affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

05 dicembre, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n°62


Programma russo questa settimana (più Campogrande, in Thailandia). A dirigerlo non è, come da remoto annuncio, Wayne Marshall, ma Stanislav Kochanovsky, che pare diventato il tappabuchi-principe (devo dire che se la cava sempre assai bene) de laVERDI.

Il primo brano vede protagonista Nicola Benedetti: chi mai direbbe trattarsi di un’avvenente ragazza 28enne? No, tranquilli, non è un maschietto che ha cambiato sesso: il nome – per noi italiani impensabile per una femmina – si spiega col semplice fatto che lei non è italiana, ma scozzese (sia pure di padre toscano). Lassù Nicola è femmina, il maschio è Nicholas, e allo stesso modo Andrea è nome femminile, essendo Andrew il maschile.

Chiarito il piacevole equivoco, parliamo del Concerto per violino di quel simpatico alcolizzato che rispondeva al nome di Aleksandr Konstantinovich Glazunov. Concerto composto nel 1904 ed eseguito nel 1905 a SanPietroburgo, proprio a ruota di quello del suo dirimpettaio di Helsinki, Jean Sibelius, giusto per inquadrarlo storicamente e pure geograficamente. Ma mentre il finlandese (che pure non lesinava corpose libagioni di… spirito) si era attenuto alla struttura più tradizionale, limitandosi a qualche bizzarra trovata in fatto di acrobazie tonali, il russo costruì il suo concerto con un’ardita operazione di incastro. Nel bel mezzo del primo movimento, dopo la canonica esposizione dei due temi, invece di far seguire lo sviluppo e il resto, cosa ci combina? Infila una sezione tematicamente del tutto nuova, quasi fosse un secondo tempo, conclusa la quale riprende lo sviluppo dei primi due temi, poi li ricapitola, ci aggiunge una cadenza e da qui attacca il rondo conclusivo!

Beh, c’è da riconoscere che i fumi dell’alcol a volte danno frutti strani, ma interessanti. Seguiamone una storica esecuzione di David Oistrakh.
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Su terzine ribattute di clarinetti e fagotti (triade di LA minore) il solista apre subito esponendo il primo tema, Moderato, 4/4:


È una lunga e languida melodia con inflessioni orientaleggianti, che a 53” (animato) assume un carattere momentaneamente più brioso (tutto in terzine) per poi sfociare (1’11”) in un ponte a mo’ di cadenza, dove le folate ascendenti del violino si alternano ad interventi più pesanti dei legni e in cui (1’45”) pare di riconoscere Ciajkovski nell’introduzione del suo concerto per violino. È in effetti l’introduzione al secondo tema (2’04”) tranquillo, in FA maggiore (relativa della sottodominante minore della tonalità d’impianto):


Il tema si sviluppa con inflessioni in minore (2’36”) poi torna al maggiore e viene seguito (3’12”) da una coda che si anima con un serrato dialogo fra il solista e l’orchestra, culminante (3’44”) in un secco accordo di FA maggiore, dove possiamo collocare la chiusura dell’esposizione. Ora inizia un progressivo calando, che porta (4’18”) ad un ponte (tranquillo) di 6 battute, che parrebbe proprio essere la preparazione ad una sezione di sviluppo. Ma qualcosa ci dice che non sarà così: la tonalità infatti è passata chissà come a REb maggiore!

(video2)

Ed infatti, sorpresa-sorpresa, ecco apparire un nuovo tema, anzi un’intera sezione in Andante, col tempo che muta a 3/4, quasi fosse un secondo movimento del concerto:

 
Tema invero dolce e sognante, ancora à-la-Ciajkovski, sviluppato anche in corda doppia, che (1’33”) vira, attraverso un’enarmonia LAb-SOL#, al LA maggiore, da cui modula ulteriormente, con il solista impegnato in grandi virtuosismi (da 1’49”) sullo sfondo di ampie folate dell’arpa. Si torna a REb maggiore (2’20”) dove il solista riprende la melodia portandola alla sua conclusione, con un pizzicato sulla dominante LAb.  

Qui ecco la seconda sorpresa, con il ritorno (Tempo I, 4/4) alla fine dell’esposizione dei due primi temi, che ora – 3’53”, la tonalità vira nuovamente a LA - vengono sottoposti a sviluppo, dalla sola orchestra. Così si ascolta il primo tema (fagotto e viole) e subito dopo (4’13”) il secondo, tuttora in FA (in flauto e oboe).

A 4’53” irrompe gagliardamente (più animato) il solista, che si imbarca in una specie di spiritato scherzo, culminante (5’18”, pesante) in quella che possiamo considerare la ricapitolazione: preceduta da un paio di batti-e-ribatti fra intera orchestra e solista in corda doppia sul primo tema (un tono sopra) e con il solista che poi (5’32”) lo ripresenta in LA, ma assai variato ed impreziosito di virtuosismi; poi (6’59”) ecco tornare il secondo, questa volta canonicamente in DO maggiore.

Si arriva ora, sempre come prescrivono le regole non scritte del concerto solistico, alla cadenza, introdotta (8’08”) da due accordi a piena orchestra. La prima parte (dove riconosciamo il secondo tema, poi il primo) viene chiusa a 9’20” da sette accordi in pizzicato.

(video3)

La seconda parte della cadenza (più sostenuto) ripropone il primo tema virtuosisticamente esposto in corda doppia dalla voce superiore, mentre quella inferiore crea un tappeto di velocissime biscrome. A 1’18” la cadenza si conclude con il rientro molto discreto dell’orchestra (archi bassi e corni, poi timpani) e il solista che attacca in DO maggiore con altre biscrome.

