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31 dicembre, 2021

laVerdi 21-22. Concerto 11

laVerdi ha aperto mercoledi 29 la seconda parte della stagione 21-22, con il tradizionale Concerto di Capodanno. Quest’anno su ben 5 turni, fino al 2 gennaio, anche per ovviare alla limitata disponibilità di posti, circoscritta alla sola platea (ora comunque occupable al 100%) dato che la balconata è interamente sequestrata dai coristi (con ampio distanziamento).

In programma, come da tradizione, la Nona beethoveniana diretta da Claus Peter Flor e con le voci di Sabina von Walther, Sonia Prina, Patrik Reiter e Thomas Laske, dislocate al proscenio. A dirigere il coro... remoto Luca Scaccabarozzi. Quote rosa dell’orchestra in... rosso (anche questa non è più una novità).

Che dire? Anche ascoltandola (ieri sera) per l’ennesima volta, la Nona per eccellenza fa sempre un grande effetto, con il suo titanismo dell’iniziale Allegro ma non troppo, la vulcanica eruzione dello Scherzo (dove Flor ha risparmiato uno dei ritornelli) e lo strappalacrime Adagio molto e cantabile, con quell’attacco del secondo tema che i secondi violini, lì al proscenio, sembravano proprio... implorare.

Il finale travolgente ha completato l’opera, con le quattro voci soliste in buona evidenza. Su tutte, per me, Sonia Prina (quasi irriconoscibile al suo ingresso, con capigliatura argentea!) Poi il tenore, bella voce penetrante (io personalmente prediligo però gli... eroici) e il soprano. Il basso-baritono invece mi è sembrato un po’ troppo... leggero, ma soprattutto con voce poco corposa, priva forse di armonici.

Sempre eccellente la prova del Coro, il cui suono pareva arrivare dal... solito posto: chissà se grazie alla pannellatura che sovrasta il palco o a qualche aiuto... amplificante?

Alla fine trionfo per tutti e applausi ritmati da carica dei bersaglieri.

30 dicembre, 2021

Barenboim a Vienna per Capodanno


Dopo 8 anni Daniel Barenboim torna a dirigere (per lui è la terza volta) il tradizionale Neujahrskonzert arrivato all’edizione n°83 (la prima fu nel 1939 e l’unica sospensione nel 1940) al Musikverein, tornato ad aprire i battenti al pubblico dopo lo streaming mutiano del 2021.

Sabato diretta audio su Radio3 (ore 10:50). In TV registrata su RAI2 alle 13:30. RAI1 (12:20) come ormai da anni ci porta alla Fenice da Fabio Luisi.

17 dicembre, 2021

laVerdi 21-22. Concerto 10

L’ultimo concerto di questa prima parte di stagione vede il ritorno (dopo 2 anni) sul podio dell’Auditorium del giovane e poliedrico Jaume Santonja (percussionista in origine, poi compositore, ha fondato l’ensemble AbbatiaViva per il quale ha arrangiato anche Mahler) per dirigere un programma interamente dedicato a Ciajkovski.   

Con lui entra in scena la bella 36enne russa Alëna Baeva per proporci un pezzo forte, ma che dico... fortissimo del repertorio violinistico: l’Op.35 del 1878 (eseguita qui con la Sinfonica di Düsseldorf nella storica sala del Concertgebouw).

Il simpatico Eduard Hanslick ebbe a recensire il Concerto in questi termini:  

“Il compositore russo Ciajkovski non è sicuramente un talento ordinario, ma piuttosto gonfiato, con un'ossessione da genialoide senza sensibilità nè gusto. Tale è anche il suo ultimo, lungo e pretenzioso Concerto per violino. Per un po' si muove sobriamente, musicalmente e non senza carattere. Ma presto la volgarità prende il sopravvento e si afferma fino alla fine del primo movimento. Il violino non viene più suonato; viene stirato, strappato, bastonato. L'Adagio torna al suo miglior comportamento, per rappacificarsi con noi e convincerci. Ma ben presto sbrocca per far posto ad un finale che ci trasferisce nella brutale e miserabile allegria di una festa russa. Vediamo precisamente facce selvagge e volgari, ascoltiamo bestemmie, sentiamo odore di vodka. Friedrich Vischer una volta osservò, parlando di immagini oscene, che puzzano alla vista. Ecco: il Concerto per violino di Ciajkovski ci porta per la prima volta a fare la pessima constatazione che ci può essere musica che puzza all’orecchio.”

