affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

26 gennaio, 2015

Soldataglie al Piermarini

 

Ieri sera la Scala ha ospitato la terza di Die Soldaten, quest’opera mastodontica (quanto meno dal punto di vista dell’ipertrofia di risorse umane e materiali che reclama) uscita dalla penna di Bernd Alois Zimmermann or sono 50 anni: la prima esecuzione ebbe infatti luogo lunedi 15 febbraio 1965 a Colonia, diretta da Michael Gielen.

Il soggetto – di cui riporto più sotto una sinossi - fu tratto dallo stesso Zimmermann dal dramma settecentesco del lettone- tedesco Jakob Michael Reinhold Lenz di pari titolo. Assai sbrigativamente si attribuisce pertanto all’opera un prevalente carattere di proclama o manifesto contro gli orrori della guerra: c’è anche questo, ovviamente, ma la morale si potrebbe più precisamente indicare con il famoso motto hippie (divenuto di moda ai tempi e poco dopo la composizione dell’opera) fate l’amore e non la guerra, beninteso l’Amore con la maiuscola, e non il volgare piacere che viceversa muove le azioni dei militari (non tutti, per la verità) protagonisti del dramma.

Militari di cui sono vittime la povera Marie e il suo ingenuo innamorato Stolzius, due figli del ceto borghese. Lei finirà i suoi giorni sul marciapiede; lui si suiciderà dopo aver mandato al creatore il militare responsabile primo della brutta fine di Marie. Lei però – come spesso accade ancor oggi, ahinoi – ci mette anche parecchio di suo nel tirarsi addosso le disgrazie: insomma, da quanto vediamo e sentiamo in scena, il suo comportamento non è propriamente irreprensibile, quanto meno pare trattarsi di una ragazza assai facilmente vulnerabile da qualunque attenzione galante sia fatta oggetto. Per di più chi le sta vicino in famiglia (il padre, in particolare) non sembra aiutarla molto a tenere la testa sulle spalle (la sorella maggiore è invece fin troppo irreprensibile, ma non ha nessuna autorità su di lei). Insomma, è la tragica vicenda di una ragazza qualunque che Lenz (quasi 250 anni fa) e più recentemente Zimmermann ambientarono nel mondo dei militari per condannare in realtà ogni forma di sopraffazione (di stupro leggiamo nella didascalia a fronte del quarto atto) presente nella società e di cui l’essere umano (la donna, in particolare) è vittima: il che è purtroppo una costante universale, nello spazio e nel tempo. Perché ben sappiamo che vicende di sopraffazione spesso e volentieri si ripetono anche oggi, pur in scenari diversi da quello militare: oggi la sala da caffè di Armentières o la casa di madame Bischof si chiamano magari social-network o discoteca, che da spazi di svago e di incontro si trasformano per qualcuno, militare o borghese poco importa, in terreni di caccia e di malaffare, e per qualcuna – poco attrezzata a difendersi dalle tentazioni - in trappole infernali che portano alla perdizione.

A ben vedere, i primi tre atti del dramma sanno piuttosto di commedia agrodolce, di reality, con innamoramenti, tradimenti, delusioni sentimentali, dimostrazioni di incapacità dei genitori (della borghesia però, perché invece la nobile La Roche mostra di sapere come si educano i figli!): vicende pienamente trasportabili anche nel nostro mondo cosiddetto moderno (dove magari con le guerre non hanno apparenti legami di causa-effetto); il tutto contornato da volgari scenette di bella vita di militari disoccupati (!) e dediti, oltre che a cercare avventure galanti (applicando l’eterno principio dell’usa-e-getta di cui Marie farà le spese) persino a disquisire di filosofia e di massimi sistemi.

E alla fine del terzo atto ancora nulla di irrimediabile è accaduto: l’offerta della contessa e il presumibile perdurare dell’amore di Stolzius (e persino la disponibilità del capitano Mary!) potrebbero garantire a Marie un’esistenza dignitosa: non sarà così a causa dell’ennesima illusione che porterà la donna a subire, dopo le frustranti seduzioni, anche l’umiliazione più grande: la violenza dello stupro. Si noti di passaggio come le seduzioni – di cui la sedotta è in qualche modo corresponsabile – siano perpetrate da esponenti militari della nobiltà, che impiegano incruenti quanto subdoli mezzi di persuasione (a partire dal loro status) per attirare in trappola la preda, che poi usano per sfogare i loro bassi istinti e subito dopo scaricano ad un collega o direttamente sul marciapiede; mentre lo stupro – atto di pura sopraffazione tramite impiego di violenza – è compiuto da un soldato semplice, ergo proveniente dai ceti plebei.

Come dire: la plebe sa solo usare la forza, mentre i nobili usano… l’ingegno: ma alla fine sempre di sopraffazione si tratta e proprio i nobili – non appena i problemi si fanno seri – diventano i più biechi guerrafondai. Ecco: le crude immagini e i terrificanti suoni che rimandano alla guerra, che vediamo e udiamo nella potentissima scena finale, in realtà ci vogliono ricordare, in modo disturbante, come le guerre siano non la causa ma l’effetto della mancanza di solidi valori morali nella società umana, il che porta al prevalere della violenza sulla ragione, delle armi sul dialogo, in definitiva dell’odio sull’amore. Messaggio quindi di assoluta attualità, non solo ai tempi di Lenz, dove obiettivamente la casta dei militari pilotava gli orientamenti dei costumi, ma anche ai tempi di Zimmermann (si era sull’orlo della terza guerra mondiale, atomica!); e di attualità ancor oggi, in una società dove non è certo il militare a dettare i trend e a forgiare i costumi, ma dove permane una penuria di valori che continua a produrre mille Marie al giorno.

Sul piano estetico generale, escluderei personalmente di definire questo un capolavoro, riservando l’impegnativo termine ad opere che se lo meritano davvero, come quelle di Berg da cui palesemente Zimmermann ha scopiazzato - a 25-35 anni di distanza - idee e soluzioni. Quel che è certo è che si tratta di un pezzo teatralmente interessante e coinvolgente, che merita di essere, almeno qui da noi, maggiormente divulgato: riprendendolo alla Scala in una prossima stagione, ad esempio, al posto dell’ennesima riproposta di una qualche Tosca o Aida da strapazzo…
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Sul piano musicale, Zimmermann abbraccia in pieno la tecnica seriale, combinandola con l’impiego di forme e contenuti da tutta la storia della musica (dal Dies Irae ai Corali di Bach e giù fino al jazz). Le prime 12 scene (tre atti, 5-2-5) sono fondate su altrettante serie dodecafoniche che Zimmermann ha costruito evidentemente a fronte delle sue esigenze espressive: serie che si prestano quindi, magari impiegando trasposizioni e i soliti metodi fiamminghi (canone retrogrado, inverso, etc.) a supportare le più diverse situazioni sceniche. Una 13ma serie è impiegata negli Interludi orchestrali.

Pur non potendosi parlare di applicazione della tecnica dei Leit-motive, è stato rilevato come l’impiego di alcune serie si possa associare a personaggi o a loro particolari atteggiamenti, come ad esempio l’amore di Marie per Stolzius, che è formato da frammenti della serie 1, su cui poggia la prima scena dell’opera:


Inoltre ci sono alcune note che assumono carattere emblematico: il RE, che un po’ come nel DonGiovanni marca i momenti cardinali dell’opera, a partire da subito (martellare dei timpani nel Preludio) e per finire alla chiusura (l’unisono di tutta l’orchestra); o il MIb, che compare sempre a sottolineare l’astio di Stolzius per Desportes, il militare responsabile della brutta fine di Marie. Altre ricorrenti figurazioni sono il totale cromatico (tutte le 12 note della scala suonate contemporaneamente) che apre il Preludio e poi torna assai di frequente per sottolineare momenti topici del dramma; o le quintine di semicrome, che vengono impiegate spesso in funzione ritmica e quasi sempre basate su RE. 

Zimmermann non si limita ad impiegare le serie dodecafoniche, ma si spinge talvolta anche al di là delle colonne d’Ercole del sistema cromatico, fino al dettaglio del quarto di tono (si veda nel Preludio, poco dopo l’entrata del Dies irae nell’organo, la prescrizione per i contrabbassi):


Poi, nella chiusa del medesimo Preludio, fa suonare parte degli archi in RE# e parte in MI abbassato di un quarto di tono:


Oltre ad impiegare una batteria sterminata di percussioni più o meno tradizionali e dislocate più che altro fuori scena, Zimmermann inventa anche percussioni da caciara, per le quali fornisce però, con meticolosità quasi paranoica, indicazioni dettagliatissime. Eccole qua, nella presentazione della prima scena del second’atto, quella ambientata nella caffetteria di Armentiéres, dove non solo si descrive la disposizione dei diversi tavoli sui due piani del locale, ma addirittura si prescrive come ciascun avventore (solo i 6 tavoli occupati da anonimi militari ne contano 18!) debba percuotere i tavoli stessi, le sedie e le tazze (le tazze piene e quelle vuote, si noti bene!) e con quali posate (se cucchiai da caffè o cucchiai da the!):


L’ultima indicazione in basso riguarda la raccomandazione dell’Autore (a scenografo e regista…) di rispettare scrupolosamente la disposizione dei tavoli!