La tonalità poi modula fino a sboccare, sul MI sovracuto del violino, al LA maggiore con cui una smaccata fanfara di trombe (1’42”) irrompe come il proverbiale elefante in cristalleria, attaccando l’Allegro conclusivo (un Rondo sui generis, in 6/8) con l’esposizione del ritornello A, subito ripreso dal solista in corda doppia:

Ancora l’orchestra con il controsoggetto del tema, imitata subito dal violino, che poi riesegue soggetto e controsoggetto un’ottava sopra e con piglio squisitamente virtuosistico. A 2’26” è la sola orchestra a riproporre due volte il tema del ritornello.

Ecco poi il primo episodio (B): un bel tema cantabile che il solista espone (2’38”) sulla dominante di MI maggiore:
 
Torna a 3’34” il ritornello A in LA maggiore nella sola orchestra (due ripetizioni senza controsoggetto). A 3’45” abbiamo l’episodio C nel violino, tonalità RE maggiore:

 
È una saltellante melodia di sapore vagamente contadino, interrotta a 4’09” dall’orchestra che ne ripropone una variante, seguita (4’20”) dal ritorno del violino. A 4’30” ecco un cullante motivo di semiminime puntate nel solista, appoggiato da accordi dell’arpa e sul quale si innestano pregevoli interventi di corno e legni, finchè si giunge (4’49”) alla ripresa del ritornello A, ma assai variato e in DO maggiore, nel solista. Lo riprende l’orchestra, poi ancora il violino, ma modulando bruscamente (5’06”) a LA maggiore, quindi ancora a RE maggiore, poi a SI maggiore, fino a tornare al LA, dove (5’22”, più animato) il solista con una serie di quintine prepara il ritorno del ritornello A (5’30”) che viene eseguito poi nella sua interezza dall'ottavino e dai campanelli, col solista che batte il ritmo in pizzicato (quasi guitarra, sic):



Il tutto fa quasi l’effetto dell’incantesimo del fuoco 

A 5’52” riecco il tema A nel violino, sempre in LA, che inizia calmo (tempo mutato in 3/4) per poi presentare una continua accelerazione. A 6’26” si torna a LA maggiore per il gran finale (tempo 6/8): tre scambi di… cortesie fra orchestra e solista, poi (6’40”, sempre animando) il tempo passa a 2/4 (per tutti tranne che per il solista, che continua con le sue terzine in 6/8) e si accelera continuamente fino alla cadenza conclusiva (7’02”) dove anche il solista si allinea al tempo di 2/4 per gli ultimi battibecchi con l’orchestra che concludono il concerto, con il penultimo accordo del solista che impegna tutte le 4 corde del violino (dal basso: LA-MI-DO#-LA).
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La bella McBenedetti – presentatasi in un elegantissimo lungo nero, con ampia vista sul… ehm, lato-b (zona superiore, cosa credete!) – sciorina tutta la sua gran tecnica. Se posso farle un appunto, ma qui è questione di gusti, mi è parsa eccessivamente metronomica, ad esempio nel finale, dove un maggiore stacco dei tempi nei due episodi centrali non avrebbe guastato.

Per lei comunque un gran successo, che ci ricambia con uno dei bis più inflazionati: la sarabanda dalla seconda partita di Bach, che lei esegue con grande ispirazione.
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C’è forse un legame sotterraneo fra Glazunov e la Seconda sinfonia di Rachmaninov: la quale sarebbe probabilmente tutta diversa, se non fosse accaduto che la Prima (assai più innovativa, devo dire) venisse pesantemente contestata al suo esordio (César Cui arrivò a sentenziare che avrebbe potuto trovare gradimento soltanto all’inferno…) riducendo il Rach in uno stato di tale prostrazione da fargli rischiare la salute. E che c’entra con tutto ciò Glazunov? C’entra perché fu lui, salito sul podio verosimilmente inzuppato di vodka, a far fallire miseramente quella prova del giovane e promettente Sergei!

Il quale, ricominciando a vivere e comporre dopo anni di robuste cure di natura psicanalitica, decise verosimilmente di percorrere – sul piano artistico – strade più sicure e meno perigliose di quella imboccata in precedenza. Così la Seconda resta abbondantemente anacronistica, rispetto agli sviluppi coevi (si pensi a Mahler…) Personalmente su di essa mi sono espresso piuttosto negativamente – per usare una formula farmacologica: mi pare contenga 5 minuti di principio attivo e 45 di eccipiente - in occasione di una performance di Pappano alla Scala; il quale Pappano (avrà ragione lui!) si dice invece innamorato di quest’opera (e lo si vede bene qui).
  
Quando ascolto musica di questo genere mi verrebbe voglia di non applaudire (pensando che mi veda l’autore); ma dato che chi mi vede sono i ragazzi, che devono comunque fare una fatica d’inferno (il direttore un po’ meno…) ecco che – loro, non l’autore – meritano un encomio solenne. Però una sinfonia come questa, fossi Jais, la programmerei una volta ogni 20 anni, ecco.

01 dicembre, 2015

È in arrivo la Giovanna


Facciamo un… prologo in terra per SantAmbrogio. Cominciando dalle constatazioni più angosciose, tipo: Mattarella non viene! Anche Renzi non viene? (avrà mica passato il suo ingresso a Verdini, hahaha!) Pisapia viene solo perché obbligato (ma sarà per l’ultima volta, non vede l’ora di defilarsi, così dal 2016 ci dovremo sorbire… chi: Salaexpo o un grillino? o lo zio di Salvini?) Grasso e Boldrini non-parvenues. Trussardi, senza patente, poveretto, proverà ad arrivare in monopattino, fendendo la solita barriera di no-global, ma anche di no-giovanna (pare siano più incarogniti dei no-global) che accerchierà il gran teatro. Valeria Marini si dichiarerà stupita e delusa per la mancanza del rogo, Vittorio Sgarbi sentenzierà che quel pirla di Chailly festeggia il primo SantAmbrogio nel suo sospirato posto al sole con l’opera più brutta di Verdi. Che invece verrà santificata, su RAI5, da Michele Dall’Ongaro (o chi per lui, visto che lui adesso ha un’altra santa cui pensare, una certa… Cecilia). Insomma, c’è di che passare notti insonni, o imprecare, come faranno gli sfigati che potranno assistere solo all’ultima delle 8 recite, il 2 gennaio, dove invece di sant’Anna si dovranno sorbire – allo stesso prezzo! - tale Grimaldi.        

