ipocrisia pesciarolaia

vado a votare, ma non voto

20 marzo, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 26


Si continua con la serie degli ultimi concerti mozartiani, e questa è la volta proprio dell’ultimo. Ma il programma di questa settimana prevede anche altro Mozart, poi uno Schubert e un Debussy… manipolati. Per dirigere il concerto (ma vedremo che ci mette lo zampino anche come compositore) torna sul podio de laVERDI una vecchia conoscenza degli anni di Chailly: Roberto Polastri.

La serata è aperta ancora nel segno di Mozart, con le Tre danze tedesche K605, quindi di poco posteriori al concerto pianistico che seguirà. Sono tre brevi brani (poco più di 2 minuti di media ciascuno) rispettivamente in RE, SOL e DO maggiore, tutti in tempo 3/4 senza indicazioni agogiche, ma ovviamente di piglio vivace. La terza presenta un trio sottotitolato gita in slitta, con due corni da postiglione e tre coppie di sonagli, dal sapore quindi prettamente natalizio.

Un buon antipasto per quel che deve seguire!
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Un giovane pianista delle Canarie, il 37enne Iván Martín Mateu, si siede alla tastiera per proporci il K595. Su questo ultimo concerto pianistico del Teofilo - e in particolare sulle auto-citazioni ivi contenute - avevo scritto qualche nota mesi fa, in occasione di un’esibizione di Barenboim alla Scala. Proviamo a seguirne lo sviluppo con l’aiuto di… Wilhelm Kempff.
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Come (quasi) sempre accadde nei concerti della maturità, è l’orchestra ad esporre i temi dell’iniziale Allegro (4/4) in forma-sonata. Temi che sono di problematica etichettatura, essendo assai più dei due canonici, per cui impiegherò alla bisogna qualche sigla più o meno appropriata e del tutto personale.


I violini espongono il primo tema (T1) che si innalza sulla triade di SIb maggiore per poi ricadere sulla tonica, apostrofato dai fiati (11”) con un inciso che viene dalla Haffner e prima ancora dal Ratto. Ancora i violini espongono un controsoggetto, sempre rimbeccati dai fiati; quindi ancora un altro motivo che ci riporta sulla tonica, dove i violini supportati dai fiati chiudono il gruppo tematico (28”) con un motivo (M1) che viene dal finale della Jupiter.
34” Ora si apre una transizione, caratterizzata da un delicato motivo (M2, in effetti quasi un nuovo tema) negli archi col dialogo dei fiati, che ci porta verso la presentazione (59”) del secondo tema (T2) sempre in SIb maggiore ma subito reiterato virando a minore. Veloci quartine di semicrome degli archi (1’20”) rimbeccati dai fiati (reminiscenza del finale della Sinfonia in SOL minore, e che apriranno poi la cadenza) conducono ad una nuova sezione transitoria. Qui (da 1’36” a 1’51”) udiamo sette battute che mancano nel manoscritto originale, ma che furono aggiunte nell’edizione critica essendo presenti nel prosieguo del movimento. A 2’08” ecco una nuova idea melodica (M3) di carattere dolcemente cadenzante che serve ad avviare la chiusura dell’esposizione orchestrale, sul SIb.
2’46” Entra qui il solista, che espone il primo tema (T1) nella tonalità di impianto, subito introducendovi abbellimenti e varianti, prima che (3’10”) i violini ripetano il motivo (M1) della Jupiter, che il solista (3’16”) riprende e sviluppa con virtuosismi di semicrome. Dopo un tutti orchestrale torna il solista (3’38”) esponendo un nuovo motivo (M4) sulla dominante, ma in minore (!)
4’06” Ancora due battute dell’orchestra e poi (4’10”) il solista attacca la transizione che lo porta (4’25”) ad esporre il motivo (M2) udito nei violini - nella transizione durante l’esposizione orchestrale - ma qui nella dominante FA maggiore. A 4’51” i violini ripropongono, in FA, il secondo tema (T2) di cui si fa carico (4’59”) il pianoforte, che lo sviluppa fino a 5’32”, dove i fiati ne interrompono temporaneamente la trama, che il solista riprende per sole 5 battute, prima del tutti orchestrale (5’54”) che apre la rincorsa verso il termine dell’esposizione.

6’27” Ecco qui iniziare lo sviluppo, con un vero e proprio colpo di scena: il primo tema (T1) è esposto dal solista in SI minore! E poco dopo (6’40”) rispondendo agli archi che erano minacciosamente saliti al DO, eccolo riproposto in DO maggiore! E quindi, con ulteriore balzo, in MIb maggiore dai fiati. Non è che l’inizio di un vero e proprio vagabondare attraverso continue modulazioni: il soggetto è principalmente il primo tema (T1) che viene alla fine riproposto dall’oboe (7’55”) in RE maggiore, poi minore, prima della modulazione che ci riporta a casa, sul SIb maggiore per la ricapitolazione

La quale ha inizio a 8’10” e ripercorre inizialmente l’esposizione, fino al motivo (M1) della Jupiter. Qui (8’39”) entra il pianoforte che ripropone la sua visione di quel motivo, sviluppandolo con volate di semicrome.
A 9’04” ecco ritornare il motivo M4 (quello in tonalità minore) ma stavolta in SIb (come dire: care regole, io mi faccio beffe di voi fingendo di applicarvi!) A 9’31” l’orchestra, subito seguita dal solista, ripropone una transizione che porta (9’50”) alla riproposizione sulla tastiera di una variante del motivo M2 (udito nell’esposizione).
A 10’15” ecco - in SIb (siamo ligi ai sacri canoni!) – il secondo tema (T2) riproposto dall’orchestra e subito ripreso dal solista. A 10’54” abbiamo la fermata dei fiati, cui segue la ripresa del solista che porta a 11’32” alla riproposizione del motivo M3. Da qui il passo è breve per giungere alla sospensione che prelude alla cadenza solistica (12’00”) lasciataci da Mozart (è un’eccezione alla regola). A 13’31” ecco la rapida conclusione del movimento.

Il centrale Larghetto (4/4 alla breve) è nella sottodominante MIb maggiore, suddiviso in tre sezioni (A-B-A).

