trallalalera, trallalalà!

droni di qua, razzi di là, bombe di su, spari di giù...

21 dicembre, 2011

Ancora sul Don Giovanni scaligero


Ieri sera quinta rappresentazione dell'opera che ha inaugurato la stagione della Scala, tornata – sul fronte musicale - in amministrazione controllata, dopo anni di allegra anarchia. Chissà se Barenboim, al momento di proporre (o decidere) l'apertura della stagione 11-12, già aveva in cuor suo maturato l'intendimento di accettare l'investitura formale a Direttore musicale del teatro… fatto sta che 4 delle 11 rappresentazioni del Don Giovanni, quelle di gennaio, saranno dirette da un ex-clarinettista dei Berliner, smile!

Il Daniel, che già non aveva digerito bene quel troppo lento piovutogli addosso a SantAmbrogio, ha se possibile rincarato la dose, allascando ancor più i tempi, in certi momenti fino a livelli insopportabili. Però il pubblico di ieri non ha fatto storie, buon per lui. L'orchestra non ha demeritato, ma se il Kapellmeister, alla fine dei due atti, si ferma per due minuti a discutere con la spalla come farebbe dopo o durante una prova… non mi pare un buon segno.

Quasi all'ultimo momento (molti lo scoprono dall'annuncio dei telefonini) si viene a sapere che la bella e famosa Anna non ci sarà, colpita da un'influenza che deve avere uno strano decorso pianificato: a letto il 20, a teatro il 23, di nuovo a letto il 28! Quindi due dei principali protagonisti del primo cast mancano (Mattei però era programmaticamente a riposo). Al loro posto Tamar Iveri e Ildebrando D'Arcangelo.

La prima non è la Netrebko ma, almeno rispetto a quanto udito in TV il 7, non l'ha fatta poi troppo rimpiangere (buona notizia per lei, o grama per la super-star?) Voce di buona profondità e gradevole timbro. D'Arcangelo mi è abbastanza piaciuto, peccato che la sua voce – assai cavernosa - sia molto più adatta al Commendatore che al Don (smile!) Anche lui, sempre rispetto alla ripresa TV, non mi ha fatto più di tanto rimpiangere Mattei. Per entrambi discreto successo e un paio di timidi applausi a scena aperta (in tutta la serata questi sono stati erogati con il contagocce e a volume ridottissimo).

Bryn Terfel si conferma (ai miei occhi-orecchi) un Leporello molto volgare. Il che è assai appropriato al personaggio, sul piano attoriale, un filino meno su quello del canto!

Barbara Frittoli è stata la trionfatrice della serata, anche se la voce, nella banda alta, ha più di un problema, soprattutto nei passaggi veloci, meglio sulle note tenute.

Di Giuseppe Filianoti mi vien da dire: senza infamia e senza lode. Rispetto al 7 in TV mi è parso meglio in forma e meno in difficoltà.

Anche Anna Prohaska deve aver fatto progressi: ieri non mi è dispiaciuta affatto, e anche il pubblico alla fine l'ha accolta con calore.

Invece Štefan Kocán mi ha lasciato ancora perplesso, una prestazione piuttosto incolore, voce sgradevole e poco penetrante.

Kwangchul Youn mi era parso meglio in TV, ieri ha lasciato un pochino a desiderare, persino con qualche problemino di intonazione, m'è sembrato.

In definitiva, una serata che ha galleggiato sul livello di sufficienza, che per il teatro più importante d'Italia non è un gran merito, diciamolo.
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Ma prima che sul fronte musicale, questo DonGiovanni ha destato – e non si sono ancora sopite – un sacco di polemiche e diatribe sull'allestimento di Carsen (che per la verità a SantAmbrogio è stato buato sì, ma neanche troppo smaccatamente). Ormai ci manca solo che si indicano concorsi a premi (primo premio: una sua foto con dedica) per chi propone la migliore decriptazione delle intenzioni del regista, spiegando agli ingenui, nel modo più convincente, il significato dello specchio ondulante, o dell'uso delle quinte scaligere, o del colore rosso, o delle passeggiate di personaggi in platea, o dei continui cambi d'abito che sono disseminati in ogni scena. Chi sperasse di trovare qualche interessante indizio nelle Note di regìa - ben quattro pagine del programma di sala – rimarrebbe purtroppo deluso. Poiché lì si fa riferimento in modo particolare, per non dire esclusivo, a come interpretare la personalità dei diversi protagonisti (che è effettivamente uno degli aspetti principali di una messinscena) : così vien detto che DonnaAnna è sicuramente (e non solo probabilmente) una donna reprensibile e irresistibilmente attirata dal Don (però Carsen ammette che gli risulta difficile capire perché poi lo smascheri pubblicamente e racconti a DonOttavio i fatti di quella notte). Il quale DonOttavio, non già un fustigatore di costumi e paladino dell'onore e della rettitudine, sarebbe in realtà, secondo Carsen, un epigono un po' frustrato, e segreto ammiratore del Don. Di DonnaElvira leggiamo che, se il Don si macchia di qualche eccesso, lei… del doppio! Quanto al protagonista, sarebbe un tipo che non riconosce legge né religione, pronto a sfidare qualunque potere, persino la morte (che lui invita nientemeno che a cena) ma soprattutto un esistenzialista che non merita per questo l'inferno.

Insomma, più o meno ciò che Carsen ci fa vedere. Ma si sa che oggi la rappresentazione di un'opera – soprattutto se è un famosissimo capolavoro – mica può limitarsi a mettere in scena ciò che si legge su libretto e partitura: effettivamente i testi son quelli e le note anche, ma il gran divertimento del pubblico mica viene da lì (roba vecchia, vista e rivista in tutte le salse) no, viene dalle domande che la messinscena suscita nella testa dello spettatore, che sarà tanto più soddisfatto e gratificato, quanto più dovrà pensare - durante lo spettacolo e poi per interi giorni e notti insonni - al significato profondo che il regista ha magicamente saputo cavar fuori da quella storia trita e ritrita.

Ecco quindi che Carsen ci stupisce con trovate quali lo specchio gigante, i protagonisti che si aggirano fra il pubblico, ed entrano o escono dalla scena passando da platea e palchi, invece che dalle quinte, e una serie infinita di… quinte finte che paiono riprodursi per partenogenesi. E subito noi spettatori cominciamo a pensare, pensare, pensare… a problematiche e concetti legati ai rapporti fra realtà e finzione (anzi, fra realtà reale e virtuale!) fra teatro e società, fra artista e pubblico. E purtroppo nelle Note di regìa non troviamo suggerimento alcuno che ci guidi, chè il regista – un poco sadicamente - non vuol privarci del gusto e del bello della ricerca della spiegazione più centrata dei suoi messaggi subliminali. Peccato che, tutti impegnati a pensare, magari ci lasciamo sfuggire la bellezza di qualche passaggio musicale di un tal Mozart (o al contrario, scambiamo per canto e suono celestiali anche le stonature più macroscopiche di qualche cantante e i biascicamenti dell'orchestra)… pazienza, tanto siamo venuti a teatro per fare esercizi di pensiero filosofico, mica per goderci un'opera immortale!

Personalmente dichiaro il mio completo disinteresse per questo secondo piano di lettura delle opere, che trovo non solo estraneo alle finalità del teatro musicale, ma spesso addirittura deleterio, in quanto finisce per adulterarne e contraffarne i capolavori.

Torniamo ai personaggi di Mozart e DaPonte. Che da duecento anni ci si accapigli sulla figura di DonnaAnna (sgualdrina di buona famiglia o integerrima figlia di hidalgo) è una delle prove della genialità del librettista (ma anche del compositore, che ne perfezionò il testo). Massimo Mila, nelle sue lezioni sull'opera, raccolte in preziosissimo libricino, ci dà conto delle due diverse scuole di pensiero: quella colpevolista, che fa capo a E.T.A.Hoffmann, e quella innocentista, che ha il suo paladino in Hermann Abert. Mila sembra tiepidamente propendere per la tesi colpevolista, ma non è questo il punto. Ciò che lascia preoccupati è invece la conclusione che lui paventa, cioè che inevitabilmente il regista sia portato a fare una scelta secca fra le due ipotesi, e quindi ci presenti in modo chiaro e netto una delle due possibili DonnaAnna (cosa che puntualmente fa Carsen, colpevolista convinto, e per nulla innovativo nella sua scelta, peraltro).

Ecco, credo personalmente che questa sia la più grande sciocchezza che un regista possa fare (qualunque delle due versioni ci presenti). In realtà ciò che dovrebbe arrivare allo spettatore (secondo DaPonte-Mozart, attenzione, basta leggere il libretto e ascoltare la musica!) e permanervi nella mente, è precisamente il dubbio sulla vera natura della donna, poiché questo è uno degli aspetti che fanno dell'opera un capolavoro. È ancora Mila a concludere mirabilmente sul punto: (…) pensare che DonnaAnna sia stata in qualche modo bruciata dalla fiamma erotica di DonGiovanni (…) non è proibito: la musica lo sopporta, e certe situazioni del dramma sembrano quasi suggerirlo: la complessità del personaggio ha tutto da guadagnarci. Chiaro, Carsen? Allo spettatore dovrebbe arrivare la complessità del personaggio, non la sua brutale semplificazione!

Come è stato giustamente scritto, mentre Le Nozze di Figaro è un'opera solare, trasparente, dove tutto – oltre ai sentimenti, anche le burle, le trappole, le trame, i travestimenti - viene sciorinato al pubblico dalla A alla Z e dove allo spettatore non resta che pregustare il come andrà a finire, godendosi quella mirabile scena degli equivoci che è il finale dell'opera, invece il DonGiovanni è un'opera dove tutto è avvolto nell'incertezza e nella nebbia, dove ogni vicenda presenta aspetti equivoci e mille diverse possibili interpretazioni, e dove quindi anche i personaggi principali – che di quelle vicende indecifrabili sono protagonisti – ne escono con una caratterizzazione non univoca, o ambivalente, a sua volta indecifrabile. E questo - di lasciare lo spettatore nel dubbio, se non addirittura nell'ansia di quali siano la verità vera e la realtà reale – è ancora una volta il più gran pregio dell'opera (…sublimemente incompiuta, come ebbe a dire Gavazzeni) che si perde totalmente quando il Carsen di passaggio pretende di presentarci le sue personali certezze. (Analogamente al finale indecifrabile del Così, che purtroppo troppi registi che si reputano geni si ostinano a decifrare, privandolo di tutta la sua straordinaria carica di ambivalenza.)

