affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

10 dicembre, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 14


Tutto Schumann per il 14mo appuntamento de laVerdi. Sul podio una vecchia gloria (86 anni suonati e splendidamente portati!) albionica: Sir Neville Marriner, indissolubilmente legato all'Orchestra londinese Academy of St. Martin in the Fields, da lui fondata più di 50 anni fa, senza un Direttore (lui era un violinista e solo dopo qualche anno si convinse a salire sul podio).

Il concerto è interamente dedicato a Schumann (centenari…) ed in particolare a tre sue composizioni (Opus 52-54-61) del periodo 1841-1847. La prima parte ha lo stesso programma del famoso concerto che il 6 dicembre 1845 (quasi esattamente 165 anni fa!) vide la presentazione della versione definitiva dell'Op.52 e la prima esecuzione (con Clara) del famoso concerto Op.54.

Si comincia appunto con Ouverture, Scherzo e Finale, composto originariamente nel 1841, a ridosso della Prima Sinfonia; un brano non propriamente famosissimo, in effetti una sinfonia in formato ridotto (Symphonette, l'aveva inizialmente battezzata Schumann): nella durata (meno di 20 minuti) e nel numero di movimenti (soltanto 3); una cosa del tipo delle prime sinfonie di Schubert.

L'Ouverture ha una introduzione in stile haydn-iano: 17 misure piuttosto lente (Andante con moto) in MI minore, cui segue l'Allegro, in forma sonata semplificata: un primo tema di carattere Florestan-iano, in MI maggiore, seguito da un secondo, à la Eusebius, SI maggiore, sfociante in RE. Una transizione basata su uno sviluppo del tema dell'introduzione porta alla riesposizione dei due temi, il secondo in MI, sfociante in SOL. Altro ponte e quindi la coda Un po' più animato, che chiude l'Ouverture, nel MI di impianto.

Lo Scherzo, in DO# (minore poi maggiore, con Trio nell'enarmonico REb) in si basa su un tema scalpitante, mutuato dal primo tema dell'Ouverture, che non può non richiamare alla memoria una più celebre cavalcata, che si ode di questi tempi alla Scala:



Il Finale è un Allegro molto vivace, in MI e SI maggiore. Il tema principale ha un caratteristico andamento con metro giambico, e progressione ascensionale, che contrasta con il lirismo della seconda idea, che scende da dominante a tonica e risale alla mediante. Dopo l'esposizione (di cui Marriner ci risparmia il ritornello) si passa ad un complesso sviluppo che porta alla risoluta conclusione in MI maggiore. Come aperitivo, non è davvero male…

Ora arriva il 36enne finnico Henri Sigfridsson (nome impegnativo, e stazza da corazziere, in effetti…) a interpretare il celeberrimo e fin troppo inflazionato Klavierkonzert (combinazione, mentre scrivo lo sto ascoltando da Radio3, che stamane non trasmette Prima Pagina, causa scioperi...) Un'esecuzione dignitosa, quella di Sigfridsson, ma una specie di frutto ancora acerbo, mi sentirei di definirlo. Il non foltissimo pubblico comunque gradisce e lui, da buon patriota, come lo sono tutti i finlandesi, come bis ci suona nientemeno che Finlandia (qui un suo emulo).

Si chiude con la Seconda Sinfonia, forse la meno famosa delle quattro che ci ha lasciato il genio di Zwickau. Ma piena di slancio vitale, quasi una sfida del compositore al tremendo male che ormai lo attanagliava e che – fra alti e bassi – lo avrebbe portato, in meno di 10 anni, alla tomba. Sinfonia omotonica, tutta in chiave di DO maggiore (con l'eccezione del minore all'inizio del terzo movimento).

Si apre con una lunghissima introduzione lenta (Sostenuto assai, 49 misure in 6/4, neanche Haydn!) che principia con un religioso, bachiano corale degli ottoni, ad esporre una specie di motto dell'opera (un salto di quinta ascendente DO-SOL) con gli archi sotto a contrappuntare con semiminime ondeggianti:


A misura 25, su un poderoso accordo di LA minore, il tempo accelera di poco e si comincia a delineare, nei legni, quello che sarà il tema principale dell'Allegro, ma non troppo, cui si arriva non prima della reiterazione del motto e di uno stringendo dei primi violini:



Chissà se tale Giuseppe Verdi si rese conto di citare vagamente l'incipit di questo tema, nel Finale Secondo della sua Aida…

Qui vien fuori proprio l'inquieta e selvaggia personalità di Florestan, non c'è che dire, con quel caratteristico procedere giambico, a singulti, a convulsioni… Da essa è pervaso l'intero movimento, poiché anche la seconda sezione, in MIb, sfociante canonicamente sul SOL, mantiene vivacità e grinta, chiudendo l'esposizione con un ritorno furtivo del primo tema. Esposizione di cui Schumann prevede il ritornello (e Sir Neville non ce lo fa mancare) prima di passare allo sviluppo, che rielabora anche temi dell'introduzione. Che vengono quindi ricapitolati (il secondo portato – secondo le sacre regole della forma-sonata - sulla tonalità di impianto, DO, passando per LAb) e poi il tutto sfocia (con fuoco) nella coda, ancora attraversata dal primo tema. Marriner lo affronta con gran cipiglio e l'orchestra gli risponde da par suo.

Segue lo Scherzo, anche qui con Florestan imperante. I primi violini – sempre compatti, ieri sotto la guida del Konzertmeister Nicolai vonDellingshausen -  si intestardiscono in una specie di moto perpetuo, col resto dell'orchestra a scandire il ritmo. Poi i legni si svegliano con un paio di scale discendenti, dopo le quali i flauti, a distanza di una terza, scandiscono una specie di cucù, in SI maggiore. Questo passaggio domina interamente lo scherzo, interrotto soltanto dai due Trii (qui Schumann ripete quanto fatto nella Prima Sinfonia). Da notare come, nel secondo, Schumann renda esplicitamente omaggio al sommo Johann Sebastian, citandone musicalmente il nome:


Prima della conclusione, si rifà ovviamente vivo il motto della sinfonia, fortissimo, in corni e trombe, tutti bravi, senza sbavature.

Finalmente arriva anche un po' di Eusebius, con l'Adagio espressivo, che principia in DO minore, ed è caratterizzato da grandi intervalli, di sesta e di ottava, che si innalzano quasi a cercare il cielo, seguiti da altrettante ricadute… sulla terra. È un lungo peregrinare, in cui si distinguono un paio di rapide salite di flauti e clarinetti (più l'oboe, nella seconda) quasi a raggiungere un sospirato traguardo, ma a cui succede immediatamente il ritorno in basso, dove c'è una specie di serena rassegnazione. Qui Marriner ci mette tutta la sua esperienza cameristica per cavarne il meglio.