Viene aperto (anche qui è una consuetudine) dal pianoforte solo che espone (14’02”) il tema principale (T1) mutuato dal finale della Sinfonia K425, detta di Linz (ma forse è una reminiscenza di Haydn). Tema di 4 battute ripetute, poi ripreso (14’27”) dai legni.
A 14’54” è ancora il pianoforte ad esporre un nuovo tema della sezione A (T2) in SIb maggiore, che è parente del tema principale; è subito seguito (15’18”) dal ritorno a MIb con una nuova esposizione di T1. Una lunga transizione orchestrale (15’45”) nella quale si distinguono diversi motivi (in particolare M1 e poi M2 che chiude la sezione).

A 16’39” si apre la sezione B del movimento, ancora in MIb, con il tema T3 che prefigura vagamente quello che caratterizzerà il movimento centrale del futuro Concerto per clarinetto, tema che chiude sulla dominante SIb e viene subito riproposto. A 17’13” ha inizio uno sviluppo del tema che porta a diverse modulazioni, da SIb maggiore a minore (M3) da qui alla relativa SOLb maggiore (M4). A 17’54” si torna alla relativa MIb minore e la sezione si conclude poi con una salita cromatica in tremolo del pianoforte, dal SIb fino a raggiungere la tonica MIb.

A 18’36” inizia la ripresa della sezione A, con il solista che espone di seguito il tema T1 e (19’02”) il T2. Dopo una brevissima transizione, a 19’46” il tema T1 viene riproposto dal pianoforte in unisono con il flauto e i violini, poi (20’11”) torna la transizione lunga già udita nella prima sezione A, seguita (20’52”) da una cadenza del solista, poi raggiunto da fiati e violini, per portare a compimento il Larghetto.

Il finale in SIb maggiore, Allegro in 6/8 è in forma di Rondo (ma con aspetti di forma-sonata) con una struttura piuttosto complessa, schematizzabile come A-B-A-C-A-(A’)-A-B-A-C-A.

Lo apre il solista a 21’33”, esponendo il tema T1, che Mozart impiegò in un Lied sulla primavera, composto quasi contemporaneamente al concerto. A 21’44” lo riprende l’intera orchestra. Il pianoforte (21’55”) espone un secondo soggetto (M1) e poi torna (22’14”) al tema T1. Un terzo soggetto della sezione A (M2) è invece esposto dall’orchestra a 22’25”. Da 22’38” abbiamo una robusta coda orchestrale che chiude la sezione A.

A 22’58” ecco la sezione B del Rondo che presenta un nuovo tema (T2, il cui incipit è stretto parente di quello del T1 del Larghetto) sempre in SIb ed ancora esposto dal pianoforte, subito supportato dagli archi. A 23’17” torna la sezione A in forma assai variata che vira alla dominante FA maggiore, culminante poi (23’42”) in un tutti orchestrale cui il solista risponde preparando la successiva sezione C, appunto nella dominante FA maggiore.

Sezione che inizia a 23’56” con l’esposizione del tema T3 da parte del solista, ripresa (24’06”) con l’aggregazione di oboi e fagotti, quindi del flauto. A 24’27” la sezione si arricchisce di una prima cadenza solistica, che sfuma nella ripresa in SIb (24’57”) della sezione A, sempre nel pianoforte, cui risponde (25’07”) l’intera orchestra.

A 25’19” ecco una sorpresa: il solista espone il secondo frammento del tema T1 in tonalità di SIb minore, sulla quale tonalità si libra in una serie di virtuosismi finchè a 25’40” è raggiunto dall’orchestra che espone in FA minore il tema T1, conducendo ad una enfatica fermata (26’03”) sul LAb, sottodominante del MIb (dominante del SIb di impianto) sul quale viene ripresa (26’10”) dal solista la sezione A, assai variata dopo l’esposizione del tema.    

A 26’40” riecco la sezione B del rondò con il tema T2, stavolta esposto sulla tonica SIb (canoni della forma-sonata). A 26’58” torna la sezione A variata. Ripresa dalla piena orchestra (27’23”) e poi dal solista che chiudono la sezione.

A 27’37” torna nel solista la sezione C del Rondo, qui in SIb maggiore (come da forma-sonata) ripresa dall’orchestra a 27’48” e poi conclusa con una nuova fermata (28’12”) che prelude all’arrivo dell’ultima cadenza solistica. Cadenza (28’14”) che in effetti è basata sul tema T1 e quindi è come se preludesse alla riproposizione della sezione A del Rondo, che in effetti il solista esegue a 29’40”, sul tema T1, subito seguito a 29’50” da M1 e ancora da T1 (30’09”) e poi (30’20”) da M2 in orchestra. A 30’34” riecco la transizione che porta adesso verso la chiusura. Un’ultima comparsa di T1 (31’08”) la prepara nel pianoforte, lasciando poi alla sola orchestra (31’18”) la finale cadenza.
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Martín mette in mostra grandi qualità: proprio perché (relativamente) facile, questo concerto si presta ad essere affrontato con… faciloneria. E invece il ragazzo spagnolo ce lo ha proposto con una grazia e una cura davvero sorprendenti, sfoggiando anche suoi personali abbellimenti e mini-cadenze davvero di alta sensibilità.

Insomma, una bellissima prestazione, accolta con entusiasmo e seguita da un’invenzione di Bach.
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La seconda parte della serata si apre con Schubert rielaborato da Bruno Maderna. È in pratica una suite in 5 movimenti, che comprendono Polka, Galopp, Marce e Walzer. Una cosa piacevole e gradevole, un po’ da Concerto di capodanno, ecco. 

Si chiude invece con qualcosa di assai impegnativo: una Suite dal Pelléas et Melisande di Debussy, a suo tempo predisposta da Erich Leinsdorf, ripresa da Claudio Abbado e finalmente rimessa a punto da Polastri. Pare che Debussy sia sempre stato contrario a ricavare dalla sua (unica) opera delle suite o dei bigini, e bisogna dire che forse non aveva tutti i torti poiché, estrapolati dal loro contesto originario, questi brani lasciano un po’ a desiderare, non avendo il respiro sinfonico di lavori come L’Après o La Mèr, tanto per dire. Quindi un successo di stima, come si suol dire, in un Auditorium anche ieri non propriamente sovraffollato.