Questo discorso non vale solo per DonnaAnna, ma principalmente per lo stesso protagonista. Nel tempo scenico dell'opera (comunque lo si calcoli, ore o giorni o settimane) il Don ha o prospetta rapporti, diciamo così, orientati alla conquista, o potenzialmente sfocianti in conoscenza biblica, con sei donne. Questo se si escludono le ben 10 (in lettere: una decina) di femmine che il Don preannuncia a Leporello per la messa in lista all'indomani (Ah! la mia lista doman mattina d'una decina devi aumentar) ma di cui null'altro veniamo a sapere. Per il momento escludiamo anche DonnaElvira, di cui il Don è diventato apparentemente preda, da predatore; negli altri cinque casi l'esito degli approcci del protagonista resta – per precisa volontà di DaPonte-Mozart – avvolto nella più totale incertezza. Si è già detto della vicenda riguardante DonnaAnna, di cui ci viene presentato soltanto l'epilogo, che si presta ad interpretazioni addirittura antipodiche. Poi abbiamo una misteriosa dama della quale il Don parla a Leporello nella quarta scena: Sappi ch'io sono innamorato (sic!) d'una bella dama; e son certo che m'ama. La vidi, le parlai; meco al casino questa notte verrà... Domanda: qualcuno sa come andò a finire? Nessuno, nemmeno Leporello e meno ancora DaPonte! Vediamo che accade con Zerlina: il Don la approccia per ben tre volte: dapprima pare aver facilmente partita vinta, dato che la ragazza – per leggerezza, vanità, o perché ben conscia della sopravvivenza dello jus primae noctis – si lascia facilmente trascinare verso il casinetto. Ma arriva DonnaElvira a rompere le uova nel paniere. Nel secondo caso il Don ha sottomano la ragazza nel giardino, ma scopre nei pressi Masetto, a cui la deve riconsegnare. Durante il ballo finalmente il Don prende Zerlina e se la porta via in qualche stanza, chiudendo a chiave! (come deduciamo dal fatto che gli altri dovranno abbattere la porta). Che succede là dentro? Possiamo fare mille ipotesi, una più gratuita dell'altra. In quei pochi (ma solo per i tempi musicali) istanti prima che la porta venga sfondata, che è accaduto? Abbiamo sentito Zerlina urlare, poi la vediamo fuggire (vestita? nuda? o in sottoveste, come ce la mostra Carsen?)… insomma siamo di fronte ad una scena non poi troppo diversa dalla prima (protagonista DonnaAnna): come la mettiamo? Ci sono invece altre due donne che non si vedono, non parlano e menchemeno cantano. La prima è la cameriera di DonnaElvira: dopo che ha sistemato Masetto per le feste, il Don scompare per ricomparire solo più tardi al… cimitero. Che ha fatto nel frattempo? La cameriera è scesa giù per soddisfare le di lui smanie (come sostiene Carsen, mostrandocela tutta nuda al fianco del Don) oppure lui è salito da lei? Oppure… oppure? Insomma, il Don ha consumato o no? Mai lo sapremo e mai lo dobbiamo sapere, questo è ciò che gli autori hanno deciso. Proprio nel cimitero il Don racconta gli ultimi avvenimenti a Leporello: non fa alcun cenno alla cameriera (ma come, Carsen: non dovrebbe subito notificarne l'avvenuta conquista al servo-contabile?) per conquistare la quale aveva pur messo in atto un'operazione di commando in piena regola, con il pesante coinvolgimento del servo medesimo e poi di tutti gli altri personaggi. Invece il Don racconta di una ragazza incontrata per strada che addirittura gli è saltata al collo, avendolo scambiato (dagli abiti) per Leporello. Lui (il Don) ci ha provato, lo afferma lui stesso, ma con quale esito? La ragazza ha chiamato gente e lui è scappato a nascondersi nel cimitero. Anche qui: consumazione o andata-in-bianco?

Per farla breve, nel tempo scenico non abbiamo evidenza certa (5 su 5) che il Don abbia raggiunto il suo obiettivo (cosa di cui pare invece certissimo – beato lui - Carsen, come minimo in 2 dei 5 casi). Nel sesto caso (DonnaElvira) il protagonista addirittura le inventa tutte per liberarsene, quando non gli sarebbe difficile approfittare della situazione per una… replica (ma Leporello che farebbe? aggiungerebbe una tacca, o mezza, o niente? smile!) Ma allora, attenzione, non è che il Don è un tale che parla e parla, ma solo millantando? E le 2065 prede poste in lista dal suo biografo, non saranno per caso tutte vanterie e millanterie anche quelle? Ohibò, vuoi vedere che DonGiovanni Tenorio è una checca? O come minimo un impotente? (Anche questa non me la sto inventando io, e qualcuno l'ha già anche messa in scena). E la cui apparente fame insaziabile di femmina nasconde l'ossessione e il senso di colpa per questa sua diversità? E quindi: l'atteggiamento degli altri personaggi nei suoi confronti non rappresenterebbe per caso l'ipocrita condanna di tutti i diversi – peccatori per definizione - da parte della società benpensante? Illazioni legittime, ma ancora una volta prive di supporti di evidenza, e costruirci sopra una messa-in-scena equivale a distruggere il capolavoro originale. E allora domandiamoci finalmente: qual è o quale dovrebbe essere il compito di una regìa seria ed efficace? Presentarci il prodotto della volontà e della vision degli autori, o la gratuita dietrologia del regista? Personalmente non ho dubbi sulla risposta.

A proposito di regista: si potrebbe immaginare che il Don di Carsen sia il regista (lo stesso Carsen, per caso?) dello spettacolo (teatro-nel-teatro) che ci viene presentato. E proprio ciò che vediamo nel secondo atto (il Don seduto con la sua sgualdrinella nuda fuori dal palcoscenico, ad osservare - e dirigere, e applaudire - ciò che gli altri personaggi recitano sulla scena) potrebbe rendere plausibile questa ipotesi. Che sembrerebbe confortata dallo stesso Carsen, nelle sue Note di regìa, dove scrive che il Don è uno (…) veloce di mente, che controlla tutti, precede tutti, che è sempre davanti a tutti. Tutto, insomma, gli gira attorno. Su quest'ultimo punto, come non concordare? Che tutti i personaggi siano contagiati dal Don è un fatto che la musica, più ancora che il libretto, ci chiarisce in modo inequivocabile, laddove i temi – e ritmi e stilemi musicali - di tutti i personaggi sono in qualche modo debitori di quelli del Don (ricordo al proposito un vecchio quanto fulminante saggio di Roman Vlad, pubblicato quasi 25 anni orsono sulla da tempo defunta Musica&Dossier, dove l'argomento veniva sviscerato in modo mirabile). Del resto già Fedele D'Amico ci scrisse cose acutissime: In tutti scorre qualcosa del sangue di DonGiovanni: anche se ognuno lo assimila ed elabora in senso diverso e, al limite, opposto. Qui è l'arcano supremo di quest'opera (…) di qui il suo fascino unico. Ma il Don come regista? Credo che questo sia un clamoroso fraintendimento della sua personalità: che non è quella del manager (colui che comanda e impone comportamenti ai suoi sottoposti, obbedienti per contratto) ma quella del leader (colui che trascina con il comportamento suo i suoi pari, provocando in loro emulazione o rifiuto).

Altro tasto dolente, il finale. Anzi, i due finali di Mozart-DaPonte. Nel primo abbiamo il confronto drammatico fra il mito - o la quintessenza, o l'archétipo - della dissolutezza, del libertinaggio, del rifiuto di ogni regola, e un altro mito - o quintessenza, o archétipo – dell'irreprensibilità, del rigore morale e del rispetto della legge. Il Don soccombe, ma è davvero condannato? Giustizia è fatta? Il dissoluto punito? Domanda: perché allora il cupo, infernale RE minore che caratterizza l'intera scena si trasforma, precisamente nelle ultime tre battute, nell'accordo perfetto di RE maggiore? E quella tonalità vuole indicarci il DNA del Don, o piuttosto la raggiunta pace della società, dopo che il virus che l'aveva contagiata è stato finalmente neutralizzato? Domanda che deve restare senza risposta, o meglio: a cui ciascuno di noi può dare la risposta che crede, ma non deve essere certo il regista a proporla esplicitamente, altrimenti toglie allo spettatore tutto il sapore di questa mirabile ambiguità. Nel secondo finale abbiamo i sei sopravvissuti che presentano la morale della favola. Ma che fine fanno, senza il Don? Monasteri, ritiri spirituali, prosaica vita coniugale e ricerca di un nuovo padrone da servire: è il trionfo del bene e della giustizia, o non è questo, forse, l'inferno, a dispetto del RE maggiore che chiude l'opera? Ancora una volta: ciascuno di noi può pensare ciò che crede, ma è ridicola la pretesa di Carsen di spiegarci tutto lui, facendo resuscitare il Don e precipitare gli altri nel fuoco. Così si distrugge tutto il fascino di questo capolavoro.

Ma la conseguenza più nefasta di regìe come quella proposta dalla Scala è la totale svalutazione del rapporto musica-testo, che geni come Mozart hanno tanto faticato a valorizzare. Per convincersene basta porsi una domandina semplice-semplice: se per caso, prima che scrivesse la musica, a Mozart fosse stata mostrata la messinscena di Carsen relativa all'apparire del Don e di DonnaAnna, chiedendogli di comporre musica coerente con essa, che avrebbe fatto il Teofilo? Ammesso che accettasse una simile proposta, che musica avrebbe scritto? Per me, non una sola nota di quelle che lui ha composto! La sua musica c'entra proprio come i cavoli a merenda con lo scenario post-coitum che ci presenta esplicitamente Carsen (avete presente – come possibile riferimento - l'apertura del Rosenkavalier, tanto per intenderci?) E allora, se c'è abissale incongruenza fra ciò che ascoltiamo (parole e soprattutto musica) e ciò che vediamo, che si fa? Diamo ragione a Carsen e concludiamo che DaPonte e Mozart erano dei coglioni? It's the music, stupid!