Il tema del finale assomiglia un po' a quello dell'inizio… dell'italiana di Mendelssohn! Non manca, come spesso in Schumann, parecchia teatralità, come al termine della ricapitolazione, allorquando tre grandi pause, intercalate da due accordi di DO minore degli archi, fanno spazio alla Coda, che l'oboe introduce ricordando Beethoven (Nimm sie hin denn, diese Lieder, dalla raccolta An die ferne Geliebte, già precedentemente ripreso nel Quartetto Op.41-2). Trasuda poi altro Beethoven (Alle Menschen!) prima del ripresentarsi, immancabile, del motto DO/DO---DO/SOL, per chiudere come in un cerchio l'intera opera.

Prestazione rimarchevole dell'orchestra e nutritissimi applausi, che continuerebbero ancora se Sir Neville (alla sua età non può fare le ore piccole!) dopo la seconda chiamata non trascinasse via per un braccio Nicolai, decretando il rompete le righe.

La prossima settimana ancora un programma tutto intriso di romanticismo (pieno e… tardo) e con un altro anglofono (però texano) sul podio. 
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08 dicembre, 2010

Barenboim, Bondi e Stinchelli



 
Ieri sera il Maestro Scaligero (che si è anche auto-incensato per quel bizzarro titolo, ma lo perdoneremo volentieri per meriti artistici) ha ricordato - anzi ha proprio letto, da un foglio che aveva in tasca, per non rischiare figuracce - l'Art. 9 della nostra (ma lui ha preso anche il passaporto italico? smile!) Costituzione, che promuove lo sviluppo della cultura. Applausi scroscianti, assai lontani dalle vibrate proteste che avevano accolto i proclami sindacali anti-Bondi in più di una rappresentazione della scorsa stagione (il pubblico era diverso: per la cronaca, c'era un tale Napolitano…)

 
Oggi il simpatico Enrico Stinchelli, prima di ripeterle alla radio dalla prua (o poppa) della sua barcaccia, ha scritto parole assai dure sul suo blog. Sintetizzando al massimo, ha riconosciuto la legittimità (direi l'ovvietà) del richiamo di Barenboim, ma al contempo ha stigmatizzato l'uso improprio (tradotto: ladri!) che delle pubbliche risorse hanno fatto e fanno tuttora i responsabili dell'italico teatro d'opera. Fra i quali cita, ma senza nominarlo e senza calcar la mano, anche l'ineffabile Lissner. Fra i teatri in via di bancarotta cita anche il Massimo di Palermo. Che però, a credere al suo sovrintendente, sarebbe invece un modello da imitare! (salvo leggerne attentamente i bilanci).

 
Se la prende poi, il nostro Enrico, con la visione statalistica del sostegno alla cultura, che preclude in maniera antiquata e rigida l'ingresso ai privati. I quali, secondo lui, investono e rischiano di tasca loro. Però non spiega come accada che il 16% - mica quisquilie e pinzallacchere – del budget della Scala venga da investimenti privati (quelli pubblici sono circa il 45%). L'Orchestra Verdi di Milano (nel suo piccolo) ha più del 30% del suo budget coperto da contributi privati, contro il solo 10% di quelli pubblici. Ma com'è che Garrone è entrato nel CdA del CarloFelice? Ci rischia soldi suoi, come sostiene Stinchelli, o forse qualcuno gli ha promesso di lasciargli portare la benzina a 2 euri? Altra domanda: ma chi e cosa preclude in maniera rigida l'ingresso ai privati? Certo, una maggiore detraibilità fiscale degli impegni finanziari potrebbe migliorare la situazione, ma queste barricate io non le vedo proprio; la domanda, caso mai, è: non c'è per caso - nei privati, aziende e cittadini – un interesse solo marginale per la cultura? E qui si dovrebbe tirare in ballo non Bondi, ma tale Gelmini, almeno credo io.

 
Altra cosa che il buon Enrico si guarda bene dallo scrivere è che dello sperpero di risorse pubbliche sono responsabili, oltre alle poche decine di sovrintendenti e loro manutengoli, anche i sindacati che – coscientemente o ingenuamente – si rendono complici spesso e volentieri della mala gestione.

 
Purtroppo il dramma italico è che, a reclamare rigore, sacrifici e moderazione sono gente come – appunto – Brunetta, Bondi, Gelmini e, più di tutti, l'esperto in evasione fiscale Giulio Tremonti. Mentre per il loro padrone – mai visto in un teatro d'opera - tout va bien, madame la marquise


07 dicembre, 2010

L’apertura della Scala, fra Corriere e RAI5



Il Corriere della Sera ha dedicato oggi alla Scala un inserto speciale di 24 pagine, di cui 13 di presentazione dell'opera che ha aperto la stagione. Il titolo in prima pagina dell'inserto è di quelli che solleticano le fantasie macho dei nostri ragazzotti moderni: Donne selvagge mai sottomesse al maschio guerriero.

Come distillato della Walküre è davvero strepitoso. (A scanso di equivoci, dirò subito che il contenuto del pezzo che appare sotto a quel titolo restituisce tutta la dovuta serietà alla nostra Valchiria). Certo che attorno a quel titolo si potrebbe costruire qualche film con le famose valchirie Giovannona e Ubalda e qualche improbabile arrapato alla Alvaro Vitali. In realtà, è in linea con la classica atmosfera del foyer di SantAmbrogio, dove Sieglinde e Brünnhilde possono facilmente diventare Matilde e Clotilde, tanto tutto fa brodo. Meno male che la presenza del Presidente (sempre quello buono, l'altro ha gusti differenti, lo sappiamo bene) tira su la media.

C'è la diretta di RAI5 - ma solo via TV, non in web, evviva il progresso! – che con le sue riprese sembra farci capire che la messinscena, oltre che costosa, sia anche sostanzialmente innocua, nonostante gli sforzi disperati di Cassier di spiegarcela, con arrampicate sugli specchi sui concetti di famiglia borghese e nobile. Più spettacolare – fuoco compreso - è ciò che accade fuori dal teatro, dove c'è gente che urla incazzature e rivendicazioni. Riprese, dentro il Piermarini, da Barenboim, che prima di attaccare Mameli, sale in platea a leggere un comunicato anti-Bondi; solo che Bondi si è guardato bene dal venire e gli fa un virtuale cippirimerlo da chissà dove.

Tu sei la soave primavera, che di nuovo mi adornò,
che mi ringiovanì la linfa di rami e tronco:
fu il tuo richiamo, che allontanò da me la notte,
che nell'inverno teneva intorpidita la mia arte.
Così come mi affascinò il tuo nobile saluto benedicente,
che deliziosamente impetuoso le mie pene rimosse,
così io ora fieramente ricolmo di gioia vago su nuovi sentieri
nel regno estivo della grazia.

No, non sono versi dello sbudellante duetto Siegmund-Sieglinde. Sono parole che Wagner indirizzò al giovane re Ludwig, nell'estate del 1864, da Starnberg, dove abitava grazie alla munificenza de re, e dove aveva iniziato la sua love-story con Cosima, dopo una surreale scenata con il di lei marito, Hans vonBülow, fino a quel giorno suo idolatrante ammiratore. Ma ben dipingono la natura del nostro, tanto sublime nella produzione artistica, quanto leccaculo e mangiapaneatradimento (oltre che antisemita, così, tanto per gradire) nella vita materiale.