18 marzo, 2015

La Fenice ospita Alceste


Venerdi 20 marzo (diretta su Radio3 alle ore 19) va in scena alla Fenice la prima di Alceste di Christoph Willibald Gluck, su testo di Ranieri de’ Calzabigi. Si tratta della versione originale in italiano, presentata per la prima volta al Burgtheater di Vienna sabato 26 dicembre 1767. (Nove anni dopo nascerà a Parigi la versione in lingua francese, che si discosta non proprio marginalmente da quella viennese.) Martedi 24, sempre alle 19, l’opera verrà anche irradiata in streaming-video qui, dove la registrazione rimarrà disponibile per un anno.
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Alceste viene unanimemente considerata come l’opera che consolida i princìpi innovatori del teatro musicale maturati a metà di quel secolo ed esposti in un saggio di Francesco Algarotti, e fatti propri da Calzabigi. Il quale aveva trovato in Gluck un altro sostenitore e soprattutto l’ideale traduttore in musica di tali princìpi, subito messi in pratica dai due con l’Orfeo (1762).

Le ragioni profonde dell’urgenza innovatrice di Algarotti e poi di Calzabigi&Gluck sono da ricondurre alla progressiva degenerazione che l’opera musicale aveva subito a partire dalla prima metà del ‘600, in particolare a Venezia, con la nascita e l’esponenziale diffusione del teatro pubblico e popolare. In sostanza, l’organica coerenza del recitar-cantando di bardiana memoria (fine ‘500) era stata rotta dal combinato disposto di due fenomeni dilaganti: le esigenze di un pubblico di estrazione borghese che mal sopportava l’eccessiva profondità e l’austera classicità greca dei soggetti del teatro aristocratico delle corti e prediligeva il piacere del canto puro; e gli interessi dei musicisti, e soprattutto dei cantanti, che ovviamente ben si sposavano con le aspettative del nuovo, vasto pubblico. Ecco quindi maturare un netto sdoppiamento all’interno della struttura fino allora unitaria delle opere musicali: da una parte i recitativi secchi (poco più che parlati, come dice il termine) che in qualche modo tenevano i fili della narrazione, e dall’altra le arie musicali, sovraccariche di virtuosismi e gorgheggi del tutto fine a se stessi (e alla fama del cantante) e spesso musicalmente avulse dal contesto del dramma, di cui anzi finivano per spezzare la continuità.

Tutta la produzione di teatro musicale italiano serio (ma anche buffo) di fine ’600 e ‘700 (che aveva spopolato anche nel mondo tedesco, a partire proprio dalle Corti, Vienna in-primis, dove Metastasio ne aveva meticolosamente codificato la struttura bifronte, recitativo-aria) aveva poggiato su queste basi, che rimasero in verità saldamente in piedi, nonostante Gluck e Calzabigi, fino ai primi decenni dell’800 e all’irruzione del romanticismo, caratterizzando in qualche misura anche opere di Mozart e Rossini, per dire. Diversamente erano andate le cose a Parigi, dove la presenza della Corte più grande e ricca del pianeta aveva contribuito a mantenere alto l'ideale bardiano, grazie anche all’opera di musicisti italiani, primo fra tutti Lulli(-Lully, che pure compose un Alceste nel 1674) a cui non a caso si ispirò lo stesso Gluck: il genere della tragédie lyrique ne fu la più corposa manifestazione, che sicuramente ebbe un peso nel formarsi a Vienna di quella corrente innovatrice che trovò (temporaneamente) in Gluck, Calzabigi e Giacomo Durazzo (direttore artistico dei teatri di corte) i suoi paladini. Ma per vedere gli ideali della camerata fiorentina cinquecentesca tornare pienamente in auge si dovrà attendere nientemeno che il Wagner post-Lohengrin!

I fondamenti della nuova concezione del teatro musicale furono espressi in modo assai dettagliato in una prefazione all’edizione dell’Alceste - indirizzata al futuro Imperatore Leopoldo II - cui appose la firma il compositore, ma che fu presumibilmente ispirata, se non proprio vergata, dal librettista: 

ALTEZZA REALE!

Quando presi a far la musica dell’Alceste mi proposi di spogliarla affatto di tutti quegli abusi che, introdotti o dalla mal intesa vanità dei Cantanti, o dalla troppa compiacenza de’ Maestri, da tanto tempo sfigurano l’Opera italiana, e del più pomposo e più bello di tutti gli spettacoli, ne fanno il più ridicolo e il più noioso.

Pensai restringere la musica al suo vero ufficio di servire la poesia, per l’espressione e per le situazioni della favola, senza interromper l’azione o raffreddarla con degli inutili superflui ornamenti, e crederei ch’ella far dovesse quel che sopra un ben corretto e ben disposto disegno la vivacità de’ colori e il contrasto bene assortito de’ lumi e delle ombre, che servono ad animare le figure senza alterarne i contorni.

Non ho voluto dunque né arrestare un attore nel maggior caldo del dialogo per aspettare un noioso ritornello, né fermarlo a mezza parola sopra una vocal favorevole, o a far pompa in un lungo passaggio dell’agilità di sua bella voce, o ad aspettare che l’Orchestra gli dia il tempo di raccorre il fiato per una cadenza. Non ho creduto di dover scorrere rapidamente la seconda parte di un’aria, quantunque fosse la più appassionata e importante per aver luogo di ripeter regolarmente quattro volte le parole della prima, e finir l’aria dove forse non finisce il senso, per dar comodo al cantante di far vedere che può variare in tante guise capricciosamente un passaggio; insomma ho cercato di sbandire tutti quegli abusi de’ quali da gran tempo esclamavano invano il buon senso, e la ragione.

Ho imaginato che la sinfonia debba prevenire gli spettatori dell’azione che ha da rappresentarsi, e formare, per dir così, l’argomento: che il concerto degli istrumenti abbia a regolarsi a proporzione degl’interessi e della passione, e non lasciare quel tagliente divario nel dialogo fra l’aria e il recitativo, che non tronchi a controsenso il periodo, né interrompa mal a proposito la forza e il caldo dell’azione.

Ho creduto poi che la mia maggior fatica dovesse ridursi a cercare una bella semplicità; ed ho evitato di far pompa di difficoltà in pregiudizio della chiarezza; non ho giudicato spregevole la scoperta di qualche novità, se non quando fosse naturalmente somministrata dalla situazione e dall’espressione; e non v’è regola d’ordine ch’io non abbia creduto doversi di buona voglia sacrificare in grazie dell’effetto.