Persino l'Ouvertura sarebbe stata diversa. A parte il fatto che sarebbe tradizionalmente da eseguirsi a sipario rigorosamente chiuso, in modo che lo spettatore veda con l'orecchio – senza distrazioni o suggerimenti - ciò che lo aspetta nel seguito, all'inizio dell'esecuzione Carsen ci mostra il protagonista che arriva dal corridoio di platea, sale al proscenio e strappa il sipario, specchiandosi nel pubblico che affolla il teatro. Questa originale apertura si conclude con la calata di un altro sipario, di cartapesta, guarda caso sulla battuta 31, dove per l'appunto inizia il Molto allegro in RE maggiore, che ci presenta musicalmente DonGiovanni, con la sua esuberante personalità. Quindi il protagonista, che DaPonte-Mozart avevano deciso di far comparire materialmente in scena più tardi, e in modo non propriamente nobile, mentre fugge inseguito e preso ad ombrellate da una tizia che ha cercato di violentare, Carsen ce lo mostra subito in tutto il suo spavaldo splendore. Dimenticando che in quelle prime 30 misure dell'Ouvertura, in Andante, Mozart ha voluto dipingere musicalmente la fotografia del Commendatore, che in tutta l'opera rappresenta l'unica entità che si contrappone metafisicamente (e musicalmente!) più che materialmente, al Don. Peccato che Carsen abbia impiegato questa fotografia sonora come passerella calpestabile e calpestata dal Don, nella sua rincorsa verso il proscenio. E così il Commendatore – entità chiave dell'opera – qui passa praticamente inosservato (anzi, musicalmente avvilito e calpestato, sarebbe il caso di dire).

Un ultimo caso esemplare: la scena della festa (che oltretutto non è farina del sacco di Carsen). Come ci viene presentata sarà anche bella in sé da vedersi, ma distrugge alla radice il valore della strepitosa invenzione mozartiana – una delle cose più straordinarie di tutto il teatro musicale - delle tre diverse danze che si svolgono contemporaneamente: è vero che al centro della scena si balla la Contradanza, ai lati il Menuetto e al proscenio la Teitsch, ma in pochi sono in grado di distinguerli, dato che tutti – personaggi e comparse – sono vestiti coll'identico rosso-scala e per di più son tutti mascherati, compresi gli orchestrali (cosa invero gratuita, chè in maschera devono essere solo DonnaAnna, DonOttavio e DonnaElvira). Così ci perdiamo del tutto il significato (non solo estetico, ma addirittura politico!) degli accoppiamenti per le danze.

Insomma, una regìa genialoide quanto velleitaria, che potrà accontentare chi va a teatro per godere di qualche bizzarra trovata, o per meditare sulle profondità siderali del pensiero del regista. A Mozart rende di certo un pessimo servizio. 
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15 dicembre, 2011

Orchestraverdi – concerto n 12


Nel lontanissimo febbraio del 1711 andava in scena a Londra il Rinaldo di Georg Friedrich Händel. E per ricordare questo 300° anniversario laVerdi lo ha inserito nel suo cartellone principale. In omaggio a compositore ed opera (e anche perché la compagine principale è in… vacanza in Oman per eseguirvi una Carmen) è laVerdi barocca – guidata dal suo mèntore Ruben Jais - ad offrirci questo corposo dramma barocco. Jais stesso, prima dell'inizio, tiene un'interessante conferenza sull'opera. Esecuzione in forma di concerto, che per la verità poco si addice ad opere come questa, nate con il presupposto di stupire gli spettatori attraverso l'impiego di mirabolanti tecnologie sceniche ed effetti magici in gran quantità, oltre che offrire la miglior musica disponibile sul mercato… Forse per questo ieri sera l'Auditorium era popolato da un pubblico, diciamo così, ehm… selezionato, ecco.

Si esegue la versione originale e le parti di Rinaldo, Eustazio e Mago (+Araldo) vengono affidate alle voci di tre controtenori (ai tempi furono dei castrati ad interpretarne i ruoli) invece di soprani e contralti com'è l'usanza moderna. Purtroppo proprio il protagonista David Hansen, passato repentinamente dalla primavera inoltrata australiana all'incombente e piovigginoso inverno milanese, si è presentato in condizioni precarie e ha fatto ciò che il… virus gli ha permesso. Jais, per non fargli correre troppi rischi, si è visto costretto a tagliare alcune arie e circostanti recitativi: Cor ingrato, nel primo atto, Il tricerbero, nel secondo (insieme a tutta la scena II e gran parte della III, che probabilmente erano comunque destinate all'espunzione, visto che prevedono l'intervento sporadico di personaggi minori – Donna e Sirene) e È un incendio, nel terzo atto. Comunque la sua prova è stata di tutto rispetto, con la punta di diamante dell'aria Venti, turbini, con cui ha chiuso in maniera strabiliante il primo atto.

Ottima la prova di Filippo Mineccia, Eustazio, che ha una parte ricca di arie. Meno appariscente il contralto Jacopo Facchini nel duplice ruolo di Araldo e Mago. L'unica voce pienamente maschile era quella, sempre corposa e ben impostata, di un abitué dell'Auditorium, il baritono Christian Senn (Argante) che riascolteremo nel Messiah la prossima settimana.

Pregevoli anche le prestazioni del cast femminile, a cominciare da Deborah York (Almirena). Ottime anche Lenneke Ruiten (la sbifida Armida) e Marina De Liso, Goffredo di Buglione en-travesti.

laVerdi barocca (15 archi + 1 liuto, guidati da Gianfranco Ricci, 7 fiati più timpano e clavicembalo) si conferma complesso assai affiatato e con individualità di rilievo: oltre a Ricci, Marcello Scandelli al violoncello, Priska Comploi all'oboe, Gian Marco Solarolo al flauto dolce e Dana Karmon al fagotto, autori di interventi virtuosistici di gran bravura.

Insomma, un'ottima prova di tutti, accolta trionfalmente dai pochi (ma buoni… smile!) che hanno resistito fin quasi alle 11:30!

Fra una settimana ancora Händel e Jais in vista del Natale.
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14 dicembre, 2011

Un “Abnorme Falstaff” a Verona


Ieri sera inaugurazione della stagione 11-12 del Filarmonico di Verona con Falstaff. Tre ore e quindici minuti sono effettivamente una durata abnorme per la rappresentazione di un'opera che non raggiunge le due di pura musica: oltre ai due intervalli di 20 minuti abbondanti, abbiamo anche avuto tre attese (a luci spente in sala) per i cambi di scena a vista, effettuati con esasperante quanto studiata lentezza dai ragazzi della squadra tecnica (anche loro usciti alla fine per il meritato – a questo punto – applauso). E dire che Falstaff è un'opera così travolgente che si potrebbe addirittura rappresentare tutta d'un fiato, senza per questo chieder troppo al pubblico (salvo la rinuncia a non indispensabili passerelle nel foyer… smile!) ma almeno primo e secondo atto non si potevano tranquillamente accorpare?

Il piccolo Filarmonico non è nemmeno esaurito (anzi c'è anche chi ha approfittato delle pause per squagliarsela anzitempo) e il pubblico mi è parso elegante sì, ma sufficientemente moderato nell'ostentazione di lusso e ricchezza (forse perché di questi tempi è meglio non dare troppo nell'occhio, onde evitare che a qualcuno vengano tentazioni… patrimoniali, smile!) Età media da pensionati (ma su questi la Fornero non avrebbe motivi per piangere, ri-smile!) a riprova che il teatro lirico non sembra convincere i giovani, ahinoi, pur con prezzi non proibitivi. Chissà se la situazione cambierà in meglio quando anche da queste parti, invece del decrepito Euro, circolerà il Padulo (smile!)

Falstaff è l'opera-testamento di Verdi, o forse sarebbe meglio definirla l'estremo sberleffo (meglio… la burla!) di un genio appagato, ma anche disincantato e capace di sorridere di se stesso e dell'intero mondo del teatro musicale, al quale aveva già dato tutto e dal quale aveva anche ricevuto moltissimo. La partitura è disseminata di reminiscenze, citazioni (soprattutto, ma non solo, auto-) e richiami seri o parodistici a forme e contenuti di tanta musica che aveva percorso l'intero ottocento. Ci troviamo riferimenti alla forma-sonata, alla fuga, al canto gregoriano, a quartetti di Haydn, alla quinta di Beethoven, a Mozart e Weber; e poi a Traviata, Trovatore, Aida, al Requiem, ma anche a Carmen, ai Cantori e a Parsifal, giusto per citare quasi a caso… In sostanza, una specie di summa di tanta (se non tutta la) musica che era stata composta o rivalutata in quel secolo, che rimarrà nella storia come il più fecondo di innovazioni e di progresso della nostra civiltà musicale.

Nella sua monumentale biografia di Gustav Mahler, H.-L. de La Grange ci informa di quanta autentica adorazione avesse il maestro boemo per Falstaff, di cui fu artefice di due storiche prime nel mondo tedesco: nel gennaio del 1894 ad Amburgo, a poco meno di un anno dall'esordio scaligero dell'opera, e 10 anni dopo alla Hofoper. E quanta meticolosità e scrupolo mettesse nell'interpretazione della partitura (la cui strumentazione considerava addirittura rivoluzionaria e da cui prese spunti per sè) è testimoniato da chi assistette alle prove per le rappresentazioni amburghesi. Nel primo atto, le quattro comari, alla lettura delle missive del grasso-gradasso (dopo che Alice ha cantato i mirabili versi e il viso tuo su me risplenderà / come una stella sull'immensità) si fanno una bella sghignazzata, sulla triade di MI maggiore, ben 16 Ah!, su altrettante crome (tranne l'ultimo, una semiminima). Il tutto verrà ripetuto pari-pari in finale d'atto:

Ecco, Mahler, per dare a queste risatine un effetto più naturale, chiedeva alle cantanti di interporre due impercettibili pause dopo il secondo e il terzo gruppo di 4 Ah!

Questa premessa serviva ad introdurre il discorso su Daniele Rustioni… Che forse non sa di Mahler, o magari lo sa, ma preferisce restare fedele alla lettera del Guiseppe (così in teutonia, smile!) Lui è ormai più che una promessa, ha solo 28 anni ma sta rapidamente scalando posizioni in campo internazionale. Evidentemente la consuetudine con maestri di gran talento (Pappano e Noseda in primo luogo) gli ha permesso di raggiungere rapidamente una grande maturità, che anche ieri è emersa in modo evidente. Non solo il gesto e la capacità di tenere in pugno orchestra e palco fanno di questo ragazzo un talento naturale, ma la qualità del suono e la chiarezza dell'interpretazione sono lì a testimoniare del suo lavoro in profondità, che non può non essere alla base del risultato. Insomma, una bella realtà italiana, che già oggi non sfigura di fronte ad altri giovani stranieri, ormai arrivati.

