affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

21 novembre, 2009

Ein italienisches Requiem, alla Scala

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Dopo Parma e laVerdi, un terzo Requiem, alla Scala.

Un cast davvero di prim’ordine sotto la bacchetta di Barenboim&Casoni (che si ritroveranno col Kaufmann-Josè a dicembre per l’apertura della Stagione). Il programma di sala presenta sempre Youn e non Pape, almeno un fogliettino con errata corrige si poteva predisporre, credo…)

Sala non proprio esaurita: non vorrei sbagliare, me ho il sospetto che la pricing-policy del Teatro – forse dato il frangente di crisi generale e di tagli FUS – stia privilegiando la massimizzazione dell’incasso, e non quella delle presenze. Mi spiego: ad una media di 80€ a biglietto si attirano 1500 persone, per un incasso di 120.000€. Per attirare 2000 persone (cioè riempire il teatro) bisognerebbe abbassare la media a 50€, il che porterebbe un incasso di 100.000€. Quindi: meglio pochi, ma disposti a spendere, piuttosto che tanti con meno euri da cacciare. Forse bene per le casse scaligere; per la cultura, un disastro.

Note tecniche: orchestra con disposizione teutonica (anche questo è un segno…) ma con i corni a destra, sotto gli altri ottoni (con la tuba e non l’oficleide); trombette lontane disposte in due palchi del 3°ordine; solisti dislocati – scelta ragionevole - sul proscenio.

Mercoledì c’era stata l’altra rappresentazione, preceduta da quella di Parigi, in tournée, di cui erano giunte notizie ora esaltanti, ora preoccupanti. E anche il 18 qui a Milano le cose sembravano essere andate così-così, stando ai super-esperti di canto verdiano.

Che dire? Con una facile battuta si potrebbe sostenere che abbiamo ascoltato Ein italienisches Requiem… Brutto? Per me, direi proprio di no, forse perché vedo poca distanza fra l’ultimo Verdi e la tradizione teutonica. Mi ero portato la partitura, e così ho potuto controllare da vicino, almeno l’aspetto puramente tecnico. Barenboim è stato più svizzero che tedesco (come puntualità). A parte un paio di cambiamenti di tempo appena un pochino anticipati, ha spaccato il capello (la partitura di Verdi) in quattro. Pianissimi e fracassi sempre al posto giusto e della giusta intensità. Le uniche sue sbavature sono state le due discese dal podio: prima del Dies Irae, per sistemare il leggìo alla Ganassi e prima dell’Offertorium, per spostare, con l’aiuto di Kaufmann, la sua pedana di 30 cm. verso il proscenio (forse per meglio vedere o essere visto dai solisti). E sul Kapellmeister ho detto tutto, semplicemente strepitoso.

Come compito a casa, prima del concerto, ho riascoltato – riversata da un vecchio vinile – l’edizione di Serafin, Opera Roma 1939, con le sante Caniglia e Stignani, insieme ai beati Gigli e Pinza. Roba sopraffina, ed anche un po’ umoristica (a proposito di corretta pronuncia di cui facciamo menda a qualche straniero): la grande Stignani doveva farsi chiamare Aba e non Ebe, visto che per lei la e si pronunciava a (tipico side-effect, questo, del prezioso immascheramento della voce…) Come: Quidquid latat apparabit; o anche: Nil inultum ramanabit, e così via storpiando il povero latino. Certo, voci sontuose, da rimpiangere come …Coppi e Bartali o Meazza e Piola in altri campi delle umane arti.

I cantori moderni, invece, come se la sono cavata? A mio modestissimo avviso passabilmente bene, chi più, chi meno, come sempre accade. Ma sempre bene, intendiamoci. I due tedeschi, proprio perché tedeschi, erano i più sospettati di essere in combutta con il Maestro, oltretutto tedesco adottivo pure lui, per rovinare l’arte italica. Invece in quest’opera, che è italiana ma non è né Traviata, né Rigoletto (infatti piacque moltissimo a Brahms, che di Requiem se ne intendeva) un po’ di rigore teutonico non guasta. Kaufmann il meno appariscente direi, ma si merita ampiamente la sufficienza, di fronte ad una parte espressivamente assai difficile. Quanto alla sensibilità, se uno come Pape riesce a fare, come fa, il Wotan del terzo atto di Walküre, certo sarà difficile imputargli di non sapere cogliere le sottigliezze verdiane nascoste nel Confutatis. E infatti la sua prestazione è stata per me più che degna, se non proprio eccellente. Le due signore non saranno come la premiata coppia Caniglia-Stignani, ma ieri sera se la sono cavata dignitosamente. Frittoli bravissima in alto, anche se poco udibile in basso; la Ganassi ha forse poca voce, ma quella poca la sa valorizzare al meglio.

Quindi autentico e meritato trionfo per tutti alla fine, con ripetute chiamate per Barenboim, Casoni (ça-va-sans-dire, ormai il coro è una sicurezza matematica) e i solisti. Una gran serata di musica!

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PS: curiosità (mia) parlando di aspetti tecnico-filologici del Requiem.

Resta sempre un rebus, per me, l’Offertorium, in quanto alla dinamica. Io non possiedo tutte le edizioni di questo mondo, menchemeno il manoscritto verdiano. Guardo la tascabile Eulenburg-975, e anche un’edizione della Biblioteca Classica russa, oltre che una riduzione inglese per piano (accessibili in rete). Sempre compare il metronomo di 66 semiminime puntate. Nelle edizioni curate da Saladino, riduzioni per pianoforte, pure accessibili in rete, invece il metronomo è indicato a 66 semiminime e basta. Una differenza di un terzo! E pare che la prassi esecutiva si sia orientata – magari a ragione – su questa versione più lenta. Secondo la quale, in un minuto si devono percorrere 22 misure (6/8, quindi 3 semiminime a misura) e arrivare quindi alla fine della linea discendente del violoncello dopo il primo Christe di mezzosoprano e tenore. Ed è ciò che fanno – in tempi di 55-58 secondi - Serafin, nell’edizione citata, come anche Abbado, Karajan, Bernstein e Giulini. Viceversa Toscanini sembra avvicinarsi al metronomo più veloce (che in un minuto comporterebbe di raggiungere la fine del Libera animas del basso, 11 misure più avanti) e più veloce ancora va il compianto Jansug Kakhidze, che si avvicina moltissimo al metronomo più rapido. Barenboim? Ad orecchio, anche lui si è allineato alla prassi dei più (a Parma in ottobre Maazel mi era parso più veloce, diciamo almeno come Toscanini, mentre la Zhang con laVerdi a fine ottobre aveva tenuto l’approccio moderato).

È questa una questione filologica, che qualcuno avrà evidentemente affrontato, anche se non ho trovato in giro riferimenti puntuali. Poi ognuno può avere i propri gusti (io sono per la velocità…)
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20 novembre, 2009

Stagione dell’OrchestraVerdi - 7

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Concerto con impaginazione assai variegata, quello ascoltato ieri sera all’Auditorium di Largo Mahler, dove laVerdi tornava dopo tre settimane di peripatetico vagare attraverso la penisola (Palermo, con due concerti in un sol giorno, Messina, Palmi, Lamezia, Taranto, Bari, Teramo, Pescara, Campobasso e Sulmona).

È doveroso far notare questa caratteristica – quasi unica nel panorama italiano – di un’orchestra che si impegna, e non a livello episodico, ma in modo serio e strutturato, a portare il messaggio musicale in giro per l’Italia. In città dove non c’è un’Orchestra Sinfonica stabile e magari neanche un Auditorium, dove non ci sono stagioni sinfoniche e la gente è costretta a viaggiare, se vuole ascoltare buona musica. Una ragione di più perché le pubbliche Istituzioni non facciano mancare il loro sostegno alla Fondazione.

Chiudo il carosello pubblicitario segnalando un’altra lodevole iniziativa, fra le tante, rivolta agli studenti: Concerto a porte aperte all'Auditorium. Proprio questa sera, al Turno B, essi potranno gratuitamente accedere alla sala: è anche questo un segnale di attenzione e di sensibilità di cui dare atto alla Fondazione.