Ed ecco come compaiono in partitura alcuni dei tavoli, con voci e… percussioni:

 
Zimmermann arriva francamente ad eccessi di dettaglio anche nella strumentazione, come dimostra questa pagina (scena 4 dell’atto III) dove gli archi sono divisi in non meno di 47 (11-10-10-9-7) parti!


Il massimo della complicazione e quindi della difficoltà per lo spettatore di afferrare compiutamente ogni dettaglio di ciò che avviene sul palcoscenico (e in ogni dove, per la verità) è raggiunto nell’atto finale, in particolare nella prima scena, sempre ambientata nella caffetteria, ma arricchita da ben tre serie di proiezioni di filmati e da voci e suoni provenienti da altoparlanti, e poi nella scena finale che prevede l’impiego di una batteria di altoparlanti che diffondono suoni legati a manovre militari o a diverse esternazioni di voci umane riguardo ad eventi dell’esistenza (nascita, amore, morte).

E a proposito di tempi del dramma, già Lenz aveva rifiutato la regola del teatro aristotelico (unità di tempo, luogo e azione) per presentare contestualmente eventi distanti fra loro di spazi e tempi i più disparati. Zimmermann raccoglie in pieno il testimone dello scrittore settecentesco e lo traduce in una serie di accorgimenti narrativi che vanno – nel caso più semplice – dalla giustapposizione di scene che si svolgono in luoghi e tempi diversi (ma legate da qualche nesso diretto di causa-effetto) alla presentazione contemporanea di scene che si riferiscono a situazioni almeno apparentemente indipendenti l’una dall’altra, ma che in realtà rappresentano contestualmente passato, presente e futuro. Esempio del primo tipo: le prime due scene dell’opera, che ci mostrano in rapida successione ciò che avviene a casa Wesener (la scrittura di una lettera) e ciò che avviene a casa Stolzius al ricevimento della stessa. Esempio del secondo tipo: la seconda scena del second’atto, dove assistiamo in parallelo alla fatale seduzione di Marie da parte di Desportes, insieme ai cupi presentimenti della nonna di Marie sulla sorte della nipote e alla disperazione di Stolzius nell’apprendere del tradimento dell’amata. Infine, la prima scena dell’atto conclusivo tocca, come detto, il culmine della sfericità dello spazio-tempo di Zimmermann, che ricorre all’impiego di tre proiezioni contemporanee e alla diffusione elettronica di suoni (musica concreta) registrati su nastro per renderci partecipi del tremendo destino di Marie.

Le citazioni. Le chiamo impropriamente così, per rendere l’idea. In realtà sono riferimenti concreti a musiche del passato che Zimmermann impiega per rinforzare il suo messaggio. Del Dies Irae ho già accennato a proposito del Preludio, ma esso torna, sempre (e non a caso) nell’organo anche nell’Intermezzo del second’atto, quasi ad anticipare l’ira divina per ciò che sta per accadere alla povera Marie. E nello stesso brano troviamo anche una delle citazioni (alla lettera, leggi: tonalità) di Bach, precisamente il Corale Komm, Gott, Schöpfer, heiliger Geist, che sembra quasi un’implorazione all’Onnipotente perché impedisca il misfatto che si materializzerà di lì a poco ai danni della (complice?) ragazza:


E Bach torna appropriatamente nella scena in questione (sezione Corale) dopo che Desportes ha sedotto Marie, a sottolineare un duplice tradimento: quello della donna nei confronti di Stolzius e quello dello stesso seduttore nei confronti della povera ragazza, destinata ad essere usata-e-gettata senza misericordia. E allora cosa udiamo qui di Bach? Nella stessa tonalità e riprendendone puntualmente le quattro voci, flauto in SOL, oboe, clarinetto basso e trombone citano dalla Matthäus-Passion un frammento del Corale Ich bin’s ich sollte büßen, che segue precisamente l’annuncio di Gesù del tradimento di uno dei 12!


Tutte le scene dell’opera hanno un attributo che riporta ad antiche forme musicali: ciaccona, ricercare, toccata, notturno, capriccio, corale, rondino, rappresentazione, tropo. Si tratta di riferimenti abbastanza labili, che indirizzano più che altro verso personaggi o situazioni fra loro legate. Così ad esempio la ciaccona caratterizza le scene in cui è (co)protagonista Stolzius (seconda scena degli atti I, II e IV); la toccata è prevalentemente attribuita alle scene che hanno per protagonisti i militari (quarta dell’atto I e prima degli atti II e IV) e i due ricercari sottolineano altrettanti incontri galanti di militari con Marie (terza scena degli atti I e III).

Quanto alle voci, le tessiture sono spinte all’estremo: come il FA sovracuto per Marie, ma anche i DO acuti per i due mezzosoprani di Charlotte e La Roche e per i tre tenori: o i LAb che toccano i due baritoni di Stolzius e Mary. L’emissione comprende, oltre al canto puro, anche il parlato puro, il mezzo canto mezzo parlato, lo Sprechstimme, l’urlato, il tonus rectus: insomma, alle voci è richiesto un impegno davvero improbo.

Come detto, le masse orchestrali sono enormi e soltanto le percussioni richiederebbero una seconda fossa orchestrale: vengono quindi posizionate di norma in palchi o addirittura in altri locali del teatro e il loro suono diffuso da altoparlanti. A proposito di diffusione, l’ultima scena dell’opera comporta – secondo dettagliatissime disposizioni planimetriche presenti in partitura - la dislocazione in diverse posizioni della sala di ben 10 gruppi di altoparlanti, ciascuno con specifiche destinazioni, quanto a contenuti sonori da diffondere:


Beh, ce n’è abbastanza per dubitare dell’equilibrio mentale del compositore (smile!) che sembra aver pensato a bella posta soluzioni tali da rendere ineseguibile il suo lavoro. Ed infatti, ineseguibile fu in un primo momento giudicato dal Teatro che lo aveva commissionato, anche se poi il tempo è stato galantuomo con Zimmermann, portando la sua opera ad essere più volte rappresentata con successo in vari teatri europei ed americani.
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Passiamo ora ad esaminare la struttura e i contenuti dell’opera. Una curiosità: per le prime 9 delle 15 scene abbiamo una regolare alternanza di luogo fra Lille e Armentières (in realtà nella settima scena vedremo sovrapporsi i due luoghi). Le restanti 6 scene si svolgono così: 3 consecutive a Lille e 3 consecutive ad Armentières.

Preludio
Prepara lo spettatore allo scenario tragico che caratterizzerà poi la conclusione dell’opera. Ne sono emblemi il totale cromatico che lo apre e i lugubri e spaventevoli colpi di timpano che ne sottolineano la gran parte, oltre al Dies Irae che compare nell’organo verso la fine.

Atto I
Introduzione: è caratterizzata da quintine di semicrome (inizialmente in MIb nei corni, a riprendere il RE# su cui si era chiuso il Preludio) che vagano alle trombe e alle percussioni.

Scena 1 (Strofe): siamo a Lille, in casa Wesener (commerciante di moda) dove troviamo le due figlie (Charlotte, la maggiore, e la più giovane Marie) dedite rispettivamente a cucire e a scrivere una lettera. Il sottotitolo della scena si spiega con la presenza di 4 strofe cantate da Charlotte (che evoca le pene del cuore) e che sono intervallate da interventi di Marie che chiede aiuto alla sorella sulla forma da usare in una lettera che sta scrivendo alla madre di Stolzius, per ringraziarla dell’ospitalità da questa recentemente offerta a lei e sorella (e che ha fatto nascere l’amore fra Marie e Stolzius medesimo). Dopo un battibecco fra le due sorelle, dovuto alla reticenza di Marie sulla parte della lettera che evidentemente contiene espressioni dirette all’uomo di cui è innamorata, la scena si chiude sulla quarta strofa di Charlotte, con il suo ennesimo e pessimistico filosofeggiare.

Scena 2 (Ciacona I): siamo ad Armentières, a casa di Stolzius (commerciante di stoffe) dove altre quintine (del flauto in SOL) sul RE introducono l’uomo che dice alla madre di non sentirsi bene. Lei immagina siano pene d’amore, per quella Marie (una ragazza da quattro soldi…) che era stata ospite a casa loro. E della quale ha in mano una lettera (precisamente quella che Marie stava scrivendo nella scena precedente) che subito Stolzius le strappa di mano, in viva eccitazione, mentre la madre lo richiama al dovere (preparare la stoffa ordinata dal colonnello del Reggimento).   

Tratto I
È un Interludio piuttosto burrascoso, che tende a sottolineare l’atmosfera della fine della scena precedente  (il subbuglio nell’animo di Stolzius) più che preparare quella della scena successiva, che invece è di carattere leggero, anche se scopriremo poi che vi si annida la scintilla da cui si innescherà il colossale falò che caratterizzerà il seguito dell’opera. 