Basta sostituire la vodka con un brandy ed ecco che il Concerto torna protagonista di feste e brindisi:

Sempre Hanslick dava un giudizio mixed su Bizet e le sue opere, considerate per metà come operette. E invece, guarda caso, Ciajkovski amava l’autore di Carmen à la folie. Come dimostra proprio il tema principale dell’Allegro moderato del Concerto, preso di peso da Don José:

La bell’Alëne in verità ci ha propinato suoni che per le nostre orecchie (purtroppo assuefatte a molto peggio) appaiono come profumati e inebrianti. Poi la sua tecnica sopraffina fa anche restare a bocca aperta e il publico ha accolto la sua prestazione con meritate ovazioni, ricambiate da aforistico bis (forse... Ysaye?)
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La seconda parte del concerto è costituita dalla Prima Sinfonia, originariamente composta 12 anni prima del Concerto per violino, ma poi rimaneggiata più volte, fin al 1874. Come ho scritto parecchi anni fa in occasione di un’esecuzione qui in Auditorium, si tratta di un’opera assai acerba e velleitaria, come è tipico (e non solo in campo musicale) di molte prime esperienze.

Tuttavia oggi la possiamo apprezzare proprio perchè dopo di lei sono arrivate cose decisamente migliori. Ieri sera mi è parso che Santonja non sia riuscito sempre a controllare al meglio le dinamiche: spesso i fiati (ottoni in specie, ma non solo) hanno coperto eccessivamente il suono degli archi. A convincere di più è (come sempre, per me) lo Scherzo che sovrasta gli altri movimenti sia per inventiva che per equilibrio.

In ogni caso il successo non è mancato. Ora aspettiamo l’inizio della prossima parte di stagione (dal 29 dicembre con la Nona di Capodanno).

11 dicembre, 2021

Il Macbeth distopico

 

Livermore parte come se dovesse proporci un Macbeth di... Livermore (tipo la sua personale versione mafiosa dei Vespri siciliani) ambientato nel mondo della criminalità organizzata: è precisamente ciò che ci mostra proprio nelle prime sequenze dell’opera: due eroi salvatori della patria (hanno appena sbaragliato gli sbifidi cugini annessionisti inglesi) trasformati in due sicari alle prese con ceffi della cosca rivale! Apperò!

Certo, a parte i suoi Vespri, di trasposizioni di vicende che comportano scontri fra poteri (o fra uomini di potere) in squallide faide fra mafie e camorre ne abbiam viste a josa e non ce ne stupiamo più. Resta il fatto che trattasi di trasposizioni solo apparentemente intelligenti, in realtà superficiali e volte a stupire a buon mercato lo spettatore. Perchè, per quanto autoritari, assoluti, dispotici, sanguinari e ospiti di trame oscure per la conquista del potere, ambienti come la Corte di Scozia e quella d’Inghilterra hanno pur sempre lo status di istituzioni pubbliche: le mafie sono cose ben diverse e rispondono a tutt’altre regole.

Anche il castello di Macbeth è arredato pericolosamente in stile Casamonica, ma poi l’arrivo del Re e il suo indirizzo ai notabili sembrano rimettere un po’ le cose a posto, come se il regista fosse rinsavito (magari dietro consigli amichevoli) e così da lì in poi siamo tornati (quasi) a Shakespeare e ad una sana e corretta (si fa per dire, ma queste - come argutamente ci ricorda la Lady - erano le medievali usanze che noi scafati del terzo millennio non esitiamo a perpetuare) lotta per il potere. Però che il nuovo Re venga mostrato mentre personalmente organizza nei dettagli l’agguato a Banquo è cosa ridicola sia nei palazzi del potere che in quelli delle cosche: Piave e Verdi ci avevano spiegato tutto assai chiaramente poco prima, senza bisogno di queste didascaliche trovate del regista.   

Non ci scandalizziamo comunque se i costumi sono moderni (le armi un po’ meno, a dir la verità, ma d’altronde sostituire gli spadoni con pistole con silenziatore manderebbe in vacca mezza trama, vedi la visita della Lady sul luogo del delitto e soprattutto la sua aria del sonnambulismo, dove lei si gratterebbe... i residui di polvere da sparo) e se le scalate al potere (e conseguenti ricadute) avvengono in ascensori ottocenteschi.

Macbeth è un’opera che tratta di archetipi, non di banali storie medievali, quindi per definizione attualizzabile all’oggi. E sul versante, diciamo, politico, l’attualizzazione di Livermore è addirittura fulminante: la scena dell’esodo dei poveri Scots pare presa da un telegiornale di questi giorni che ci manda le immagini dal confine bielorusso-ukraino!