Ora, la musica. Come è costume per concerti multiformi, si parte con una coinvolgente Ouverture: nella fattispecie i Vespri verdiani. Un vero gioiello, cui il termine sinfonia si attaglia perfettamente (ne avesse avuto il tempo e la voglia, Verdi avrebbe tranquillamente potuto rivaleggiare con i contemporanei Dvorak e Ciajkovski nell’agone sinfonico).

Intanto: la disposizione dell’Orchestra è in stile tedesco (tutti i violini davanti, bassi a sinistra) e poi, in evidente omaggio a Verdi, c’è un bel cimbasso (al posto della moderna tuba). Visto che non c’è molto da inventare su questo pezzo, qualche curiosità sui tempi. A parte il prestissimo finale (introdotto dalla fanfara degli ottoni) Verdi indica minuziosamente il metronomo: 52 semiminime per il Largo introduttivo - 33 misure 4/4 - e poi 88 minime per il resto, in Allegro agitato – 185 misure, 4/4 alla breve. Essendoci un solo, brevissimo cambio di dinamica, su una sola battuta (più un paio di corone puntate) che può pesare al massimo 2” sul tempo totale, si può precisamente calcolare la durata teorica dell’ouverture, escluso il prestissimo: 2’32” + 4’12” = 6’44”. Tanto per fare due esempi, qui Abbado con i Berliner (Palermo, 2002) tiene 3’06” + 4’52” = 7’58”, quindi è molto, molto lento rispetto alla prescrizione verdiana. Tradotto in metronomo: 43 semiminime + 76 minime. Anche Mehta (Roma,1990) è più lento del Verdi teorico, ma solo nell’allegro, chè nel largo è più rapido: 2’20” + 5’03” = 7’23”, corrispondenti a metronomo 57 semiminime + 73 minime. Qui invece un riferimento fra il comico e il deprimente (è evidente che in Guatemala non hanno El Sistema…)

Damian Iorio come l’ha fatta? Beh, io non giro col cronometro, né tanto meno col metronomo in tasca, quindi devo fidarmi dell’impressione del momento. Direi complessivamente sopra i tempi verdiani, ma non di molto. Sul piano del suono, mi è parsa un’esecuzione ben curata, senza eccessi retorici nei momenti di maggior impeto. Certo, anche il fracasso è inevitabile, ma è di quelli d.o.c. e l’Orchestra lo ha reso al meglio. In particolare bravi i violoncellisti, nelle esposizioni del tema di Henry&Monfort.

Poi è di scena Massimo Quarta, violinista che sale a volte anche sul podio di direttore, per interpretare una composizione in prima assoluta, commissionata dall’Orchestra Verdi e scritta per lui da Silvia Colasanti, Il canto di Atropo. Qui una presentazione di Massimo Colombo. Un brano assai profondo e coinvolgente, anche se nella sezione centrale il solista si distingue poco dagli altri archi dell’orchestra. Successo di stima, ovviamente, per l’autrice, presente in sala e salita sul palco a raccogliere meritati applausi.

Poi ancora Quarta in un’opera celebre, la Tzigane di Ravel, in cui mette in risalto tutte le sue qualità virtuosistiche (ma anche l’arpa ha la sua parte di gran rilievo!) Credo che il suo problema – per il futuro – sia la necessità di scegliere fra la specializzazione concertistica (ha già inciso quasi tutto Paganini, per dire) e quella di Direttore d’Orchestra: si sa che entrambe le cose sono assai difficili da conciliare a livello altissimo.

Il piatto forte del concerto è la Quinta di Prokofiev. Che prevede, come peculiarità rispetto all’orchestra classica, la presenza del pianoforte, ovviamente solo con compiti di riempitivo (spesso di rinforzo o complemento all’arpa, che pure ha qui un impiego assai corposo) e non certo solistici. Robuste anche le percussioni, rinforzate da tamburo, tamburino, tamburo di legno e tam-tam.

Nell’Andante introduttivo, Iorio fa emergere molto bene il contrasto fra i due temi (che pure hanno una qualche parentela melodica). In particolare eccellenti gli ottoni (trombe in testa) nel grandioso sviluppo, dove sono attesi da impervie difficoltà.

Lo Scherzo (Allegro marcato) ha un incipit di cui si dev’essere ricordato Nino Rota, al momento di comporre le musiche per il felliniano . Poi nella partitura c’è un dettaglio francamente curioso, quasi maniacale: le due misure prima del segno 29, otto coppie di crome suonate in staccato ff dagli archi, contrabbassi esclusi, sono prescritte al tallone (la base dell’archetto) unica indicazione di questo tipo nell’intera sinfonia. Bravissimi qui gli archi a mantenere quel ritmo che ricorda una sbuffante locomotiva lanciata a gran velocità, o anche un maglio meccanico che – siamo in piena guerra! - modella lingotti d’acciaio per costruirci carri armati. Eccellenti nel trio gli strumentini, come anche arpa e pianoforte, che vi hanno un ruolo importante. Perfetta l’accelerazione che riporta il tema principale ad Allegro, con la conclusiva volata, tutta in staccato negli archi bassi e nel pianoforte, verso il tonfo finale, sull’accordo di RE minore di tutta l’Orchestra.

Nell’Adagio il rischio che corre il Direttore è quello di non riuscire a catturare l’attenzione del pubblico su un brano che è effettivamente ostico, e può facilmente trasformarsi in letale morfina. Siamo in un mondo espressionista, che ricorda vagamente certi passaggi dell’Adagio della decima mahleriana, con gli archi a disegnare contrappunti quasi dissonanti e gli strumentini che sovrappongono la melodia principale. La parte centrale è più mossa, e poi Prokofiev vi inserisce poderosi colpi di tam-tam, evidentemente per risvegliare gli assopiti, prima della chiusa, che il clarinetto conduce in un’atmosfera sempre più rarefatta.

Infine l’Allegro giocoso: è un Rondò, introdotto da richiami del tema principale del primo movimento, poi subito inizia il ritmo da treno in corsa che sostiene sempre il tema principale, che ricorrerà più volte, esposto via via – e variato - da diversi strumenti. I temi secondari sono per lo più a carico degli strumentini, davvero tutti bravi. All’ultima ripresa del tema principale c’è per le trombette (con sordina) un tour-de-force particolare, con velocissime semicrome puntate a sottolineare il generale trambusto, che porta alla conclusione, dove le stesse trombe, ora a voce spiegata, sembrano quasi imprigionare gli archi che - con pianoforte, arpa e percussioni - vorrebbero perpetuare il loro isterico moto. Smagliante la chiusa, repentina, sul tempo debole.

Un’esecuzione rimarchevole, e una bella serata nel suo complesso. Iorio torna sullo stesso podio fra una settimana, con un’altra Quinta, se possibile ancor più impegnativa, per lui e per i professori: quella di Gustav Mahler.

Intanto stasera ci aspetta un altro Requiem.
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17 novembre, 2009

Aspettando Carmen a SantAmbrogio - 2

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Le vicissitudini di Carmen sono ampiamente note, ma anche tremendamente ingarbugliate, per cui ogni nuovo allestimento suscita immancabilmente la domanda: ma quale Carmen ci verrà propinata?

La versione originalmente fatta rappresentare – con scarso successo, peraltro - da Bizet, leggera e piena di humor, a dispetto del finale tragico? Se sì, infarcita di quanti dialoghi? (saranno anche raffinati, ma il Singspiel a noi moderni sta abbastanza sullo stomaco…)

Oppure si darà quella – più pesante, predisposta per il mercato tedesco, tutta spostata sul lato drammatico - di Ernest Guiraud, che è stata la più eseguita in assoluto, fin dagli anni immediatamente successivi alla prima del 1875, con i recitativi da lui musicati (essendo nel frattempo scomparso Bizet) al posto dei dialoghi originali?