C'è chi sostiene che Wagner si immedesimasse in alcuni personaggi dei suoi drammi: Re Marke, Hans Sachs, Gurnemanz. E magari anche in Wotan, come ci è stato spiegato da Daverio &C. Personalmente credo invece che la grandezza del nostro consista nell'aver saputo immedesimarsi in qualunque personaggio, per esprimerne mirabilmente pensieri, sentimenti e azioni.

E mai come nella Walküre ciò emerge in modo straordinario, basta ascoltare parole e musica, senza farsi distrarre troppo dagli effetti speciali di regìe che si illudono – o ci marciano – di aggiungere valore ad opere d'arte come questa, con giochi di luce e proiezioni. (Ma forse è la ripresa televisiva a trarre in inganno… chissà se dal vivo le cose andranno meglio).

Interpreti? Al solito, è il price/performance a lasciare qualche ombra di dubbio. Con il price di un teatro di provincia, la performance sarebbe anche più che accettabile. Con il price della sedicente unica, invece, il rapporto peggiora un filino.

O'Neill ha una vocina leggera, che di certo non piacerà a chi si è fatto una certa idea dell'Heldentenor. Io sarei anche disposto a transigere (Siegmund in fondo è poco più che un ragazzo) senonchè la mezza raucedine (che gli ha risparmiato i SOL bemolle e naturale dei Wälse e il LA del Wälsungen Blut, ma non il SOLb del Geliebte della terza scena del secondo atto) me lo ha fatto scendere sotto la sufficienza.

Tomlinson è un vecchio marpione che garantisce sempre un servizio decoroso.

La Gubanova devo dire mi è piaciuta assai: il suo Deiner ew'gen Gattin heilige Ehre è stato la degna conclusione di una prestazione maiuscola.

La Meier è sempre la Meier, e in Sieglinde si trova proprio a casa sua, niente da dire.

Kowaljow era acconciato che pareva il fratello, non il padre dei gemelli e delle Valchirie, ma a parte questo non mi ha deluso: anche la voce è giovanile, baritonale, quindi un po' fuori dagli stereotipi tradizionali, però ci ha messo espressione e – soprattutto, a differenza di O'Neill – non ha mai costretto Barenboim a rincorrerlo.

La Stemme è pure una Brünnhilde un po' leggera, ma canta magnificamente, e ciò è per me quel che conta di più. 

Dignitosa la prova delle otto sorelle, tutte voci adeguate, con un paio di piccole sfasature nelle entrate.

Barenboim non sarà Thielemann (che però ha imparato qualcosa da lui sulla collina) ma con Wagner non delude mai: per lo meno a livello di gestione della dinamica (sul suono meglio giudicare dal vivo).


A meno che non siano stati tagliati dalla ripresa audio, non si sono uditi buh (nemmeno per Cassier, smile!) il che stabilisce un autentico record per una prima alla Scala, e in specie a SantAmbrogio.

 

03 dicembre, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 13




La musica americana in cattedra per il 13mo Concerto de laVerdi. Wayne Marshall porta a Milano la sua versione di Porgy and Bess, già eseguita a fine estate con gli stessi solisti a Firenze; un anno fa al SanCarlo; un paio d'anni fa con la S.Cecilia e prima ancora con l'Orchestra Nazionale RAI a Torino (ma in passato il simpatico Wayne l'aveva portata in giro per il mondo). Marshall, direttore di origini afro-americane, sia pure di nazionalità britannica, ha un rapporto speciale con quest'opera fin dal 1986, allorquando suonò la parte del pianoforte nell'edizione diretta da Simon Rattle al festival di Glyndebourne.

La versione che Marshall ha predisposto per queste esecuzioni in forma di concerto, con tanto di beneplacito della Fondazione Gershwin, riduce a meno della metà la durata dell'opera originale (quasi 3 ore nette) ma soprattutto la depura di (quasi) tutti quei tratti che contribuirono, al suo primo apparire nel 1935, a farla tacciare nientemeno che di razzismo, per aver dipinto un microcosmo di gente di colore dove imperano violenza, omicidi, droga, prostituzione, alcool, gioco d'azzardo, malaffare e persino oltraggio alla religione. Ecco, nella versione di Marshall, di tutto ciò resta solo un pallido accenno a polverine magiche, la poco più che goliardica parodia biblica di Sportin'Life al pic-nic di Kittiwah, la fuga di Bess e un paio di camere ardenti per gente morta non si sa come. Sparisce del tutto il personaggio di Crown (omicida di Robbins e poi ammazzato da Porgy) e vi emergono in primo piano esclusivamente le qualità positive che pure esistono – ma annegate nel resto - nell'originale: duro e onesto lavoro, cristiana carità e solidarietà e persino… amore!

Marshall ha anche accentuato la forma di Suite dell'Opera, presentandocela come una giustapposizione di numeri chiusi (la trama vi è del tutto inconsistente) e non come un dramma che si dipana con un filo logico e poche soluzioni di continuità, limitate ai cambi di scena. Ciò che ci viene presentato è quindi assai più vicino ad un simpatico e divertente musical (con una spruzzatina di patetico) anziché un'opera con contenuti altamente drammatici.

I tagli comportano anche la perdita di un dettaglio dell'opera originale, dove c'è un caso più unico che raro: uno stesso brano (un'aria, si potrebbe dire, con linguaggio ottocentesco) viene cantato, in momenti diversi e in tonalità diverse, da due diversi personaggi (e due diversi soprano): ed è il brano di gran lunga più famoso, Summertime, la ninna-nanna cantata da Clara al suo bambino (due volte nel primo e poi, parzialmente, nel secondo atto); e successivamente cantata da Bess (che ha preso in carico il piccolo di Clara dopo la morte di lei) nel terzo atto. Qui invece la udiamo solo una volta all'inizio e cantata – nei panni di Clara - da Indira Mahajan, che per il resto sostiene la parte di Bess!

Venendo agli interpreti, oltre alla Mahajan, che ha mostrato una voce calda ed espressiva, bravi tutti, a partire dal tenore Ronald Samm (taglia da Pavarotti ingrassato, smile!) che ha presentato al meglio la figura di Sportin'Life; Angela Renée Simpson (deve pesare ancor più di Samm!) ha impersonato diversi ruoli femminili (Serena soprattutto) con voce chiara e potente; e Kevin Short, un grande Porgy, peraltro con voce non proprio potentissima. Al meglio anche il coro di Erina Gambarini, con le signore avvolte in scialli multicolori per dare un tocco di teatralità all'atmosfera.

Tour-de-force per i professori, con percussioni, sax, clarinetto e violoncello in grande spolvero. Lo stesso Marshall si è esibito - ma solo all'inizio, nella scenetta da saloon - al pianoforte (verticale) che aveva davanti a sè.

Alla fine gran trionfo, con ripetuti applausi ritmati e urla e fischi all'americana.

La prossima settimana arriva il venerabile Sir Neville Marriner per farci fare una scorpacciata di Schumann!