Peccato che invece Livermore non abbia pensato ad un parallelo altrettanto fulminante fra la creduloneria di Macbeth e consorte e quella di certi no-vax nostrani che si fidano di moderni stregoni... restando pedestremente fedele alle medievali streghe di Shakespeare.

L’opulenza dei mezzi impiegati ha garantito uno spettacolo epidermicamente godibile, ma in teatro assai meno che in TV (questo forse spiega i buh della prima... ieri il regista ha preferito non esporsi.) Ma del resto il grosso degli incassi di questa produzione è previsto arrivi dai diritti TV, dalla vendita di DVD e soprattutto da generose elargizioni degli sponsor, non certo dal botteghino dei teatri!

In definitiva, un allestimento che definirei in-significante, nel senso proprio del termine: che non apporta significati (e meno male che non ne apporta di diametralmente opposti rispetto all’originale). Uno spettacolo tutta forma e poco contenuto, applicabile probabilmente al 95% almeno delle opere di teatro musicale, da Rigoletto a Tristan.
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Le scelte filologiche di Chailly (ballabili e arioso finale di Macbeth) devo personalmente censurarle: che sia grande musica è fuor di dubbio, ma i 10 minuti di pantomima a casa delle streghe sono insopportabili come le fermate impreviste dei Frecciarossa in aperta campagna: magari hai di fronte un bel panorama, ma ti scoccia maledettamente di stare immobile (invece di andare a 300 all’ora per arrivare in 3 ore da Roma a Milano) e di farti sorpassare da un intercity scalcinato!

Quanto al Mal per me (ho potuto appurare navigando qua e là che Abbado effettivamente lo fece cantare a Cappuccilli nel 1975 e sul tema rimando i curiosi all’appendice al post) se Verdi nei 36 anni che gli restarono da vivere (dal 1865) mai tornò sulla decisione di reintrodurlo, una ragione ci sarà pure, credo. Ad esempio che non volle dare al personaggio quel risvolto patetico e strappalacrime - tanto melo-drammatico quanto anti-shakespeareiano - che si concede normalmente al tenore che, con la spada ancora conficcata nel petto, si rialza per cantare eroicamente l’ultima aria dell’opera! (Giustamente, invece, Otello quel regalo se lo meriterà...)

A giustificazione di questa scelta, Chailly cita un ritorno motivico fra il Preludio e le ultime battute dell’aria: sul verso Vil corona, vil corona... si odono due schianti orchestrali (FA minore - DO maggiore, tonica-dominante) che vengono dalle battute 24-25 del Preludio, dove separano l’esposizione del primo tema (quello delle Streghe) dal secondo (quello che introduce nel quart’atto il sonnambulismo della Lady). A me pare francamente una motivazione piuttosto debole: quelle due battute hanno una ben precisa funzione sinfonica nel Preludio, indipendentemente dal loro ritornare o meno nel corpo dell’opera.

Sul piano della direzione e concertazione nulla da dire, anzi molto, e tutto in positivo: all’appropriatezza delle agogiche (stacco di tempi) già positivamente giudicabile in TV si aggiunge l’attenzione alle dinamiche che il Direttore gestisce con assoluta cura, bilanciando sempre al meglio il suono della buca con il canto che arriva dal palco. Un lavoro di scavo nei dettagli della partitura che gli fa onore e gli merita l’applauso incondizionato che il pubblico (quasi da tutto-esaurito) gli ha tributato al rientro ed alla fine. Naturalmente è l’Orchestra poi a realizzare praticamente l’approccio interpretativo del Direttore, e anche ieri gli scaligeri hanno dato il meglio di sè: l’oboe di Fabien Thouand e il violoncello di Sandro Laffranchini sono le punte dell’iceberg di una prestazione davvero sontuosa.

Altrettanto dicasi del Coro di Alberto Malazzi, perfetto sia nel padroneggiare i complessi passaggi delle stregonerie che i grandi concertati che costellano la partitura. I piccoli del pensionato Bruno Casoni si sono pure fatti valere. Vengo alle voci, alle quali deve aver giovato l’esperienza della prima, nel senso di mettere ulteriormente a punto i rispettivi ruoli.

Luca Salsi ormai lo conosciamo bene (personalmente ho sentito dal vivo almeno tre suoi Macbeth, incluso quello del 1847) e anche ieri non si è smentito, riempiendo gli ampi spazi del Piermarini con la sua voce calda e penetrante, accompagnata da sapienti sfumature espressive.   

Anna Netrebko, un filino trattenuta a SantAmbrogio, ieri pare essersi liberata di paure e complessi e ha sfoggiato tutta la sua classe: si dice che Verdi volesse un’interprete più teatrale che musicale... beh, ascoltandola ieri forse si sarebbe ricreduto, ecco.