Ecco i miei principj. Per buona sorte si prestava a meraviglia al mio disegno il libretto, in cui il celebre autore, immaginando un nuovo piano per il drammatico, aveva sostituito alle fiorite descrizioni, ai paragoni superflui e alle sentenziose e fredde moralità, il linguaggio del cuore, le passioni forti, le situazioni interessanti e uno spettacolo sempre variato. Il successo ha giustificato le mie massime, e l’universale approvazione in una città così illuminata ha fatto chiaramente vedere che la semplicità, la verità e la naturalezza sono i grandi principii del bello in tutte le produzioni dell’arte.

Con tutto questo, malgrado le replicate istanze di persone le più rispettabili per determinarmi di pubblicare con le stampe questa mia opera, ho sentito tutto il rischio che si corre a combattere dei pregiudizi così ampiamente, e così profondamente radicati, e mi son veduto in necessità di premunirmi del patrocinio potentissimo di vostra altezza reale implorando la grazia di prefiggere a questa mia opera il suo augusto nome, che con tanta ragione riunisce i suffragi dell’Europa illuminata. Il gran Protettore delle bell’Arti, che regna sopra una nazione, che ha la gloria di averle fatte risorgere dalla universale opressione, e di produrre in ognuna i più gran modelli, in una città ch’è stata sempre la prima a scuotere il giogo de’ pregiudizi volgari per farsi strada alla perfezione, può solo intraprendere la riforma di questo nobile spettacolo in cui tutte le arti belle hanno tanta parte. Quando questo succeda resterà a me la gloria d’aver mossa la prima pietra, e questa publica testimonianza della sua alta Protezione al favor della quale ho l’onore di dichiararmi con il più umile ossequio

    Di V.A.R.
Umil.mo Dev.mo Obblig.mo Servitore
CRISTOFORO GLUCK

Beh, la sintesi dei concetti espressi nella prefazione potrebbe ridursi al celebre motto: Prima le parole, poi la musica; ed è proprio perché è difficile immaginare che il musicista Gluck lo condividesse al 100% che viene il sospetto che l’autore di detta prefazione sia in realtà il paroliere Calzabigi, che sembra quasi citare alla lettera un passo del saggio di Algarotti:

Un altra principal ragione ancora del presente scadimento della Musica, è quel suo proprio, e particolar regno, ch'ella si è venuta formando. Il compositore si comporta quivi come despotico, vuol pure far da sé, e piacere unicamente in qualità di Musico. Per cosa del mondo non gli può entrare in capo, ch'egli ha da essere subordinato, e che il maggior effetto della Musica ne viene dallo esser ministra, e ausiliaria della Poesia. Proprio suo uffizio è il dispor l’animo a ricevere le impressioni dei versi, muovere così generalmente quegli affetti, che abbiano analogia colle idee particolari, che hanno da essere eccitate dal Poeta; dare in una parola al linguaggio delle Muse maggior vigore e maggiore energia.

E per nostra (dei musicomani) fortuna, i proclami di Algarotti e Calzabigi furono da Gluck applicati… da grande musicista! Per Alceste vale ciò che si può dire dei drammi di Wagner: per quanto il testo sia di elevata qualità, senza la musica che lo accompagna sarebbe finito nel dimenticatoio, anzi probabilmente non avrebbe mai avuto l’onore di esser recitato in un teatro.
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Conformemente alla massima di Orazio posta sul frontespizio del libretto e in chiara polemica con Metastasio, Denique sit quodvis simplex dumtaxat et unum (Sia come lo vuoi, purché sia semplice e unitario) il soggetto di Calzabigi è di una semplicità che sfiora la povertà: mancano del tutto i contrasti (amorosi, politici, bellici) che caratterizzavano (e caratterizzeranno) i libretti d’opera; tutto si concentra sulla tragica vicenda dei due sposi Alceste-Admeto e sullo scavo psicologico dei rispettivi sentimenti, in una cornice dove i cori hanno parte di primo piano (proprio come nelle tragedie greche) e dove assumono un ruolo importante anche le scene di danza o di balletto (balli pantomimi e balli ballati).

Quanto alla musica, Gluck sopprime (quasi) totalmente i recitativi secchi e rinnova radicalmente la struttura delle arie, rinunciando definitivamente alla classica forma del da-capo (al massimo fa ripetere, ma non meccanicamente, qualche verso) per privilegiare un’assoluta libertà espressiva (inconcepibile secondo i sacri canoni vigenti, che imponevano forme facilmente riconoscibili) che si materializza in frequenti mutamenti di tempo, ritmo e tonalità, volti a sottolineare ogni più piccola sfumatura dei sentimenti dei protagonisti. Inoltre, rompe la continuità dei cori con interventi solistici e/o con coreografie/balli che coinvolgono anche gli stessi coristi.

Calzabigi da parte sua pretende dagli interpreti gestualità e movenze naturali, per dare la più grande credibilità al dramma (anticipando concetti che le moderne regìe teatrali scopriranno 150 anni più tardi…) Insomma l’idea è quella di mettere tutte le risorse (umane e materiali) al servizio dello spettacolo, proprio come sognerà 80 anni più tardi Richard Wagner.
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A Venezia l’allestimento sarà curato da Pier Luigi Pizzi - un veterano di messinscene di Alceste, italiana e francese – che realizzò anche quella della Scala con Muti del 1987 (eseguita senza tagliare nemmeno una virgola di testo e solo un paio di brevissimi da-capo nei balletti). Il sito del Teatro informa di una durata (netta) di 2h15’, il che farebbe ipotizzare un buon 20-30 minuti di tagli (?!) Venerdi ascolteremo questa Tragedia per musica, in seguito… vedremo.

16 marzo, 2015

Il turco in… Piemonte

 

Ieri pomeriggio il Regio torinese ha ospitato la terza rappresentazione de Il turco in Italia, in una co-produzione italo-franco-polacca.

Prima di parlare della regìa di Christopher Alden propongo un paio di considerazioni. Innanzitutto siamo in presenza di un soggetto buffo (o tragi-comico) che per sua natura poco si presta a dissacrazioni o stravolgimenti iconoclasti (tipo l’Aida dello stesso regista ambientata in un collegio di religiose…) Anzi, rivisitazioni anche profonde, se fatte con un minimo di gusto, possono arrecarvi valore aggiunto, cosa che mi sento di sottoscrivere per questo allestimento.