Veniamo ora al sodo, per chi voglia fare un po’ di compiti a casa e non restare sorpreso come la Marini (!) Dato che la Giovanna si rappresenta mediamente con frequenza… secolare, mi sono permesso di compiere un’operazione banditesca, scannerizzando (mi scuso in anticipo della pessima qualità) per pubblicarlo piratescamente, il capitolo che riguarda l’opera nel primo volume del sommo Julian Budden (pronto a rimuoverlo immediatamente dalla rete se raggiunto da intimazioni dei detentori di qualsivoglia diritto). I verdiani (non verdini, occhio!) più convinti e fedeli l’avranno di sicuro già messo a portata di mano (magari sul comodino) ma forse c’è qualche sprovveduto, ops! sprovvisto (del tomo) che troverà il regalino utile per prepararsi all’avventura del 7/12.

Come esercitazione pratica, si può ricorrere a questa giovanile interpretazione, a Bologna, dello Chailly-di-belle-speranze

29 novembre, 2015

Gran finale dell’Idomeneo in laguna

 

Ieri pomeriggio si sono concluse alla Fenice le recite dell’opera che ha inaugurato la stagione 15-16: Idomeneo. Come al solito pregevolissimo, oltre che puntuale nella disponibilità online, il programma di sala.

Dirò subito che il finale sarebbe magari stato grandissimo se l’opera fosse stata data in forma di concerto! Sì, perché la messinscena ha proprio fatto piangere (o ridere, a seconda dei gusti).
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Si descrive di solito Idomeneo come persona di gran nobiltà d’animo, ma a me pare che nel libretto di Giambattista Varesco (mutuato a sua volta da altre opere, oltre che dalla mitologia) il nostro non ci faccia propriamente una gran figura. Sarà pure un sovrano amato dal suo popolo, sarà pure un valoroso combattente, addirittura una testa di cuoio salito a bordo del cavallone-trappolone in quel di Troia, dove era sbarcato con una flotta di ben 80 navi cretesi. E – riportano le cronache – anche un gran bell’uomo, con il fascino del classico quarantenne in carriera. Insomma, un personaggio giganteggiante nel panorama mitologico dell’antica Grecia.

Però questo colosso d’acciaio mostra di avere i piedi di… cartapesta. Dico, non appena un po’ di maretta sorprende la sua nave di ritorno da Troia e ormai in vista di Creta, il colosso si ca.. sotto e per cercare misericordia dal manovratore-di-marette (tale Poseidon o Nettuno che dir si voglia) cosa gli promette? Di fargli costruire un tempio in ogni città cretese? Di fare in suo onore un pellegrinaggio a piedi fino a Cnosso e Festo e ritorno? Di fargli dono di un tridente d’oro tempestato di perle e diamanti? No, lui fa molto di più, gli promette nientemeno che un sacrificio umano (allora andava di moda). E di chi si tratta? Di se stesso, al fine di salvare i compagni? Di un figlio (stile Agamennone)? Di una nipotina? Toh, della suocera? Di un parente anche lontano? No no, gli promette di immolargli… il primo malcapitato che passa sulla spiaggia! Apperò che coraggio, che spirito di sacrificio! Pare Renzi quando proclama di mettere la mano – di Guerini – sul fuoco!

Beh, che il malcapitato si sia rivelato proprio come il suo unico figlio Idamante, lui se lo è ampiamente meritato e pochi dubbi sussistono che fosse lo stesso protettore-degli-acquari (la didascalia della Pantomima recita: Nettuno riguardandolo con occhio torvo e minaccevole) a combinargli a bella posta quel simpatico incontro (lui stesso se ne capacita imprecando: spietatissimi dei, ma è lui che se l’è voluta!) E a poco serve che, una volta in salvo, si mostri quasi pentito – a frittata fatta! - della sua promessa. E cerchi poi con maldestri sotterfugi persino di disattenderla, attirandosi così le ulteriori ire di Nettuno (sotto forma del famelico mostro). Soltanto quando finalmente accetterà tutte le conseguenze del suo gesto inconsulto e (come Abramo con Isacco) si appresterà a vibrare il colpo mortale sul figlio, solo allora potrà trovare comprensione e perdono dal dio offeso, e comunque a condizione di farsi da parte e cedere il trono.

Per insaporire la trama con un minimo di amori e gelosie assortite, ecco che su Creta convergono da lontani e opposti lidi due donne, che si contenderanno l’amore del futuro sovrano Idamante. Una arriva dal continente, in particolare da Argo-Micene, dopo aver compiuto con il fratellino una simpatica vendetta… facendo secchi la madre e l’amante di costei: trattasi di tale Elettra, figlia di Agamennone. L’altra invece è una nobile prigioniera di guerra: la troiana Ilia, figlia di Priamo, che Idomeneo ha spedito a casa in anticipo su una delle sue 80 navi; guarda caso anche lei fa naufragio, ma Idamante la porta in salvo e così… nasce l’amore, che ovviamente è per Elettra come fumo negli occhi.