Ildar Abdrazakov ha iniziato, chissà, magari ancora un poco freddo, con un eccessivo vibrato, ma poi è uscito da par suo e ha dato spessore al suo ruolo, per di più facendo anche (come pretendeva Verdi) il morto che cammina (e, nella pantomima, si trascina pure il pargoletto attaccato al piede!)

Francesco Meli ha una parte effettivamente concentrata sull’aria e su un paio di concertati: ci ha comunque messo tutto se stesso, dando il suo prezioso contributo all’alto livello musicale di questa produzione.

Iván Ayón Rivas (lo sentivo dal vivo per la prima volta) è stato una bella sorpresa e credo che abbia tutte le carte in regola per far molta strada.

Chiara Isotton e Andrea Pellegrini rappresentano altre due perle di questa produzione: che si può permettere due voci così sontuose per due ruoli - sul piano quantitativo, sia chiaro - davvero marginali.

Tutti all’altezza del compito gli altri comprimari.

Che dire in conclusione? Un Macbeth musicalmente al top. Uno spettacolo tutto fumo e poco arrosto. Pubblico prodigo di ovazioni e - per mancanza di... bersagli - niente buh.
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Il giallo della morte di Macbeth in Abbado-Strehler   

Chailly, assistente musicale di Abbado ai tempi delle rappresentazioni scaligere del ’75-‘76, riferendosi alla sua odierna decisione di inserire prima del finale l’aria della morte di Macbeth (Mal per me...) cita proprio il precedente di 46 anni fa. Ma quell’aria fu davvero cantata (da Cappuccilli) sulla scena?

Ovviamente esisteranno molti testimoni oculari-auricolari dentro e fuori dal teatro che potrebbero confermarlo (o meno) ma chi, come il sottoscritto, non ebbe la ventura di assistere a nessuna di quelle rappresentazioni e deve quindi accontentarsi di ciò (moltissimo, ma non tutto) che passa il convento la rete, può interrogare principalmente le seguenti fonti informative: youtube, google-search, archivio storico della Scala e siti internet che vendono registrazioni ufficiali o più o meno rapinate (tipo diffusioni radiofoniche o simili).

L’Archivio storico della Scala ci fornisce intanto le seguenti informazioni ufficiali: la produzione in questione andò in scena nella stagione ’75-’76 (8 rappresentazioni fra dicembre e gennaio più tre a NewYork in tournée a settembre ‘76); poi nella stagione ‘78-‘79 (6 rappresentazioni fra aprile e giugno ’79); infine nella stagione ’84-’85 (7 rappresentazioni a maggio 1985). Un particolare interessante per le successive ricerche riguarda il cast: i tre ruoli principali sono sempre sostenuti da Cappuccilli, Verrett e Ghiaurov, mentre la parte di Macduff nel ’75-’76 (in Scala) fu sostenuta sempre da Franco Tagliavini (a NewYork si succedettero Ottavio Garaventa e Veriano Luchetti) poi nel ’79 il titolare fu sempre Luchetti e nell’85 cantarono Peter Dvorsky e Walter Donati. Altro indizio importante: il libretto dell’opera (verosimilmente parte del programma di sala dal ’75 in poi) non comprende l’aria in questione.

Veniamo ora a youtube: vi si possono vedere o ascoltare due recite: una sedicente (e falsamente, come si vedrà) del gennaio ’76 (trasmessa in video dalla RAI) e una (audio) certamente della ripresa del 1985 (18 maggio). In entrambe l’aria in questione non viene eseguita. Tuttavia scopriamo che il video RAI è erroneamente attribuito a gennaio ’76: ce lo dice la locandina che compare in testa (e poi in coda): Macduff è Veriano Luchetti! Quindi siamo per forza nel 1979, precisamente (come ci confermano sia l’Archivio Scala che la RAI) il 30 giugno (ultima recita).

A questo punto ci rimane il dubbio proprio sulla stagione ’75-’76: possibile che l’aria fosse cantata allora e poi mai più presentata (dallo stesso interprete della stessa produzione originale) nelle due riprese successive?

In effetti, allora fu cantata. Ne abbiamo due diverse fonti informative: la prima è l’edizione discografica della Deutsche Grammophon, con la quale Abbado aveva l’esclusiva, pure ascoltabile su youtube): stando alle informazioni sul CD, fu rilasciata inizialmente il primo gennaio ’76 (quindi a recite ancora non concluse!) e successivamente rimasterizzata. E qui - apriti sesamo - ecco magicamente comparire, nella penultima traccia del CD, Cappuccilli con il Mal per me!

