente apprezzabile, che il 35enne palermitano completa con ben due bis: Melodia trascritta da Sgambati dall’Orfeo di Gluck, e poi un’impertinente sonatina di Domenico Scarlatti.
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Chiude la serata la Seconda Sinfonia di Brahms. Ancora da elogiare la lettura di Boncompagni, a partire dalla sensibilità mostrata nell’esposizione dell’Allegro non troppo iniziale, dove il Direttore ha dato al da-capo sfumature diverse (più tenui) rispetto alla prima presentazione. Tempi abbastanza sostenuti, ma mai strascicati, insomma un’esecuzione coinvolgente, chiusa in modo spettacolare dalle luccicanti sonorità dei fiati.

Successo pieno, proprio come l’Auditorium, che dà l’arrivederci al Direttore per la Nona di Capodanno.