Scena 3 (Ricercari I): siamo tornati a Lille, casa Wesener. La scena è suddivisa in tre parti: dapprima si presenta Desportes, il barone che subito si mette a corteggiare Marie. La quale respinge sì le cortesie del militare, ma lo fa con atteggiamento tutt’altro che fermo. Il colloquio fra i due avviene su canoni a specchio, da cui il sottotitolo della scena. Arriva poi Wesener, che subito mostra la sua autorità negando a Desportes il permesso di portare la figlia a teatro. Desportes se ne va seccato e, nella terza parte della scena, Wesener spiega alla figlia le ragioni del suo diniego: dei militari c’è poco da fidarsi, con loro una brava ragazza rischia di fare una brutta fine! Marie lamenta fra sé l’eccessiva invadenza del padre: lei non è più una bambina… 

Scena 4 (Toccata I): siamo lungo il fossato che circonda Armentières ed incontriamo l’ambiente militare, con il colonnello e i capitani Mary e Haudy, attorno ai quali troviamo il giovane conte La Roche, il cappellano Eisenhardt e un altro capitano, Pirzel (una specie di filosofo) più tre giovani ufficiali. La presenza massiccia di ottoni, che ovviamente si presta ad evocare l’ambiente marziale, giustifica anche il sottotitolo della scena. Scena divisa musicalmente in tre parti: all’inizio i militari discutono sulle funzioni, ehm… maieutiche del teatro (toh, quello dove Desportes voleva condurre Marie). È Haudy a sostenere la tesi, scontrandosi con Pirzel e col cappellano. Nella sezione centrale della scena le voci dei militari si sovrappongono, mentre la discussione si anima e tocca il tasto femmine: ad un’affermazione del colonnello in difesa delle ragazze messe incinte controvoglia, Haudy sbotta con la lapidaria sentenza: una puttana sarà sempre una puttana! Nella sezione finale (che ricalca musicalmente la prima) la discussione si chiude senza risultato: Haudy chiede retoricamente al cappellano se per caso intenda sostenere che dei nobiluomini si mutino in altrettante bestie per il solo fatto di entrare nell’esercito; il cappellano ribatte che non cambierà opinione finchè tante ragazze borghesi saranno ridotte in condizioni d’infelicità.

Scena 5 (Nocturno I): il sottotitolo rinvia egualmente all’atmosfera materiale (è notte) ed anche a quella spirituale della scena, che si svolge in casa Wesener, protagonisti padre e figlia minore. La scena è divisa in due sezioni: nella prima i due sono a colloquio a proposito delle avances di Desportes; Wesener chiede alla figlia se il barone le ha parlato di Amore. Lei risponde che Desportes le ha recapitato una… poesia! Una poesia, letta stentoreamente da Wesener, tanto delirante quanto insincera! E il colmo della situazione non è che a cadere in trappola sia l’ingenua Marie, ma il di lei preteso responsabile paparino! Che beve fino in fondo il calice di melassa di Desportes e augura ogni bene alla figlia. La quale (secondo colmo, oltre che seconda parte della scena) comincia ad avere dubbi poiché - come recita in una vera e propria aria – ammette di amare tuttora Stolzius e chiude con un’espressione tanto angosciata quanto disperata: che Dio mi strafulmini pure… e i fulmini puntualmente arrivano, sotto forma di un gran temporale, di cui Zimmermann ci dà la sua versione dodecafonica.

Atto II
Introduzione: di chiaro stampo militare, è aperta da una quarta ascendente (RE-SOL) che è tipica di marce o cori a carattere militaresco. Di sole 17 battute, serve ad introdurre l’atmosfera della scena successiva.    

Scena 1 (Toccata II): il sottotitolo già ci indirizza verso l’ambiente militare, che nella fattispecie non è una caserma (dove verosimilmente stazionano scomodamente i soldati semplici) ma un elegante locale da caffè di Armentières, gestito da madame Roux e frequentato quasi esclusivamente da ufficiali e da borghesi in qualche modo legati al mondo dell’esercito. Vi troviamo riuniti tutti i militari già incontrati nella scena 4 dell’atto I, più il contino La Roche; poi vi arriverà il borghese Stolzius; infine c’è una danzatrice andalusa, più una squadra di 18 anonimi ufficiali che occupano 6 tavoli sui due piani del locale. Ed ancora altri militari sparsi (un ufficiale ubriaco, tre alfieri). La scena, come la precedente Toccata I, è strutturata su tre sezioni, dove la terza ricalca la prima. Si è già accennato al colossale armamentario di percussioni da tavola previsto qui da Zimmermann. Anche questa scena si divide in tre parti: nella prima abbiamo la caciara globale, con grida e percussioni; su essa spiccano poi le entrate del cappellano e di Pirzel, che stigmatizzano le espressioni irridenti dei militari nei confronti di Stolzius. Segue poi una scena di danza, protagonisti tre ballerini: sono 5 strofe e un ritornello. Poi segue una band di jazz che accompagna la danza della ragazza andalusa. Infine arriva Stolzius, che viene impertinentemente interrogato ed apostrofato dai presenti a proposito di Marie e di Desportes: lui cerca di negare tutto, ma poi i suoi nervi saltano, quindi maledice (sul MIb!) Desportes e se ne va via sdegnato.   

Intermezzo: è una specie di compendio degli avvenimenti testè accaduti, e di premonizione per ciò che accadrà tra poco. Si è già ricordato che comprende le citazioni del Corale di Bach Komm, Gott e del Dies Irae

Scena 2 (Capriccio, Corale e Ciacona II): siamo tornati a Lille, a casa Wesener. I tre sottotitoli caratterizzano altrettante sezioni della scena: dapprima Marie è sola in casa e viene raggiunta da Desportes, proprio mentre legge una lettera di Stolzius, nella quale l’innamorato che si sente (ormai quasi) tradito le fa le sue rimostranze. Marie è in lacrime, ed è anche tanto sciocchina da far leggere la lettera a Desportes! Il quale si mette ad insultare Stolzius e vorrebbe scrivere lui la sprezzante risposta. Marie resiste per un po’, ma poi – involontariamente o no? – è proprio lei a mettersi a stuzzicare il barone, arrivando persino a fargli il solletico e facendosi poi rincorrere per tutta la casa come una preda… consenziente? E qui Zimmermann fa precipitare la situazione nel tragicomico, o nel surreale: mentre vediamo la nonna di Marie attraversare la scena per poi esporre le sue preoccupazioni per il futuro della figlia - intonando un vero e proprio Lied (Rösel aus Hennegau) tolto di peso dal dramma di Lenz - sul fondo si intravedono, da una parte, Marie e Desportes ormai in fase di aperta consumazione dell’atto sessuale, e dall’altra, in casa Stolzius, l’innamorato tradito che si dispera leggendo una lettera di Marie, mentre sua madre cerca invano di convincerlo a dimenticare quella puttanella. Ma lui (supportato dal MIb tenuto degli archi) giura di farla pagare cara a quel bastardo di Desportes!

Atto III
Preludio: abbastanza breve (38 battute) è tutto giocato sul dialogo fra le diverse sezioni orchestrali. Crea un’atmosfera di incertezza, di attesa per il successivo evolversi dell’azione.   

Scena 1 (Rondino): siamo tornati lungo il fossato che circonda Armentières, dove il cappellano Eisenhardt e il capitano Pirzel passeggiano, come sempre discutendo e filosofeggiando. Il cappellano commenta il trasferimento a Lille del capitano Mary, domandandosene la ragione (sapremo presto che la ragione è… Marie!) Poi continua ad esternare comprensione per la condizione della donna, che invece il filosofo Pirzel paragona alla pecora (!) 

Scena 2 (Rappresentazione): ci troviamo a Lille, alloggiamenti del capitano Mary, dove arriva improvvisamente un quasi irriconoscibile Stolzius, che si è arruolato nell’esercito (per potersi vendicare di Desportes, evidentemente) e viene a proporsi come aiutante del capitano, che lo accoglie con grande calore e lo nomina suo attendente (col nome di Kaspar, come si scoprirà presto). Il sottotitolo fa pensare ad una scena di canto monteverdiano (recitar-cantando).

Scena 3 (Ricercari II): restiamo ora a Lille, casa Wesener, dove Charlotte e Marie sono come sempre ai ferri corti: dalle parole che le rivolge la sorella (che senza mezzi termini le dà anche della sgualdrina) siamo portati a pensare che Marie si sia messa con Mary, che la riempie di regali, e anche perché lei stessa confessa che Desportes se n’è andato. Arriva Mary con l’attendente Stolzius, non riconosciuto, e si porta a spasso la ragazza, che però lo costringe anche a rimorchiare la sorella (?) Sull’attendente le donne mostrano di avere qualche dubbio; e lo stesso Mary fa una chiara allusione al rifiuto a suo tempo opposto da Marie alle offerte di Stolzius, ma anche alle colpe di Desportes, che Marie conferma. Il sottotitolo, e anche il canone a specchio, rimandano alla scena 3 del primo atto, in occasione del corteggiamento di Desportes a Marie.   