26 novembre, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 12





Per il 12mo Concerto de laVerdi sale in cattedra l'Opera italiana. In realtà, principalmente ciò che nelle opere oggi rappresentate in teatro quasi mai si suona, si sente e si vede: balli e balletti.


Rossini e Verdi dovettero – a malincuore? – pagare un certo pedaggio per poter accedere con loro opere nel tempio parigino. Dove vigeva una bizzarra quanto ferrea regolamentazione artistico-estetica (sic!) che escludeva tassativamente la rappresentazione di opere che non contenessero siparietti di balletto. Non solo, ma il siparietto, si badi bene (tale Wagner non ci badò, credendosi protetto nientemeno che dall'Imperatore, e fu impietosamente impallinato) doveva necessariamente essere collocato a metà, più o meno, della rappresentazione, per dar modo a certi simpaticoni (che casualmente erano anche pseudo-azionisti del teatro, in quanto detentori di abbonamento perpetuo a numerosi palchi) di arrivare con comodo, dopo cena, per ammirare le danzatrici e… portarsele poi a letto, a fine serata.



Quindi, si sospetterà: se quello era lo scopo, del tutto estraneo a canoni artistici ed estetici (un'anticipazione, per dire, degli odierni happening a base di bunga-bunga… smile!) chissà quale ciarpame musicale sarà stato scritto alla bisogna, dai pur grandi Verdi e Rossini. E questo sospetto sembrerebbe avvalorato dal fatto che, fuori dalle mura del teatro imperiale parigino, quei balletti e quelle musiche furono spesso e volentieri espunti dalle rispettive opere, e quasi sempre per iniziativa, o con l'esplicito consenso, degli stessi compositori.

Nulla di più falso e bugiardo. I tre brani eseguiti qui dimostrano come Verdi e Rossini ci misero tutta la loro ispirazione e la loro maestrìa, pur sapendo già in partenza che si trattava di corpi estranei rispetto al contenuto drammatico delle opere in cui dovevano essere inseriti.

A mo' di esempio vorrei citare Le Quattro Stagioni, la cui profondità di ispirazione e il cui solido contenuto sinfonico sono appassionatamente messi in rilievo da Riccardo Muti, in questa serie di prove d'orchestra (Inverno e Primavera) con la Cherubini, oggi disponibile in DVD, dopo essere uscita lo scorso anno per iniziativa di Repubblica-Espresso.

Con il cimbasso che spunta come un airone in mezzo ai fiati, si apre con La Pérégrina, questo siparietto del terzo atto del Don Carlos (in corrispondenza dell'incontro fra il principe ed Eboli, creduta Elisabetta) che è scenicamente una specie di bizzarro miscuglio di Bella addormentata e di Rheingold (prima scena) dove i legami con la trama e i personaggi del dramma bisogna scoprirli munendosi di microscopio elettronico. Invece la musica è a dir poco sopraffina, degna del miglior Ciajkovski! Con un assolo del violino - associato alla dormiente Perla bianca avvicinata dal pescatore (Alberich, per caso? smile!) – che, nell'incipit, sembra ricordare la celebre introduzione del violoncello al monologo di Filippo:

Qui ha modo di mettersi in mostra Gianfranco Ricci, avanzato per l'occasione al posto di spalla.

Ecco poi le citate Stagioni: quasi mezz'ora di musica, splendida da ascoltarsi da sola, mortale quando eseguita all'interno del terzo atto dell'Opera, di cui spezza inesorabilmente il pathos drammatico. Sull'esecuzione di ieri, credo proprio che anche il Muti perfezionista di cui sopra avrebbe poco da ridire.

Apre la seconda parte Rossini con il Pas de six dal primo atto e il Pas de soldats dal terzo atto del Tell: quest'ultimo brano, davvero trascinante, si merita un'ovazione.

Subito dopo Damian Iorio ci ha presentato la Boutique Fantasque, Suite dalle musiche del balletto di Diaghilev-Massine (della serie: bambole meccaniche e marionette semoventi e semi-umane, à la dottor Coppélius, o Spalanzani di turno, per capirci) che Ottorino Respighi trasse nel 1918 dal tardo Rossini (dai cosiddetti Riens, inclusi nei Péchés de vieillesse per pianoforte). Un pezzo frizzante e orecchiabile, nelle sue 7 sezioni (più l'ouverture).

Tanto per riderci un po' sopra: ecco, qui come ouverture non c'è male; la miglior tarantella? Eccola! Questi cosacchi sono un po' pesantucci; qui invece una cosacchina in erba, portata via proprio come una marionetta; e questo è precisamente un forsennato Galop! laVerdi è ovviamente meno spassosa, ma più precisa (smile!)

Si chiude in bellezza, a mo' di encore, con la sinfonia dal ??? (Barbiere? Aureliano? Elisabetta?) Iorio, che ha introdotto i vari brani con qualche pertinente riferimento (peccato che la sua voce, senza amplificazione, arrivi neanche a metà sala) informa che la sinfonia viene eseguita impiegando una edizione recenteVero, non è certo quella ottocentesca di Ricordi (visto che i tromboni elisabettiani mancano) ma neanche quella del 2008 di Barenreiter (Gossett) come testimonia la presenza dei timpani, tanto per dirne una. Ma al pubblico, tutto sommato, ha fatto l'effetto di sempre: straordinario!

Prossimamente su queste scene… Porgy&Bess!



24 novembre, 2010

Barenboim tutto austriaco alla Scala


Prima di metter mano alla Walküre, con la quale aprirà la stagione a SantAmbrogio, Daniel Barenboim torna sul podio della Filarmonica per un concerto tutto austriaco: tre opere, che in comune hanno il labile legame della tonalità DO (maggiore per Schubert e Bruckner, minore per Mozart).
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Si comincia con Schubert e il suo Gesang der Geister über den Wassern. Goethe venne ispirato per questa poesia dalla vista mozzafiato della Staubbach-Wasserfall, nell'Oberland bernese:


 
E la chiuse con questi versi: Anima dell'uomo come somigli all'acqua! Destino dell'uomo come somigli al vento!

 
Una poesia che, pur nella sua brevità, rappresenta un autentico compendio della natura e dell'esistenza umana: l'acqua che viene dal cielo e ad esso ritorna, come l'uomo ha natura terrena, ma spirito celeste; la cascata, che rappresenta l'efficienza dell'uomo; la trasformazione dell'acqua in vapore acqueo, simbolo della creatività e dell'arte umana; il suo movimento rallentante, che rappresenta l'invecchiamento dell'uomo; le rocce, simbolo degli ostacoli che l'uomo deve superare; il torrente di montagna, simbolo dei pericoli che ci trascinano verso l'abisso; le stelle che si rispecchiano nel lago, che rappresentano l'incontro dell'uomo con la trascendenza e l'eternità; il vento che rimescola le acque, simbolo dell'esistenza umana soggetta a mutamenti a causa di influssi esterni.