Completano il cast un confidente di Idomeneo, tale Arbace e il Gran Sacerdote di Nettuno, oltre ai cori del popolo cretese, di prigionieri troiani e di marinai al seguito di Elettra. In più si ode la Voce (o meglio il porta-voce) di Nettuno che reca il perdono e consente così il lieto fine (salvo che per Elettra, che toglie il disturbo proprio un attimo prima).  
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Beh, dobbiamo ammettere che il soggetto è deboluccio assai, ma ciò non impedì al Teofilo di costruirci sopra forse il suo più bel lascito per la musica di tutti i tempi.

E questa produzione della Fenice ce lo ha riproposto – sul piano musicale – in modo davvero convincente. A partire dalla splendida prestazione dell’Orchestra, che evidentemente ha risposto al meglio alle sollecitazioni di Jeffrey Tate, praticamente perfetto nel tradurre in suoni quell’autentico scrigno di tesori che è l’immensa partitura mozartiana. E da quella del Coro di Claudio Marino Moretti, che nell’opera ha un ruolo fondamentale, di protagonista attivo, oltre che di testimone (alla greca) degli avvenimenti.

Su un livello più che soddisfacente il cast delle voci, tutte egualmente meritevoli di apprezzamento: a partire dal protagonista, un autorevole Brenden Gunnell, che pur non essendo chiamato ad acuti stratosferici (non va, la sua parte, sopra il SOL) sa ben destreggiarsi con gli impegnativi vocalizzi in cui Mozart lo impegna, culminanti nella famosa Fuor dal mar. Più che discreta la prestazione di Anicio Zorzi Giustiniani, un Arbace cui Mozart affida due arie magari non ispiratissime, ma di discreta difficoltà virtuosistica, che il nostro sa rendere al meglio: voce sottile ma penetrante e intonazione sempre corretta. Completano degnamente la parte maschile della compagnia le figure del Gran Sacerdote (Krystian Adam) e della Voce di Michail Leibundgut, che mi è parso (potrei sbagliare) arrivasse in sala diffusa da amplificatori (in uno con i suoni dei tromboni che la accompagnano).

Sul fronte delle interpreti femminili, benissimo Monica Bacelli, che si districa agevolmente in una parte originariamente scritta per castrato e spesso interpretata da tenori. Bene la Elettra di Michaela Kaune (che magari sforza fin troppo il suo carattere spigoloso) e discreta anche se non trascinante la prova della Ilia di Ekaterina Sadovnikova.

Per tutti grandi applausi finali da parte di un pubblico assai numeroso (anche se non c’era l’esaurito).                 
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Ed ora le note dolenti, legate all’allestimento. Il sudafricano dal nome italico di Alessandro Talevi mette su uno spettacolo tanto velleitario quanto inconsistente e persino travisante lo spirito, oltre che la lettera, di libretto e musica. Ci troviamo riferimenti alla lotta di classe (magari non quella di Marx) fra i cretesi-bene (lascivi, dissoluti e depravati) e quelli che lavorano (i marinai, proletari); poi ai conflitti di cui soffre la nostra civiltà attuale (i migranti, che vengano dall’interno – Argo – o dalla periferia – Troia – trattati come sub-umani); infine ecco le pratiche oggi apostrofate come rottamazione, culminanti nell’ingloriosa e umiliante fine di cui viene gratificato il povero Idomeneo. In compenso, il rottamatore Idamante, ormai in età da… trono, mostra la sua preoccupazione per le sorti del padre stringendo al petto la barchetta-giocattolo avuta in regalo da bambino: ecco un bell’esempio di caratterizzazione dei personaggi! Insomma, un Konzept (come lo chiamano i crucchi) piuttosto deludente.

Le scene di Justin Arienti sono un misto di bambinesca ingenuità e di kitsch che sfiora il ridicolo. Due esempi: il mare fatto di grossolani rulli, e lo studio di Idomeneo, ingombro di statue di Nettuno, modellini di navi, volumi impolverati, fauci di squali, candelieri sullo scrittoio… Da far proprio pena.

Anche i costumi e le acconciature (Manuel Pedretti) sono in linea con tutto il resto: un put-pourri di… stili (!) davvero indecoroso: per dire, Arbace nel second’atto pare… Mefistofele, poi Elettra si prepara a partire con tanto di valigetta di metallo; insomma, trovate gratuite e ridicole. Ci sarebbero anche movimenti coreografici (Nikos Lagousakos) sui quali mi limito a sorvolare. Delle luci di Giuseppe Calabrò mi son rimaste impresse soltanto le due circostanze in cui la luce… si spegne, per far subito posto a scoppi e lampi (che alla prima avevano indotto la direzione del teatro ad emanare un preventivo avvertimento al pubblico, in senso tranquillizzante, stanti i precedenti al Bataclan…)    

Non parliamo delle scene di massa, fra le quali citerei solo quella dei festeggiamenti a fine primo atto, una pantagruelica tavolata gigante con enormi vassoi di spaghetti-allo-scoglio, aragoste, pesce spada e polipone lesso, il tutto annaffiato con abbondante prosecco (resinato?); e quella di fine del second’atto, dove compare un lombricone nero che avvolge nelle sue spire il popolo terrorizzato. Ma come dimenticare l’orripilante sfondo (a sipario chiuso, tutto avviene al proscenio) che accompagna le prime scene dell’atto terzo: tre fili per stendere biancheria, che attraversano in larghezza l’intero palcoscenico, ai quali sono appesi brandelli di indumenti lordi e macchiati di sangue, evidente risultato delle scorribande del lombricone. Mamma mia!
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Ripeto: data in forma di concerto, sarebbe stata un’edizione da incorniciare.  