Romanza: è di fatto un interludio, dal carattere sognante, tutto giocato sulle sonorità delicate di arpa, tastiere e percussioni… tintinnanti. Serve ad introdurre la scena successiva, che si svolge in casa di un personaggio che incontriamo per la prima volta.

Scena 4 (Nocturno II): sempre a Lille, casa della contessa La Roche, che dopo aver mandato a letto il suo vecchio servitore canta un lungo arioso, caratterizzato dall’accompagnamento degli archi minuziosamente divisi. Lei è preoccupata per il figlio (che avevamo già incontrato in precedenza, anche al locale del caffè) poiché lui pare aver preso una sbandata per… indovina chi? Marie! Così, quando il contino rientra, lei lo convince ad accettare uno scambio: lui se ne andrà lontano da Marie, e lei si prenderà cura della povera ragazza! Ciò che si potrebbe dedurre dal testo e dalla musica di Zimmermann (in questa scena davvero diversa dal resto) è un suo occhio di riguardo per la nobiltà  (per lo meno la parte più aperta, impersonata dalla contessa) che sovrasta eticamente – pur ligia a principii di natura conservatrice - sia il mondo dei militari che quello dei borghesi.    

Scena 5 (Tropi): Lille, casa Wesener. Charlotte, sempre più irritata dalla condotta della sorella, ci fa capire che anche Mary si è dileguato per correr dietro ad altra preda, mentre la povera Marie adesso spera nel contino La Roche! Arriva a proposito la contessa che, dopo aver chiaramente denunciato la cattiva fama di cui gode Marie insieme alle sue fallaci pretese di accasarsi con un nobile, reca tuttavia la sua caritatevole proposta di prendere le due sorelle come dame di compagnia, in cambio della rinuncia di Marie a suo figlio, del resto già promesso. Qui abbiamo una filosofica esternazione della contessa sulle tristezze della vita, che viene ripresa nientemeno che da un terzetto femminile in piena regola. Poi ecco la conclusione ambigua, che ci fa sospettare che per Marie i guai non siano purtroppo finiti.

Atto IV
Preludio: introduce in modo davvero truculento questo ultimo atto, in cui si tirerà l’amara morale di tutte le vicende narrate in precedenza. Chiuso il Preludio, il primo atto visibile, anzi udibile, è la comparsa del servitore della contessa che urla drammaticamente: Marie fuggita!  

Scena 1 (Toccata III): la didascalia avverte che si tratta di una scena onirica. Siamo tornati nel locale da caffè ad Armentières, adesso ulteriormente affollato, ospitando tutti i protagonisti, nessuno escluso ed anche loro controfigure. La scena però è buia e rischiarata solo da lampi di luce, tipo psichedelico. In più ci sono tre serie di 6 film ciascuna che vengono contemporaneamente proiettate su altrettanti schermi, con tempi variamente sfalsati, i cui contenuti rievocano avvenimenti passati, o presenti? o futuri? Le voci emettono semplici lamenti, salvo alcune che cominciano a pronunciare due frasi che poi si ripeteranno: E gli unici a godere sarebbero coloro che commettono ingiustizie? / E dovrebbero tremare coloro che subiscono l’ingiustizia?

Mentre nella sala da caffè continua il tourbillon, ecco i filmati. La prima serie di film (muti) mostra Desportes in carcere, mentre scrive una lettera, poi Marie che fugge dalla casa della contessa per incontrare il fuciliere di Desportes, infine il fuciliere che aspetta Marie per consegnarle la lettera. La seconda serie (sonori) presenta Desportes che balla il twist ad una festa, poi Marie inginocchiata davanti alla contessa e infine ancora il fuciliere che scruta Marie in fuga e comincia a concupirla. La terza serie (sonori) presenta la danza dell’andalusa (come nell’atto II) poi il vecchio Wesener che si dispera, quindi ancora il fuciliere che punta Marie. La quarta serie (muti) mostra Marie che si rende conto della trappola in cui la lettera di Desportes la sta attirando, poi Marie e Mary colti in flagrante dalla contessa in giardino, infine Stolzius che va a comprare veleno per topi e Marie che viene violentata dal fuciliere. La quinta serie (muti) mostra Marie che fugge, Mary a cavallo, poi Wesener e Charlotte che tornano a casa disperati per non aver trovato Marie e infine il servitore della contessa che chiede notizie di Marie alla sorella, che alza le spalle. L’ultima serie di film (sonori) sull’attacco di secchi colpi di timpano sul RE, mostra il fuciliere che si avvicina a Marie, poi Desportes che balla il twist, infine Marie che ormai ha capito che sarà preda del fuciliere. Ora siamo nel locale di madame Bischof (un bordello in realtà) dove si ballano i più diversi balli di ogni epoca, mentre continuano ad udirsi le due frasi sull’ingiustizia. Si passa poi ad un’ambientazione virtuale in un tribunale, con i tre schermi che contemporaneamente proiettano lo stupro di Marie da parte del fuciliere; le due frasi sull’ingiustizia si ripetono, mentre i diversi personaggi esternano i rispettivi sentimenti di orrore; contemporaneamente si muovono in luoghi e tempi diversi: Marie che fugge verso Armentières, Charlotte che torna a casa, la contessa e la madre di Stolzius che si chiedono cosa fa Desportes con Marie, Desportes in carcere che teme di incontrare Marie, Stolzius che va in farmacia per acquistare veleno per topi… La scena si chiude sull’ennesima proposizione delle frasi sull’ingiustizia.

Tratto II: sono soltanto 11 battute affidate all’organo e a poche percussioni; si chiudono su un totale cromatico.

Scena 2 (Ciacona III): siamo sempre ad Armentières, a casa del capitano Mary, dove troviamo anche il suo attendente Stolzius e Desportes. Mary e Desportes discutono della vicenda di Marie, che il primo in qualche modo difende (l’avrebbe quasi voluta sposare!) mentre il secondo continua a considerare null’altro che una puttana, di cui vorrebbe perdere persino il ricordo. Stolzius ascolta tutto e mette veleno per topi nella minestra destinata a Desportes, di cui lui stesso ingurgita una parte prima di servirla in tavola. Desportes muore, Mary si avventa su Stolzius che lo previene avvertendolo del suo suicidio, prima di morire pronunciando il nome di Marie.

Scena 3 (Nocturno III): siamo sulla sponda della Lys, lungo la quale sfilano interminabili colonne di caduti in guerra, mentre un film proietta il passaggio di carri armati; si odono dagli altoparlanti comandi di esercitazioni militari in diverse lingue (tedesco, francese, russo, inglese, polacco, americano, italiano); dall’altra parte ufficiali dell’esercito si dirigono verso il locale della Bischof. Si fa sera e lì vicino il padre di Marie si aggira impietrito e senza meta, mentre il cappellano Eisenhardt recita il Paternoster e gli altoparlanti diffondono 6 gruppi di suoni legati a diverse fasi della vita: nascita, amore e morte. Una donna (Marie, che lui non riconosce) chiede a Wesener l’elemosina; lui la scaccia. Mentre il cappellano continua il Paternoster una tromba intona un motivo jazz e un altro gruppo di ufficiali va verso il locale della Bischof e alcuni jazzisti circondano Marie ballando. Dagli altoparlanti ora risuona in lingue di diversi Paesi (Germania Ovest, DDR, Inghilterra, USA, URSS e Cecoslovacchia) il comando di corsa! Marie chiede ancora qualcosa da mangiare, mentre si odono dagli altoparlanti rumori di cingoli di carri armati in avvicinamento; l’andalusa arriva di corsa, inseguita da jazzisti ubriachi, e si mette a ballare attorno a Marie. La musica tace improvvisamente, ora gli altoparlanti diffondono suoni di detonazioni di bombe, pallottole e razzi, spari di cannoni di carri armati. Wesener si commuove e dà una moneta a Marie, che si accascia. Il cappellano termina il Paternoster, Wesener se ne va dietro ai caduti, di cui si ode solo il martellante passo di marcia, per circa 150”. Tutto si fa buio, si smorzano i rumori e suona – su un unisono di RE e per 49” - l’intera orchestra (archi e fiati) sul fondo di strazianti voci umane diffuse dagli altoparlanti: gli strumenti tacciono progressivamente, a partire dai gravi verso gli acuti, fino al totale silenzio. La scena viene invasa dalla nube di un’esplosione atomica.


Ecco: qui, in questa specie di buco nero di RE, che tutto si è inghiottito, è concentrata la morale della storia.  
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Alvis Hermanis, che è un… nipotino di Lenz (lettone come il drammaturgo da cui Zimmermann trasse il soggetto) firma questo allestimento, proveniente da Salzburg. Lassù, causa la planimetria del larghissimo palco della Felsenreitschule, lui aveva disposto tutta scena su un unico piano, anche laddove (la caffetteria di Armentières) i piani dovrebbero essere due. Ora, dato che la Scala ha un proscenio largo sì, ma non sconfinato, ecco che regista e scenografo hanno dovuto (di malavoglia oppure no) diventare più rispettosi delle indicazioni di Zimmermann, e portare tutto su due piani.