 
Schubert - che adorava Goethe (come dimostra la gran quantità di musica scritta sui versi del poeta) mentre stranamente era da questi del tutto ignorato (!?) - la musicò in varie versioni successive, dalla prima per baritono e pianoforte, fino all'ultima per 8 voci maschili (4 tenori e 4 bassi) e quintetto d'archi (2 viole, 2 violoncelli e un contrabbasso) che viene eseguita qui. Barenboim – dato che siamo nell'enorme Piermarini, e non nell'ambiente raccolto di una sala di musica - moltiplica praticamente per sei l'intero organico (strumenti e voci) il che forse toglie al lavoro un pochino della sua intimità, ma va bene così. Tutti bravi nel porgere questo non facile lavoro: precisamente 72 misure in 4/4, senza accidenti in chiave, ma che si allontanano spesso rispetto al baricentrico DO maggiore, in un proliferare di modulazioni che bene rappresentano lo spirito dell'opera di Goethe.

 
Poi Daniel si mette al pianoforte per interpretare – e contemporaneamente dando gli attacchi all'orchestra – il K491 di Mozart. Lavoro davvero tosto e difficile, che il Maestro abborda con gesti ed espressioni quasi di contrarietà, ma poi esegue da par suo (comprese le sue due cadenze) meritandosi applausi unanimi e convinti, che gli fanno tornare il sorriso. Un bravo ai legni, che in questo concerto fanno quasi squadra a sè, nel dialogare con il solista, specie nel finale Allegretto.

 
Si chiude con Bruckner e il suo TeDeum.


 
Si noti nel manoscritto la mancanza della parte dell'Organo, che è invece presente sulla partitura a stampa, sia pure indicata come "ad libitum". Barenboim ne ha fatto a meno, disponendo poi l'orchestra secondo l'usanza alto-tedesca (come già prima in Mozart) e facendo accomodare i solisti (Dorothea Röschmann, Ekaterina Gubanova, Joseph Kaiser e Kwangchul Youn) fra l'orchestra e il coro di Casoni. Onorevole prestazione per i solisti (Youn su tutti, direi) e grande, al solito, quella del coro.

 
Il motivo ostinato a quartine di crome discendenti negli archi è il supporto di gran parte dell'opera, uno di quei pilastri tipici del Bruckner sinfonico, che non a caso (DO-SOL-SOL-DO) apre e chiude la partitura:


E gli archi hanno mostrato compattezza e precisione. Menzione particolare per il primo violino (Daniele Pascoletti, credo) che nel Te ergo e nel Salvum fac ha una parte di rilievo (sulla scia del Benedictus nella Missa beethoveniana).

Gran trionfo alla fine per Barenboim: speriamo sia un buon viatico per dicembre…
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19 novembre, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 11


Concerto (quasi) tutto russo per il ritorno di Damian Iorio sul podio de laVerdi. 
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Si comincia però con un brano di rarissima esecuzione: il poema sinfonico L'infinito di Aldo Finzi, compositore italico vissuto – non proprio tranquillamente, essendo lui ebreo in epoca di leggi razziali - nella prima metà del novecento. Iorio ricorda brevemente la figura del musicista, prima di dare l'attacco. A proposito, è da segnalare la lodevole iniziativa dell'Associazione Aldo Finzi Diacronia che mette a disposizione gratuitamente le partiture del musicista, oltre ad organizzare eventi a scopo benefico.

 
Opera del 1933, ma chiaramente legata al tardo-romanticismo - a partire dall'ipertrofica orchestra, che comprende due arpe, celesta e pianoforte, oltre a percussioni di ogni risma - il poema sinfonico è strutturato in tre sezioni, le due estreme piuttosto lente e con sonorità assai tenui, che chiudono all'interno quella più mossa e rumorosa. La prima, Calmo in SI maggiore, tempo prevalente 3/4, rappresenta inizialmente una quiete, rotta soltanto da interventi dei corni; poi è un lento e progressivo crescendo, con reminiscenze mahleriane (nona sinfonia e Abschied) che culmina in un climax caratterizzato da una perorazione in fortissimo di corni e tromboni (che riprendono un analogo motivo esposto assai prima dalle trombe, ripresa poi dagli archi che tornano alla calma iniziale per preparare la seconda sezione dell'opera: Mosso, in DO minore, tempo 2/4 ma con diverse escursioni a 6/8 e 9/8; la sezione presenta ancora reminiscenze mahleriane e wagneriane, ed è caratterizzata prevalentemente da un ritmo in metro dattilo (croma-semicroma-croma) che stringe fin poi a diminuire verso la terza sezione, assai breve, ancora SI maggiore, Calmo in 3/4. Prima della chiusura torna – nelle trombe - il motto udito nella sezione iniziale, poi tutta l'orchestra (trombe tacendo!) esala in pianissimo l'ultimo accordo nella tonalità principale.

 
Un lavoro interessante, anche se non mi sentirei di scandalizzarmi per la sua scarsa notorietà. Di sicuro, se anche alla Scala (dopo laVerdi) si programma Il lago incantato di Liadov, allora anche all'Infinito di Finzi va accordato il permesso di soggiorno (smile!)

 
Impeccabile comunque l'esecuzione (al contrario di questa, della prima americana!)

 
Poi arriva Natasha Korsakova con il suo violino per interpretare il Concerto op.99 di Shostakovich. Natasha è indubitabilmente quella che in tutti i bar (maschilisti, ma ce ne sono di femministi?) si definirebbe una gran gnocca (non per nulla è testimonial di una nota casa di moda). E poi nel testo albionico della sua biografia si trovano queste perle: è di decenza (sic!) greco-russa (in effetti discende nientedopodomanichè dal grande Nicolai) e un tale che scrive su un giornale tedesco afferma di provare, ascoltandola, un'esperienza musicale peccaminosamente bella. Ohibò, vuoi vedere che suona nuda? mi son detto – confortato anche dalle foto sul suo sito - e ho subito riesumato il mio binocolo da marina da portarmi al concerto!

 
Poi, continuando a leggere la sua biografia, ho notato che il primo auditorium della lista di quelli frequentati dalla bella Natasha è proprio il nostro, quello di Largo Mahler, che viene prima di catapecchie di provincia come la Gewandhaus e il Concertgebow. E allora mi è venuto il sospetto che ci sia sotto qualche traffico più o meno losco, data la nazionalità della ragazza e i trascorsi filo-sovietici del management de laVerdi (smile!) In effetti lei è di casa in Italia ed ha pure suonato per il nostro Presidente, quello buono, intendiamoci (qui non si tratta di bunga-bunga, ma di musica classica, chiaro?) forse per via dei suoi (del Presidente intendo) trascorsi comunisti (ri-smile!) Battute a parte, la bella Natasha è pure brava, anche se ho personalmente trovato l'esperienza vissuta ascoltandola… tutto fuorchè peccaminosa (mi viene il dubbio che fosse quel cronista tedesco ad avere qualche problemino – o qualche birra - di troppo).