28 novembre, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n°61


Questa settimana è Zhang Xian a dirigere i suoi ragazzi. Programma poliedrico ed interessante (che ha incontrato un discreto interesse nel pubblico, abbastanza folto) aperto dal solito Campogrande, che ormai vediamo più qui in Auditorium di quanto non ne ascoltiamo la voce suadente dalle antenne di Radio3!

Si comincia nientemeno che con il sommo Johann Sebastian e il suo Concerto per due violini (BWV1043) interpretato dalle due prime parti de laVERDI: la spalla Santaniello e la guida dei secondi, Lycia Viganò.

In mancanza dell’autografo, la partitura è stata faticosamente ricostruita impiegando materiale di fonti diverse: siamo attorno al 1720 e ci si sente il Bach certamente influenzato da Vivaldi! Qui una storica esecuzione (1958) di una coppia di autentici mostri del violino: Oistrak-Menhuin.

Ma Santaniello-Viganò non sono da meno e – dopo una falsa partenza dovuta ad un problema di… corda (del violino di lui) - ci offrono un’esecuzione di gran livello: dalle volate in imitazione del Vivace, alla lunga e languida melodia della siciliana centrale, per chiudere con il brillante Allegro. In più, ci fanno ascoltare una cadenza del primo movimento che non si trova in alcuna edizione conosciuta: poiché è stata predisposta da Gabriele Mugnai (la prima viola de laVERDI, che trova anche il tempo per comporre) come ci ha svelato Santaniello al momento del bis.      
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Un salto di mezzo secolo, e siamo a Josephus Haydn, del quale viene proposta la Sinfonia Concertante per quattro strumenti. Anche qui, come quasi 4 anni fa, salgono in mostra altre prime parti dell’Orchestra: il vice-spalla Dellingshausen, il violoncello di Tobia Scarpolini, il primo oboe di Emiliano Greci e il fagotto-principe (unico superstite della ricordata esecuzione) di Andrea Magnani.

Anche loro, dopo l’applauditissima performance, si esibiscono in un bis confezionato ad-hoc, una rivisitazione della Passacaglia di Halvorsen-Händel.
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Chiusura in… Grande (ma non troppo) con Schubert. La Xian vi si era già cimentata con buoni risultati quasi due anni orsono, ma devo dire che ieri non mi ha pienamente convinto: partitura fin troppo prosciugata (l’unico da-capo eseguito è stato il primo – inamovibile – dello scherzo) e piuttosto, come dire, tirata via e con qualche eccessiva libertà in fatto di agogiche (scarti di tempo) e dinamiche (fracassi sopra... i righi). Insomma, non c'erano le celebri lungaggini, e nemmeno erano celestiali. Forse l’attenzione riservata ai due brani che coinvolgevano le prime parti è andata a scapito della preparazione della sinfonia, fatto sta che anche in orchestra non sono mancati alcuni intoppi e persino i tromboni, di solito impeccabili, in un passaggio del finale mi son parsi (spero di sbagliarmi) assai calanti.

Insomma, una serata con molte luci e qualche ombra (capita…)
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Allego uno scritto su Schubert dell’indimenticabile Sergio Sablich, comparso su Musica&Dossier del lontano Dicembre 1987.

23 novembre, 2015

Blomstedt alla Scala

 

La stagione concertistica della Scala ha ospitato negli scorsi tre giorni il venerabile Herbert Blomstedt, che ha diretto un programma tanto classico quanto impegnativo: non una, ma ben due sinfonie incompiute.    


Dapprima l’Incompiuta per antonomasia (qui il venerabile con la Staatskapelle Dresden) che a seconda dei criteri di censimento delle opere schubertiane viene catalogata come settima oppure ottava. Blomstedt si tiene sul leggio la pocket-score Philharmonia, ma ben chiusa, quasi fosse una sacra reliquia da cui trarre ispirazione. La tocca solo a cose fatte quando, rispondendo agli scroscianti applausi, la prende con la sinistra e con la destra… l’applaude!

Che dire: una lettura magistrale, della quale non saprei cosa lodare di più… tranne forse l’esposizione del tema in SOL (poi in RE) dell’Allegro moderato, che il venerabile pareva proprio… succhiare fuori dai violoncelli che aveva di fronte a lui (orchestra in configurazione alto-tedesca, naturalmente): una cosa invero emozionante.   
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Ecco poi la Nona di Bruckner (qui sempre lui ai PROMS con la GustavMahlerJugend). Sulla possibile ispirazione della sinfonia, oltre che sui suoi contenuti… tecnici, ho scritto tempo fa le mie personali fisime, in occasione di una performance de laVERDI.

L’orchestra si rimpingua, in particolare nei fiati: tutti a-tre, esclusi i corni (9, di cui i 4 posti dietro prendono le tubette wagneriane nell’Adagio finale) e le tube (2 con un esecutore). Anche qui partitura (non identificabile perché ricoperta in pelle nera) sul leggio, rigorosamente chiusa.

Splendida la prestazione dell’orchestra, che evidentemente con guide… venerabili si ricorda del suo valore! Blomstedt ne cava dei pianissimo mirabili e – quando ce vo’ ce vo’ – delle sonorità al limite della barbarie (alludo al forsennato tema dello Scherzo). Dopo che gli ottoni, sui tre pizzicato degli archi, hanno esalato l’ultimo respiro, il venerabile tiene (e ottiene, miracolo!) almeno 15 secondi di religioso silenzio. Poi si scatena un autentico diluvio di applausi.

Serata di quelle che ti fanno dire, nonostante tutto: la vita è bella!
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Allego con l’occasione uno studio su Bruckner di Sergio Martinotti apparso su Musica&Dossier del Novembre 1990.

Purcell a Torino

 

Ieri pomeriggio il Regio torinese ha ospitato la seconda recita (delle 5) di Dido and Aeneas di Henry Purcell.