Al centro della scena è Alberto Mastromarino, sul cui aspetto fisico si direbbe che Falstaff sia stato pensato e modellato(!) E lui il suo fisico ce lo mette coraggiosamente in mostra, allorquando rimane in scena coperto solo da mutandoni, all'inizio dell'atto conclusivo, dopo il bagno nel canale del Tamigi. Quando si dice immedesimazione nel ruolo! Ma per fortuna fa la sua bella figura anche la voce, potente nelle espressioni più truci, ma anche ricca delle sfumature che caratterizzano il personaggio. Per lui gran successo.

Ma tutta la compagnia di canto pare bene assortita, a cominciare da Vittorio Vitelli, l'altro baritono che impersona Ford-Fontana (voce forse meno penetrante di quella di Mastromarino) e che sé l'è cavata bene nella sua aria di sogno-realtà. Saverio Fiore ha dignitosamente tenuto il ruolo di Cajus, mentre Francesco Demuro mi è parso un Fenton discreto, anche se la sua vocina a volte ha stentato a passare adeguatamente. Buoni anche Nicola Pamio e il gigantesco Ziyan Atfeh (Bardolfo e Pistola).

Passando al gineceo… sugli scudi l'efficace macchietta di Quickly, impersonata fantasticamente nella parte attoriale e assai efficacemente in quella vocale da Elisabetta Fiorillo. Brava anche Manuela Custer (Meg) e più che discrete l'Alice di Virginia Tola e la Nannetta di Serena Gamberoni.

Completano il quadro e meritano un plauso il Coro di Armando Tasso e il Corpo di ballo di Maria Grazia Garofoli, che hanno reso il finale in modo davvero efficace.

Luca Guadagnino è un giovane regista cinematografico che si cimenta ora con il teatro musicale. Questa sua proposta resta saldamente ancorata alla tradizione, senza velleità di inventare chissà quali significati astrusi di un'opera solare e scanzonata come questa. Molto buona la gestione dei movimenti dei personaggi. Forse l'unico tocco di originalità è la scena che Francesca di Mottola ci propone per la casa di Ford (seconda parte del primo atto): costruzioni moresche, una palma e una vela sullo sfondo: L'Italiana in Algeri? Forse un omaggio all'opera buffa per eccellenza? (La palma per la verità torna poi allusivamente anche nell'atto conclusivo.)

Tirando le somme, uno spettacolo più che degno, che conferma come in provincia (i veronesi non se la prendano…) si facciano ancora cose egregie.
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12 dicembre, 2011

Un Fidelio non contraffatto piace a Torino


Gianandrea Noseda si cimenta al suo Regio con il Fidelio. Ieri terza delle otto rappresentazioni, in un Regio assai affollato, accolta da un autentico trionfo, minuti e minuti di applausi e corsette al proscenio a non finire per tutti i protagonisti. 

Il mio concittadino ha confermato di essere oggi uno dei migliori Kapellmeister, con un'interpretazione a dir poco eccellente, dai primi accordi secchi di MI maggiore dell'Ouverture, fino alla poderosa semiminima in DO che chiude l'opera. Passando per un memorabile attacco del finale primo e un'altrettanto emozionante apertura del second'atto. Naturalmente sorretto dalla forma dell'orchestra, un insieme compatto, in cui hanno spiccato prestazioni solistiche di prim'ordine (corni e fagotti su tutti). Ma perfetto anche il Coro di Claudio Fenoglio, nel memorabile O welche Lust e nel travolgente finale. Bravo e complimenti a Noseda anche per non aver ceduto alla perenne tentazione di infilare la Leonore III prima del finale: non siamo ad un concerto, vivaddio!

Gli interpreti non saranno tutti membri effettivi dello star-system, ma hanno offerto prestazioni ampiamente al di sopra della sufficienza, a partire dalla Merbeth, una Leonore vocalmente adeguata (cui perdoneremo qualche… eccesso di foga) per passare ad Hawlata, un Rocco misurato e dalla voce calda e rotonda. Gallo è un Pizarro con qualche eccesso di brutalità, ma compensata da grande sicurezza. Storey pare sempre sul punto di impiccarsi, appena arriva al SOL sopra il rigo, però il suo Florestan non è stato per nulla disprezzabile, compresi i tre SIb sparati con sicurezza. La Marzelline della Or sé l'è cavata dignitosamente, pur mostrando una voce non troppo robusta. Stessa cosa dicasi per Kaimbacher, un discreto Jaquino. Il Fernando di Holzer senza infamia e senza lode, ma comunque sopra il livello di guardia. Pena e Jurlin efficaci nei piccoli ma importanti interventi nel coro dei prigionieri.

Insomma, musicalmente un Fidelio per me più che positivo ed emozionante.

Grazie anche alla regìa. Mario Martone non propone improbabili invenzioni, tanto per accontentare qualche schizzinoso che si annoierebbe di un allestimento fedele allo spirito dell'originale, ma così accontenta la stragrande maggioranza del pubblico che – oltre ad ascoltare un Fidelio di alto livello – ne vive il significato più autentico: la razionale condanna di ogni forma di violenza e sopraffazione, e la nobiltà della fede incrollabile nel prevalere della giustizia, di cui Leonore è simbolo assoluto.

Lo scenario è quello di un campo di concentramento, più che di un carcere, la torretta (con altoparlanti) ci rimanda ad Auschwitz, o a qualche siberiano Gulag. Efficacissimo il posizionamento della cella in cui è rinchiuso Florestan, posta nell'angolo sinistro del palco (guardando dal pubblico) e proprio sopra la buca dell'orchestra. Già all'attacco dell'Ouverture un occhio di bue ne illumina la porta ferrata con luce radente, che getta sul bianco sipario tagliafuoco l'ombra di una grata, simbolo dell'oppressione. La scena è assai povera, ponteggi innocenti che servono fra l'altro a rappresentare il piano terra, rispetto al sotterraneo in cui si svolge gran parte del secondo atto. Costumi apparentemente più ottocenteschi che moderni, ma efficaci a presentare la condizione dell'umanità tenuta ingiustamente in catene. Anche Martone non resiste alla tentazione di far scendere in platea un personaggio (Pizarro che legge la lettera-spiata che lo avverte del pericolo) ma è cosa da poco, rispetto agli eccessi canadesi appena visti in Scala.

Efficace e lodevole la direzione dei movimenti di singoli e masse; su tutto lo scatenamento dei prigionieri da parte delle loro donne, a seguito dell'intervento riparatore del Dom.

In conclusione, un bellissimo pomeriggio di musica e di arte. Grazie al Regio e a Torino.
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08 dicembre, 2011

Il Don Roberto alla Scala


In attesa di assistere di persona e quindi poter meglio apprezzare (hopefully!) il lato sonoro di questo storico (fino al prossimo, smile!) allestimento del capolavoro del Teofilo, la trasmissione TV della benemerita RAI5 (no streaming, perché lo vedrebbero in troppi…) ha permesso di farsi almeno un'idea dell'allestimento del genio (e/o sregolatezza) canadese.

Oggigiorno mettere in scena opere come DonGiovanni - divenute immortali, rappresentate e incise migliaia e migliaia di volte e su cui si è scritto, detto e sproloquiato proprio tutto e il suo esatto contrario - è diventato un affare di stato. Un allestimento che semplicemente si attenesse al testo del DaPonte, anche se mirabilmente interpretato – per la parte musicale - da direttore e da cantanti sopraffini, verrebbe irriso e liquidato come reliquia ammuffita da museo delle cere, quindi indegno di soddisfare le esigenze estetiche (ma anche e soprattutto quelle politico-filosofico-socio-psico-sessual-esistenzial-morboso) di noi gente scafata del terzo millennio, che mica siamo degli ingenui ignorantoni di bocca buona come i nostri trisavoli di un paio di secoli fa, perdinci!

Qui qualcuno dovrebbe però spiegare come mai continuiamo a sentire frasi come: Ah si segua il suo passo; io vo' con lei dividere i martìri; saran meco men gravi i suoi sospiri, che non sembrerebbe precisamente un'espressione della poesia dei nostri tempi. E soprattutto perché ci ostiniamo a far suonare e cantare, dopo un secolo di serialismo, Là ci darem la mano nel diatonico, dolciastro e sorpassato LA maggiore, che ormai non si ascolta più nemmeno a Sanremo.

In effetti siamo arrivati al colmo di dover ringraziare il cielo quando il regista di passaggio non si mette a cambiare i testi dei libretti e non chiede al Kapellmeister di adattarci la partitura! (Per la verità lo stesso Carsen ci si avvicinò, con la sua Alcina…) O tempora, o mores!

All'inizio dell'Ouvertura ecco Mattei che percorre il corridoio della platea, sale al proscenio, strappa il siparione e rivela un enorme specchio-blob che riflette la platea e i palchi: il pubblico è co-protagonista dell'opera, o se si vuole, il mondo reale è all'origine dello spettacolo, oppure… ognuno si inventi la sua spiegazione di una trovata ormai trita, ritrita e pure triturata come le palle degli spettatori. E pare sia pure costata un occhio della testa, proprio da lacrime e sangue!

E dopo questo poco promettente inizio, il resto materializza i peggiori presentimenti. Intanto, da che teatro è teatro, esiste un palcoscenico dove si rappresenta qualcosa e un pubblico che – pagando, oltretutto – si vuol godere lo spettacolo. Qui invece il pubblico non ha pagato per godere uno spettacolo, ma per partecipare ad una lezione pratica – con hands-on, come dicono in padania – di filosofia esistenziale applicata alla nostra moderna civiltà. Quindi attori e cantanti si muovono, parlano, cantano, insomma… vivono in mezzo alla gente (più che altro agli abitanti della platea) perché si sappia che i DonGiovanni, le DonneElvire, le DonneAnne, i Leporelli, i DonOttavi e i Masetti e le Zerline altro non sono che stereotipi di noi stessi, e di tutta la gente che cammina, lavora, prega, pecca, e siede a teatro accanto a noi. Persino il Commendatore trova posto fra il pubblico, naturalmente – per rispetto al lignaggio - nel palco reale, fra due veri Presidenti. Strabiliante, da innalzare un monumento al regista in piazza Scala!