Oppure si eseguirà la versione critica di Fritz Oeser (1964) che in sostanza riprende il manoscritto originale, senza però tener conto del fatto che Bizet lo aveva subito rimaneggiato, soprattutto alleggerendolo, durante le prove in preparazione della prima?

Un’edizione più recente della partitura – Schott, 1992 - è opera di Robert Didion (scomparso nel 2001): rifiuta in blocco (come Oeser) gli interventi di Guiraud, ma tiene conto di quelli – determinanti – che Bizet effettuò in vista della prima, e che riportò sull’edizione per voce e pianoforte.

Da ultimo, Richard Langham Smith ha prodotto una nuova edizione per Peters - sempre sconfessando Guiraud - utilizzata anche di recente a Parigi.

C’è poi da qualche parte anche una versione Guiraud, ma senza la musica di Guiraud, sostituita da un’altra appositamente commissionata dall’Opera di Baltimore a …nientedopodomanichè Giovanni Allevi! (il nostro è già arrivato in Senato, non scordiamocelo, quindi attenti a non sottovalutarlo…)

Viene infine da tremare al pensiero (leggere il secondo paragrafo dell’articolo link-ato) che venga rappresentata una Carmen di Ravel! (con un bolero per ciascun atto?)

Nello scorso giugno Barenboim ha anticipato che la sua sarà una Carmen drammatica e tragica, forse sulla scia di quell’altra messa in scena da Kusej, che Barenboim ha diretto tempo fa nella sua Berlino. Speriamo che non sia una cosa come questa… ma con i registi non si sa mai.

E a proposito della regista: Emma Dante, da siciliana verace e sanguigna come certe arance di laggiù, sembra lì apposta per dare il tocco di fatalismo verista, con tanto di vara e prefiche. (Mia moglie, milanese ma con robuste radici in quel di Ficarazzi, mi ha guardato con aria di compatimento - tempo fa avrebbe messo mano ad un mattarello - sentendomi dire che a me la prefica - chissà perchè l’accento mi scivola inevitabilmente sulla ì - fa pensare a tutto, no, anzi, ad una cosa ben precisa, tranne che ai lamenti funerari).

Qualcosa mi dice – spero proprio di essere cattivo profeta – che non vedremo la Carmen di Bizet.
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16 novembre, 2009

Harding con la London Symphony alla Scala. E l’unica (?) sesta

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Ieri sera la Scala ha ospitato la prestigiosa London Symphony per un concerto in favore del FAI. Un programma di gran tradizione e anche di grandissimo impegno, per Daniel Harding e Christian Tetzlaff.

Teatro – ahinoi - con parecchi vuoti, sia in platea che nei palchi. I prezzi erano assai alti, vero, ma lo scopo non era di lucro; si vede che la crisi c’è ancora. Orchestra con layout tedesco, che vede gli archi bassi relegati al centro-sinistra, dietro i primi violini, mentre i violini secondi sono in prima fila, a destra, davanti alle viole. Palcoscenico ingombro di sedie, leggìi e strumenti, più della metà disoccupati per Mendelssohn. Subito l’occhio cade sul tavolaccio su cui si abbatterà un enorme martello ligneo nel finale mahleriano.

Il concerto per violino di Mendelssohn è così inflazionato che ormai lo si ascolta col timore di un’esecuzione di routine, di quelle che ti lasciano indifferente e non ti suscitano nuove emozioni. Tetzlaff, forse per attirare l’attenzione, lo attacca come un forsennato (col risultato di non essere impeccabile, all’inizio); poi torna nell’alveo normale, ma la sua è – andante escluso – un’interpretazione nervosa, tutta scatti e singhiozzi. Un Mendelssohn un po’ troppo espressionista, almeno per i miei gusti. Un’osservazione anche sull’orchestra: impeccabile, per carità, ma con i (relativamente) pochi professori sparpagliati in un deserto (di leggìi vuoti, già pronti per Mahler) è parsa dare un suono meno compatto del dovuto. E poi il timpano, messo laggiù da solo, a ridosso del pannello riverberante, ha con i suoi colpi sovrastato troppo il resto degli strumenti. Comunque gli applausi non sono certo mancati. È mancato invece un bis di Tetzlaff, magari del suo Bach, di cui è tanto cultore.

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La mia sesta, ebbe a dire Mahler, porrà agli ascoltatori degli enigmi che solo chi avrà digerito le mie prime cinque potrà sciogliere. Beh, anche dopo aver digerito tutto ciò che Mahler scrisse prima (e pure dopo!) della sesta, gli enigmi restano. Perchè sono più che altro di natura extramusicale e – credo io – cresciuti nella nostra testa a furia di accanirci nel cercarli a tutti i costi fuori dalla partitura.

Sul fronte strettamente musicale, la parola più autorevole (!?) l’ha scritta Adorno, in Variante e Forma, a proposito del Finale, quando ne dipinge la grandiosa immanenza formale. Certo, la forma. Abbiamo quattro movimenti (il primo in perfetta forma sonata, con tanto di ritornello dell’esposizione); le indicazioni dinamiche dei titoli nell’aulico italiano (solo brucknerianamente inquinato dal teutonico Wüchtig dello Scherzo); la concatenazione delle tonalità; insomma, parrebbe appunto Bruckner, se non proprio Beethoven!

Ma poi, leggendo di ciò che dissero e scrissero Mahler stesso e la moglie Alma (che gli fu vicinissima durante la composizione, facendo anche da copista delle parti) si viene a sapere che nella sinfonia si trovano anche: il ritratto della stessa Almschi (secondo tema del primo movimento) le bambine Putzi e Gucki che giocano in riva al laghetto (scherzo) e i colpi del destino - tre (o solo due?) tremende martellate a futura memoria - che si abbatteranno sul povero compositore (finale). Completano il quadretto i campanacci da mucca, il cui suono Mahler ascoltava sugli alpeggi durante le sue escursioni in montagna (insieme ad Alma, il cui tema li accompagna nel primo movimento); la gigantesca grancassa fatta appositamente costruire per la sinfonia (e poi non impiegata, poichè non faceva abbastanza fracasso!) e certe indicazioni dinamico-agogiche – tipo: Altväterisch nel trio dello scherzo – che poco o nulla hanno a che spartire con il classico e severo impianto formale di una sinfonia.

Molto sarcasmo – e per nulla ingiustificato - si attirò poi il compositore per l’incredibile decisione (che mascherava evidentemente perplessità profonde sull’essenza stessa della sua opera) di scambiare l’ordine di Scherzo e Andante, decisione presa in fretta e furia nelle poche ore intercorse fra la prova generale e la prima di Essen del 1906. Tuttora non c’è accordo fra i critici su quale debba essere la sequenza dei movimenti interni più aderente alle intenzioni estetiche dell’Autore: C.F.Kahnt, editore dell’opera, mise sul mercato, prima della prima, la versione originale (con lo Scherzo davanti) e, subito dopo, la versione con l’Andante anticipato, che Mahler aveva deciso di presentare all’ultimo momento. Poi non ci furono altre edizioni autorizzate dall’autore, ma solo versioni critiche basate più sui ricordi di Alma che su documenti certi. Non c’è nemmeno accordo fra cronisti, biografi ed esperti su come Mahler stesso si comportò in vita: c’è chi sostiene che l’Autore diresse la sua sesta sempre con l’Andante in posizione avanzata, e chi – come l’autorevole H.-L. de La Grange, basandosi su testimonianze (affidabili?) – scrive che già per l’esecuzione a Vienna nel gennaio 1907 Mahler ristabilì l’ordine originario. Fino a dopo la metà del ‘900 si eseguiva regolarmente la sequenza Andante-Scherzo, poi Erwin Ratz – qualcuno dice per farsi pubblicità e senza prove che non fossero i vaghi ricordi di Alma – emanò un’edizione critica che ripristinava l’ordine originale dei movimenti. E così quasi tutte le interpretazioni e incisioni da 40 anni in qua recano la sequenza Scherzo-Andante. Poi qualcuno in USA ha di recente sbugiardato Ratz, ripristinando la versione Andante-Scherzo (ma i contestatori sono già all’opera). Una interessante tabella pubblicata su Wikipedia riassume l’approccio che diversi Direttori hanno tenuto rispetto a questa scelta nell’interpretazione della sinfonia. C’è anche chi propone salomonicamente di lasciare libero ciascun Direttore di scegliere secondo la propria sensibilità del momento (e così, ad esempio, Abbado registrò con la Chicago Symphony lo Scherzo in posizione avanzata e successivamente, con i Berliner, vi antepose l’Andante). Il che però equivale a rinunciare in partenza a spiegare i contenuti estetici – se ce ne sono – della sinfonia, trattandola alla stregua – che so – di una suite di brani da balletto; e ad ammettere che tanto tutto fa brodo, in qualunque ordine si servano in tavola i piatti del menu.