Sempre dalle note allegate al CD scopriamo però alcuni dettagli interessanti, e pure... inquietanti: per prima cosa si tratta di una registrazione fatta in studio e non in teatro (mancano in effetti gli applausi); il tenore che interpreta Macduff è - ma guarda un po’ - il Topone Domingo! Ma soprattutto, sotto l’elenco degli interpreti troviamo le indicazioni Coro e Orchestra del Teatro alla Scala, Direttore Claudio Abbado e - ma riguarda un po’ - Wiener Philharmoniker!!!

Mammamia, conoscendo ciò che avveniva già allora (e a maggior ragione oggi) nelle sale di incisione e soprattutto nella post-produzione, dove si monta (leggi: taglia e cuci!) il prodotto da mettere in commercio, ci resta il dubbio che al Piermarini l’aria non si fosse proprio sentita, e che Chailly ricordi quindi solo le prove fatte in sala di incisione.

Invece è un sito semi pirata (HouseOfOpera) a portare la pistola fumante, la registrazione radiofonica (di infima qualità, incluso il black-out che taglia fuori metà del second’atto) della prima del SantAmbrogio 1975 dove l’aria è ben presente, contornata dagli applausi del pubblico.

Ma allora una domanda sorge spontanea: perchè nel ’79 (registrazione video RAI) e nell’85 (registrazione audio) l’aria non compare? Forse che Cappuccilli la cantò solo nel ’75-’76? Ma allora com’è che lui la cantò (e questo è certissimo) a Salzburg nel 1984 con Chailly e i Wiener, per poi tornare ad escluderla un anno dopo in Scala? Domande che restano senza risposta, salvo il sospettare che qualche interesse (e qui il sospettato n°1 è la Deutsche Grammophon) non abbia imposto a tutti una specie di copyright - quindi un veto - sulla diffusione di quel brano...  

Ed è ciò che vien da sospettare prendendo ad esempio proprio la registrazione RAI del ’79. Un acuto commentatore del video su youtube ci fa osservare che l’audio della chiusa dell’aria del sonnambulismo (Verrett) sembra in realtà prelevato dal CD della Deutsche Grammophon, e io aggiungo che non vi si sente alcun applauso, cosa semplicemente incredibile! Per di più, uscita la Verrett di scena, l’inquadratura torna su un Abbado che ha tutta l’aria di riprendere a dirigere dopo un po’ di tempo (appunto: gli applausi alla Verrett). Ma quindi, insomma: se il video RAI è stato oggetto di taglia-e-cuci in quel punto, chi ci dice che anche l’aria di Cappuccilli non sia stata tagliata in studio? Torniamo a guardare quel video al momento della zuffa fra Macbeth e Macduff: Cappuccilli e Luchetti vanno a confrontarsi armi in pugno sull’estremo fondo-scena, addirittura scomparendo dentro la foresta (vera o posticcia) di Birnam. A questo punto però l’inquadratura passa sulla buca e su Abbado, che dirige il breve postludio seguito al ferimento di Macbeth. Poi dà un attacco e l’inquadratura torna sulla scena per il finale trionfo. Domanda: chi ci assicura che, durante il citato postludio, Cappuccilli non sia tornato sulla scena per poi cantare l’aria, tagliata in studio?

Ecco, come nel gioco dell’oca, siamo tornati alla casella zero: solo testimoni oculari-auricolari (dentro e fuori dal teatro) potrebbero darci smentite o conferme riguardo le altre 23 rappresentazioni (incluse le 3 di NY) andate in scena dopo la prima di quell’ormai lontano 7/12/75.

10 dicembre, 2021

laVerdi 21-22. Concerto 9

Fra la prima (TV) e la prima (in abbonamento) del Macbeth scaligero ecco infilarmisi il nono concerto stagionale de laVerdi, reduce da un ponte di due settimane.

É il redivivo Wayne Marshall (con qualche... libbra in più) ad occupare interamente la scena, nella duplice veste di direttore e solista all’organo. Programma classicamente articolato in: 1. Pezzo breve di introduzione; 2. Concerto solistico e 3. Sinfonia. Tutto in lingua (musicale) gallica.

Il primo brano in programma è Cortège et Litanie di Marcel Duprè. Ne esistono tre versioni:

1. Per pianoforte solo (1921, secondo dei Quatre pièces, con Étude, Chanson e Ballet);

2. Per organo solo (1923);

3. Per organo e orchestra (1925).

Qui un’esecuzione all’organo solo dello stesso autore. Sulla sua scia, Marshall ci propina la seconda delle tre versioni.