Secondo, sarà bene ricordare quale fu la genesi del libretto di Felice Romani (cui senza dubbio mise le mani lo stesso compositore), cominciando col dire che esso fu scopiazzato da quello che Caterino Mazzolà aveva scritto per Il Turco in Italia di F.J.Seydelman rappresentato a Dresda nel 1788 e replicato nel 1789 a Vienna, dove assai verosimilmente fu visto dalla coppia Mozart-DaPonte. I quali altrettanto assai verosimilmente si ispirarono a quel testo, e in particolare alla figura del poeta Prosdocimo, per mettere in piedi la loro Così fan tutte, protagonista il filosofo DonAlfonso. Dopodichè, con modalità perfettamente reciproche, accadde che nel 1814 la coppia Rossini-Romani, che stazionava a Milano per il suo Turco, assai verosimilmente potè assistere ad una rappresentazione alla Scala - indovina indovinello? – proprio del mozartiano-dapontiano Così!

Insomma, fra i tre testi (i due Turchi e il Così) ci dev’essere stata più di un’influenza. Nel merito va riconosciuto che il libretto di DaPonte supera ampiamente per profondità quello – pure intelligente – di Romani. E lo fa proprio sul terreno del confronto fra le due personalità di DonAlfonso e di Prosdocimo. Il primo (che non per nulla è un filosofo…) si impone al centro della vicenda, determinandone ogni svolgimento, anche nei minimi dettagli: il suo assunto (di natura tipicamente scettica) viene alla fine dimostrato proprio a spese delle due coppie protagoniste, ma tutto sommato anche a loro vantaggio (ammesso che siano capaci in futuro di trarre partito dalla morale della favola). Viceversa il Prosdocimo di Romani è per gran parte dell’opera niente più che un agente passivo degli avvenimenti, nei quali cerca disperatamente di scovare un soggetto per un suo nuovo dramma teatrale. E soltanto dopo averlo trovato decide di pilotarne la conclusione reale secondo le proprie convinzioni etiche, che non sono affatto quelle del dapontiano Così! Essendo esse quanto di più reazionario si possa concepire, con la tremenda (davvero tragica) punizione di Fiorilla, costretta ad una resa senza condizioni alle ipocrite e antifemministe regole della società, che lei così spavaldamente e velleitariamente aveva preteso di infrangere. E – per quanto riguarda i turchi (Selim e Zaida) – comportando un atteggiamento del tipo: tornatevene a casa vostra e non venite qui a rubarci le mogli (Selim) e a fare i rom (Zaida). Proprio un Salvini ante-litteram!!!   

Quindi: una distanza davvero abissale rispetto al messaggio dapontiano-mozartiano.
 
Ecco, fatta questa necessaria premessa, possiamo adesso avvicinarci alla vision che Alden ha posto alla base del suo allestimento dell’opera. Il controverso regista americano fa ruotare l’intera vicenda attorno alla figura di Prosdocimo, trasformandolo appunto nel DonAlfonso di DaPonte-Mozart, motore unico e dominus dell’azione.

L’idea ha comportato qualche disallineamento rispetto al libretto, inevitabile quando si inverte letteralmente il nesso causa-effetto tra un fatto reale e il comportamento dell’osservatore. In sostanza, ci vengono presentati come effetti del copione scritto dal Poeta fatti e notizie che viceversa, nell’originale, sono cause che determinano i contenuti di tale copione. Faccio un esempio infimo, ma significativo: nel libretto di Romani Prosdocimo scopre, informato da Geronio, l’identità del turco che, appena sbarcato, ha già invaso la casa di Fiorilla e dello stesso Geronio; ecco, Alden ribalta la circostanza, mostrandoci Prosdocimo che informa di ciò Geronio, passandogli da leggere un foglio del suo copione.

Un altro riferimento (non certo originale) riscontrabile nella regìa di Alden riguarda Pirandello (i Sei personaggi in cerca d’autore): che si materializza quando alcuni interpreti dell’opera rifiutano il copione propostogli da Prosdocimo e se lo scrivono come pare e piace a loro.

In ogni caso si tratta, a mio parere, di scompensi del tutto sopportabili, un modesto prezzo da pagare ad una visione del soggetto dell’opera che ne valorizza la freschezza e ne facilita la godibilità, sfruttando poi l’efficacia e i colori di scene, luci e costumi, e soprattutto la bravura di tutti gli interpreti (coristi inclusi) nel muoversi per realizzare al meglio le idee del regista.
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Sul fronte musicale, va detto che l’opera è stata eseguita nella sua interezza (il che significa tre ore nette di spettacolo, equamente distribuite nei due atti) recitativi inclusi; anzi, di più, essendo state eseguite anche quelle parti (solitamente espunte) che vengono catalogate come varianti: nell’atto I l’aria di Narciso Un vago sembiante, seguita dal recitativo Di Fiorilla il carattere; e soprattutto l’aria dell’atto II (Se ho da dirla) che mette a dura prova le capacità scioglilinguistiche del Geronio di turno.

Daniele Rustioni, sempre col sorriso sulle labbra, mi è parso dirigere con sufficiente autorevolezza, cura del dettaglio e attenzione a non coprire le voci, evitando eccessivi fracassi. L’orchestra lo ha seguito diligentemente, suono sempre chiaro e pulito. Al fortepiano era Luca Brancaleon, che si è sobbarcato la gran mole dei recitativi, come detto assolutamente non tagliati.

Quanto alle voci, direi bene del terzetto dei basso-buffo: a partire da Paolo Bordogna, un Geronio efficace e bravo a non trasformare i velocissimi scioglilingua (non solo quello del second’atto) in incomprensibili grammelot; poi Simone del Savio, un convincente Prosdocimo; infine Carlo Lepore, che ha efficacemente interpretato la figura del Turco.

Decisamente meno bene i due tenori: persistendo il forfait dell’influenzato Siragusa, Narciso era ancora una volta Edgardo Rocha, che ha mostrato tutti i limiti della sua voce, piccola ma anche sgradevole e poco impostata; appena un filino-filino meglio Enrico Iviglia nei panni di Albazar.