Per descrivere – e stigmatizzare – il Konzept di Carsen basterà partire dal fondo, dal finale del dramma, sulle due versioni del quale da sempre ci si accapiglia: meglio Praga o Vienna? La conclusione perbenista e moralista oppure quella tragica, nuda-e-cruda? È il caso di far seguire alla meritata morte del libertino, ingluviato dalle fiamme – che di per sé basterebbe e avanzerebbe come lezione per contemporanei e posteri - anche l'esplicita condanna benpensante, il banale e prosaico elenco delle future attività dei sopravvissuti e la morale-della-favola? Bene, Carsen vuol dimostrarci che lui è meglio di DaPonte, e aggiunge un'ulteriore scena (peccato davvero che Mozart sia morto da poco e non abbia fatto in tempo a musicarla): il Don che torna più vivo che mai, si fuma una bella sigaretta post-coitum (spargendone la cenere sugli astanti) mentre i poveri benpensanti vanno all'inferno al suo posto!

Il regista, che in conferenza stampa si presenta con in mano la partitura, spiega che «nella musica non trovo mai una connotazione negativa del protagonista». Così ci informa la nota di Avvenire. Ohibò, ma Carsen, oltre a portarsela in giro, l'ha letta e studiata bene la partitura? Misero! misero! misero, attendi, se vuoi morir! E Carsen, tanto per smentire se stesso, ci mostra il Don che ammazza il vecchio non in un regolare duello, ma facendo un'autentica carognata, gettando un lenzuolo in testa al Commendatore e infilzandolo a tradimento! E per fare un altro banale esempio: i trattamenti che il Don riserva a Masetto, prima minacciandolo spada alla mano (ma Carsen elimina questo particolare, ignorando bellamente l'indicazione di DaPonte!) e poi colpendolo anche qui a tradimento, non avrebbero connotazioni negative? Dico, ma le ha lette e capite bene, le parole, e ascoltate bene, le note, Robert Carsen, accidenti a lui?

Il suo finale contraddice totalmente non solo il testo di DaPonte, ma soprattutto la musica di Mozart! Per quanto sia una morale bigotta e a buon mercato, quella che esce dalle parole e dalle note del finale di Praga, quella è, e con quella il finale di Carsen non ci azzecca manco per il rotto della cuffia. Se Mozart (col suo librettista) avesse voluto spiegarci che un Don è morto, ma il suo archétipo (o il suo stereotipo, o il suo spirito) sopravvive e si fa beffe della società benpensante (meritevole, lei, di finire all'inferno) avrebbe aggiunto qualche battuta al concertato, oppure ci avrebbe fatto udire, in contrappunto, o in sottofondo, o subdolamente strisciante, un tema o anche solo un inciso, un ritmo, del Don. Nulla di tutto questo invece, e quindi la trovata di Carsen resta semplicemente una goliardata, gratuita e ignorante, un vero affronto a questo capolavoro e ai suoi autori. (E ovviamente il giudizio sulla sua pertinenza non cambierebbe anche se il finale fosse quello tragico di Vienna).

Per come Carsen tratta le femmine, in particolare, si meriterebbe un linciaggio da parte delle femministe. Vostro onore, lei aveva i jeans troppo attillati, con la vita bassa e la cerniera! Quindi è lei la responsabile dello stupro che ha subìto! Ecco, quante volte l'avvocato difensore dello stupratore ha usato questo argomento per chiedere (e spesso… ottenere!) l'assoluzione del suo difeso? Bene, Carsen è uno di quegli avvocati: che assolve lo stupratore e condanna la ragazza in jeans.

Per il regista, DonnaAnna all'inizio è a letto col Don, e in piena luce, e fa la figura della ninfomane insaziabile che non ne vuol sapere di smettere di scopare e cerca di trattenere il partner in tutti i modi! Ora, se c'è un aspetto affascinante nel libretto di DaPonte, che Carsen butta stupidamente nel cesso, è precisamente l'incertezza su ciò che accade davvero nella scena iniziale del dramma, che ci fa nascere legittimi sospetti sul comportamento della donna, ma allo stesso tempo è perfettamente e mirabilmente compatibile con gli sviluppi successivi: in particolare con il riconoscimento dell'intruso di quella notte, che la donna fa nella Scena XII, risentendo la sua voce. Invece il buon Carsen ci mostra quel riconoscimento fatto da DonnaAnna attraverso il tatto (e manco male palpando le guance del Don e non i coglioni…) con ciò smentendo contemporaneamente DaPonte, ma anche se stesso, visto ciò che ci aveva mostrato nella prima scena! E facendo passare Donna Anna, oltre che per ninfomane, anche per una bugiarda di tre cotte, e perfida simulatrice, allorquando narra sconvolta a DonOttavio (in Scena XIII) le vicende di quella notte maledetta.

DonnaElvira – selon Carsen - non solo è ninfomane, ma è anche una volgare esibizionista: lei gira spesso seminuda, e quando è vestita si… spoglia; mentre Leporello le sciorina il catalogo, lei che fa, invece di inorridire? Si mette a fare movenze da lap-dance…

Paradossalmente – anche qui Carsen sembra voler fare il bastian-contrario – è proprio Zerlina la femmina di cui meno viene messa in risalto la carica erotica, per privilegiare l'aspetto vagamente carognesco del suo carattere.

Ma il disprezzo che Carsen mostra per la donna tocca il colmo del cattivo gusto nel secondo atto dove, a seguito della serenata del Don alla cameriera di DonnaElvira, vediamo il protagonista (che ha appena riempito di botte Masetto, a proposito di connotazioni negative…) raggiunto al proscenio da detta cameriera – che nel libretto di DaPonte è soltanto nominata e forse forse compare fugacemente alla finestra – e con lei assiste alle scene successive (che si svolgono in un teatro-nel-teatro) finchè vediamo la ragazza andarsene via proprio comme l'ha fatta mammeta, evidentemente preda delle scalmane del Don. E anche qui – insieme a quanto mostratoci in modo esplicito nella scena iniziale - Carsen distrugge uno dei principali elementi di fascino dell'opera: durante la quale e fino alla fine, a noi spettatori deve rimanere il dubbio che al Don non glie ne vada bene una che è una.

Sul fronte delle scene, c'è soltanto un'indigestione di Scala (pannelli con dipinto il sipario rosso, soprattutto, un'immagine distorta del teatro vuoto, alla fine). Come omaggio al Piermarini mi pare davvero sgangherato e insulso (DonnaAnna nell'aria finale addirittura si porta appresso un programma di sala… forse per ripassare le note di regìa, smile!) Per il resto, totale minimalismo e insignificanza.

I costumi sono di epoche le più diverse e disparate e questa in fin dei conti è la trovata meno peregrina, visto il carattere archetipico del soggetto, che verrebbe sacrificato se calato in un contesto troppo specifico.

In definitiva, un allestimento di cui il minimo che si possa dire è: diseducativo.
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Sul fronte musicale, fermo restando che la ripresa meccanica appiattisce tutto e tutti, non mi sentirei di dar torto all'isolato spettatore che, al rientro, ha urlato a Barenboim: troppo lento! Dei cantanti salverei senza esitazione la Frittoli, insieme a Youn; deciso pollice verso per Kocán e per lo sguaiatissimo Terfel, un vero hooligan; maluccio Filianoti e Prohaska e più di una riserva, in relazione alla loro fama - su Netrebko e Mattei (costui non avrò il piacere di sentire dal vivo).
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02 dicembre, 2011

Orchestraverdi – concerto n 11


 
Zhang Xian – fresca-fresca di un importante riconoscimento - dirige un concerto tutto russo, che parte dal novecento di Stravinski per retrocedere nel secolo precedente di Ciajkovski.

Si comincia con L'Uccello di fuoco, composto nel 1909-10 e dai cui 23 numeri (più l'Introduzione) l'Autore estrasse poi tre Suite (1911, 1919, 1945). Su youtube si può trovare un'esecuzione integrale (da DVD) con bellissime immagini e con una stranezza: il finale innalzato di un semitono, quindi suonato in DO, anziché in SI (?) Meglio – musicalmente – questa prestazione di Saraste con la WDR e ancor meglio quest'altra di Boulez, (da 42:00) sempre nella medesima sala, ma con la Chicago.

Le tre diverse Suite furono di fatto ottenute per semplice giustapposizione di alcuni numeri del balletto, con piccoli ritocchi per le transizioni, e si differenziano fra loro quasi esclusivamente per i numeri che le compongono. Le prime due – 1911 e 1919, pur diverse nella struttura – hanno su per giù la medesima durata, attorno ai 20-22 minuti, mentre l'ultima, del 1945 , è più corposa (augmented version venne pubblicizzata sui vinili) e dura poco meno di mezz'ora, rispetto ai 45 minuti circa dell'intero balletto. Interessante questa registrazione nipponica dell'ultima Suite, diretta nel 1959 dall'Autore (di cui si diceva fosse un pessimo direttore d'orchestra, soprattutto quando eseguiva le sue proprie partiture!)

Qui in Auditorium riascoltiamo la più famosa delle 3 suites, quella del 1919, già udita circa 18 mesi orsono con Wayne Marshall sul podio (e recentissimamente con Dudamel e i suoi ragazzi alla Scala). Zhang Xian e laVerdi ce ne danno un'interpretazione vibrante e severa allo stesso tempo, sia nei quadri aspri e cromatici (vedi la Danza infernale) che in quelli cantabili e diatonici (come il Khorovod e il grandioso finale).

Arriva poi il primo dei due titoli di Ciajkovski in programma: le Variazioni su un tema rococo per violoncello e orchestra, in LA maggiore:
Una composizione che ebbe una vita abbastanza movimentata, poiché il dedicatario Wilhelm Fitzenhagen (docente di violoncello al conservatorio di Mosca, dove pure operava Ciajkovski) oltre ad occuparsi – scrivendole direttamente sul manoscritto del collega – di ampie parti del testo del solista, si prese la libertà (su cui l'Autore vigilò assai poco e male…) di ristrutturare il pezzo a suo uso e consumo, soprattutto riguardo all'ordine di esecuzione delle diverse variazioni, inclusi vari spostamenti di battute (fra cui la cadenza principale) da una variazione ad un'altra, per mantenere la continuità delle transizioni. Inoltre decise di apportare aggiunte e tagli alla partitura originale: così introdusse un paio di ritornelli nell'esposizione del tema (Ciajkovski impiegò la tecnica del ritornello con grandissima parsimonia in tutte le sue composizioni) e poi – per ripristinare all'incirca il numero di battute totale – cassò senza pietà l'ultima (8va) delle variazioni originali, che a quel punto non si incastrava più adeguatamente col resto della sua bizzarra costruzione. E meno male che non gli venne in mente anche di cambiare le tonalità!