 
Il Concerto di Shostakovich (qui il dedicatario David Oistrakh) – in 4 movimenti, un'eccezione alla regola classica – fu tenuto parecchio nel cassetto dall'Autore, che aspettò prudentemente che baffone Stalin e soprattutto il suo procacciatore artistico Zdanov togliessero l'incomodo, prima di decidersi a pubblicarlo (della serie: certe vacanze-premio in Siberia meglio evitarle, se possibile).

 
È un concerto di quelli tosti, dove c'è di tutto: grande ispirazione e religiosità nel Moderato notturno iniziale, un primo risveglio nel successivo Scherzo, dove il dialogo del violino con i fiati, chiamati via via ad interventi solistici, si fa serrato, particolarmente nella sezione centrale, sfociando nell'ostinato e poderoso finale. Il terzo movimento (Passacaglia) si apre con una cupa introduzione di timpani e corni (qualcuno ci vede un richiamo al motto della Quinta beethoveniana) seguita da un corale di matrice squisitamente russa, poi il violino sembra riprendere il languido discorso interrotto nel primo movimento, quindi assume un incedere più deciso e sonorità più marcate, per tornare a spegnersi, accompagnato dal mesto ritmare della tuba; per poi concludere con una lunghissima cadenza,dapprima di sapore quasi bachiano, e poi sfociante in una serie di passaggi di alto virtuosismo. E infine uno dei classici, inconfondibili, tarantolati Presto di questo autore, dove il solista e l'orchestra sembrano inseguirsi in una forsennata discesa senza freni, una reminiscenza del mahleriano Burleske (che dà il nome al movimento) fino al repentino schianto conclusivo.

 
La Korsakova ottiene un gran successo: la tecnica è sopraffina, il suono caldo e chiaro, ma soprattutto grande è stata la sensibilità interpretativa, in specie nei movimenti lenti ed in particolare nella cadenza. Forse qualcosa da ridire avrà la sua sponsor Laura Biagiotti, del cui pregevole lungo nero Natasha ha usato un paio di pieghe per asciugare il sottomento del suo (certo più prezioso ancora) violino!

 
Il bis che ci viene concesso è di quelli inusuali, poiché coinvolge anche l'arpa e pochi archi dell'Orchestra. Ma la brava Natasha si vuol prendere una soddisfazione che il suo ruolo di solista (che per definizione la porta solo a calcare le tavole del palco, e non quelle della buca) le nega per definizione: suonare con l'orchestra la Méditation, dalla Thaïs di Massenet.

 
Da ultimo ancora una sinfonia, la Terza, di Rachmaninov (e meno male che non ne ha scritte altre, smile!) Leopold Stokovski ne fu il virtuale dedicatario: ne diresse la prima con la Philadelphia nel 1936, a poche settimane dal completamento. L'insuccesso a quanto pare convinse il bizzarro direttore a dimenticarsene per 40 anni, dopodiché la riesumò per un'incisione londinese. Anche quest'opera contravviene apparentemente i sacri canoni formali: i 4 tempi sono qui ridotti a 3 (a compensare preventivamente quello in eccesso nel concerto di Shostakovich, smile!) e una specie di Scherzo, invece di inglobare un Trio, è lui stesso inglobato nell'Adagio centrale. L'immancabile pisciatina di cane del Dies-Irae – il compositore ne soffriva il complesso, evidentemente - vi fa capolino, in modo esplicito nell'ultimo tempo, ma più cripticamente anche prima.

 
Il primo movimento è in forma-sonata: inizia in tempo lento, e vi viene esposto il motto in LA minore, che richiama vagamente l'introduzione della Piccola Russia (la seconda di Ciajkovski) e che introduce l'Allegro, nel quale spicca un tema cantabile, in MI, dei violoncelli. Al centro dello sviluppo un crescendo porta ad un accordo che i tecnici definiscono iper-dissonante, che introduce la ricapitolazione e poi la coda, col secondo tema che modula in LA maggiore, nel rispetto dei sacri canoni formali.

 
L'Adagio, ma non troppo si apre con un richiamo del corno al motto iniziale, seguito da un assolo del violino, cui il violoncello risponde à-la-Sibelius. Affiorano poi incisi dalla quasi contemporanea Rapsodia su Paganini, insieme a vaghi ricordi del secondo concerto per pianoforte, misti a un po' di Meistersinger! Ecco poi l'Allegro vivace annegato all'interno del movimento, che sembra addirittura ispirarsi all'Apprenti Sorcier! Di sicuro un bel minestrone, non c'è che dire… Poi si rientra nei ranghi, per riscaldare il suddetto minestrone, come da buone tradizioni di famiglia. Eccola: un gran pot-pourri di idee assai poco originali.

 
L'Allegro conclusivo mescola il motto iniziale con il Dies-Irae, dà spazio ad esibizioni solistiche (fagotti) e contempla una specie di fugato mutuato dalla seconda. Momenti di stasi idilliaca, rotti da brusche scosse dei bassi e alternati ad esplosioni in cui si ricapitolano temi già uditi, in un'orgia di percussioni da un-tanto-al-kilo. E infine il lento e progressivo crescendo che porta alla marziale chiusura, carica di enfasi pari alla totale inconsistenza estetica.

 
Chi ha analizzato nei dettagli la struttura della sinfonia ne ha messo in risalto l'estrema complessità, i sotterranei legami fra temi e motivi, l'impiego di scale esatonali e octotoniche, di modalità frigie, di peremennost e nega, e così via discettando. Resta il fatto che, a mio modesto avviso perlomeno, tutto questo armamentario per così dire tecnologico non basta a fare grande un'opera, quando essa è carente alla base di narrativa (musicale, s'intende) esteticamente apprezzabile, salvo forse che per un regista cinematografico in cerca di colonne sonore.

 
Qualcuno si è anche azzardato a fare paragoni fra questa sinfonia e la Patetica di Ciajkovski… a me pare francamente patetica la velleità di Rachmaninov di scrivere sinfonie siffatte in pieno novecento. Ma per sua fortuna, in USA, dove ormai risiedeva dopo aver fuggito il comunismo, non c'era nessuno Zdanov a censurarlo (smile!)

 
E così, mentre lui magari se la ride, dalla sua residenza di Valhalla, ad andarci di mezzo sono i poveri professori che, dopo aver fatto una fatica bestia per suonare la sua pretenziosa sinfonia, ricevono a malapena due striminziti applausi di cortesia. Ecco, opere come queste andrebbero tolte dal repertorio per legge (smile!) Per di più, fuori continua a piovere, governo l…

 
Sempre Iorio con brani da opere italiane la prossima settimana.
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17 novembre, 2010

Gustavino in concerto alla Scala


Prima di chiudere (il 18 novembre) il ciclo della Carmen, per il quale non è che abbia raccolto consensi proprio estasiati (almeno stando a ciò che si racconta in giro… personalmente una serata della Dante lo scorso dicembre mi è bastata ed avanzata) il funambolico venezuelano, al momento re di LosAngeles, sale sul podio dei Filarmonici per un concertone di quelli classici.
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Dapprima è il 53enne Pierre-Laurent Aimard a fargli da sodale (quanto ad età potrebbe essergli padre) nel beethoveniano ImperatoreInterpretazione che rifugge da ogni enfasi ed esibizionismo: quasi tutta in punta di piedi (o di dita!) nulla di eroico o imperiale. E forse per questo da godere e ricordare (massimamente l'Adagio). L'orchestra fa il suo dovere, senza peccati né invasioni di campo, guidata da un sempre sorridente Dudamel (che sfoglia una partitura formato tascabile!) Accoglienza calorosa da parte di un pubblico folto, ma non oceanico e… niente bis.