Sul fronte femminile, accettabile la prova di Nino Machaidze come Fiorilla: però non basta staccare gli acuti, RE inclusi, per meritarsi l’eccellenza: la voce è penetrante nell’ottava alta, ma sempre con timbro metallizzato, e ha volume scarso nella prima ottava; posso dire solo, per quel che conta, che l’ho trovata un filino migliorata rispetto all’ultima sua esibizione che mi è capitato di seguire dal vivo circa un anno fa. Samantha Korbey non mi ha proprio convinto, voce piccola, anonima e poco passante.

Bene come sempre il coro di Claudio Fenoglio, eccellente anche nei movimenti da avanspettacolo richiestigli da Alden. 

Calorosa accoglienza per tutti in un teatro ancora una volta affollatissimo.

14 marzo, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 25


C’è del Mozart anche nel concerto di questa settimana diretto da Fawzi Haimor, 31enne americano di ascendenza mediorientale. È un Mozart messo in sandwich fra le due opere che stanno alle estremità della produzione di Sergei Prokofiev. Dico subito che la proposta (credo proprio a causa di Prokofiev) non deve aver entusiasmato il pubblico, ieri sera piuttosto smagrito.

Ad aprire il concerto è la Sinfonietta che il compositore russo (allora 18enne) scrisse nel 1909, come opus 5 e poi rimaneggiò più di una volta, pubblicandone la versione definitiva 20 anni più tardi, come opus 5/48. A chiuderlo è la Settima Sinfonia, opus 131, in pratica l’ultima composizione completata da Prokofiev (1952) un anno prima di lasciare improvvisamente questa valle di lacrime in buona compagnia di tale Stalin (che aveva però 13 anni più di lui).

Dunque, la Sinfonietta. Un lavoro che mostra già una grande maturità, oltre che la volontà di innovare rispetto alla tradizione: non è un caso che gli insegnanti di Prokofief al Conservatorio avessero storto il naso di fronte ad una musica che usciva parecchio dai binari di Ciajkovski, come da quelli del gruppo dei cinque. Peccato che questi insegnanti fossero morti e sepolti nel 1947, poiché si sarebbero proprio ricreduti, ascoltando la quinta, e si sarebbero poi esaltati nel 1952 all’ascolto della settima!

Haimor deve avere un suo clock interno molto particolare: i suoi tempi sono mediamente letargici, e ciò nuoce gravemente alla salute di opere come questa, che meriterebbero di essere eseguite con brio, freschezza e velocità. Al contrario, dirette da lui fanno… addormentare. Peccato, perché i ragazzi si sono impegnati al massimo, come sempre.
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Gabriele Carcano interpreta poi il Concerto K 491 di Mozart. Concerto in DO minore, proprio come il Terzo beethoveniano (che a quello di ispirò) e che il giovane torinese aveva suonato (benissimo) qui in Auditorium meno di un anno fa con Bignamini.

Seguiamo la struttura del concerto insieme a Rudolf Buchbinder e ai Wiener.
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L’iniziale Allegro in 3/4 è ovviamente in forma-sonata, che Mozart interpreta però con la consueta… libertà: ci sono l’esposizione strumentale, quella del solista, lo sviluppo e la ricapitolazione, ma in uno scenario lontanissimo dallo stereotipo scolastico. I temi e la loro manipolazione sembrano sfuggire da tutte le parti alle regole codificate, che anche qui il grande Teofilo pare divertirsi a sovvertire, o a piegare alle sue urgenze espressive.

13” Esposizione orchestrale in piano (archi e fagotti) del primo tema (T1).
29” Ripetizione enfatica (forte, piena orchestra, timpani) di T1.
48” Una prima transizione, basata su una variante del tema.
58” Una seconda transizione, attivata dall’oboe, pure basata su una nuova variante del tema.
1’10” Sezione conclusiva della prima esposizione del primo tema, aperta dal flauto, sempre in DO minore e poi proseguita dal clarinetto in MIb maggiore e chiusa dagli altri legni sul DO minore.
1’35” Ritorno del tema T1 a piena orchestra.
1’50” Sezione conclusiva dell’esposizione orchestrale, costituita da un motivo in LAb maggiore nei violini.
2’13” Ritorno a DO minore e chiusura dell’esposizione orchestrale (con cadenza su sesta napoletana).

2’27” Entrata del solista con l’esposizione di un nuovo tema (T2) sempre in DO minore.
2’53” L’orchestra ripropone T1, forte.
3’01” Il solista riprende T1, variato e poi sviluppato con scale ascendenti e discendenti di semicrome.
3’30” Ecco ora un nuovo tema nel pianoforte (T3) nella relativa MIb maggiore.
3’41” T3 è ripreso dall’oboe e dal clarinetto.
3’51” Il solista apre ora una nuova transizione (DO minore) ricca di virtuosismi.
4’34” L’oboe presenta un nuovo motivo (T4) ancora in MIb maggiore.
4’48” Il solista lo riprende, variandolo.
5’00” Inizia ora in MIb minore (con divagazioni nella relativa SOLb maggiore) una lunga transizione verso la chiusura dell’esposizione, basata sempre sul tema T1 e con veloci volate di semicrome del solista.
5’25” il solista torna a MIb maggiore, dove si esibisce in altri virtuosismi, culminanti in un arpeggio dei corni.
5’54” Un nuovo motivo in oboi, clarinetti e violini (sempre in MIb) porta alla chiusura dell’esposizione.

6’17” Il solista introduce lo sviluppo con la riproposizione del tema T2, innalzato di una terza minore (MIb).
6’46” Torna poi T1, anch’esso innalzato, ma di una quarta: Fa minore (!)
7’20” Nuova sezione dello sviluppo, caratterizzata da botta-e-risposta fra solista e orchestra e svariante in diverse tonalità.
7’40” Nuova sezione dello sviluppo, in MIb.
7’49” Ultima sezione dello sviluppo, con virtuosismi del solista, che riporta la tonalità a DO minore.

7’58”  Inizia qui la ricapitolazione, con il tema T1, forte, nell’orchestra, poi ripreso, piano, dal solista.
8’36” L’oboe ripropone T4, ora in DO minore, tema ripreso con virtuosismi dal pianoforte.
9’00” Tocca ora al tema T3 essere esposto in DO minore dal pianoforte, poi imitato dall’oboe.
9’21” Lunga transizione, mutuata da quella dell’esposizione.
10’17” Riecco T1 nell’orchestra condurre verso la cadenza solistica.
10’37” Cadenza (Mozart come quasi sempre non ne ha lasciata una autografa).
12’04” Inizio della sezione conclusiva, mutuata da quella dell’esposizione.
12’33” Il solista accompagna con arpeggi la coda finale, chiusa in pianissimo.