L’ambientazione è apparentemente ai tempi della Grande Guerra, in uno sfondo di caserma di cavalleria (in omaggio al luogo della rappresentazione di Salzburg) e quindi con balle di paglia ovunque; le diverse scene si svolgono in quest’unico ambiente che ospita, di sotto, poche suppellettili delle 4 dimore (di Marie, di Stolzius, della contessa e di Mary) e al piano superiore prevalentemente tavoli dove stazionano i militari. La scena unica ha vantaggi e svantaggi rispetto alla presentazione di avvenimenti paralleli: efficacissima all’inizio (Lille a sinistra illuminata, Armentières a destra, in penombra, poi il contrario per la seconda scena); del tutto fuorviante nella seconda scena dell’atto II, dove Stolzius appare per primo e poi assiste di persona alla seduzione di Marie da parte di Desportes e sua madre pare abitare a Lille, mentre la nonna di Marie pare abitare ad Armentières: insomma, tutti i 5 personaggi recitano una medesima scena, in totale confusione, cosa che finisce per disorientare uno spettatore non ben preparato. Dopo le due scene iniziali, quando compaiono i militari, ecco che avremo una continua presenza di… estranei anche in scene che la dovrebbero escludere, col risultato di distrarre lo spettatore dall’azione principale; alludo ad esempio al maneggio con cavalli in circolazione, nel terzo atto, nella cui prima scena poi sono presenti (e disturbano) tutti i militari, invece dei soli Eisenhardt e Pirzel.

L’atto conclusivo viene totalmente stravolto: niente proiezioni (quindi impossibile capire ragioni e particolari dello stupro di Marie) e niente visione onirica nella prima scena: tutto si svolge come in una scena normale, con luci normali invece dei lampi intermittenti. Niente musica concreta registrata, impossibile distinguere il riferimento al locale della Bischof e al Tribunale. Lo stupro di Marie viene spostato nella seconda scena, sotto gli occhi di Desportes, Mary e Stolzius. Niente filmati né suoni bellici anche nella scena conclusiva, che perde tutta la sua potenza evocatrice, con i militari che semplicemente giacciono sul terreno (niente sfilata dei caduti). Eliminati i suoni di azioni belliche, è quindi ridotto a due soli diffusori ai lati della sala il colossale armamentario previsto da Zimmermann: di conseguenza c’è anche un chiaro accorciamento dei tempi della conclusione. 

Discutibile anche la presentazione materiale dei personaggi. I militari, che nell’originale sono solo ufficiali (o di grado ancor superiore) e per lo più nobili e di aspetto attraente (l’uniforme!) qui sembrano soldati semplici reduci dalla trincea, feriti, macilenti, malvestiti: non si capisce proprio come possano far colpo sulle ragazze! Sarebbero stati adattissimi a sfilare, come caduti, nell’ultima scena. Alla fine del primo atto poi, quando Marie si corica, dietro la parete li vediamo spiare e masturbarsi (?!) Ecco, a me pare proprio che Hermanis abbia frainteso del tutto il senso della presenza dei militari, che Zimmermann ha splendidamente sintetizzato proprio nella scena finale dell’opera: dove dovremmo veder sfilare i caduti (soldati semplici, figli del popolo) mentre gli ufficiali (gli stessi che abbiamo conosciuto nei primi tre atti) continuano a far la loro bella vita, andando al bordello della Bischof o inseguendo la ballerina andalusa!  

Charlotte e Marie ci vengono presentate a letto e… uguali come due gocce d’acqua, quando invece nell’originale si capisce immediatamente che Charlotte ha la testa sulle spalle, mentre la sorellina ce l’ha tra le nuvole! Idea davvero cervellotica e velleitaria quella di mostrarci Marie incinta (ultima scena dell’atto III) salvo poi sgravarsi di… un mucchio di paglia che si portava sulla pancia (!)  

Insomma, un’interpretazione registica a dir poco strampalata e soprattutto inefficace a far emergere la durezza del messaggio di Zimmermann: tutto finisce (quasi) come è iniziato, manca completamente lo stacco fra lo scenario da commedia dei primi tre atti e quello (atto IV) che ci dovrebbe mostrare le conseguenze spaventose dei comportamenti umani (dei maschi in particolare). Per me, quindi, una delusione.   
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Meglio è andata sul piano musicale, dove lo specialista Ingo Metzmacher ha guidato con autorità le masse orchestrali, che hanno risposto bene in tutti i frangenti, sia nelle sonorità disturbanti dei totali cromatici, che in quelle ovattate dove sono protagoniste le percussioni leggere e le tastiere.

Le voci mi son parse mediamente all’altezza, a partire da Laura Aikin (Marie) che ha una parte oggettivamente proibitiva. Efficaci Thomas E.Bauer (Stolzius) e Daniel Brenna (Desportes). Ottimo il Pirzel di Wolfgang Ablinger-Sperrhacke e rimarchevole (data… l’età, va verso i 70) la prestazione di Gabriela Beňačková (contessa La Roche, che è una parte quasi da soprano). Ma tutti quanti hanno collaborato alla riuscita (musicale) dello spettacolo. 

Spettacolo presentato in un Piermarini con tasso di occupazione di poco superiore al 50%, e accolto alla fine da consensi praticamente unanimi.

23 gennaio, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 18


Dopo aver diretto la Nona a Capodanno, Oleg Caetani torna – con il braccio sinistro al collo! - sul podio dell’Auditorium per un concerto che accosta due brani quasi sconosciuti ad un ormai inflazionato Ciajkovski: i primi due sono contemporanei come epoca ma non potrebbero essere più lontani come impostazione, il terzo è la pretenziosamente tragica Quarta del russo.

Si apre con uno dei tanti autori tardo romantici, Max Bruch, di cui si esegue però un brano assai poco presente nei cartelloni sinfonici: il Concerto per clarinetto, viola e orchestra. Occasione per laVERDI per mettere in mostra le qualità di due prime parti – ed entrambe femminili! - dei rispettivi ruoli: Raffaella Ciapponi e Miho Yamagishi.

Il concerto (la parte di clarinetto, scritta da Bruch per il figlio, è sostituibile da una per violino) è dell’anno di grazia 1911. In quell’epoca il Mahler morente aveva già completato la Nona e il Lied e Strauss aveva già alle spalle cosucce quali Elektra e Salome; Schönberg si era da tempo incamminato sulla strada atonale e Stravinski da parte sua era ormai arrivato alla ribalta; non parliamo poi di Debussy. Non meraviglia quindi che almeno una buona parte del pubblico di allora abbia strabuzzato gli occhi le orecchie di fronte ad un pezzo che in quel momento sapeva di minestra riscaldata o di carne ammuffita; o anche di ciofeca invece che di profumato caffè.  

In realtà il problema sta nel… manico, come dimostra l’immortalità della musica antidiluviana (nel 1948!) uscita dalla penna di Strauss: e di manico, purtroppo per lui, Bruch ne aveva evidentemente pochino. Però, se in assoluto non ci sarebbe molto da salvare di questo brano, deboluccio nella forma e miserello nei contenuti melodici, va riconosciuto che non è poi peggiore di tanta altra musica di quel genere, che solo per avere 30-40 anni di più veniva 100 anni orsono e viene ancor oggi considerata con maggiore indulgenza.

Prendiamola quindi con… relativistica filosofia e intanto approfittiamone per fare i complimenti alle due simpatiche interpreti, che vi hanno profuso tutto il loro virtuosismo e la loro sensibilità.        

Sicuramente allineato con le tendenze del suo tempo fu invece Rudi Stephan, compositore tedesco coetaneo di… mia nonna (smile!) e purtroppo morto a soli 28 anni (come mio nonno, ahilui) nella Grande Guerra, sul fronte orientale, a Tarnopol. Di lui ascoltiamo Musik für Orchester, un brano che – tutto al contrario di quello di Bruch – si cala perfettamente in quel periodo storico (1912) in cui da un lato vennero a maturazione i germi dell’atonalità (che avrebbero poi portato alla dodecafonia) e dall’altro (ad ovest del Reno) imperava l’impressionismo di Debussy ed avanzavano prepotentemente le nuove tendenze della musica tonale, di cui si faceva interprete Stravinski.

La serietà programmatica dell’opera è testimoniata dall’approccio squisitamente sinfonico di Stephan. Che scolpisce subito un tema (a) dal sapore tristaniano; poi un altro (b) e quindi un terzo (c) impiegato in una fuga:

Questi tre temi principali vengono ripresi e sviluppati con grande maestrìa e con intelligenti variazioni di strumentazione e sonorità. Nella sezione fugata emerge anche una robusta preparazione di Stephan nel trattamento contrappuntistico (ad esempio il tema c elaborato per inversione). Il brano chiude in un vibrante DO maggiore con due sferzate orchestrali costruite sul tema a.