Questo specchietto riassume le principali differenze fra le due versioni:

Come capitò anche ad altre opere - divenute famose grazie a versioni manipolate da estranei (Carmen e Boris sono esempi eclatanti) - anche questo piccolo cammeo è conosciuto quasi esclusivamente nella versione di Fitzenhagen, e solo da relativamente poco tempo si comincia a rieseguire quella originale, faticosamente ricostruita frugando in polverosi archivi. Ecco appunto un'esecuzione della versione originale (parte1; parte2, Steven Isserlis); e la più nota ed eseguita versione di Fitzenhagen (Yo-Yo Ma).

Quale delle due sia da preferire è arduo dirlo: di certo quella originale è strutturata meglio, secondo una logica prettamente accademica (come si addice ad un serio compositore, attento alla forma e agli equilibri estetici). Per convincersene basterà notare la perfetta simmetria dell'intera struttura: fra i due estremi (Introduzione+Tema e Coda) abbiamo due blocchi di 4 variazioni, sempre alternate nel tempo (tranquillo e vivace); la collocazione delle variazioni in tonalità diversa dal LA maggiore di impianto è pure costante (la terza variazione di ciascuno dei due blocchi, introdotta dalla modulazione nel finale della precedente); e costante è anche la posizione delle cadenze (seconda e sesta variazione). Insomma, qui nulla è lasciato al caso e all'improvvisazione.

Invece la versione di Fitzenhagen pare quasi costruita giustapponendo le variazioni in modo random… In realtà risente abbondantemente dell'approccio del virtuoso di strumento, alla ricerca del facile effetto, più che del rigore architettonico dell'opera.

Fatto sta che entrambe le versioni hanno – l'una per diritto di nascita e nobiltà di costituzione, l'altra per i meriti acquisiti sul campo – tutte le carte in regola per figurare degnamente in un programma concertistico.

Qui in Auditorium ascoltiamo la tradizionale versione Fitzenhagen, suonata da un autentico fenomeno: il 23enne armeno Narek Hakhnazaryan, recente vincitore del Premio Ciajkovski, dove lo si può vedere (previa semplice registrazione al sito) impegnato nella finale del 28 giugno ed accolto trionfalmente dai moscoviti. E trionfalmente è stato salutato anche ieri sera dal pubblico milanese, al quale ha concesso un bis da brivido, tutto pizzicato

Infine Sogni d'inverno, che non è una ninna-nanna natalizia, ma la Prima Sinfonia di Ciajkovski.

Se le Variazioni rococo ebbero una storia complicata, ma tutto sommato incruenta, il primo approccio al mondo sinfonico, qualche anno addietro, era stato per Ciajkovski addirittura spaventevole: respinto con gravi perdite dai suoi maestri del Conservatorio di SanPietroburgo (il severissimo direttore Anton Rubinstein, che più tardi gli stroncherà anche il Concerto Op.23, e Nikolai Zaremba) il nostro perse persino il sonno e la salute per inseguire questo sogno e finì sull'orlo della pazzia… Ma non basta, perché una volta completata l'opera, si vide costretto (dai soliti… maestri) a revisionarla radicalmente e così anche di essa esiste una versione originale (eseguita in tempi moderni solo una volta da Ilan Volkov con la BBC Symphony nel 2007) e una seconda versione (dedicata al fratellino di Anton Rubinstein, Nikolai, direttore del Conservatorio di Mosca, e assai meglio disposto verso di lui) che è entrata stabilmente in repertorio. Detto fra noi, le parti della prima versione (che si può ascoltare qui, eseguita su un sintetizzatore) poi sostituite o cassate, non erano propriamente musica entusiasmante, e i maestri qualche buona ragione per criticarle ce l'avevano, eccome!
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L'Allegro tranquillo che apre la sinfonia testimonia delle difficoltà di Ciajkovski a strutturare le sue idee musicali all'interno delle forme codificate: i due temi principali (il secondo frutto della drastica revisione dell'opera) non sarebbero neanche tanto male, peccato che l'Autore non sappia poi cosa farsene in termini squisitamente sinfonici:
Nessuno sviluppo degno di questo nome, sostituito da improbabili ripetizioni in tonalità diverse, o da intermezzi enfatici e privi di logica, che fanno del brano più una confusa fantasia che un primo tempo di sinfonia. È un modello che trova forse le sue lontane e vaghe radici in Schumann (che esteticamente sta però parecchi gradini sopra) più che in Mendelssohn, e che ispirerà anche il futuro Mahler, prevedendo l'introduzione di tratti di spiccata teatralità all'interno della severa forma sinfonica. Se non siamo proprio alla musica-a-programma, poco ci manca, e i sottotitoli dei primi due movimenti (questo è Sogni di un viaggio invernale) lo testimoniano apertamente.

E il secondo movimento, appunto, un Adagio cantabile, ma non tanto (si deve pensare che il non tanto si riferisca all'Adagio e non al cantabile, smile!) conferma l'idea di musica composta con l'occhio rivolto all'effetto e non alla sostanza. Qui abbiamo in pratica un solo tema (a parte la semplice introduzione, che torna in chiusa) che Ciajkovski ci propina in tutte le salse - e per più di 10 minuti! - con una pervicacia davvero degna di miglior causa. E meno male che, rispetto alla versione originale, il compositore tagliò diverse battute… Nel tema, di chiara matrice russa, in DO minore, si possono individuare tre cellule:
In particolare dalla seconda cellula, Ciajkovski ricava un ulteriore sviluppo (sempre chiuso dalla terza) presentandocelo quasi fosse un secondo tema. Il primo viene esposto finalmente dai due corni con un'enfasi esagerata, francamente stucchevole. Qui siamo, come recita il sottotitolo, in una Terra di desolazione, e in effetti si deve dire che anche la musica è abbastanza desolante… Insomma, siamo al velleitarismo puro di un giovane forse caricato(si) di eccessive responsabilità…

Molto meglio lo Scherzo (Allegro scherzando giocoso), che presenta un tema di tipo ostinato (prelevato di peso dal terzo tempo di una Sonata per pianoforte composta un anno addietro, ma pubblicata postuma) con una prima sezione in DO minore, seguita da una seconda in MIb e LAb maggiore (entrambe ripetute). Dopo un cupo intermezzo dove gli archi bassi suonano tre incisi preceduti da altrettante lunghe pause, ecco emergere improvvisamente, a mo' di Trio, una bella melodia in MIb, un languido walzer esposto dai primi violini:
Il motivo si sviluppa parecchio, poi viene ripetuto, con il supporto di un bellissimo intervento dei corni:
Torna quindi il tema dello scherzo, ma prima della conclusione abbiamo ancora una ricomparsa, in DO minore, a mo' di cadenza, della melodia del trio, accompagnata dal timpano che ancora ritma il tema dello scherzo; il quale si incarica poi di chiudere questo, che per me è il movimento più riuscito della sinfonia.

Il Finale è in buona parte costruito sul tema di una canzone popolare russa, Ya poshu li, mlada-mladenska, di cui esistono svariate versioni, ma sempre in modo maggiore, come questa:
Ciajkovski dapprima porta il motivo in modo minore – dandogli una più netta caratterizzazione russa – e lo impiega nell'introduzione (Andante lugubre) in SOL minore:
 

Una progressione in Allegro moderato, dove il motivo compare fugacemente in SOL maggiore, porta ora al  tema principale, in Allegro maestoso, vagamente sincopato:

All'esposizione del tema segue, ora in SI minore, prima nei fagotti e poi a piena orchestra, il motivo dell'introduzione, che ancora porta alla reiterazione, variata e ricca di modulazioni, del tema principale, poi ripreso nel canonico SOL maggiore. Altre varianti, in contrappunto, di tale tema portano ad una stasi, dove ritorna l'Andante lugubre con la sua cellula tematica introduttiva.

Da qui inizia un lentissimo ma costante crescendo, che sembrerebbe portare – per analogia a quanto accaduto in precedenza – alla riproposizione del tema principale. Invece ecco le trombe, sostenute dal resto dell'orchestra, esporre il tema popolare in un enfatico, retorico e pesantissimo SOL maggiore, fino allo schianto conclusivo.

Resta ancora da dire che la pratica degli imprestiti, di cui era andato famoso Rossini, fu ampiamente impiegata anche da Ciajkovski. Dunque: l'incipit e il finale del 4° movimento – derivati, come detto, da una canzone popolare - diventano pari-pari l'inizio e la fine della Cantata composta per commemorare i 200 anni dalla nascita di Pietro il Grande, durante l'Esposizione Politecnica di tutte le Russie del 1872 (quando iniziò la costruzione del Museo Politecnico). E uno dei motivi principali di questa cantata diventerà successivamente il Trio del 4° movimento della Sinfonia Polacca
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Zhang Xian sembra aver capito che la sinfonia non ha grandi risorse, e allora cerca almeno di sveltirla, per renderla più digeribile. Apprezzabile il piglio deciso con cui attacca l'iniziale Allegro tranquillo (dove toglie, soprattutto al secondo tema, non poca… tranquillità) ma forse eccessivo quello che impone allo Scherzo, il che toglie un po' di efficacia al Trio. Grandioso – nella sua mediocrità, verrebbe da dire – il Finale, dove il fracasso supplisce alla scarsa inventiva del compositore. Naturalmente apprezzabili per l'abnegazione tutti i professori, con in testa Luca Stocco all'oboe e Sandro Ceccarelli al corno, splendidi interpreti delle parti solistiche nel secondo movimento.

Il prossimo appuntamento, fra un paio di settimane, celebrerà una singolare ricorrenza.
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28 novembre, 2011

A tutti i wagneriti: consigli per gli acquisti (gratis…)

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Oltre ai consigli, sono gratis anche gli acquisti!

Agli amanti di edizioni wagneriane vintage segnalo un abilissimo re-masterizzatore di incisioni storiche. Chi fosse interessato, per dire, al Ring di Krauss del 1953 a Bayreuth, oppure al Parsifal di Kna del 1951 o ad una registrazione in studio dei Meistersinger di Kempe del 1956, riversati in MP3 di gran qualità… può inviare una mail a Bill Hong (e-mail: notungschwert@aol.com) chiedendo di ricevere i link da cui scaricare questi veri e propri gioielli.