Il centrale Larghetto è in MIb maggiore, 4/4 alla breve: si tratta di una romanza in forma di rondò relativamente semplice (A-B-A’-C-A). I temi o motivi sono sei, due per ciascuna sezione (A-B-C).

13’08” È il solista ad esporre il tema T1 per quattro battute, subito imitato dall’orchestra.
13’45” Ancora il solista, accompagnato dai soli archi, poi dai fiati, presenta il secondo motivo T2, che chiude sulla dominante SIb.
14’24” Sempre il solista ripete il tema T1, intercalato dai fiati.

14’42” Si apre qui la sezione B del rondò, che è nella relativa DO minore: sono i fiati ad esporre il tema T3a.
14’56” Il solista espone ora il motivo T3b, che chiude in SOL minore.
15’15” I fiati tornano a MIb maggiore esponendo per terze un nuovo motivo T4a, che chiude in DO minore.
15’33” Il solista risponde con un motivo T4b, chiuso da una transizione in biscrome che riporta la tonalità a MIb maggiore per la ripresa della sezione A’ del rondò.

16’09” Riecco quindi il solista nel tema T1, che esaurisce questa sezione.

16’26” Abbiamo ora la sezione C del rondò, in LAb maggiore, aperta da un nuovo tema T5a, ancora nei fiati.
16’45” Il solista risponde con il motivo T5b.
17’01” I fiati prendono il testimone esponendo il tema T6a.
17’18” Il solista ancora incalza con il motivo T6b.
17’35” Qui subentra in orchestra una transizione che, modulando al MIb, prepara l’arrivo della sezione conclusiva.

17’57” È il pianoforte, solo, ad introdurla con il tema T1.
18’15” Il solista, ora con gli archi, e poi i fiati, espone di seguito il tema T2, che sale alla dominante SIb, poi rimodula alla tonica, fermandosi sulla sottodominante LAb su una corona puntata.
18’54” Il solista riespone con l’orchestra il tema T1.
19’11” Qui iniziano 12 battute di Coda, caratterizzate dall’esposizione di nuovi motivi, in un’atmosfera davvero idilliaca. Chiude un arpeggio in staccato del pianoforte.

Il finale Allegretto (4/4 alla breve, salvo l’ultima variazione e la coda, 6/8) si configura come un tema con 8 variazioni, più una coda. La tonalità è DO minore, con digressioni a LAb maggiore e DO maggiore.

20’19” È l’orchestra ad esporre il tema, costituito da due sezioni ripetute (col da-capo): la prima chiude sul SOL, la seconda sul DO.
21’12” Il solista presenta la prima variazione, con modesto accompagnamento degli archi. Anche questa in due sezioni, entrambe ripetute.
21’58” I fiati espongono la seconda variazione, raggiunti poi dal pianoforte: la cosa si ripete, con contenuti diversi, quindi la variazione è doppia.
22’45” Anche la terza variazione è doppia: la attacca con pesanti accordi il solista, imitato poi dall’orchestra. Altro intervento del pianoforte ed altra risposta orchestrale.
23’35” La quarta variazione (doppia) è in LAb maggiore, aperta dai clarinetti, cui risponde il solista con gli archi. Nuovo intervento dei clarinetti e nuova risposta del pianoforte.
24’25” Il solista apre la quinta variazione, sempre doppia, col ritorno a DO minore, e ne è quasi esclusivo protagonista.
25’21” L’oboe presenta la sesta variazione, pure doppia, che modula a DO maggiore: anche qui scambio di battute fra solista più orchestra e i fiati.
26’21” Si torna a DO minore per la settima variazione, questa semplice, dove pianoforte e orchestra sono in continuo dialogo, chiuso da una brevissima cadenza solistica.
26’58” Qui, col tempo che cambia a 6/8, ecco il pianoforte solo cimentarsi con l’ottava variazione, intrisa di cromatismi.
27’19” Riprendendo un inciso dell’ultima variazione, il solista introduce la lunga coda conclusiva, quasi una nona variazione.
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Carcano ha confermato tutto ciò che di buono si conosceva di lui: ha affrontato questo Mozart come un… mozartiano doc, tocco sempre leggero, raffinate mini-cadenze, niente velleità romanticheggianti fuori luogo; insomma una prestazione, la sua, davvero eccellente, meritatamente accolta con grandissimo calore.
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Tornando a Prokofiev, ecco infine la sua Settima (e ultima) Sinfonia. Un ritorno - difficile dire quanto (ma certamente) condizionato dal regime, e del resto già anticipato dalle due precedenti sinfonie – a modelli della tradizione, Ciajkovski in primis, ma non mancano… Bruckner e Mahler. Una sinfonia chiaramente demodé, scritta probabilmente per fare un sotterraneo sberleffo ai vari Zdanov, come a dire: ah, il compositore sovietico dovrebbe sfornare musica come questa? Eccola qua, vi servo tutta la melassa che mi chiedete. Addirittura arrivò ad aggiungere 23 battute al finale, per accontentare i critici ufficiali che storcevano il naso di fronte alla chiusura in piano, pizzicato (così anni dopo morto si ebbe il premio Stalin di prima classe, invece che di terza… una bella soddisfazione!)   

Haimor non si smentisce e tiene quasi in continuazione il piede sul pedale del freno, il che nulla toglie ai meriti dei ragazzi che hanno come sempre dato il massimo. Però – Carcano a parte – devo ammettere che gli assenti stavolta non hanno avuto tutti i torti.

13 marzo, 2015

Lucio Silla: opera… semiseria

 

Ormai definitivamente orfana di Villazón (per lui e solo per lui un paio d’anni fa Salzburg mise in piedi questo allestimento) è andata in scena ieri sera la quarta recita del Lucio Silla. Di Mozart, certo, ma con una ciliegina sulla torta di Johann Christian Bach. Peccato però che a Milano sia uscita alla fine una ciambella senza il buco Rolando!
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Le opzioni per l’allestimento di opere come questa sono, teoricamente, tre: la prima è di attenersi abbastanza scrupolosamente all’originale (il che può anche comportare riletture e trasposizioni, purchè non si stravolga la drammaturgia): tagliare adeguatamente una parte dei recitativi secchi, ma nulla o quasi della musica (è l’opzione di Cambreling-Chéreau, che fu alla base della penultima produzione scaligera del 1984); la seconda è di presentare soltanto i numeri musicali (eliminando del tutto i noiosi recitativi secchi, qualcosa di simile all’incisione di Adam Fischer) il che si traduce però in un’esecuzione in forma di concerto, o semi-scenica, quindi non idonea al cartellone di un (grande) teatro; la terza opzione è quella scelta dalla coppia Minkowski-Pynkoski.