Insomma, un lavoro interessante e intelligente che Caetani, che ha l’indubbio merito di aver tolto dalla polvere la figura e l’opera di Stephan, ha diretto con estrema cura del dettaglio, guadagnandosi quindi un meritato successo personale.

Ha chiuso il concerto la Quarta di Ciajkovski, uno dei pezzi ormai entrati nel sangue dell’orchestra. Che Caetani, a dispetto della menomazione che gli ha (si spera momentaneamente) impedito l’uso del braccio sinistro, ha guidato con grande autorevolezza, trascinando i ragazzi ad una prestazione maiuscola.

Unico neo della serata… il pubblico, composto dai soli (anche se tanti) aficionados.

19 gennaio, 2015

L’inconsueto dittico torinese

 

Ieri pomeriggio il Regio torinese ha ospitato la seconda dello strano dittico Granados-Puccini. Teatro con vasti spazi vuoti, segno che questa proposta non deve aver convinto del tutto. E devo dire che all’atto pratico ha convinto poco anche il pubblico presente, che alla fine ha applaudito calorosamente, ma per non più di 5 minuti e di 3 chiamate del cast al proscenio, per poi incappottarsi e uscire al freddo.

Goyescas. Comincio dalla regìa: De Rosa non ha fatto il  miracolo (obiettivamente solo un miracolo potrebbe rendere teatralmente accattivante un simile soggetto). Così il regista ha trasformato i primi due quadri in un ininterrotto balletto moderno – avvalendosi della pregevole prestazione dei ragazzi del Balletto Civile – e poi all’inizio del terzo ci ha fornito una mirabile sintesi dei due quadri più famosi di Goya: la Maja vestida che, tramite disinvolto spogliarello, si trasforma sul posto in Maja desnuda!

Infine, tanto per far qualcosa di originale, fa combattere Fernando con un’arma impropria costituita da un paio di lunghe corna posticce di becco (evidente allusione allo status del capitano!) con le quali corna peraltro l’infilzato ammazza l’infilzante: e così anche lo sbifido torero si ha il fatto suo, e la smetterà per sempre di insidiare le Carmen Rosario di passaggio.

Quanto alle voci, di Giuseppina Piunti si può affermare senza tema di smentita che sia l’interprete ideale della… maja desnuda (è anche meglio del dipinto, non so se mi spiego!) Ecco, se le doti canore fossero pari a quelle del suo sontuoso fisico, lei sarebbe meglio della Callas (smile!) Ma a parte le battute di bassa lega, lei non è la Callas però non è nemmeno l’ultima arrivata, e mi è parsa la più efficace del quartetto di interpreti. Discreto il tenore Andeka Gorrotxategui (Fernando) e oneste le prestazioni di Anna Maria Chiuri (Pepa) e Fabián Veloz (Paquiro). Alejandro Escobar, tenore che nel secondo quadro canta al posto del prescritto soprano, ha pure fatto il suo dovere.

Bene il coro di Fenoglio, mentre Renzetti non mi era piaciuto molto giovedi in radio e ancor meno mi è piaciuto ieri dal vivo: nei primi due quadri ha presentato un ammasso informe di suoni, privo dei tipici chiaroscuri di Granados. Il famoso Intermezzo poi è stato affrontato a passo di lumaca stanca, oltre ad essere privato del suo Höhepunkt, con corni e tromba annegati in un marasma indefinito. Evidentemente fra il Maestro e Granados non ci sono affinità elettive (oppure è mancata un’accurata preparazione).
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SuorAngelicaQui De Rosa cerca di dire qualcosa di suo, e quindi inventa l’ambientazione in un ospedale psichiatrico (femminile, in omaggio al sesso unico dell’opera) gestito da religiose, che per la verità sembrano assai poco caritatevoli nei confronti delle povere ricoverate, trattate proprio come nei più famigerati istituti fatti chiudere a suo tempo da Basaglia.

Ora, che la religiosità di Puccini fosse tutta particolare, è ampiamente acclarato, però l’opera è tutto tranne che una parodia o una denuncia della religiosità: persino le suore del convento di sua sorella apprezzarono il soggetto e la musica del Maestro. Non credo apprezzerebbero oggi questa messinscena.

La cui conclusione poi mi pare proprio tradire lo spirito dell’opera, dove la protagonista rimane sola con la sua tragedia, dalla quale tenta di uscire con l’aiuto della natura, rappresentata da fiori ed erbe tanto amorevolmente coltivati. Invece De Rosa fa ammattire pure Angelica, che in preda ad un raptus mette violentemente a soqquadro l’armadietto dei medicinali in cerca del veleno con cui suicidarsi. Poi, invece di essere consolata dal finale miracolo con l’apparizione del figlio, ecco che riceve da una matta il suo bambolotto, mentre un’altra la scuote ripetutamente per accertarsi che sia proprio morta. Mah… qui l’unico consenso lo darei alle ragazze del Balletto Civile, che impersonano le dementi.

Sul piano musicale le cose sono andate decisamente meglio (tutto è relativo…) La protagonista principale, Amarilli Nizza, ha mostrato di sapersi calare assai bene in questa parte che alterna toni dimessi e riflessivi a scatti di passione, amor materno che arriva al sacrificio, ma anche ribellione contro i pregiudizi della società. A lei è andato il maggior consenso del pubblico.

Anna Maria Chiuri è stata una Principessa un po’ più efficace della Pepa spagnola. Personalmente ho però apprezzato di più la sua prestazione attoriale che non quella vocale. Anche con lei peraltro il pubblico è stato assai generoso, così come con la Badessa Maria Di Mauro.  

Tutte le altre protagoniste hanno parti di portata quantitativamente limitata: accumunerei tutte in un giudizio discreto, con una particolare citazione per la Genovieffa di Damiana Mizzi.

Anche qui bene il coro di Fenoglio e quello dei piccoli del Conservatorio; bene anche Renzetti, che con Puccini evidentemente ha una consuetudine antica e quindi una conoscenza approfondita delle sue partiture.
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Come detto, una proposta non del tutto convincente nel suo insieme (meglio, se ben ricordo, era andata la coppia Puccini-Zemlinsky della scorsa stagione): aspettiamo in futuro il Tabarro accoppiato a… ?   

17 gennaio, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 17


Programma di musiche dall’est-europeo per questa puntata della stagione de laVERDI: ed in particolare dalla Boemia  - il Centro ceco di Milano ha patrocinato la serata - con un terzetto di compositori formato da un sandwich in cui due (tardo) romantici imprigionano un (relativamente) moderno.   

L’impaginazione del concerto, di taglio assolutamente tradizionale (brillante brano di apertura + concerto solistico + sinfonia) ci fa viaggiare da Smetana (anni ’70 dell’800) a Martinů (metà del ‘900) per poi retrocedere alla fine dell’800 con Dvořák. E la circolarità del percorso non fa che sottolineare la continuità di una tradizione musicale che – invece di farsi corrompere dalle più drastiche innovazioni del ‘900 – ha saputo mantenere la propria identità, pur non chiudendosi in se stessa: se Smetana fu il pioniere della scuola nazionale boema, Dvořák e Martinů vi si mantennero fedeli pur non rinunciando – Martinů in particolar modo - a confrontarsi con tutto ciò che si muoveva nell’occidente europeo e americano.

Sul podio torna dopo anni un nipotino di Salonen, il 35enne Pietari Inkinen che in questi ultimi anni ha cercato (e trovato) fortuna assai lontano da casa (Nuova Zelanda, Australia, Giappone) e che tornerà prossimamente in Europa: guarda caso, proprio a Praga! Così deve aver cominciato l’ambientazione ceca studiando per bene i tre autori in programma qui in Auditorium. La sua impronta già si è sentita nella Moldava, affrontata con verve pari all’attenzione ai dettagli e ai mille colori della partitura più famosa del ciclo Má Vlast, aperta dai mirabili rigagnoli delle due sorgenti del fiume evocati dal duo di flauto Crepaldi-Petrella.

Un pianista boemo, Pavel Kaspar (tastiera 1) ha fatto poi coppia con il nostro Roberto Prosseda (tastiera 2) nel Concerto per due pianoforti di Martinů, del 1943: opera raramente eseguita, a dispetto della sua obiettiva bellezza, proprio perché richiede due pianisti di grande livello tecnico, date le difficoltà che presenta. E non a caso entrambi i solisti hanno suonato con lo spartito sul leggio dello strumento. Merito de laVERDI avere in repertorio questo pezzo, già eseguito nel 2011 con Wayne Marshall e la coppia Micallef-Inanga.

Kaspar e Prosseda hanno risposto alle ripetute chiamate con un bis alquanto particolare: la trascrizione per due pianoforti, opera di Debussy, del quinto dei sei Studi in forma di canone per il pedal-piano (pianoforte con pedaliera) di Robert Schumann (qui da 2’57” a 5’12”): evidente, nella scelta, lo zampino di Prosseda, che ultimamente si sta proprio interessando a quello strano tipo di pianoforte, in particolare incidendone le opere di Gounod. 