 
Il campione di El Sistema di Abreu - che alcuni auspicano venga chiamato a ricoprire il posto, vacante da 5 anni, che fu di Muti, e prima di Abbado (della serie: meglio anche un ignorante di opera, che nessuno) – ha invece tutta quanta in mente la partitura della Settima di Bruckner, quattro movimenti per un totale di 443 + 219 + 402 + 339 = 1403 misure! Sinfonia già ascoltata qui dai filarmonici a gennaio scorso, sotto la guida di un pedante Christoph Eschenbach. Gustavo, che ha fuoco latino nelle vene, e ai professori trasmette allegria e non timore reverenziale, ne dà un'interpretazione asciutta ed equilibrata nei tempi (forse ancora un filino troppo lento, per me, l'iniziale Allegro moderato).

 
In particolare nell'Adagio - preso atto che anche lui non se l'è sentita di negare all'addetto ai piatti i suoi tre secondi di gloria - Dudamel ha mostrato una stupefacente maturità (o forse ha semplicemente preteso il pedestre rispetto della partitura, senza aggiungerci troppo di suo) evitando di cadere in qualunque retorica – Tod-in-Venedig - o in eccessivi deliqui.

 
I filarmonici hanno risposto onorevolmente: gli ottoni, tubette comprese, non hanno incespicato mai (sarà poco, ma spesso non c'è nemmeno questo) anche se si potrà storcere un poco il naso sulla qualità del suono. Discreti gli archi e ottimi i legni. Alla fine applausi nutriti, sporcati da un fischio e da un urlo (da interpretarsi come buh?) per un'orchestra che – da 5 anni senza una guida stabile ed autorevole – fa quel che può.

 
In complesso: accontentiamoci di una piacevole serata di grande musica, che tira su un poco il morale, abbattuto da questa insistente pioggia novembrina (per non parlar d'altro…)
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16 novembre, 2010

Wagner in Israele



L'avvocato Yonatan Livni, figlio – si noti bene – di un sopravvissuto all'Olocausto, ha registrato presso la cancelleria del Ministero della Giustizia israeliano la prima Associazione Wagner di Israele.

Lo scopo dell'Associazione è quello di promuovere e diffondere la conoscenza delle opere di Wagner in Israele, dove dal 1938 esiste un autentico ostracismo – di fatto, non di diritto – alla loro esecuzione pubblica (Barenboim e Mehta ne sanno qualcosa, per aver timidamente cercato di infrangere tale ostracismo).
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È vero che Wagner fu un acceso antisemita, ma qui non stiamo parlando dei suoi scritti o discorsi, ma della sua musica, afferma Livni, che aggiunge: Orff e Strauss (al contrario di Wagner, ndr) furono parte integrante dell'establishment nazista, eppure si eseguono tranquillamente in Israele. Ed infine osserva argutamente: Hitler adorava anche Mercedes e Volkswagen, eppure migliaia di quelle autovetture circolano in Israele, guidate da ebrei senza alcun problema. E conclude che è quindi ora di metter fine anche al bando di quest'ultimo prodotto germanico.
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Naturalmente le organizzazioni dei superstiti dell'Olocausto hanno annunciato che continueranno ad opporsi all'esecuzione di Wagner in Israele. Ma intanto il passo dell'avvocato Livni comincia ad incrinare un fronte che fino ad oggi pareva impenetrabile.
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Il destino di Wagner, a 130 anni dalla morte, avvenuta ben 50 anni prima dell'ascesa di Hitler al potere, è di essere considerato da molti (non solo ebrei) come l'ispiratore del nazismo e delle azioni criminali di Hitler. E la ragione di ciò non risiede certo nell'essere lui stato affetto da antisemitismo (fenomeno quasi normale e diffusissimo, nella società ottocentesca in cui Wagner viveva) ma nell'aver egli prodotto grandi opere d'arte (nelle quali, si badi bene, non si trova alcun intento, esplicito o implicito, né alcun programma politico di distruzione degli ebrei).

Purtroppo le convinzioni antisemite di Wagner diedero ad Hitler il pretesto per sfruttarne i capolavori per i propri abominevoli progetti: ed è questa la tragedia postuma dell'Artista Richard Wagner.

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12 novembre, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 10



Concerto di quelli davvero tosti questa settimana, diretto Antonello Allemandi. Auditorium però con parecchi vuoti: forse l'accoppiata Schumann-Bruckner incute più timore che interesse, chissà.

E purtroppo devo dire che stavolta gli assenti non hanno avuto del tutto torto. Forse Allemandi – direttore squisitamente operistico – non ha con queste partiture la necessaria dimestichezza e consuetudine, o ha avuto poco tempo per provare e metterle meglio a fuoco e a punto, fatto sta che la prestazione complessiva non mi è parsa delle migliori.

Si comincia con la Primavera di Schumann, una sinfonia francamente un po' sacrificata in questo ruolo di apripista; per di più, niente ritornelli, per non appesantire troppo la serata, come già Allemandi aveva anticipato in un'intervista al Corriere. Quindi – a maggior ragione – rischia di diventare un'opera di quelle che Bruckner (che sentiremo subito dopo) chiamava sinfoniette. In realtà a me è parsa diventare piuttosto una sinfoniotta, greve ed appesantita da sonorità bandistiche, con enfasi sparsa a dosi eccessive. Le sinfonie di Schumann, come quelle di Bruckner, hanno tratti di teatralità, verissimo, ma non sono il Trovatore, né Cavalleria rusticana!

Da Schumann a Bruckner si procede nel tempo di una trentina d'anni, ma si fa un gran salto all'indietro – fino a Beethoven, come minimo - quanto a rispetto e conservazione delle forme classiche. Per Bruckner – organista per anni e anni a Sankt Florian! - la Sinfonia è una cattedrale, con tanto di colonne e pilastri portanti (i diversi temi) che sostengono campate, navate, absidi e cupole. Naturalmente vi si trovano poi vetrate policrome, affreschi e miniature in quantità. Questa aderenza quasi patologica alle forme tradizionali (qualcuno la considera un effetto dei tanti complessi che affliggevano il nostro, come la comptomania) non servì peraltro a Bruckner per guadagnarsi la stima dell'esteta musicale Eduard Hanslick che, parafrasando le celestiali lungaggini con cui Schumann aveva glorificato la Grande di Schubert, gratificava le sinfonie di Bruckner dell'epiteto di interminabili lamentazioni. Incolpandone (tanto per prender comodamente due piccioni con una fava) quello che secondo lui era lo sbifido virus wagneriano, da cui Bruckner era stato (e questo è poco, ma sicuro) contagiato.