Ancora: i colpi di martello (su youtube ce n’è una gran quantità, uno più esilarante dell’altro, fra cui segnalo questo, perpetrato in montaggio, irrispettosamente, alle spalle dell’incolpevole Haitink e poi quest’altro, vibrato da una fierissima martellatrice ceca; ma altri non sono da meno). Dapprima tre, poi divenuti due (e poi forse tornati tre? ma qualcuno dice fossero addirittura cinque, in origine! e la loro forza in diminuzione, il che attirò le critiche di Strauss) insieme allo scambio dei movimenti, essi completerebbero il quadro di una composizione dove la forma appare quasi come una foglia di fico messa lì per coprire le vergogne del contenuto extramusicale: in realtà un poema sinfonico contrabbandato per sinfonia! (E Mahler in questo sarebbe pure recidivo, dopo i casi della prima e – in parte – della seconda).

Ma anche autobiografico? Beh, se teniamo presente Strauss e la strana condizione di coopetition (si direbbe oggi) che caratterizzava i loro rapporti, non si può escludere che la sesta mahleriana sia anche – magari nelle intenzioni inconsce - una risposta all’amico-concorrente che alcuni anni prima, nella sua Heldenleben e successivamente nella Sinfonia Domestica, aveva descritto sereni quadretti familiari ed epiche battaglie contro i critici, da cui però lui esce vincitore, a differenza di Mahler. In fondo, se il tema in FA maggiore dell’Allegro iniziale è da associare ad Alma, perché non supporre che quello principale, in LA minore, rappresenti Mahler stesso, tutto preso dalla lotta per arrivare? E che sulla sua strada incontra presto Alma, un frammento del cui tema (note discendenti) già si intravede fin dall'inizio dell'esposizione?

Quanto al contenuto tragicamente divinatorio della sesta, risiede solo nel senno-di-poi di Alma e dei suoi amici. Anche Strauss – ancora lui – aveva scritto anni prima Tod und Verklärung, ma non certo perché si sentisse poco bene (lo citerà ancora a 84 anni, 60 dopo averlo composto!) Certo Mahler doveva essere molto meno ottimista e forse meno sicuro di invecchiare di quanto non lo fosse Strauss, e poi la sua posizione di Generalmusikdirektor a Vienna comportava - per un ebreo dalla sospetta conversione - più rogne e rischi di quella di Strauss a Berlino. Però ci si deve intendere sulla pretesa tragicità della sesta: è tragica, in senso greco, la sinfonia, o è tragica anche la circostanza materiale ed esistenziale in cui l’Autore la compone? Nel caso specifico, la seconda risposta è di sicuro errata. Mahler, negli anni in cui compose l’opera, era un uomo all’apice di tutto ciò che si può desiderare dalla vita: una bellissima e famosa moglie, due figlie (una a cavallo fra gestazione e nascita) e il posto di gran lunga più prestigioso al mondo che un Kapellmeister potesse sognare. (O forse Mahler si comportò come el Giupì delle nostre parti che, quando c’è un bel sole, invece di rallegrarsene e di goderselo, si rattrista al pensiero che – inesorabilmente - il tempo cambierà…?) Infatti, dopo ci furono certamente le disgrazie. Ma cosa dire del fatto che, contemporaneamente e anche dopo le disgrazie, Mahler scrisse la settima, che chiude con un esilarante DO maggiore, l’ottava, tutta infarcita – persino Strauss ne fu nauseato – di borghese e curiale MIb maggiore, e il Lied, la nona e i frammenti della decima, che tutto sono tranne che esternazioni sconfortanti e sconfortate (per dire: nessuna finisce più in minore, come solamente la sesta finisce). Ed è stato giustamente osservato che anche la sesta – bastava poco – avrebbe potuto assumere tutt’altro aspetto: alla misura 773 del finale (50 prima della chiusa) si arriva con una scala discendente (tromboni) di LA maggiore; interrotta alla sopratonica (misura 772) cioè ad un passo dal possibile trionfo (che avrebbe semplicemente consolidato quello dell’Allegro iniziale…) per far posto al LA minore che descriverà invece la fine tragica, gettando retrospettivamente l’alone di tragicità su tutta la sinfonia, che per la verità aveva vissuto su un continuo alternarsi di maggiore-minore, di cupezza e serenità, di dolori e gioie (di cui è costellata la vita di tutti, individui e umanità) anche e soprattutto nel conclusivo movimento.

Allora alcuni critici, nel tentativo di salvare capra e cavoli (e magari le proprie personali convinzioni) ci spiegano che – in realtà – il tragico contenuto in questa sinfonia non è il destino di Mahler, ma quello dell’umanità intera: la Vienna asburgica in dissoluzione, la guerra imminente (?! 10 anni prima !?) magari persino Auschwitz e Hiroshima, chissà. Domanda: allora la successiva settima prefigurerebbe la vittoria degli alleati sul nazifascismo? E l’ottava – col Veni, Creator - l’avvento di papa Ratzinger? Altra spiegazione del tragico: è, sul fronte artistico, il destino della musica, incapace di trovare una strada percorribile, dopo i travagli dell’800 e i colpi che le aveva assestato Wagner (e prima ancora Liszt, non a caso citato nell’Allegro iniziale). Domande: c’è allora differenza per l’esecutore dei colpi di martello immaginare di darli in testa a Mahler, o all’umanità intera, o alla musica stessa? E il Kapellmeister come fa a spiegargli la differenza? O sceglie un particolare martello, fra mille? E c’è un martello più adatto per la testa di Mahler, e un altro per quella dell’umanità o della musica? E cambia forse l’effetto per l’ascoltatore, dal puro punto di vista musicale? Oppure è l’ascoltatore che interpreta le martellate a seconda del suo personale approccio alla sinfonia? E un ascoltatore che nulla sa di tutti quei retroscena, come ci rimane?

Queste domande e questi dubbi (enigmi?) valgono, pari-pari, anche per tutti gli altri aspetti dell’interpretazione. C’è un modo di far suonare i campanacci da poema-sinfonico, e un modo diverso per farli suonare da sinfonia? Come si dovrebbe suonare il tema di Alma per far sì che Alma non si veda, non si senta e non si immagini, in modo da poterne godere (del tema, intendo) Hanslick-ianamente? E la dinamica, è per caso in relazione con l’antinomìa poema-sinfonia? Se si attacca il primo movimento con fiero cipiglio si è tragici, se lo si attacca più lento, si è… melodrammatici? L’Andante è, in realtà, Andante moderato, quindi in una zona grigia, verso l’adagio. Se un Direttore lo prende sul lento, che diciamo: sdolcinature tardo-romantiche? E se lo prende più spedito: espressionismo da XX secolo? Se lo dispone prima del finale è un lungo sguardo indietro verso la Vienna che lentamente muore, mentre il mondo – compositore in testa - corre su un treno che va verso la catastrofe. E se lo antepone allo scherzo, cosa diventa, il treno stesso che corre in avanti, verso un futuro di illusioni che prima o poi crolleranno? Insomma, mi pare che gli enigmi ce li creiamo noi e poi ci maceriamo nel cercare di risolverli.