Ha chiuso la serata l’Ottava di Dvořák, una sinfonia magari un po’ pretenziosa, con momenti di eccessiva prosopopea nei due tempi esterni ma con grandi slanci lirici nei due tempi interni, dove più emerge l’autentico spirito boemo dell’opera. Inkinen anche qui ha sfoggiato sensibilità e misura, guidando un’orchestra in grande forma in tutte le sezioni, ma con gli splendidi violoncelli capeggiati da Scarpolini che si meritano una menzione particolare.

16 gennaio, 2015

A Torino la prima volta di Goyescas

 

Il Regio torinese ha deciso di spacchettare il trittico pucciniano e di proporlo in tre rate e in stagioni successive (ed anche a ritroso, rispetto alla sequenza originale) abbinandone di volta in volta un’opera ad altra composizione breve. Così, dopo quello della scorsa stagione - costituito da Schicchi e Tragedia fiorentina – ecco quest’anno un altro strano quanto inedito dittico: Puccini abbinato stavolta a Granados.

Ieri sera è andata in onda la prima, trasmessa da Radio3.

I labili legami che collegano le due opere si riducono alla quasi contemporaneità delle rispettive prime rappresentazioni (1916 Goyescas, 1918 SuorAngelica) e al Teatro che le ospitò: il MET. Dal punto di vista dei contenuti (triangoli amorosi e sangue) ci sarebbe assai più affinità fra Goyescas e Tabarro, caso mai…
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Goyescas ebbe in realtà una genesi assai complessa: nacque nel 1910-1911 come una suite di 6 pezzi per pianoforte, ispirati più o meno direttamente a dipinti di Goya. Ad essi si aggiunse poi, nel 1914, un settimo brano (El Pelele): qui si possono ascoltare nell’interpretazione di Alicia DeLarrocha.

1. Los requiebros (apprezzamenti galanti) si ispira alla 5a delle 80 acqueforti della collana Los Caprichos del pittore aragonese, intitolata Tal para qual:


2. Coloquio en la reja (Conversazione attraverso la grata);

3. El fandango de candil (Fandango della lucerna);

4. Quejas, o La Maja y el Ruiseñor (Lamento, o La fanciulla e l’usignolo);

5. El Amor y la muerte (Balada) (Ballata di amore e morte) ispirato alla 10a acquaforte dei Caprichos, di pari titolo:


6. Epilogo: Serenata del espectro (Epilogo: Serenata dello spettro);

7. El Pelele: Escena Goyesca (Il fantoccio) ispirato al dipinto su cartone (m. 2,67x1,60) di pari titolo, modello per un arazzo per Carlo IV all’Escorial (1792):


La suite pianistica non ha propriamente una trama, tuttavia i sei brani originali – dai loro titoli - evocano scene e situazioni di vita: si va dal corteggiamento al colloquio, al ballo, alle pene di una ragazza, alla fine tragica di un amore e al ritorno dello spettro del morto. Ecco, con un poco di ulteriore immaginazione e di riordino della sequenza, e impiegando anche il settimo brano (El Pelele) oltre a spezzoni di un paio di sue Tonadillas, Granados impaginò nel 1914 la sua opera breve, che fu poi testualizzata (con un processo inverso a quello solito dove è un testo ad essere musicato) da Fernando Periquet che ne perfezionò il soggetto popolar-verista (una specie di Cavalleria, o di Pagliacci in sedicesimo). La cui struttura prevede tre quadri per un totale di dieci scene ed ha un finale di tipo trasfigurazione, che rese inservibile, perché con esso incompatibile, il sesto brano della suite (lo spettro).

Sommariamente abbiamo quindi la seguente corrispondenza fra l’Opera e la Suite (in realtà i motivi si intersecano maggiormente):

opera
suite & al
quadro 1
scena 1
scena 2
scena 3
scena 4

brano 7
brano 1

brano 7
quadro 2
scena 5
scena 6
scena 7

brano 3
tonadillas
quadro 3
scena 8
scena 9
scena 10

brano 4
brano 2
brano 5

Possiamo seguire l’opera in questa esecuzione in forma di concerto a Barcellona.  

Dopo una breve introduzione strumentale, eccoci al Quadro primo, ambientato in una spianata alberata di Madrid, dove nella scena iniziale (1’48”) ragazzi e ragazze (majas e majos) se la spassano allegramente. In particolare le femmine si divertono facendo volteggiare in aria un pupazzo (El Pelele) e non per nulla la musica che udiamo in sottofondo richiama precisamente il N°7 della suite pianistica:

 
A 4’24” fa il suo ingresso uno dei protagonisti, Paquiro, che ha fama di sciupafemmine (manco a dirlo è… un torero) e subito si dà a dispensare galanti apprezzamenti alle ragazze, guardato invece con una certa diffidenza dai maschi. Si odono ora i campanelli di un calesse che si avvicina: è la donna di Paquiro, Pepa.   

La seconda scena si apre appunto con la Pepa che scende dal suo carretto (trainato da cani, precisa la didascalia in versione inglese sullo spartito!) A 6’30” si gode il trionfo tributatole da tutti, e il coro misto (7’14”) ne intona le lodi sul secondo motivo variato del N°1 della suite. A 7’25” Paquiro si accoda alquanto svogliatamente alle lodi generali per la sua donna, che da parte sua gli conferma pieno amore, mentre tutti riprendono le loro acclamazioni per la coppia più bella del mondo. Ma adesso (9’02”) si avvicina un’altra protagonista della nostra storia, che Paquiro riconosce, rivolgendole apprezzamenti sospetti, sul tema principale del N°1:

   
È Rosario, una nobildonna che arriva in portantina (9’26”) ad aprire la terza scena: pare cerchi qualcuno cui ha dato appuntamento, e non si vede. Anche Paquiro (9’35”) si chiede chi Rosario stia cercando e poi, vedendola circospetta, (9’44”) avanza la sua sfacciata proposta: ti ricordi di quel ballo della lucerna? Perché non ci torni anche oggi? Quasi tutta la scena è supportata in sottofondo dai due motivi del N°1 della suite pianistica.

Adesso facciamo conoscenza del quarto ed ultimo protagonista: il capitano Fernando, che si aggirava lì di nascosto (forse proprio per sorprendere la sua amata Rosario in flagrante?) ed ha ascoltato le parole di invito di Paquiro alla sua donna. A 9’53” si mostra e comincia ad esternare i suoi dubbi e così Paquiro ha capito chi era la persona che Rosario aspettava. Fernando (10’05”) riprende il secondo motivo del N°1 confessando i suoi sospetti sul fascino che il torero deve avere sulla sua donna:

 
Adesso le voci dei quattro protagonisti, con un paio di interventi del coro, si sovrappongono esternando i rispettivi stati d’animo: i sospetti di Fernando, la costernazione di Rosario, il desiderio avvampante di Paquiro per la nobildonna e l’intenzione di Pepa di impedire a Rosario di portarle via il suo uomo. Ma è proprio Pepa che sfida il destino, avvertendo Fernando dell’ora in cui si terrà il ballo, al quale il capitano ora impone a Rosario di partecipare, come gesto di sfida verso lei e Paquiro.

14’25” Sul tema del N°7 ritorna El Pelele, contrappuntato dal N°1, a costituire la breve quarta scena che chiude il quadro.

Prima del quadro successivo, ecco (16’04”) il famosissimo Intermezzo, che spesso e volentieri viene eseguito separatamente nei concerti. Composto in vista della prima al MET (in sostituzione di un altro presente nell’edizione originale del 1914) è in tempo 3/4 e inizia con una melodia che richiama vagamente l’attacco della Valse triste di Sibelius. A 18’09”, su un poderoso tremolo di MIb maggiore dei violoncelli, ecco i due corni esplodere l’enfatica frase musicale che è diventata il simbolo dell’opera, subito spalleggiati dalla tromba che ne completa l’arco melodico:

 
Poi un’impennata dei violini dà inizio ad una lenta ed inesorabile discesa verso la conclusione, sul secondo motivo del N°1.

Il Quadro secondo è ambientato al ballo della lucerna e la quinta scena si apre (21’21”) per l’appunto con il caratteristico ritmo di fandango del N°3 della suite pianistica:

Ragazzi e ragazze ballano incessantemente, intonando (22’08”) il tema del N°3:


Ma sono anche in attesa di ospiti di riguardo, che infatti arrivano (23’02”) con Rosario che muore di paura (però, magari in incognito, la nobildonna in quel postaccio aveva già messo piede, vero?) A 23’10” è la sbifida Pepa ad accoglierla con sarcasmo (ah, ecco qui una gran dama che vuol fare esperienze forti…)       

Ora assistiamo a schermaglie verbali fra i convenuti e Fernando, che Paquiro (24’21”) tronca invitando il capitano a verificare se la sua donna desideri ballare; subito incalzato da Pepa, che ancora chiede sarcasticamente cosa ci è venuta a fare lì quella gran dama. La scena si chiude con un ultimo sberleffo di Pepa e degli astanti nei confronti della malcapitata Rosario.