Una caratteristica curiosa della Quarta, dal punto di vista della sua concezione, è proprio di essere assolutamente ligia ai sacri canoni della forma sinfonica, essendo allo stesso tempo un'opera con una precisa ispirazione extramusicale (il medievale mondo cavalleresco, di cui il naïf Bruckner vorrebbe dipingerci qualche spaccato di vita). Tanto da recare il titolo, proprio appostovi dall'Autore, di romantica, dal che ci si sarebbe dovuti casomai aspettare una struttura assai libera e quindi vicina al poema sinfonico.

Ma la Quarta, oltre che la più famosa, è anche la sinfonia più controversa di Bruckner. Un Direttore che la voglia – o debba – presentare, ha già in partenza da risolvere un problemino da nulla: quale delle 7 (in lettere: sette, di cui 5 pubblicate) diverse versioni eseguire? O magari provare a inventarsene un'ottava, assemblando come si fa con un meccano i vari spezzoni esistenti? Neanche il Boris Godunov (smile!) è così complicato! Gli esperti e i critici nemmeno riescono a mettersi d'accordo fra loro su quali versioni (o singole parti) della sinfonia si debbano considerare autografe o quali apocrife, cioè farina originale del sacco di Bruckner, o frutto di interventi più o meno plausibili o strampalati, autorizzati o proditori, dei vari Löwe e Franz&Joseph Schalk. Non solo, ma non c'è nemmeno concordia sul come giudicare l'atteggiamento dell'Autore: chi dice fosse letteralmente alla mercè dei suoi allievi-sedicenti-servitori, e quindi si bevesse qualunque loro scempiaggine, e chi invece assicura che il nostro, un poveruomo ingenuo e credulone fino al ridicolo riguardo tutti gli aspetti dell'umana esistenza, fosse però testardo e irremovibile quando si trattava di approvare o meno degli interventi sulle sue partiture.

Il risultato è che uno stesso documento – manoscritto con correzioni, o partitura stampata e poi emendata – viene considerato da una corrente di pensiero come autentico, o approvato dall'Autore, dall'altra come indebita e truffaldina manipolazione perpetrata dalla solita cricca Löwe-Schalk. E questo spiega perché fra gli editori critici sono più le picche-e-ripicche che non le convergenze di vedute. Chi voglia addentrarsi in questo ginepraio può cominciare da wikipedia, che riporta un quadro sinottico delle varie versioni, e cita buona parte della prefazione di Hans-Ferdinand Redlich, penultimo editore critico della sinfonia, alla partitura Eulenburg del 1955. In quest'ultima versione (1887-1888) edita originariamente da Gutmann nel 1889 (poi da Redlich e ultimamente da Korstved nel 2004) la sinfonia è stata quasi esclusivamente eseguita fin verso la metà del secolo scorso. Poi le si affiancarono, prendendo il sopravvento, le edizioni di Robert Haas (epoca nazista, 1936-44) e Leopold Nowak (1953) basate sulla versione del 1878-1881, quella che Hans Richter diresse alla prima di Vienna, con i piccoli ritocchi apportativi subito dopo.

Ed è proprio la versione Nowak quella che viene eseguita qui (la locandina-manifesto e il sito dell'orchestra citano sbrigativamente solo l'anno 1878, il che potrebbe far pensare alla versione con il finale Volksfest e con lo scherzo del 1874, roba fuori dal mondo… per fortuna il programma di sala rimette le cose a posto). Questa versione differisce da quella di Gutmann-Redlich per molti ritocchi all'orchestrazione e per non presentare alcuni importanti tagli allo Scherzo e al Finale (quindi è la versione di durata più lunga).

Nel primo movimento (la cui dinamica è Ruhig bewegt, curiosa davvero, poiché sarebbe da tradurre tranquillamente mosso!) dopo il richiamo del corno solo sul tremolo degli archi (ripreso poi dagli strumentini) che dà la sveglia al borgo, arriva il tema principale, in MIb, che poi modula fino al FA, volendo rappresentarci i cavalieri medievali che escono pomposamente dal merlato castello per addentrarsi nei boschi circostanti:

Guarda caso, un tema ripreso anni fa nella colonna sonora di Guerre stellari. Vi si noterà il classico stilema 2+3 (a volte, specularmente, 3+2) che Bruckner usava come fanno i cani con le loro pisciatine, per delimitare il proprio territorio di influenza.

Siamo evidentemente in qualche bosco dell'Alta-Austria, poiché un nuovo tema è da Bruckner esplicitamente associato alla cinciallegra Zizi-Be, che sulle fronde di lassù simpaticamente cinguetta così:
Evidente qui il riferimento a personaggi ornitologici che popolano un movimento di una famosa Pastorale

L'Andante è di carattere piuttosto dimesso, un misto di cantilena e di preghiera, con un ritmo da pellegrino sulla via francigena, scandito dal pizzicato degli archi; anche se – conformemente agli stilemi di Bruckner – non vi mancano un paio di squarci di quiete e anche di crescendo, l'ultimo dei quali poderoso, dove sembra persino far capolino il wagneriano, severo tema del Patto, proprio verso la conclusione del movimento.

Il tema dello scherzo (La caccia, riscritto completamente nel dicembre 1878) ricorda da vicino i corni che udiamo all'inizio del second'atto del Tristan:

Qui, oltre ai corni, anche gli altri ottoni sono sottoposti ad un forsennato tour-de-force, solo brevemente interrotto dal secondo soggetto esposto dagli archi. Il breve Trio rappresenterebbe, stando a Bruckner, la pausa-mensa dei cavalieri-cacciatori!

Il Finale – quello scritto da Bruckner al terzo tentativo – si apre con un altro richiamo di corno e clarinetto, poi tornano le terzine dello scherzo e il tema chiude con la possente riproposizione dell'intervallo di quinta (SIb-MIb) dei corni, dove compare anche un colpo di piatti (più un intervento dell'ottavino) che tutti gli editori critici considerano spurio (come quello dell'adagio della settima) ma che (quasi) tutti i direttori pervicacemente insistono ad eseguire. Segue una transizione in DO minore (ah, i sacri canoni!) che tosto lascia spazio al secondo corpo tematico che chiude l'esposizione. Si passa poi allo sviluppo (sempre tutto in forma sonata!) Arriva poi la lunga ricapitolazione (vittima di interventi e tagli nell'ultima versione del 1890) fino alla solenne chiusa col gigantesco crescendo cromatico di tromboni e tuba che sfocia nel MIb dell'intera orchestra.

Orbene, il fracasso non è certo mancato, ma da solo non basta; così come la pesantezza e l'enfasi (i 24 minuti di durata del Finale ne sono chiaro indizio). In compenso, la cinciallegra è parsa piuttosto una quaglia, e la caccia un colossale happening alla easy-rider. Qualche crepa anche nella coesione all'interno e fra le diverse sezioni dell'orchestra. Insomma, a me è rimasto un pochino di amaro in bocca.

Per il prossimo appuntamento si torna in Russia, con antipasto italiano.