Il cognome Purcell deriva – ma che strano! – proprio da porcello: colpa dei francesi che fin dal 1066 (Hastings) avevano imbastardito linguisticamente (oltre che biologicamente, ça va sans dire) i puri albionici. Lo stemma della famiglia recava precisamente tre teste di porco (da lì forse si ispirò Disney per i tre porcellini, chissà…)

Il libretto di tale Nahum Tate è ovviamente ispirato all’Eneide, rispetto alla quale presenta però una serie di scostamenti, il più marchiano dei quali è il personaggio di Enea, che qui ci viene presentato come un povero vanaglorioso, senza spina dorsale e in balìa di ogni circostanza (Purcell non gli dedica manco un’aria, che dico… un arioso, solo recitativi!) Per dire, quando alla fine si presenta a Didone per notificarle l’abbandono, al solo vederla ci ripensa, manda a quel paese Giove e l’incarico da lui ricevuto e implorante le promette di stare accanto a lei. Ma a questo punto – e anche qui Virgilio viene smentito alla grande - è lei che lo caccia senza misericordia, quasi a viva forza, offesa dal solo fatto che lui abbia potuto pensare di lasciarla.

E il motivo stesso dell’abbandono è assai diverso da quello, nobile e soprannaturale (in Virgilio) della chiamata divina a compiere un’impresa a dir poco storica (la rifondazione di Troia come… Roma). Qui è una volgarissima fattucchiera, che ha in odio tutte le coppie felici, ad organizzare, con i suoi accoliti, nubifragi e travestimenti (incluso un falso Mercurio che annuncia ad Enea il volere di Giove) per convincere il pusillanime troiano ad abbandonare l’amata, provocandone così il suicidio.

Qualcuno sostiene che queste libertà del librettista fossero legate a ragioni vagamente politiche: Enea potrebbe essere l’allegorica rappresentazione del meschino sovrano Charles II (targato Stuart) o magari di suo fratello nonchè successore James II, succubi di sbifidi consiglieri cattolici (correligionari del loro cugino Luigi XIV di Francia) nemici della protestante Albione(=Didone) e rappresentati nel libretto dalla figura della fattucchiera. Tutto ciò sarebbe plausibile nell’ipotesi (tuttora non certificata) che l’opera sia stata concepita e composta dopo la cacciata del suddetto James II e lo sbarco del nipote-genero arancione, il protestante-anglicano William III, sposatosi con Mary, figlia del deposto.

In compenso c’è una frase, cantata dal coro proprio all’inizio dell’opera, che parrebbe invece inneggiare allo straniero (Enea=William?) arrivato in Albione dopo averne impalmato la principessa (Didone=Mary) per la felicità del popolo: Quando i sovrani si alleano, qual felicità per i loro stati. Ciò andrebbe d’accordo con la supposta discendenza da Enea dei reali albionici, ma farebbe a pugni poi con la non commendevole figura del troiano come dipinta dalla coppia Tate-Purcell…

Mah, insomma, tutti questi pretesi riferimenti politici lasciano un po’ il tempo che trovano: ciò che rimane è la musica sopraffina di Purcell, erede spirituale dei Monteverdi, ma anche degli Charpentier e dei Lully.

Purtroppo del testo e della musica di Dido&Aeneas ci sono rimaste soltanto frammentarie reliquie, nella forma di un libretto di dubbia datazione (circa 1688-89) e di una partitura assai discordante da tale libretto (per difetto: tanto per dire vi manca l’intero Prologo, che chiama in causa Febo, Flora, ninfe e pastori per celebrare Venere e i piaceri della seduzione…) copiata da un anonimo attorno al 1750, quindi più di 60 anni dopo la presunta data delle prime rappresentazioni.

Per avere un‘idea delle dimensioni dell’opera, basterà dire che l’esecuzione (tempi medi) della sola partitura del 1750 occupa assai meno di un’ora (sono tre atti di circa 18 minuti ciascuno, come si può ad esempio constatare in questa edizione). Ragion per cui in occasione di rappresentazioni singole (cioè dove l’opera non è abbinata ad altre) come questa del Regio, si tende a rimpinguare il contenuto della partitura del 1750 con altra musica di Purcell o anche di altri autori o dello stesso concertatore, ma dello stesso stile-periodo. Così ha fatto anche il bravissimo Federico Maria Sardelli (una vera autorità in campo barocco) protagonista di questa produzione torinese, che occupa all’incirca 80 minuti, incluso un breve intervallo per cambio-scena fra le due parti del second’atto.

L’orchestra ha un organico ridotto agli archi più flauti a becco e percussioni (per le scene di tempesta) e basso continuo (cembalo, tiorba, chitarra, viola da gamba e arpa). Il pavimento della buca è opportunamente rialzato di circa un metro per ovvie ragioni di diffusione del suono negli ampi spazi del Regio. Il coro di Claudio Fenoglio (6+6+6+6) che ha funzioni di commento all’azione, proprio da coro greco, è pure dislocato sul fondo della buca, dietro gli strumenti.  

La messinscena (regìa, scene, costumi e coreografie) è curata da Cécile Roussat e Julien Lubek (con le luci di Marc Gingold) e proviene originariamente da Rouen. È proprio teatro totale, che integra le classiche parti testuali e musicali con interventi di danzatori, mimi e acrobati. Efficaci alcune scelte sull’interpretazione, evidentemente concordate con il concertatore, che prevedono di assegnare la parte della fattucchiera (qui una… piovra!) non ad un mezzosoprano ma ad un tenore e di appaiarla a quella del marinaio che all’inizio del second’atto sprona i troiani alla partenza, vanamente dissimulando i suoi tentacoli nella stiva della nave. Uno sdoppiamento ci mostra invece Cupido (un mimo che sottolinea con la sua presenza le scene principali) trasformato all’occorrenza nel controtenore impersonante il falso Mercurio che ordina ad Enea di salpare; lo vedremo poi alla fine allontanarsi in cielo… perdendo le sue piume!