I quali hanno cominciato a sforbiciare buona parte (a occhio ben più del 50%) dei recitativi secchi; per poi cassare uno dei sei personaggi, Aufidio, certo il meno… coinvolto musicalmente (una sola aria, che però se n’è andata a quel paese). Ciò ha comportato inevitabili scompensi alla struttura drammaturgica dell’opera, il cui intreccio, per quanto contorto, ha però una sua logica che qui viene parecchio compromessa.

Le scene sono semplici, con pannelli scorrevoli in orizzontale e verticale che creano più o meno plausibilmente i diversi ambienti in cui si svolge la trama. I costumi (anch’essi dovuti a Antoine Fontaine) sono vagamente dell’epoca della prima rappresentazione a Milano (1772). Intelligente l’uso delle luci (Hervé Gary) a completare appropriatamente i diversi scenari.

Quanto alla parte attoriale, Pynkoski fa quello che può: lascia i cantanti impalati al proscenio o passeggianti da un lato all’altro della scena in occasione delle arie, mentre cerca di movimentare i pochi squarci di parlato con gag ed esagerazioni del tutto estranee al concetto di opera seria, e più caratteristiche di una pièce di avanspettacolo raffinato (cito a caso: le effusioni incestuose di Silla e Celia, i modi bruschi e violenti di Silla, i ritratti di Cecilio e Giunia fatti a brandelli). Più rispettoso dello spirito dell’opera l’impiego del coro: quello del primo atto dislocato in buca (come si addice a sovversivi e carbonari…); gli altri due nelle apparizioni pubbliche schierati e impalati in tribuna.

Sempre per vivacizzare l’atmosfera, il regista ha pensato bene di introdurvi componenti che nell’originale stavano… in panchina: i balletti. I quali nel ‘700 costituivano uno spettacolo nello spettacolo, intervenendo durante gli intervalli e alla fine della recita, ed erano musicati da specialisti del ramo, non dall’autore dell’opera. Ecco, qui Pynkoski si serve delle prestazioni del Corpo di ballo della Scala (Makhar Vaziev) e delle coreografie di Jannette Lajeunesse Zingg per togliere staticità ad alcune scene: il terzo movimento della Sinfonia introduttiva, il coro del primo atto (mentre i cantanti stanno in buca, in scena c’è appunto un balletto), il momento dell’arresto di Cecilio (dove si assiste ad una vera e propria scena di cappa-e-spada), il coro finale allietato da pregevoli danze, e forse altro ancora.

Sul fronte della musica, Minkovski ha, come detto, tagliato abbondantemente i recitativi secchi, e fin qui poco male, poiché si deve ammettere che, essendo il soggetto di de Gamerra di una noia mortale, eliminare buona parte dei dialoghi parlati sia operazione intelligente (privilegiare la musica) e gesto di comprensione verso il pubblico. Peccato che però il direttore abbia tagliato (purtroppo, e dolorosamente, per chi appena-appena conosca l’originale) anche pezzi di arie o intere arie, il che fa sorgere qualche sospetto sulla sua… buona fede, a meno che non si tratti di scelte legate all’insufficienza dei cantanti (ma allora il problema è in chi li ha scritturati).

Poi, per compensare i tagli praticati a Mozart, Minkowski ha introdotto nell’opera un… corpo estraneo, per quanto di nobili origini (J.C.Bach) per dar modo a… Villazón (!?) di far bella figura proprio alla fine dello spettacolo. Di questo passo allora dobbiamo aspettarci prossimamente altri interessanti mixage: del Barbiere di Rossini con quello di Paisiello, delle Manon di Massenet e Puccini, degli Otello di Rossini e Verdi e - dulcis in fundo – non vediamo l’ora di gustare un mantecato di almeno tre o quattro opere ispirate a Romeo&Juliet! Per fare i fighi, la chiameremo Regiemusik!

Peccato, perché la direzione di Minkovski mi è parsa di ottimo livello e di grande equilibrio nella resa degli squarci a sola orchestra, come nell’accompagnamento sempre rispettoso delle prerogative delle voci.

E proprio le voci sono state, a mio modestissimo giudizio, il punto debole dello spettacolo, a cominciare dal tenore Kresimir Spicer, di cui il meglio si possa dire è che è stato la perfetta imitazione di quel tale Bassano Morgnoni che rischiò di mandare in vacca la prima rappresentazione di quel sabato 26 dicembre 1772! E qui, Rolando assente, ha pure dovuto sobbarcarsi (con tanto di divagazione peripatetica da palco a buca, a podio) l’interminabile recitativo-aria di J.C.Bach!

Chi invece, ma è l’unica, mi ha pienamente convinto è Marianne Crebassa: voce penetrante in tutta la tessitura, bene impostata e sempre al servizio dell’espressività del personaggio.

Gli altri tre soprani su un piano di mediocrità: Lenneke Ruiten sarebbe una Giunia apprezzabile se si potessero udire anche le sue note nella prima ottava; Inga Kalna (Cinna) mi è parsa sempre sforzata e spesso calante; Giulia Semenzato (Celia) ha proposto una Celia sbarazzina nei gesti e nel timbro pigolante della voce, molto meno nel canto… Tutte e tre largamente insufficienti nelle cadenze delle arie, musicalmente davvero scombinate (responsabilità anche di chi gliele ha preparate?)

Coro di Casoni all’altezza. Quanto all’orchestra, ecco come Padre Giovenale Sacchi stravedeva per quella degli anni 1770:


Eh sì, bei ricordi, che sarebbe il caso di rinverdire più spesso!  

Piermarini con grandi vuoti, ulteriormente allargatisi nell’unico intervallo (scelto dividendo arbitrariamente l’opera in sole due parti di lunghezza paragonabile: 90 e 75 minuti) il cui pubblico ha però accolto assai benevolmente, anche se senza trionfalismi, questa proposta.