(Segnalato da A.C.Douglas di Sounds&Fury)
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25 novembre, 2011

Orchestraverdi – concerto n 10


È Oleg Caetani (Markevitch) a tornare in Auditorium per proporci un programma classico, con due sinfonie particolari.

Contrariamente a quanto previsto in origine, in luogo di due brani di Glinka e Borodin è la Pastorale di Beethoven ad aprire il concerto, che così perde la precisa connotazione che aveva (un percorso esplorativo dell'800 russo) per assumerne una del tutto diversa: l'evoluzione (o… involuzione) del linguaggio e della forma sinfonica influenzati da soggetti o programmi extramusicali. Per la verità Beethoven ci tenne a chiarire che la sua Sesta non aveva in alcun modo finalità descrittive (confinate in poche battute di sapore ornitologico) ma intendeva evocare sensazioni che l'animo umano prova a contatto con la natura (inanimata e animata). E di sicuro si potrebbe apprezzare a pieno la sinfonia anche ignorando del tutto le didascalìe che Beethoven vi appose (non così, direi, dell'Op.58 di Ciajkovski).

Caetani ha il merito di non sovraccaricare la partitura di eccessiva enfasi o romanticherie; rispetta in pieno la strumentazione originale, niente raddoppi di fiati e sezione archi di proporzioni normali. Ne esce un'esecuzione che a qualcuno sarà sembrata eccessivamente leggera e magari soporifera, ma personalmente l'ho abbastanza apprezzata.

Dopo la pausa, ecco Ciajkovski e il suo Manfred. La storia che portò alla composizione di questa Sinfonia-a-programma è piuttosto lunga e complicata – e magari un pochino romanzata. Dunque: un Paolo Isotta (smile!) dell'epoca, tale Vladimir Vasilievich Stasov (uno dalle idee assai chiare, visto che reputava Musorgski un perfetto idiota) non contento di aver promosso la nascita del famoso Gruppo dei cinque (che comprendeva quello stesso idiota, smile!) si dedicò alla ricerca e alla stesura di soggetti per opere musicali (prevalentemente strumentali) da far comporre a chi, secondo lui, fosse degno dell'impresa. Così, dopo aver ascoltato l'Harold di Berlioz, venne fulminato da Byron e propose a Mili Balkirev (capo della sua banda dei 5) - ma proprio quasi ingiungendogliela – la composizione di una sinfonia sul Manfred, con tanto di suddivisione in 4 tempi, già corredati di programma letterario e addirittura di agogica musicale (ah, i critici!) Il quale Balakirev – che stancatosi della musica si era dato per qualche tempo alla… ferrovia, mettendosi il berretto rosso di capostazione – girò subito il programma al vecchio e malato Hector, che declinò l'invito.

Così, anni e anni dopo, il malcapitato prescelto (in terza battuta) fu proprio Ciajkovski, che sulle prime rifiutò piuttosto seccato (e rispettoso di Schumann, per le cui musiche di scena aveva la massima ammirazione) ma dopo un po' di tempo, avendo letto Byron, girovagato per le Alpi svizzere (teatro dell'azione nel testo originale) e ripensatoci su, evidentemente trovò che il soggetto - infarcito di drammi esistenziali e desiderio di autodistruzione – si addiceva alle sue personali attitudini, e così si buttò a corpo morto nell'impresa, conclusa nel 1886, nel periodo intercorrente fra le composizioni della Quarta e della Quinta Sinfonia. Balakirev, che si credeva un padreterno, aveva suggerito a Ciajkovski anche l'intero palinsesto musicale dell'opera, con tanto di definizione di temi, leit-motive e relative tonalità, e persino indicazioni sulla strumentazione! Gli aveva segnalato addirittura una serie di riferimenti ad opere da prendere a modello: dello stesso Ciajkovski (Francesca, Scherzo della 3a Sinfonia); di Berlioz (Finale dell'Harold, Adagio della Fantastica, La Regina Mab dal Roméo); Liszt (Hamlet) e Chopin (Preludi). Domanda: ma perché a questo punto non se lo componeva da sé, il suo Manfred?

Qui va ricordato un particolare importante - poiché ha un preciso riferimento con l'esecuzione di Caetani, su cui tornerò successivamente – che riguarda il finale dell'opera. Dunque: nel testo originale di Byron, Manfred muore senza accogliere l'invito del suo amico abate a recitare, magari solo con il pensiero, una preghiera. Le sue ultime parole, sprezzanti e quasi blasfeme, sono: non è così difficile morire. Invece nell'edizione tedesca, musicata da Schumann, il finale (forse per apparentarlo con quello del Faust) viene radicalmente mutato, con l'intervento dell'organo e del coro che recita il Requiem, e con la musica di Schumann che chiude con un MIb maggiore che sa di redenzione (rispetto al MIb minore della conclusione dell'Ouverture). Orbene, mentre Stasov nel suo programma si era attenuto a Byron, Balakirev – indubbiamente pensando a Schumann – aveva introdotto il finale religioso, con tanto di Requiem, suggerendo a Ciajkovski l'impiego dell'organo e la chiusa in maggiore. Cosa che Ciajkovski fece con il massimo scrupolo.

Per il resto invece il compositore (purtroppo o per fortuna?) se ne fregò dei suggerimenti e fece di testa sua, cominciando con l'inversione dei due movimenti interni (prima lo Scherzo - La Maga delle Alpi - e poi l'Andante – Scene di vita alpestre) e tutto sommato il risultato - non potendosi certo parlare di capolavoro – avrebbe anche potuto essere peggiore. In effetti noi posteri - che forse siamo di bocca buona… - riusciamo anche a mandarlo giù, ma i contemporanei la pensarono assai diversamente. Già in Russia l'opera non fu accolta con entusiasmo, ma alla prima viennese, diretta da Mahler nel gennaio 1901, i commenti andarono da "nebulosa, malsana… fiera del cattivo gusto" (Hanslick) a "mostruosa, di struttura folle" (Hirschfeld) a "un'ora di sofferenza per i nervi… opera mostruosa, incomprensibile, composta da frasi insignificanti, mal costruite e male assemblate" (Neues Wiener Tagblatt). E più tardi Stravinski la liquidò come l'opera più noiosa di Ciajkovski. Il quale peraltro fu il primo ad esserne scontento, al punto tale da progettare di distruggerla per tre quarti, lasciando in vita soltanto il movimento iniziale: raptus che peraltro rientrò in fretta. Da parte sua Arturo Toscanini si professò invece entusiasta del Manfred, amandolo al punto tale da coprirlo di cure particolari (smile!) materializzatesi in allegri tagli e cervellotici ritocchi all'orchestrazione…
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Ciajkovski mantenne in vita le indicazioni programmatiche di Stasov, trasmessegli da Balakirev, e il primo movimento – Lento lugubre / Moderato con moto / Andante, in SI minore - ci presenta Manfred che vaga sulle Alpi in preda a ossessionanti ricordi (Astarte in primo luogo) da cui cerca invano di liberarsi. A proposito di modelli: il Manfred – diciamolo francamente – è un po' una scopiazzatura (mediocre) del Faust, sul cui soggetto aveva già composto una poderosa sinfonia Franz Liszt; in essa, la figura di Faust è evocata con temi in tempo pari, mentre quella di Gretchen in tempo ternario. Forse a Balakirev la cosa era sfuggita, visto che non aveva citato la sinfonia di Liszt fra i suoi suggerimenti a Ciajkovski: il quale invece, nel primo movimento della sua opera, fa proprio la stessa cosa, affibbiando a Manfred temi in tempo pari e riservandone per Astarte uno in 3/4, sul quale tempo convergono poi anche i temi del protagonista.

La tonalità è SI minore, ma fatica ad affermarsi e in chiave non troviamo alcun accidente. Subito Ciajkovski ci presenta Manfred, caratterizzato da due lugubri temi principianti con intervalli discendenti e successive risalite, Il primo in LA minore, il secondo in DO# e poi MI minore:
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Si noterà come l’incipit del primo tema (prime 4 note) richiami scopertamente il motivo conduttore del Lago dei cigni, che a sua volta rimanda a quello del divieto dal Lohengrin!

Una prima transizione ci porta alla riesposizione in SI minore del primo tema e poi - in SOL# e quindi SI minore - del secondo. Ora un lento crescendo conduce all'esplosione dei due temi - leggermente variati - in SI minore, in contrappunto, nelle trombe e nei corni: è la disperazione di Manfred:

Che raggiunge l'apice con un Con tutta forza dell'orchestra, culminante nella reiterazione della seconda sezione del primo tema, in trombe e tromboni. Adesso (Moderato con moto) si apre una parentesi di apparente lucidità, in cui spicca un nuovo tema esposto dal corno solo:

Poi ritorna il secondo tema di Manfred, che ora sembrerebbe meno cupo e disperato, inarcandosi in volute successive, quasi che il protagonista stia intravedendo un poco di azzurro farsi largo fra le dense nubi alpine, e sentiamo in effetti uno squarcio di RE maggiore negli strumentini, che sfocia in un inaspettato accordo di SIb. Dal quale si diparte una variante del secondo tema che va sfumando come se Manfred stia cadendo in un deliquio, in un dormiveglia nel quale deve aver l'impressione di vedersi comparire dinanzi… l'immagine della donna (peccaminosamente) amata. I due diesis in chiave in verità compaiono proprio ora, alla battuta 171 – qui rappresentando un peraltro mesto RE maggiore - sull'Andante che ci presenta la povera Astarte:
 
Il suo primo tema pare proprio di carattere lisztiano, e il secondo inciso (terzina-semiminima-croma) sembra quasi rappresentare la vana implorazione di Manfred: parlami! Dopo un dolce intermezzo del clarinetto basso, appare un secondo tema, esposto dai violini e poi ripreso dai flauti, che subito si anima, passando fugacemente per DO maggiore, su una scala discendente da LA a SOL e quindi cresce di ritmo e intensità, fino a sfociare – sostenuto dalle arpe – nel secondo inciso del primo tema, ripetuto due volte, proprio come una reiterata implorazione. Ma non c'è risposta, e gli archi, dapprima fff e poi sempre diminuendo, paiono far sprofondare Manfred nella più cupa disperazione. Che esplode – in ffff – con la riproposizione del primo tema del protagonista, ora in 3/4, in un feroce SI minore urlato da archi e flauti, con gli ottoni e gli altri strumentini a scandirlo con terzine sincopate; il tema, di cui all'inizio era stato esposto solo il torso, adesso si sviluppa con lunghe ondate di crome, chiaramente mutuate dal secondo tema di Astarte (ah già, la consanguineità) e sfocia in una perorazione dei corni, che porta – Più animato e Con tutta forza – alla pesantissima chiusura.