Belle e semplici le scene, dominate dalla presenza del mare (fatto da onde di soffici velari) sul quale si erge una semplice struttura rocciosa (anch’essa sdoppiantesi o ricongiungentesi) dove si muovono i personaggi. C’è anche un piccolo effetto di magia barocca nel mostro (marino) che Enea infilza, facendone schizzare fumo e faville, per farne trofeo per Didone (second’atto, scena II). Ed è il mare (il velo stesso di Didone) che ingluvia (per dirla con DaPonte) la Regina dopo il suo sacrificio!

Belli ed appropriati i costumi, a colori vivaci che contrastano con l’azzurro degli sfondi. Efficaci le luci che ricreano le diverse atmosfere del dramma.

Insomma, uno spettacolo godibilissimo, illustrato da interpreti all’altezza, sia in buca (strumenti e coro, davvero tutti da encomiare) che sulla scena. Roberta Invernizzi impersona efficacemente la Didone fatalisticamente pessimista e languida che diventa però una furia (Away! Away!) al momento di scacciare Enea. L’altra Roberta (Mameli) è forse (per me) la migliore del cast, grazie anche alla parte che ne esalta la voce squillante e sempre ben intonata.

Benedict Nelson veste i panni del poco eroico eroe troiano: ha solo (si fa per dire) da declamare dei recitativi accompagnati e lo fa con sufficiente portamento. Bravo Carlo Vistoli ad impersonare il falso Mercurio che buggera Enea dando inizio al patatrac finale.

Assai efficace, vocalmente e come presenza scenica, Carlo Allemano, l’octopus nei doppi panni della sbifida fattucchiera che si trasforma poi in marinaio aizzante i troiani a riprendere il mare. Un encomio anche per le altre interpreti (Kate Fruchterman, Sofia Koberidze e Loriana Castellano) che completano egregiamente il cast.

Alla fine lunghi e meritati applausi per tutta la compagnia, da una sala piacevolmente gremita (non proprio come per l’Aida, ma quasi!) il che testimonia dell’interesse dei torinesi (e amici) per le diverse facce della proposta artistica del loro Teatro. Fuori poi, c’è da risollevarsi il morale (pensando al deserto in cui è trasformata Bruxelles negli stessi momenti) di fronte all’affollamento incredibile del centro cittadino, complici la fredda ma bellissima giornata e il… cioccolato che scorre a fiumi e ti risolleva anche il fisico!  

22 novembre, 2015

Dopo mezzo secolo a Bologna una “solita” Elektra

 

Ieri pomeriggio la sala del Bibiena (con parecchie poltrone vuote…) ha ospitato la penultima recita di Elektra, un allestimento originale ispano-belga firmato da Guy Joosten, già passato – con altri cast - da Barcelona (2009) e Bruxelles (2010). Ecco (finchè ci resta…) una registrazione di assai mediocre qualità della rappresentazione del 17 con il cast (le due sorelle) alternativo.


Domanda: ma perché definirla solita? Semplice, perché chi ha avuto la responsabilità della parte musicale si è solitamente (e pure stolidamente, aggiungo io) attenuto alla poco onorevole tradizione che contempla di inferire alla partitura alcuni barbari tagli. E che ciò sia divenuto ormai uno standard universale è soltanto segno di incultura, perché qui non si tratta di saltare la ripetizione di una strofa in una cabaletta di Rossini o – nel sinfonico – di ignorare i due punti posti al termine di un’esposizione. No no, qui i tagli (che ho già in precedenza elencato, analizzato e stigmatizzato) costituiscono vere e proprie ferite al corpus dell’opera, ai suoi contenuti musicali e soprattutto alla caratterizzazione dei personaggi (in particolare della protagonista, ma non solo) che a fronte di questi tagli perdono buona parte delle peculiarità di cui proprio Hofmannsthal e Strauss li avevano arricchiti, rispetto al testo ispiratore di Sofocle.

Lo scarso rispetto per l’opera e per il pubblico è certificato dal fatto che il programma di sala (che contiene peraltro due pregevoli saggi di Franco Serpa e Guido Paduano) riporta il libretto in versione integrale senza però avvertire in alcun modo dei 6 tagli praticati nell’esecuzione. (Per fare un esempio, nel programma della Scala per l’edizione dello scorso anno erano chiaramente indicati i 5 tagli operati in quella produzione.)  

Le interpreti di Elektra - e i loro premurosi direttori - regolarmente adducono a giustificazione di quei tagli la pretesa sovrumanità degli sforzi che sarebbero richiesti per cantare l’opera nella sua interezza (per cui non si peritano nemmeno di studiarli, i passi incriminati, condizionando così già a-priori l’esecuzione). Al che non posso non ricordare quanto disse e fece il solido e coraggioso Gustav Kuhn che, anni fa - con un cast tutt’altro che da star-system e con la sua Haydn – portò con gran successo l’integrale in giro per il norditalia! 
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Lothar Zagrosek è un vecchio marpione che probabilmente applica il comodo adagio il meglio è nemico del bene, e così la sfanga (per me) con una risicata sufficienza. Lui sembra dar credito a quanto si dice di Strauss che durante una prova dell’opera avrebbe gridato agli ottoni di suonare ancor più forte, poiché continuava a sentire la voce di Elektra (!) Così chiede all’orchestra di darci dentro a più non posso e spesso e volentieri copre alla grande le voci.