Per chiudere questo tormentone, Berg: l’unica sesta, a dispetto di Beethoven, la definì il giovane ammiratore di Mahler, dimenticando perlomeno (in ordine di apparizione): Schubert, Dvorak, Bruckner e Ciajkovski. Quisquilie, pinzillacchere. (Ma gli possiamo perdonare tutto, in forza di ciò che – proprio grazie all’esempio di Mahler – ci ha poi lasciato.)

In definitiva, credo che la sesta mahleriana sia piena non già di enigmi, ma di incrostazioni extramusicali, che possono (e rischiano di) indirizzarne l’esecuzione da parte dell’interprete e conseguentemente la fruizione da parte del pubblico. Mahler scrisse nel 1888 una specie di poema sinfonico, poi mutato in prima sinfonia, ricco di pagine solari e di altre oscure, e culminante nell’apoteosi. 16 anni dopo scrisse un altro poema (vogliamo chiamarlo tragedia?) rivestendolo delle forme della sinfonia, ricco di pagine solari e di altre oscure, e culminante nella catastrofe. Qualunque significato si voglia dare a queste opere, e al resto della produzione mahleriana, resta che sono tutte grande musica (con gli inevitabili difetti, anche). Una musica che sentiamo proprio come attuale, a più di un secolo da quando fu composta da questo piccolo uomo arrivato dall’estrema periferia della Mitteleuropa.

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Veniamo alla serata di ieri. Se proprio si vuol parlare di approccio interpretativo alla sesta, uno degli aspetti non secondari (anche se non è certo l’unico) è legato alla sequenza dei movimenti. A me personalmente – ma non mi sogno di imporre ad alcuno questa vision - parrebbe logico che un’interpretazione che cerchi di spogliare l’opera da tutte le incrostazioni extramusicali dovrebbe anteporre l’Andante allo Scherzo (e rimuovere poi la terza martellata) ossia fare proprio il ripensamento che Mahler maturò dopo la prova generale di Essen.

Ecco: così ha fatto – meritoriamente, sempre secondo me - Daniel Harding! Il quale era al suo primo incontro con quest’opera (per la verità alla seconda esecuzione, dopo quella al Barbican dello scorso 12 novembre). La LSO viceversa ha con la sinfonia una lunga consuetudine, che nei soli sette ultimi anni l’ha vista eseguire in particolare sotto la guida di Mariss Jansons (2002) e poi di Valery Gergiev (2007), entrambi fermi assertori della sequenza Andante-Scherzo.

Credo che Harding si sia ciecamente fidato dell’esperienza della LSO, astenendosi dal prendere personali iniziative (che scadono normalmente in gigionerìa, specialmente con una partitura come questa). I tempi si possono sempre discutere, anche perché Mahler sembra su di essi volutamente sibillino (ad esempio, come interpretare Allegro energico, ma non troppo, scritto in testa al primo movimento? Il non troppo si riferisce all’Allegro o all’energico? O ad entrambi?) Harding ha seguito strade sicure, nel senso che non si è mai portato ai limiti delle ragionevoli forchette di velocità che si possono di volta in volta accettare. A parte qualche forzatura del volume delle trombe (nel finale) la sua è stata una direzione che ha rispettato la partitura alla virgola. La LSO ha fatto il resto, davvero una cosa grande, in tutti i reparti (rinforzati di un’unità – rispetto alla prescrizione mahleriana – corni, trombe e tromboni). Fantastici i corni, sottoposti da Mahler ad un tour-de-force inaudito; come le trombe, la prima in particolare, chiamata a interventi davvero mozzafiato; strepitosi – in senso proprio - gli strumentini, che spesso devono emettere in fff degli urli strazianti; così come le percussioni, che hanno un ruolo fondamentale in questa sinfonia; ma bravi proprio tutti, indistintamente.

Quindi grandi ovazioni per Harding e la sua banda, davvero ultra meritate.

All’uscita poi, forse per toglierci di bocca l’amaro della tragica fine… dolcissimi gianduiotti offerti nel foyer dai padroni di casa del FAI. Così anche la pioggerella autunnale che ci aspetta fuori sembra meno fredda e triste.
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12 novembre, 2009

Antonio Pappano alla Scala

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Tutto russo il programma con cui Antonio Pappano è stato ospite – 8, 10 e 11 novembre - della Stagione concertistica del Teatro alla Scala. Per quel complicato e un po’ levantino rapporto che intercorre fra Filarmonica e Teatro (dove si alternano e si mescolano i ruoli di cliente e fornitore) Pappano ha anche inaugurato sabato 7 – con diretta su Radio3 - la Stagione concertistica della Filarmonica, con un programma di poco diverso (Prokofiev invece di Shostakovich nel concerto solistico).

Ieri sera l’affluenza è stata buona, anche se non c’era proprio il tutto esaurito (molti vuoti nei palchi, e in effetti parecchi posti di palco erano offerti in internet ancora a due ore dal concerto). Magari quel Rachmaninov sinfonico può aver lasciato un tantino perplessi…

Un’occhiata all’Orchestra, che Pappano dispone secondo layout moderno, ma scambia seggiole e leggìi di violoncelli e viole, mettendo queste ultime in primo piano (forse per “rischiarare” il suono).

Si apre, come nelle migliori tradizioni concertistiche, con una pagina di grande effetto: l’Ouverture di Ruslan & Ljudmila di Glinka. I cronisti di Radio3 sabato anticipavano che Pappano la esegue con grandissima velocità. La partitura indica un metronomo di 140 minime al minuto (anzi in una copia 135) e farla a gran velocità significherebbe imitare questo Mravinsky, che la attacca addirittura a 180! Diciamo che Pappano, ad orecchio e croce, ha rispettato (sia sabato che ieri) i dettami di Glinka. Nonostante ciò, qualcuno degli ottoni fa subito una spernacchiata. Pazienza, ad ogni buon conto il risultato di riscaldare il pubblico (e anche di consentire a qualche ritardatario di prendere posto in palco senza essere troppo di disturbo) è conseguito alla grande.

Poi abbiamo un’opera assai difficile, oltre che interessante: il primo concerto per violoncello di Shostakovich (composto esattamente 50 anni fa, come omaggio al grande Mstislav) suonato da Han-Na Chang, 27enne coreana già di casa in Italia prima di esplodere come grande star, a nemmeno 12 anni, nel 1994 (un refuso sul programma di sala recita 1944!) Per lei l’Op.107 del russo è un cavallo di battaglia, una passione certo trasmessale dai suoi maestri: il destinatario dell’opera, Rostropovich, e il “senese” Mischa Maisky, a sua volta grande interprete del concerto. Su youtube si può trovare una sua esecuzione ai Proms-2006, con la BBC National Orchestra of Wales, diretta da Tadaaki Otaka (Allegretto, Moderato-a, Moderato-b, Cadenza, Allegro con moto) proprio nel periodo in cui la coreana registrò il concerto con Pappano. C’è anche la prima incisione di Rostropovich e Ormandy con la Philadelphia (Allegretto, Moderato, Cadenza, Allegro con moto). E altre ancora.
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La ragazza – in un lungo e scollato verde smeraldo - dà veramente spettacolo, ben supportata da un Pappano che da tempo ha con lei un grande affiatamento. E che in questo concerto – tutto sbilanciato sulla solista, dove l’orchestra nel suo insieme quasi non esiste, salvo che fugacemente nel Moderato e nel finale, sostituita da interventi a loro volta solistici di pochi strumenti (corno, strumentini, timpano, celesta) – si assume il compito di garantirle il massimo rilievo. Durante i 5 minuti della Cadenza non si sente volare una mosca (l’influenza A, tossi, raffreddori e bronchiti non hanno ancora evidentemente contagiato alcuno dei musicofili scaligeri… e nessun telefonino viene raggiunto da polifoniche chiamate): un orchestrale alza e abbassa l’archetto, un altro si passa la mano sotto il naso, un altro ancora si accarezza un sopracciglio, tutto qua. Pappano resta – capo chino – immobile con la mano sinistra appoggiata al leggìo. Solo quando la Chang arriva al conclusivo molto mosso, Pappano si muove anche lui, ma solo per girare la pagina della partitura, in vista del finale. Per dire, quanta religiosità si avvertiva nell’aria! Alla fine, dopo lo strappo forse fin troppo rumoroso del timpano, grandi applausi e nessun bis, ma obiettivamente il concerto è talmente ricco e impegnativo per la solista, che il pubblico deve più che mai accontentarsi. E poi la musica di Shostakovich qui è talmente percussiva che alla povera Chang erano ormai rimasti solo due o tre fili di crine sull’archetto, per cui rischiava di dover suonare il bis col legno.