Le 142 battute sono strutturate su tre sezioni, sempre in 2/4, Très modéré:

a) Cortège, in MI maggiore, 36 battute;

b) Litanie, nella relativa DO# minore, 66 battute;

c) Cortège+Litanie, MI maggiore, 40 battute.

Quindi un brano con i due gruppi tematici (solenne il primo, Cortège; mosso e ostinato il secondo, Litanie) presentati dapprima separatamente e poi sovrapposti: una specie di forma-sonata tronca (esposizione e sviluppo).

Brano assolutamente diatonico ed orecchiabile, di carattere religioso e quindi assai appropriato per questo periodo di... Avvento (e di pandemia). Che il pubblico non oceanico (chissà, il programma inconsueto o i primi freddi e nebbioline di stagione calati su Milano?) accoglie comunque con calore. 
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Ecco poi Marshall tornare alla tastiera per il Concerto per organo, orchestra d'archi e timpani in Sol minore di Francis Poulenc. Lo aveva già eseguito e diretto qui nel 2013 e rimando quindi al mio post di allora per alcune note sulla composizione.
Come allora Marshall porta come personale valore aggiunto una lunga cadenza solistica all’attacco del Largo conclusivo e poi, per ricambiare gli applausi del pubblico, ci suona una sua impertinente BWV 565 con... appendice!
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La chiusura è riservata a Georges Bizet e alla sua deliziosa Sinfonia n. 1 in Do maggiore, udita qui ultimamente (2017) dalla bacchetta di Fournillier.

Propongo una storica esecuzione di un giovane (e un po’ anche... gigione) Georges Prêtre con la gloriosa Scarlatti di Napoli della RAI, introdotta da un altrettanto glorioso Roman Vlad, ai tempi in cui la musica classica occupava un posto di primo piano nei programmi radio-televisivi.

Marshall, che prima dell’intervallo aveva suonato indossando un camiciotto nero, si ripresenta vestendo un’improbabile giacca-smoking in vigogna color... mosto. Ma senza bacchetta. Ci regala comunque un Bizet pieno di verve e di freschezza schubertiana. Sugli scudi l’intera Orchestra, in cui ha spiccato l’oboe di Emiliano Greci, protagonista del mirabile Adagio, un’oasi contemplativa all’interno di questa festa della primavera e della joie de vivre.

07 dicembre, 2021

Il Macbeth televisivo

Le mie impressioni a caldo dopo ascolto-visione TV sono tutto sommato positive, con buoni voti alla parte musicale (cui però farò l’esame vero fra qualche giorno, dal vivo) e discreti per lo spettacolo, che ho l’impressione sia stato pensato (come pure la Tosca del ’19) più per il piccolo schermo che per il teatro.  

Al netto delle solite messe-in-guardia, doverose quando si ascoltano i suoni portati all’orecchio dai bit e non dall’aria, devo dire che tutte le voci hanno fatto bella figura: Salsi è un Macbeth ormai super-collaudato e la Netrebko canta come doveva cantare ai tempi di Verdi la Tadolini (quindi non sarebbe piaciuta al Peppino...): se proprio le devo trovare un pelo nell’uovo, citerei la caduta di ottava sui due REb della chiusa del sonnambulismo, che lei ha separato e non legato (ma forse ne è responsabile la posizione... imbragata cui l’ha costretta Livermore). Abdrazakov e Meli hanno messo tutta la loro professionalità nei due ruoli-mignon che impersonano e lo stesso han fatto gli altri comprimari. Eccellente come da tradizione il coro passato nelle mani di Alberto Malazzi da quelle di Mario Casoni, che mantiene però la salda guida delle Voci bianche.

Chailly in gran spolvero: tempi ben misurati e buon dosaggio delle dinamiche (da verificare dal vivo, in rapporto alle voci). Orchestra in stato di grazia, evidentemente preparatasi al meglio per l’occasione.

I ballabili: da elogiare la scelta di farne delle pantomime e di coinvolgervi i protagonisti (la Netrebko ha un futuro per quando si stancherà di cantare!) Tuttavia non si può non arricciare il naso (come sempre) riguardo l’effetto-calmante che hanno sulla drammaturgia. 

Davide Livermore, parlando delle sue regìe di Attila (ieri) e Macbeth (oggi) ogni due parole aggiunge distopico. L’Italia ai tempi della comparsa dell’Attila era distopica. Il mondo di oggi che viene rappresentato nel suo Macbeth è distopico. Qualunque cosa voglia dire... Al solito si è preso ovazioni e ululati; personalmente manterrei una posizione di benevola indifferenza, non avendo lui preteso di re-inventare il soggetto, il che mi basta, ecco.