Come detto, rispetto al poema di Byron e ai suggerimenti di Stasov-Balakirev, Ciajkovski anticipa al secondo movimento (lo Scherzo, in effetti) la scena della cascatella alpina dietro i cui iridescenti vapori compare La Maga delle Alpi. Il tempo è Vivace con spirito, 2/4 in SI minore. La struttura è assai semplice, tipo A-B-A, dove A in realtà non è nemmeno un tema, ma una serie di effetti che ci dovrebbero rappresentare il pulviscolo acqueo che circonda la cascatella, entro il quale compare poi la Maga (Trio, tema B, in RE maggiore):

Il tema viene più volte ripetuto e variato, ma soprattutto si fonde con il primo tema (completo) di Manfred, che nel poema di Byron confessa alla Maga il suo amore maledetto. Maga che scompare poi alla sua vista, coperta dai vapori della cascata, lasciandolo lì con un palmo di… tema.

Il terzo tempo, Andante con moto è sottotitolato Pastorale: vita semplice, libera e spensierata dei montanari. È in 6/8, SOL maggiore, una siciliana che presenta un tema assai accattivante - per quanto difficilmente riconducibile a paesaggi alpestri – inizialmente esposto dall'oboe:

Dopo la lunga esposizione, chiusa da una cadenza in SI maggiore, ecco il corno farsi udire con un motivo che ha assai poco di allegro richiamo di cacciatori (qui Ciajkovski si dev'essere ricordato dell'ammonimento di Balakirev: niente volgarità tipo Jägermusik!):

È lontano parente di quello esposto, sempre dal corno, nel primo movimento e in effetti pare una mesta cantilena, più consona allo scenario di Tristan a Kareol! Ma possiamo sempre immaginare che rappresenti invece le sensazioni e le reazioni emotive del povero Manfred… Torna il tema principale, che adesso si sviluppa con un'impennata alla sopratonica e poi cadenza dolcemente verso la chiusa, sulla quale è il clarinetto ad innestare un gaio intermezzo, che porta ad un nuovo episodio, in SI minore, caratterizzato da martellanti semicrome dei fiati che accompagnano un cupo motivo degli archi: forse è la cattiva coscienza di Manfred che fa capolino… ma presto l'atmosfera si rasserena, torna il SOL maggiore e il flauto si libra in arpeggi di semicrome, prima che gli archi espongano per due volte un nuovo motivo, che sale da sesta a tonica, passando per la sopratonica, prima di RE, poi di DO. Li imitano gli strumentini, poi rapide scale ascendenti dei violini ci portano a dapprima a SI, poi a DO maggiore, dove il motivo si sviluppa assai per poi tornare al SOL di impianto e virare subitaneamente al SI minore, dove le trombe, poi i corni, in fff urlano ancora il primo tema di Manfred, evidentemente ripiombato nella più cupa disperazione. Qui si odono in lontananza (fuori scena) sette rintocchi di campanella, su un pedale di corni e archi, che introducono la ricomparsa del mesto motivo del corno, che si spegne lentamente, lasciando il posto al ritorno del tema principale, in SOL, che si mostra adesso in tutta la sua magniloquenza. Ancora il richiamo del corno, che si perde in lontananza, quindi i clarinetti portano dolcemente il movimento alla conclusione, con l'incipit del tema che scende dal flauto all'oboe, al clarinetto, su un pianissimo quasi impossibile (ppppp) degli archi.

L'ultimo movimento evoca Il palazzo sotterraneo di Ariman, con tempo Allegro con fuoco, in SI minore. Dapprima abbiamo due motivi che caratterizzano questa specie di bolgia (francamente Schumann qui sta parecchi gradini al di sopra…) nella quale poi metterà piede Manfred:

Arriva infatti Manfred, accompagnato dal suo secondo tema, che scatena la reazione dei demoni, con i relativi due temi in contrappunto; che una Fuga fosse il mezzo musicale più adatto a dipingere questa scena infernale sarebbe da discutere, ma Ciajkovski evidentemente non trovò di meglio. O forse pensò (smile!) che quella scolastica forma fosse la più adatta a rappresentare la fuga degli spiriti maligni (che nel poema di Byron vengono neutralizzati da Nemesi). Finalmente Astarte ricompare, con un grande dispiegamento di arpe, in REb, quindi in tonalità degradata rispetto al primo movimento; Manfred implora solo e sempre: parlami! ma la donna svanisce, perennemente muta, lasciandolo ancora nella sua disperazione (primo tema in fagotti e clarinetto basso). Qui Ciajkovski addirittura copia con la carta carbone la corrispondente sezione del primo movimento (metodo assai sbrigativo per realizzare un procedimento ciclico!) che sfocia però… al cimitero. Entra infatti anche l'armonium ad accompagnare, prima in DO e poi in SI maggiore, il nostro pseudo-eroe all'ultima dimora.
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Questa è una di quelle composizioni che definirei a basso rendimento: poiché richiedono un grande dispiegamento di forze e suprema tecnica esecutiva, mentre in cambio ti lasciano poco o nulla. Quindi sono da elogiare – cosa che il pubblico ha fatto puntualmente - i professori dell'orchestra per aver portato a compimento la loro impresa in modo rimarchevole. Ma di certo questo Manfred non deve aver migliorato di molto la sua posizione di classifica (da play-out, direi) nelle preferenze del pubblico.

Ma adesso vengo, come promesso, a Oleg Caetani. Lui ha di sicuro una grande dimestichezza con questa partitura, che conosce e dirige a memoria: l'unico appunto che mi sentirei di fare alla sua direzione è la lentezza esasperante con cui ha condotto l'Andante con moto. Ma l'intervento davvero proditorio e del tutto ingiustificato è stato il suo stravolgimento del finale. Un vago sospetto si era avuto già in partenza, notando l'assenza dell'armonium sul palco (ma si poteva pensare che venisse fatto suonare fuori scena, come la campanella, per accrescere il senso di arcano) e il sospetto è divenuto certezza quando, dopo la riproposizione del tema di Manfred, Caetani ha buttato nel cesso le ultime 70 e più battute della partitura (la cadenza del tema di Manfred e l'ingresso, appunto, dell'armonium) sostituendole pari pari col finale del primo movimento, ad eccezione dell'ultima croma, trasformata in nota tenuta. Quindi, ciò che nessuno, a parte Byron (né Schumann, né Balakirev, né soprattutto Ciajkovski) aveva negato a Manfred (una specie di estrema unzione, in modo maggiore) Caetani l'ha perfidamente negato, seppellendo il malcapitato sotto una pesantissima lapide di SI minore. Nobbuono…

Prossimamente ancora a tutta Russia, con Ciajkovski e Stravinski.
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22 novembre, 2011

Dudamel con la Bolívar alla Scala


Ieri sera la Scala ha ospitato un concerto speciale per la Fondazione Progetto Arca. Sul palco i ragazzi dell'Orchestra Simón Bolívar del Venezuela (prodotto del Sistema Abreu) guidati dal loro giovane-vecchio condottiero Gustavo Dudamel, più che mai integrato con i suoi compagni (a parte le entrate, non è mai risalito sul podio per ricevere personalmente gli applausi, che ha lasciato solo al gruppo, dentro al quale si è mescolato proprio come un primus-inter-pares).

Programma robusto e impegnativo, che ci ha portato musiche distanti all'incirca un secolo, dal Beethoven maggiorenne alla coppia Ravel-Stravinski.

La Sinfonia in MIb è – nel suo genere - l'opera che segna la grande svolta di Beethoven, che si allontana decisamente e definitivamente da tradizioni e schemi settecenteschi per aprire nuove vie e nuovi orizzonti. Mai prima di quell'estate del 1804 si era udito qualcosa di simile ai due schianti di tutta l'orchestra (con tre corni!) con cui il genio di Bonn inchioda immediatamente l'ascoltatore alle sue responsabilità… (al confronto impallidisce anche il severo attacco della mozartiana Jupiter). La Sinfónica si presenta con un organico ipertrofico: tutti i fiati letteralmente raddoppiati (6 corni!) per contrastare la massa di ben 70 archi (nemmeno Strauss… e cresceranno ancora dopo l'intervallo!) ma Dudamel sa come dosare il suono e impiega l'intero apparato solo a ragion veduta, restituendoci un Beethoven tutto sommato assai sobrio e senza eccessi tardo-romantici. Fanno sempre impressione la compattezza e il livello tecnico di questa squadra, se si pensa al come viene costruita.

Dopo la pausa il palco si affolla ulteriormente: altri archi (!) e arpe, pianoforte e celesta, sax, tromboni e tuba, batteria di percussioni, per la Seconda Suite da Daphnis et Chloé di Ravel. Dove peraltro sono gli strumentini (flauti e clarinetti in specie) ad essere chiamati a virtuosismi stratosferici. Gran trionfo personale per la prima (bionda e bella!) flautista.

Chiude L'uccello di fuoco di Stravinski, precisamente i 6 numeri della Seconda Suite (del 1919). Mirabile il contrasto fra i numeri languidi e delicati (vedi la Danza delle principesse con il suo sognante tema esposto dall'oboe) e quelli scatenati (come la Danza infernale, col suo bizzarro Allegro rapace); di grandissimo effetto la chiusa, con gli smaglianti accordi dei fiati sul tappeto di SI maggiore, in tremolo, degli archi. Pubblico in delirio e immancabile bis, che è la sinfonia della Forza, di certo un omaggio all'Italia, ma anche un chiaro riferimento alle circostanze e alle volontà che rendono possibile – almeno in campo musicale - il fenomeno-Venezuela.

Poi si fa buio in sala per la vestizione dei ragazzi, che indossano – come Gustavo - la casacca giallo-rosso-blu-stellata (ci vuole davvero un po' di colore in questo ambiente scaligero che scade sempre di più nel grigio) e si scatenano in un paio di forsennati e vorticosi pezzi di bravura: magari in tutte le discoteche si suonasse questa musica e in questo modo! Tifo da stadio - o da discoteca, appunto – a salutare questa splendida gioventù.
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