Della seconda sinfonia di Rachmaninov ricorreva lo scorso anno il centenario dalla prima esecuzione. Sinfonia quindi coeva di quelle dell’ultimo Mahler, tanto per orizzontarsi un po’. Ma davvero lontana – diciamo pure… verso il basso – anni luce dai capolavori del boemo. Se quest’ultimo faceva tesoro delle innovazioni wagneriane, innestandole sul corpo della sinfonia fino a stravolgerla, per metterci dentro tutto il suo programma filosofico ed esistenziale – esplicito o criptico che fosse - il russo sembra, nella seconda, avere semplicemente cercato un’omologazione formalistica – magari in omaggio a Dresda, che lo ospitava al tempo e dove poteva sentire tanta grande musica - ad alcune sue idee-fisse e al suo modo di esprimersi in musica. Incidentalmente, fra Rachmaninov e Mahler ci furono, nel 1910 a New York, rapporti assai calorosi e proficui: fu grazie alla direzione di Mahler se il fresco terzo concerto per pianoforte del russo raggiunse l’apice della popolarità. Tornando alla sinfonia, che Pappano – nell’intervista rilasciata alla radio – abbia speso per questa espressioni iperboliche… beh, diciamo che fa parte del comprensibile marketing per un programma da presentare in un teatro importante, oltre che delle legittime simpatie che un Direttore ha il diritto di nutrire per una certa opera. Va comunque detto – a tutto merito del compositore – che alcune sue idee sono divenute più tardi degli interessanti spunti per altri musicisti russi, segnatamente Prokofiev e soprattutto Shostakovich (certo non a caso affiancati da Pappano a Rachmaninov nei 4 concerti degli scorsi giorni).

L’introduzione Largo del primo tempo ricorda vagamente l’atmosfera del famosissimo secondo concerto per pianoforte, scritto qualche anno prima. Ma si intravedono anche delle reminiscenze tristaniane. Il tutto in una scolastica applicazione della forma sonata di buona memoria haydniana. Peccato che i contenuti estetici – o se si preferisce, la narrativa dei temi – siano di una mediocrità desolante. Nell’esposizione, al primo tema, che con scarsa fantasia riprende in Allegro moderato quello in MI minore dell’introduzione, segue il secondo tema nella relativa SOL maggiore, una melodia orecchiabile (un frammento della quale si può rintracciare nel Largo della quinta sinfonia di Shostakovich) che si impaluda però senza ulteriore costrutto. Meno male che Pappano non si è sognato di fare il da-capo, chè anche riascoltando cento volte l’esposizione si faticherebbe ad esserne particolarmente stimolati. Lo sviluppo, che è insieme anche ricapitolazione, aperto magistralmente dal violino solo, arricchisce il primo tema con cupe divagazioni e folate che richiamano la scozzese di Mendelssohn; poi la sezione centrale contiene pesanti interventi degli ottoni – quasi perfetti, qui, i filarmonici - con ripetute e drammatizzanti quinte e poi ottave discendenti che portano il climax all’incandescenza, prima che un diminuendo conduca al secondo tema, esposto nel canonico MI maggiore preparato dagli accordi degli strumentini, che viene arricchito – si fa per dire – da qualche slancio ciajkovskiano. Il MI minore riprende quindi bruscamente il sopravvento, chiudendo il movimento con gran fracasso e – gratuita civetteria del velleitario Sergei – facendo seguire all’ultimo accordo dell’orchestra al gran completo un MI sforzato dei soli violoncelli e contrabbassi, che a chi non ha dato un’occhiata alla partitura appare normalmente come un clamoroso fuori tempo di quegli strumentisti. E proprio ad evitare fraintendimenti, Pappano quasi raddoppia la lunghezza della semiminima conclusiva e di quella vuota che la precede.

Va però dato atto a Rachmaninov di sciorinare una discreta inventiva nell’Allegro molto in LA minore, con quel vigoroso segnale dei corni a cui gli archi rispondono con uno stilema che diventerà caratteristico di tanti passaggi di Shostakovich. Il secondo tema, nella relativa DO maggiore, richiama – dilatato - il primo tema del movimento iniziale. Il movimento ha una struttura simmetrica: esposizione dei temi A-B-A; sezione centrale di vaste proporzioni, dove archi e strumentini, spesso in staccato, e con pesanti interventi degli ottoni, disegnano arabeschi spettrali, che Pappano fa eseguire con grande maestrìa; poi riesposizione variata dei temi A-B-A e successivo corale degli ottoni – un ritorno del Dies Irae, davvero un’idea-fissa del nostro, chissà se mutuata da Berlioz - per introdurre la lugubre chiusa in ppp, lasciata a pochi strumenti (archi, clarinetto e timpano). Bravi davvero anche qui tutti gli ottoni scaligeri nel rendere al meglio l’ambientazione del brano. Così come l’addetto al glockenspiel, che ha una parte di tutto rilievo.

Nel Largo in LA maggiore sentiamo il tema principale, che parte dalla tonica e sale all’ottava superiore passando attraverso mediante, dominante e settima, per poi appoggiarsi sulla sesta, e sembra una classica musica da film hollywoodiano (qualche anno fa ne fu ricavata anche una canzonetta). Il clarinetto presenta poi una lunga – e francamente stucchevole e poco incisiva – linea melodica, una scimmiottatura in peggio di quella del tempo centrale del secondo concerto per pianoforte, che sfocia nella riproposizione del tema principale negli archi. Pappano cerca di indorarci la pillola, ottenendo dai secondi violini un bel pianissimo per le loro ondeggianti terzine, ma è davvero difficile cavar sangue da questa rapa rachmaninoviana! Ricompare il primo tema del movimento iniziale, quasi un motto della sinfonia, sviluppato ampiamente, fino al ritorno del tema del Largo, che chiude in DO maggiore. Segue poi la seconda sezione, con i fiati in bella evidenza, che sviluppa i temi e conduce al ritorno a La maggiore, su cui abbiamo – altro squarcio per la verità interessante - la conclusione intimistica, una cadenza che sta a metà fra la reminiscenza di quella dell’Adagietto della quinta e l’anticipazione di quella conclusiva della nona mahleriana, in cui Pappano guida le viole proprio prendendole per mano, sul pizzicato degli archi bassi.

Il finale Allegro vivace, forma sonata, si apre con una sorta di saltarello in MI maggiore: ci si scorge financo funiculì-funiculà, che già Richard Strauss aveva infilato nel suo Aus Italien. Dopo una breve divagazione marziale di strumentini e corni, le trombe vi inseriscono un richiamo del segnale dei corni del secondo movimento. Il tema si chiude con arpeggi di terzine che riecheggiano Scriabin, che quasi contemporaneamente componeva il suo Poema dell’estasi. Poi abbiamo un tema in RE maggiore - che richiama quello in SOL del primo movimento (qualcuno ci potrà scorgere anche lo Schubert dell’Andante con moto dell’Incompiuta) – che si sviluppa assai ampiamente, per far posto a quello del Largo, che ritorna nella breve sezione in Adagio, sempre in RE, contrappuntato col motto dagli strumentini. Poi la ripresa del tema iniziale, variato à la Mendelssohn (scherzo del Sogno) e quindi, dopo il passo marziale, il secondo tema viene canonicamente riproposto nella tonalità principale di MI maggiore e conduce sempre più enfaticamente verso la conclusione, con piatti e gran cassa elargiti a piene mani.