Patria oppressa sembra non si addica all’Italia di oggi, almeno a giudicare dall’interminabile applauso che ha accolto il Presidente.

02 dicembre, 2021

Verso la Scozia per SantAmbrogio

La corsa verso il 7 dicembre scaligero è entrata nel vivo con l’annuncio e l’apertura del programma di eventi (Prima diffusa) promosso come in anni recenti (siamo al n°10!) dal Comune di Milano.

Nel frattempo lunedi scorso si era tenuta la conferenza stampa di presentazione del Macbeth targato Chailly-Livermore. Il Direttore musicale ha ribadito le ragioni della sua scelta di proporre per tre aperture una sua particolare trilogia di opere degli anni-di-galera: Giovanna-Attila-Macbeth, che costituirebbero i pilastri di un ponte, o una piattaforma di lancio se si preferisce, che portano dal Verdi delle origini a quello della maturità (Rigoletto ed oltre).

Si potrebbe obiettare che Ernani non sfigurerebbe per nulla come primo pilastro di quel ponte... che in effetti delinea un percorso solo apparentemente ascensionale, chè il Macbeth presentato oggi è quello ben posteriore al decennio di reclusione: si parlasse della versione 1847, beh, a parte la rivoluzionaria estraneità del soggetto rispetto ai canoni del melodramma del tempo, sul piano strettamente musicale ci sarebbero pochi passi in avanti da registrare rispetto ad Attila (per dire, il Vieni, t’affretta, l’Or tutti sorgete e il Trionfai della Lady non vanno molto oltre Odabella, tanto che l’ultima di queste arie fu cassata nel 1865). E quanto al protagonista, non sarà un caso se Verdi per Parigi gli tagliò addirittura due arie: la prima (L’ira mia del finale terzo) era la classica cabaletta che gli era venuta a nausea (magari col baritono che si improvvisa ridicolmente tenore eroico chiudendo sul LA acuto!); la seconda (la morte, che Chailly - senza inventar nulla - reintroduce per omaggio a... Salsi) è grande musica, per carità, ma evidentemente Verdi si convinse a rinunciarvi, e mai più si convinse a ripristinarla, forse per non darla vinta a Macbeth con questa tardiva (apparente?) ammissione di colpevolezza.

Quanto alla messinscena, Livermore (che subdolamente afferma di aver le mani un filino legate...) porta l’ambientazione ai giorni nostri, il che non è per nulla sbagliato, visto che Macbeth non è un caso particolare dei primi anni del secondo millennio, ma l’archetipo di casi che si ripetono ogni giorno, oggi compreso: a New York, Singapore... Milano? o in qualunque altro luogo del pianeta. Lo spettacolo pare quindi assicurato, staremo a vedere.
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Tornando agli eventi preparatori, ieri pomeriggio-sera due interessanti appuntamenti con il Macbeth in vista della prima.

Alle ore 18 nel Castello Sforzesco è stato Fabio Sartorelli a proporre un coinvolgente viaggio nell’opera, sulla traccia della messinscena di Cherniakov, impreziosito dagli interventi canori di due accademici scaligeri, accompagnati al pianoforte da Michele D’Elia: Clarissa Costanzo ed Ettore Chi Hoon Lee, che hanno presentato il duetto Macbeth-Lady del primo atto, poi la scena del sonnambulismo della Lady e infine il Perfidi! di Macbeth.     

Poi alle ore 21 allo Spazio-teatro No’hma a Città Studi (si replica questa sera) è stata la volta di Stefano Jacini ad intrattenere un folto pubblico con un’esegesi dell’opera costellata da proiezioni di spettacoli diretti da Abbado, Sinopoli e Chailly. E bruscamente interrotta sul finire dall’irruzione (1h20’55” nel filmato) di... Davide Livermore, che ha sostanzialmente ribadito le linee della sua interpretazione, già esposte nella succitata conferenza stampa. Suggestivo anche il colpo di teatro (1h40’35”) con la declamazione dell’originale shakespeare-iano tomorrow-tomorrow-tomorrow...

Fra due giorni, con la primina-giovani, si entra nel vivo.

24 novembre, 2021

Macbeth 2021: Chailly la racconta giusta?

Ieri pomeriggio si è tenuto nel ridotto Toscanini - sotto l’egida dell’Associazione Amici della Scala - il primo incontro della stagione 21-22 dell’ormai leggendaria serie Prima delle prime, dedicato ovviamente al Macbeth. Incontro introdotto come sempre da Franco Pulcini e che ha avuto come protagonisti Raffaele Mellace e Riccardo Chailly.