Viene il sospetto che lo faccia di proposito, per coprirne anche le manchevolezze. E a proposito di voci e di tagli: Elena Nebera, la protagonista, è la dimostrazione lampante che non basta accorciare la parte per uscirne indenne! Anche tagliando altri 10 minuti di musica, il risultato sarebbe stato comunque deludente, poiché il difetto – ahilei – sta proprio nel… manico: ottava bassa inudibile, zona centrale dal timbro sgradevolmente vetroso, acuti spesso urlati (Elektra sarà pure nevrastenica, ma dovrebbe pur sempre cantare).

Anna Gabler è la sorellina per bene, ma è solo di pochissimo meno peggio di Elektra: anche lei soffre di afonia in basso e quando sale agli acuti la voce perde di rotondità.   

Natascha Petrinsky veste i panni della madre assassina-adultera e – pur senza toccare vette eccelse - per lo meno sa cantare con proprietà e discreto portamento.    

I due maschi hanno parti decisamente secondarie e se la cavano allabellemeglio, meglio comunque il vendicatore Thomas Hall (voce profonda e ben impostata) dell’usurpatore-assassino, impersonato da un vociferante Jan Vacik.

Tutti gli altri interpreti fanno il loro dovere come da contratto sindacale, a partire dalle cinque ancelle che devono aprire l’opera con i loro cicalecci. Il coro di Andrea Faidutti si fa udire nel finale schiamazzando come da partitura per portare Orest in trionfo.

Insomma, una prestazione musicale che fatica (sempre secondo me) a guadagnarsi la sufficienza. Non così per il pubblico, che applaude indistintamente tutti (non saprei dire se un paio di ululati verso la Nebera fossero di disapprovazione).
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Il regista Joosten non manca di impiegare triti e ritriti stereotipi del Regietheater, cominciando dalla trasposizione dell’azione negli anni di Hitler, con le ancelle trasformate in secondine armate di mitraglietta e Aegisth travestito da dittatore ubriacone.

Alcune invenzioni di Joosten sono del tutto perdonabili, come il far ricomparire due volte – ovviamente senza aprir bocca! - la quinta ancella (l’ammiratrice di Elektra): dapprima durante lo scontro fra Elektra e la madre e poi a felicitarsi con lei dopo il compimento della vendetta. O come nel mostrarci Orest che arriva (visto solo dal… pubblico) proprio durante la scena madre fra le due donne. O ancora la smaccata ostensione dell’ascia, che mai e poi mai si dovrebbe vedere, secondo il libretto.

Ma l’invenzione più strampalata riguarda la scena che fa seguito all’agnizione Elektra-Orest. Manco a farlo apposta, proprio laddove viene praticato il taglio dei versi sui quali Elektra ricorda il suo equivoco rapporto con il padre, ecco che il regista ce la mostra in rapporto equivoco (stile Maddalena-Cristo) con il fratellino!

Tuttavia l’impostazione generale di Joosten (grazie anche alle scene e ai costumi di Patrick Kinmonth e alle luci di Manfred Voss) non fa eccessivi danni, anzi direi che la guida degli interpreti sul piano attoriale sia senz’altro da apprezzare. Con qualche riserva sugli eccessi riservati all’usurpatore, trasformato in macchietta da avanspettacolo, mentre assai centrata (perché equilibrata) mi è parsa la resa della figura (spesso eccessivamente bistrattata o indebitamente nobilitata) di Klytämnestra.

Alla fine, che dire: ascoltare quest’opera ti dà sempre una grande emozione (grazie a Strauss) a dispetto delle mutilazioni di cui è vittima e delle mende degli interpreti.

20 novembre, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n°60


Riecco Jader Bignamini in Auditorium per dirigervi un programma assolutamente classico, Campogrande a parte (…ma ormai sta diventando un classico pure lui!) Sala quasi stracolma, evidentemente questa offerta super-tradizionale paga…  

Un programma tutto in… RE maggiore, aperto dal 29enne fiammingo - con nome russo - Yossif Ivanov, che fa ritorno qui dopo un lustro esatto per proporci un monumento del repertorio classico: il Concerto Op.61 di Beethoven. Il lunghissimo Allegro ma non troppo iniziale è affrontato d Ivanov con una certa qual spigolosità, poi la sua invidiabile tecnica e il bellissimo suono del suo Stradivari vengon fuori alla grande nella cadenza (la celebre di Kreisler). Convincente la resa del centrale, sognante Larghetto, dove il solista dialoga a più riprese con le eccellenti prime parti dei fiati (clarinetto, corno e fagotto) e spigliato e brillante il Rondò finale, il cui ritornello viene dal solista esposto a distanza di ben due ottave.

Bignamini tiene benissimo a bada un’orchestra in organico di archi… mahleriano, lasciandola sfogare solo nei tutti del finale. Successo pieno e bis con l’ennesimo Dies Irae, chissà se indirizzato agli autori dei massacri parigini, la mente dei quali veniva proprio dalla patria di Ivanov…      
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Chiude la serata una sinfonia pastorale, ma non quella per eccellenza (Beethoven) bensì la Seconda di Brahms, del quale sono invece state cassate (rispetto al programma originario) le Variazioni su un tema di Haydn.

Qui Bignamini non risparmia più nulla (nemmeno l’iniziale ripetizione dell’esposizione) e mette in risalto tutti i chiaroscuri (dinamici ed agocici) della partitura: delizioso in particolare l’Allegretto, con i suoi improvvisi scarti di tempo, e strepitoso davvero il conclusivo Allegro con spirito, chiuso da una (fin troppo!) forsennata coda, con gli archi prima chiamati a due autentici salti mortali (seguiti dalle due pause di minima) e poi con gli ottoni e gli altri fiati a sparare l’abbacinante raffica di crome che sigilla la sinfonia. Trionfo assicurato.