Ecco, va dato atto al Maestro Pappano e ai Professori di averci messo tutto il miglior impegno: Rachmaninov ha proprio di che ringraziarli dalla tomba, se applausi ed ovazioni sono andati un pochino anche a lui!

(Domenica sera la Scala ospiterà gli albionici della London Symphony con Harding, per un concertone di quelli davvero tosti).
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08 novembre, 2009

20 anni orsono, domani

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Un muro lungo 167 Km. Eretto poco prima di ferragosto del 1961. Che ha fatto – più o meno - un morto al Km. Persone che cercavano solo un mondo – magari pieno di ingiustizie – dove poter esprimere il proprio io. Falciate dai VoPo, incaricati di evitare violazioni allo antifaschistischer Schutzwall, il muro di protezione antifascista (i fascisti eravamo noi occidentali, che avevamo – ironia della sorte, proprio insieme ai sovietici - sacrificato milioni di vite umane contro fascisti e nazisti) eretto a Berlino dai fantocci degli eredi di Stalin. E che qualche nipotino di Stalin – qui da noi – ebbe la faccia tosta di difendere ed esaltare.

Ricordiamo John Kennedy, nel 1963, affermare, guardando al di là di quel tetro muro: Ich bin ein berliner, io sono un berlinese. E poi ricordiamo il muro abbattuto a picconate, e la Trabant incastonatavi dentro, a simboleggiare il fallimento di quello che resterà per sempre come il più grande tradimento degli ideali socialisti e comunisti.

Martedi 10 ricorre il 250° anniversario dalla nascita di Friedrich Schiller, l’autore del celeberrimo Inno alla gioia musicato da Beethoven nella sua nona sinfonia, e divenuto oggi l’inno dell’Europa unita (che solo grazie alla Germania unita ha potuto essere tale). E fu la nona sinfonia ad essere eseguita a Berlino, poco meno di un anno dopo la caduta del muro - nel giorno della riunificazione (un marco BRD = un marco DDR, come decise Helmuth Kohl, roba da pazzi, anzi, da patrioti!) - dalla leggendaria Gewandhausorchester diretta da quel Kurt Masur che era stato uno dei protagonisti della pacifica transizione a Lipsia.
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Domani sera, da Berlino, un concerto ricorderà quella pietra miliare della nostra storia.
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06 novembre, 2009

Aspettando Carmen a SantAmbrogio - 1

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Una delle curiosità principali della prima scaligera 2009 – insieme alla regìa di Emma Dante – è rappresentata dal debutto nel ruolo principale di Anita Rachvelishvili, 25enne georgiana cresciuta proprio all’Accademia della Scala. Per Barenboim è stata una specie di colpo di fulmine: l’ha sentita per il ruolo secondario di Mercedes e subito ha pensato invece a lei per Carmen!

Ricordiamo che – esattamente due anni fa – il Maestro scaligero fece un analogo blitz ingaggiando a sorpresa tale Ian Storey quale Tristan. Con risultati non disprezzabili, ma certo nemmeno trascendentali. Auguriamoci che con l’Anitona vada meglio!

A proposito della quale, da un servizio del TGR-Lombardia veniamo informati che la (davvero bellissima!) georgiana, oltre ad avere un legame sentimentale col tenore Riccardo Massi, pare volesse assumere – ma Barenboim l’ha categoricamente sconsigliata - un cognome d’arte (Ravel…) al posto del suo autentico, che è effettivamente quasi impronunciabile, e poi a noi italiani, con quella desinenza in -vili, fa in genere un effetto sgradevole.

Da una sommaria ricerca sul web si scopre che in realtà la desinenza -shvili significherebbe figlio, un po’ come il -son svedese e il -sen danese. Fin qui, tutto bene. Ma poi altrove si trova una sorpresa: il termine significherebbe anche bullo, manesco, prepotente, il che apparirà appropriato a chi ricorda le non raccomandabili imprese di un tale Dzhugashvili, meglio noto col nome d’arte di Stalin. Si va di male in peggio con un’altra accezione: figlio di p…

Insomma, forse la bella Anita non aveva tutti i torti a volersi cambiar nome! Intanto staremo a vedere come se la caverà nei panni di Carmencita
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02 novembre, 2009

Ascolti in web (BBC): il Tristan di Pappano alla ROH


Sabato sera la BBC ha trasmesso la registrazione di un’edizione recente del Tristan diretto da Antonio Pappano al Covent Garden. Non è scritto, né è detto di quale rappresentazione si tratti, ma la composizione del cast dovrebbe restringere la rosa delle date al 9 o 15 ottobre u.s.

Edizione che ha riscosso all’esordio consensi e critiche sul lato regìa (a quanto si legge sulle recensioni e si intuisce dalle foto, ennesimo esempio di frusto e velleitario Regietheater, o meglio Eurotrash, perpetrato per l’occasione da Christof Loy) – cosa che all’ascoltatore del solo audio interessa poco o punto - ed anche commenti non proprio entusiastici (insieme a peana e panegirici un poco sospetti, anche se autorevoli, poiché segnalati dal sito della ROH) sullo stesso Pappano – e questo è già più preoccupante. Però sono quasi tutti commenti alla prima del 30 settembre ed evidentemente qualcosa è migliorato in seguito, poiché ciò che si sente non è per nulla disprezzabile.

Ben Heppner è Tristan e Nina Stemme Isolde. Ma tutto il cast è di prim’ordine, a cominciare da quell’inossidabile Marke che risponde al nome di Matti Salminen. Michael Volle è Kurwenal e Sophie Koch interpreta Brangäne.

Che dire? Alti e bassi nelle voci. I bassi quasi tutti da addebitare al povero Heppner, evidentemente ormai alla frutta in questo ruolo, sempre impiccato ed a volte steccante sui LA e pure sui SOL, davvero insufficiente nel secondo atto, dove è addirittura calante in intere frasi… Nel terzo atto canta all’ottava sotto il LA del nicht (zu sterben) e poi rinuncia proprio a tentare quello del Trank; pare ormai irrimediabilmente perduto… invece raccoglie le residue forze e miracolosamente migliora - va detto – proprio da lì in avanti e torna quasi (quasi) all’altezza nella scena dell’ultimo delirio, fino all’estremo LA acuto (zu ihr) - la sua penultima parola - prima di esalare il morente Isolde. Note positive per la Stemme, quantunque a volte - non sempre - emetta sgradevoli urli sugli acuti. La sua Liebestod è pulita, pur senza suscitare supreme emozioni. La Koch è davvero notevole in quel ruolo. Bravo anche Volle e bravissimo – guarda un po’ - Salminen.

La direzione per me non è affatto censurabile e trovo eccessivi certi commenti di blog specializzati britannici, che si strappano le vesti per la riconferma di Pappano alla ROH fino al 2012, auspicandone il licenziamento immediato. Certo, il Preludio è costellato da parecchie libertà di tempi, ma per il resto Pappano tiene bene in mano la situazione. Un esempio: l’incipit dell’Atto III, uno dei punti più critici del dramma. Del resto, lui era a Bayreuth negli anni ’90 come assistente di Barenboim, e qualcosa dovrà pur aver succhiato dalle mammelle wagneriane del maestro argentino-israelo-tedesco…

C’è ancora tempo fino a tutto venerdì 6 per ascoltare la performance con comodo, collegandosi a questo link. Dato che non costa (quasi) nulla, è cosa che consiglierei comunque di fare. Fosse invece un CD (o peggio, un DVD) da acquistare, francamente sarei propenso a destinare gli euri ad un impiego migliore.
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30 ottobre, 2009

Stagione dell’OrchestraVerdi - 6

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Grande ed attesissimo l’appuntamento di ieri sera all’Auditorium di Largo Mahler per l’esecuzione della Messa da Requiem di Verdi. Con l’Orchestra e il Coro Verdi di Milano, sotto la bacchetta della sempre più convincente Xian Zhang e della veterana Erina Gambarini si sono esibiti come solisti la soprano Majella Cullagh, la mezzosoprano Maria José Montiel, il tenore Miro Dvorski (in sostituzione dell’indisposto Jon Villars) ed il basso Leo An.