A 25’37” ha inizio la sesta scena, con una citazione letterale della Tonadilla Amor Y odio, sulla quale Paquiro diffida Fernando dall’esser venuto lì con intenzioni diverse dal ballo:


La scena drammaturgicamente aggiunge assai poco a quanto già visto e udito: abbiamo reiterati screzi verbali fra Paquiro e Fernando, mentre Rosario è sempre più agitata e non vede l’ora di andarsene. Gli astanti in coro fanno commenti preoccupati per la piega che sta prendendo la situazione, ed infatti ad un’ennesima spavalderia di Fernando si sfiora la rissa, con la povera Rosario che addirittura sviene.

Paquiro e Fernando (27’55”) approfittano del parapiglia per… accordarsi su ora e luogo del duello che dovrà risolvere il loro contenzioso. Finalmente Fernando e Rosario se ne vanno, mentre Paquiro (28’15”) ordina perentoriamente la ripresa del ballo, per quanto sia deluso per l’allontanamento di Rosario.   

Ballo (fandango) che occupa (29’04”) la parte finale della scena settima, dopo che Pepa e i ragazzi hanno inneggiato alla bella vita. Sopra le voci del coro spicca quella di un soprano solista, che magnifica le doti della vera maja.

A 32’06” abbiamo un nuovo Interludio, che introduce adeguatamente l’atmosfera cupa del quadro conclusivo. Significativamente, è il corno inglese ad esporre una mesta melodia, seguito poi da clarinetto ed oboe. Ora un flauto (35’08”) emette i caratteristici gorgheggi di un usignolo.

Si apre (35’22”) il Quadro terzo nella zona antistante il palazzo di Rosario. L’ottava scena ci mostra la donna che contempla la notte di luna piena ed ascolta il canto dell’usignolo. E il suo canto si snoda sulla stupenda melodia del N°4 della suite pianistica (quella il cui incipit verrà ripreso nel 1940 da Consuelo Velázquez nella famosa canzone Besame mucho):

I fiati soprattutto accompagnano il suo canto e i flauti (37’45”) ricordano nientemeno che il risveglio di… Brünnhilde!

A 41’01” ha inizio la nona scena, con Fernando che si avvicina a Rosario, che si appresta a rientrare in casa: i due sono protagonisti di un duetto d’amore per il quale Granados impiega le note del N°2 della suite pianistica:

Fernando indaga i sentimenti della donna, che giura di essergli sempre rimasta fedele. Il capitano insiste con i suoi dubbi e i suoi sospetti, ma Rosario sembra riuscire a convincerlo. A 44’55” Fernando si abbandona ai sentimenti e fra i due pare proprio tornare la serenità, con il loro canto (47’20”) che ha un’estatica progressione quasi tristaniana!

Ma il destino incombe: a 47’53” si odono, nel pizzicato degli archi, i passi di Paquiro, arrivato all’appuntamento per il duello. Fernando se ne avvede e improvvisamente cerca una scusa per lasciare Rosario (48’56”) che presto comprende la ragione dello strano atteggiamento dell’amato. A nulla valgono i suoi tentativi di trattenerlo, e Fernando l’abbandona per raggiungere il rivale.

A 49’12” un drammatico sfogo orchestrale accompagna voci e rumori che provengono da dietro la scena: due urli, di Fernando ferito a morte e di Paquiro, disperato per l’atto appena compiuto.   

A 49’45” sono le note del N°5 della suite pianistica ad introdurre la decima scena, che chiude l’opera:


Rosario soccorre l’amante moribondo (50’45”) le sembra tutto un brutto sogno, chiede a Fernando di guardarla ancora, ma (52’12”) lui sente la morte avvicinarsi: le note meste nel violino (che nel N°5 richiamano un frammento del N°4) accompagnano il suo spirare fra le braccia di Rosario. La quale (52’53”) sembra non accorgersi di nulla, e domanda all’amato perché se ne vuole andare via da lei. Poi (54’22”) realizza con disperazione che tutto è ormai perduto, e non le resta (55’21”) che invocare per due volte Amor! e poi meditare sull’eterno mistero di vita e morte, mentre l’orchestra chiude (a differenza del N°5, che finiva in minore) su un celestiale SOL maggiore.
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Beh, non si può certo parlare qui di capolavoro, al di là della bella musica di Granados: dal punto di vista drammaturgico la sostanza è davvero scarsa, e quasi assente è la scolpitura musicale delle personalità dei protagonisti; il tutto si riduce a quadretti di vita popolare (come in fondo sono i pezzi pianistici da cui l’opera fu derivata). Non è quindi un caso se le (comunque scarse) esecuzioni siano quelle in forma di concerto.

Dall’ascolto radio, mi sentirei di lodare il coro e l’orchestra, mentre non mi sono parsi impeccabili i cantanti. Quanto a Renzetti, ho percepito tempi eccessivamente sostenuti ed enfatici, ma qui è questione di… gusti. 
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Altra… musica con SuorAngelica, sotto ogni punto di vista: soggetto, teatro, suoni. Ed anche esperienza degli interpreti, a cominciare da Renzetti, parso a me assai più a suo agio che non con Granados: equilibrio nei tempi e attenzione alle infinite sfumature di cui questa partitura, solo apparentemente facile, è ricchissima. Voci che, salvo prossima verifica dal vivo, mi son parse sufficientemente all’altezza.

Quanto agli allestimenti, le poche battute percepite dalla Susanna e dalla sua chiacchierata con De Rosa non fanno presagire cose mirabolanti, ma anche qui aspettiamo di toccare con… occhio.

09 gennaio, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 16


Il 2015 della stagione principale de laVERDI si è aperto nel nome di Nino Rota, di cui lo specialista Giuseppe Grazioli ha offerto Mysterium, la cantata composta più di mezzo secolo fa su commissione della Pro Civitate Christiana di Assisi. L’amico del compositore, Vinci Verginelli scelse - quale testo delle 7 parti - versi delle sacre scritture, in lingua latina. Qui la registrazione della prima del 29 agosto 1962.
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Proprio in quei mesi stava maturando la più acuta crisi di tutto il periodo della cosiddetta guerra fredda, con l’Unione Sovietica che imbottiva di missili il lider-maximo dopo che il mite JFK aveva invano dato seguito alla decisione del predecessore Eisenhower di riconquistare democraticamente l’isola sbarcando presso la baia dei maiali. 

Come dire: dopo mezzo secolo siamo punto e daccapo, con una guerra alle porte: solo che questa è inafferrabile, poiché è strisciante, asimmetrica, sbifida, portata casa per casa da freelance del piano di sotto, magari da quegli stessi ragazzi che ti tengono pulite le scale ogni santo giorno. Una guerra dove soluzioni tipo Hiroshima o Dresda che (per quanto faccia ribrezzo ammetterlo) hanno funzionato, non sono (purtroppo o per fortuna?) applicabili.

E allora, per non cadere in tentazioni pericolose, meglio rifugiarsi in una delle poche oasi di pace che ci rimangono aperte: quella dell’arte e della musica, che nella nostra civiltà hanno saputo affrancarsi da dogmi e integralismi. Come dimostra Mysterium, un’opera che non divide ma affratella, come ben esplicita l’ultimo versetto cantato dalle voci dei fanciulli: Tu che, mediante la varietà di tutte le lingue, hai riuniti i popoli in una sola fede. E come ha ricordato al pubblico Giuseppe Grazioli prima di alzare la bacchetta.
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Sia la scelta, abbastanza libera, dei testi, che la suddivisione in 7 parti ed anche la durata complessiva richiamano – chissà poi se la cosa fu voluta o puramente casuale – la struttura del Requiem brahmsiano, che precede l’opera di Rota di quasi un secolo. Curioso anche che l’ultimo brano di entrambe le opere contenga un richiamo (per quanto diverso nella forma) alla Parola dello Spirito e chiuda sfumando in un’atmosfera di pace e serenità.  

Grazioli, che oggi è senza rivali come interprete di Rota (cui ha dedicato serie di concerti qui in Auditorium seguite da numerose incisioni e di cui poco più di un anno fa diresse proprio il Mysterium al SanCarlo) ha guidato da par suo solisti e masse orchestrali e corali de laVERDI, facendo emergere tutta la profonda spiritualità del suono e del canto, che percorre quest’opera da cima a fondo. 

Fra gli interpreti ha spiccato il basso Gianluca Buratto, di sicuro il più impegnato (quantitativamente, ma anche qualitativamente) dalla partitura di Rota: bella voce brunita, ha sfoggiato grande autorevolezza e portamento. 

Onorevoli le prestazioni del soprano Elena Xanthoudakis, del contralto Giuseppina Bridelli e del tenore Alessandro Liberatore. Come sempre all’altezza il Coro di Erina Gambarini, sia nelle parti più intimistiche che nelle esplosioni poderose. Così come si è fatto apprezzare il Coro dei piccoli di Maria Teresa Tramontin.

Grande successo in un Auditorium gremito.