C’è una ricorrenza da celebrare: fosse ancora qui fra noi, oggi compirebbe 90 anni Paolo Grassi, un personaggio che nella Milano culturale ha lasciato davvero il segno (magari… nel bene e nel male, qualcuno potrà obiettare). Questa sera, al Turno B, interverrà remotamente nientemeno che il Presidente della Repubblica, per un ricordo ed un saluto.

Auditorium praticamente esaurito per l’occasione, il che provoca una decina di minuti di ritardo sull’orario di inizio standard. Subito si nota sul palco, a destra, un octobasse, un autentico jumbo-contrabbasso, esemplare quasi unico nel suo genere, ingaggiato appositamente – esecutore incluso - per l’evento. L’oficleide invece è rimpiazzato, come d’abitudine, dalla tuba. Le trombe remote (per il Tuba mirum) sono 6 invece di 4 e dislocate sui due lati della galleria (dove gli strumentisti prenderanno posto solo al momento di intervenire). I solisti si dispongono davanti all’orchestra, forse per ragioni meramente tecniche (il coro al completo già preme sull’ultima fila dei professori e mancherebbe lo spazio per allocarvici i 4 cantanti) ma è un bene, poiché così non vengono coperti dal poderoso volume di suono dei bravissimi coristi della Erina.

In sintesi, una grande prova di tutti, a cominciare dalla Zhang, che ha mostrato un’autorità di governo delle ipertrofiche masse inversamente proporzionale alla sua statura fisica. Strepitoso, a dir poco, il tempo di attacco del Dies Irae (mentre mi è parso troppo comodo quello dell’Offertorio). I solisti tutti bravi, anche se qualche rilievo si può fare alla Cullagh, per la voce poco passante, in basso, a Dvorski per qualche nota calata (ma deve essere arrivato qui all’ultimo momento…) e al basso An, non molto penetrante. Non saprei davvero quali appunti muovere alla Montiel, voce calda, potente e sempre sicura. Da 10 e lode il coro, nei fortissimo come nei pianissimo che costellano questo capolavoro. Orchestra del tutto all’altezza del compito, invero improbo in molti passaggi.

Ovazioni a non finire e applausi ritmati per questi interpreti che ci hanno fatto davvero un grande regalo.

Dopo il turno C di domenica, l’orchestra inizia un altro viaggio su e giù per la penisola, e sarà di ritorno qui il 19 novembre.
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28 ottobre, 2009

Boulez-Pollini alla Scala

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Tutto Bartók per questo ritorno della premiata coppia Boulez-Pollini. 84 anni il primo, 67 il secondo, ma oggi è ancora difficile trovare loro dei degni emuli, sia in generale, ma in particolare in questo genere di repertorio.

Intanto una considerazione sul programma: certo di altissimo livello, ma forse eccessivamente concentrato su un autore che – possiamo dire magari purtroppo – non ha la fama e la popolarità di un Mozart o di un Brahms o di un Mahler. E che andrebbe (forse) ancora propinato a dosi moderate. Ero in un palco con due ispanici, fuggiti poco dopo che Pollini aveva attaccato l’Adagio, e con due australiani, capitati lì a quel programma per puro caso (combinazione chiusa aereo-hotel-scala) che alla fine se ne sono rimasti tranquillamente seduti, forse pensando che ci fosse un secondo intervallo e poi – appunto – un Brahms o uno Schubert per far digerire quel popo’ di Bartók! Qualche vuoto anche in platea e nei palchi, per la verità. Compensato dai loggioni, tornati a piena capienza nominale dopo la rimozione (si spera definitiva) dell’antipatico amianto.

Il palcoscenico è letteralmente riempito come un uovo dall’ipertrofica orchestra bartókiana, tanto che per farvi entrare il pianoforte per Pollini si deve abbassare la sezione anteriore della pedana copri-buca, per poi risollevarla con in groppa lo strumento (e viceversa poi, per toglierlo di mezzo)… E dire che mancava il coro, prescritto, ma solo opzionalmente, per il Mandarino!

Boulez ha con Bartók una ormai lunga consuetudine, progressivamente solidificatasi negli anni e che produce sempre grandi risultati. Nessuna affettazione, anzi un approccio forse fin troppo freddo a queste partiture. Oggi muove pochissimo il braccio destro (*), ed usa esclusivamente il sinistro per dare gli attacchi, con decisi movimenti in avanti dell’avambraccio.

Nei Quattro Pezzi ha fatto emergere le venature impressioniste di Preludio e Intermezzo, dove Debussy fa spesso capolino, ma anche i richiami mahleriani che pervadono l’opera. Impressionanti davvero le sonorità dello Scherzo, sia i fracassi di ottoni e percussioni, che i delicati interventi di archi e strumentini, accompagnati dalle arpe; tutto senza enfatici compiacimenti. Lugubre la Marcia funebre chiusa con semplicità, con le note finali fatte cadere come nel vuoto.

In mezzo, il Secondo Concerto per Pianoforte. Che Pollini affronta col dovuto cipiglio, in quella parafrasi dell’Uccello stravinskiano del primo tema. Liquida, quasi eterea la cadenza, a dispetto del carattere percussivo della parte. Emozionante, in un assoluto e religioso silenzio della sala, il pianissimo iniziale degli archi nell’Adagio, che porta a quella specie di surreale concertato del pianoforte con il timpano; prima della sezione centrale in Presto, dove Pollini si scatena in una bagarre sincopata con gli strumentini, tenendo il capo girato verso di loro, in un gesto di intesa quasi da band; dopodiché si torna alla quiete, turbata ancora dai sordi rulli del timpano, che chiude infine à la Berlioz (scène aux champs) mentre Pollini appena appena appoggia le dita sulla tastiera per gli accordi finali. Dopo l’iniziale botto della grancassa (curiosamente così inizia il finale dell’incompiuta decima mahleriana, che Bartók peraltro difficilmente poteva conoscere, nel 1930…) altro round piano-timpano nell’Allegro molto conclusivo, prima della ciclica chiusa, ancora con richiami mahleriani (2a e 3a sinfonia). Applausi scroscianti, ripetute chiamate e richieste di bis, che restano ahinoi insoddisfatte.

In chiusura, Boulez ha poi dato il meglio nel Mandarino (miracoloso, nel titolo originale… csodálatos, che si può anche tradurre meraviglioso) fin dall’introduzione, dove si descrive il turbinare della caotica vita cittadina, e si odono le trombe delle auto, distinguendovisi chiaramente – anche se col lugubre piglio da Walküre e non da Rheingold - il wagneriano Hedà-Hedò, effettivamente usato come clacson nei primi anni del secolo scorso. Gli ottoni, oltre al clarinetto solista che deve impersonare gli adescamenti, sono qui chiamati ad autentiche acrobazie (incluse le repentine applicazioni e rimozioni delle sordine) con glissandi e vibrati continui: tutti bravissimi, bisogna dargliene atto. Efficacissima la caccia del Mandarino alla ragazza, costellata da seconde minori (una reminiscenza dell’Alberich del Rheingold?) Pur in assenza del coro che dovrebbe accompagnarla, la luminescente trasformazione del Mandarino non perde la sua drammaticità, prima della conclusiva cadenza, che gli archi bassi – col suggello della tuba - eseguono letteralmente presi per mano dal Direttore.

Quindi grida ed ovazioni per il grande vecchio, che riesce anche a fare per un altro paio di volte l’esercizio ginnico di salire e scendere dal podio, alto almeno 40cm… Poi tutti fuori, in una sera di fine ottobre per nulla fredda, con la galleria e piazza Duomo (dalla cui facciata tuttora occhieggia il solare volto del fresco-di-beatificazione Don Carlo Gnocchi) ancora discretamente popolate.
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(*) vengo a sapere che la cosa è dovuta ad una banale caduta proprio poche ore prima del concerto!
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