Il Direttore Musicale fra altre dotte considerazioni sull’opera, ha in particolare ricordato l’edizione scaligera del 1975 (Abbado-Strehler-Verrett-Cappuccilli-Ghiaurov) da lui seguita da vicino nella sua qualità di assistente di Abbado. Poi ha ribadito la sua decisione di introdurre nel finale dell’opera (versione 1865, ricordiamolo) la scena della morte di Macbeth (Mal per me che m’affidai...) presa di peso dalla prima versione del 1847 e poi abolita da Verdi a Parigi.

Ma a questo proposito, nel foglio (non firmato, per la verità) di presentazione dell’incontro di ieri si trova un virgolettato attribuito al Maestro, che si può leggere nella parte ingrandita del foglio:

Dalla frase sottolineata in rosso si è portati a dedurre - almeno stando a quanto riportato dall’anonimo estensore del virgolettato - che la scelta di Chailly sia di ripetere oggi quella fatta da Abbado allora: quasi fosse un modo per avvalorarla, indirettamente attribuendola all’illustre predecessore?

Sta di fatto che nel 1975 Abbado si guardò bene dal fare una simile scelta (operata invece da Pappano a Londra nel 2011, come ho riferito in un precedente post) come conferma la registrazione RAI sopra link-ata, precisamente a 2h15’50”: dopo lo scontro con Macduff Macbeth cade morto sul colpo e, dopo il passaggio puramente orchestrale che sottolinea la fine del tiranno, si passa direttamente - 2h16’32”, come prescritto da Verdi nel 1856 - al grido Vittoria! e di seguito al coro finale che inneggia a Malcolm.

19 novembre, 2021

laVerdi 21-22. Concerto 8

Prima del concerto, un prologo con due dedicatari: Ruben Jais ha portato le felicitazioni di tutta laVerdi al Presidente Emerito Gianni Cervetti, insignito di fresco della massima onorificenza del Comune meneghino: l’Ambrogino d’Oro! Poi Franco Iacono (Presidente del Comitato che celebra i 100 anni dalla morte di Enrico Caruso) ha ringraziato la Fondazione per aver dedicato alla ricorrenza il concerto di ieri, affiancandosi all’iniziativa del Teatro alla Scala che il 17 aveva tenuto un convegno sul grande tenore napoletano.  

Il concerto di questa settimana vede il gradito ritorno sul podio di Zhang Xian, la cinesina-americana (oggi a capo della NewJersey Symphony) che guidò l’Orchestra per molti anni, dal 2009 al 2016, essendone quindi divenuta Direttore Emerito.

Programma di classica impaginazione, aperto da Mother and Child, per archi, di William Grant Still, prolifico compositore afroamericano del ‘900. Si tratta di una trascrizione per orchestra d’archi del secondo movimento della Suite per violino e pianoforte del 1943, ispirata a tre sculture moderne esposte in musei di NewYork, SanFrancisco e Washington rispettivamente.

Il breve brano, 7 minuti all’incirca, che la Xian ha già interpretato più volte in America, ha il sapore di una ninna-nanna sulla quale una madre culla il pargolo, una sognante melodia che dal MI maggiore d’impianto (tonalità quanto mai appropriata allo scenario) modula verso la sottodominante LA; poi ecco un motivo che dal MI minore modula alla relativa SOL e al DO, prima del ritorno a... nanna, con la chiusa sospesa sulla sopratonica FA#. Chissà se Xian ha scelto di proporre anche a Milano questo brano per ricordare le due maternità che lei portò felicemente (e un po’ anche... avventurosamente) a termine proprio qui sui Navigli.

La Xian mi è parsa piuttosto dimagrita e ancor più minuta rispetto ai tempi italiani (la cucina USA evidentemente non fa per lei...) ma ha se possibile potenziato la sua proverbiale verve, che si manifesta con il gesto secco e deciso e - a livello interpretativo - con quello che un tempo si definiva un approccio alla Toscanini.
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Ecco poi una vera primizia: il Concerto per violino (op.5, n°1) di Joseph Boulogne, compositore del ‘700 noto come il Mozart nero, essendo lui figlio di un latifondista-colonialista francese e di una senegalese deportata come schiava in Guadalupa. A Parigi fece fortuna come spadaccino e come musicista (dapprima al clavicembalo e al violino e poi sul podio di direttore, con tanto di sciabola brandita al posto della bacchetta!)  

Marc Bouchkov, trentenne franco-belga di origini russe (come lascia intendere il cognome) è l’interprete di questo brano che effettivamente poco ha da invidiare a quelli del Teofilo... giovane, al quale potrebbe benissimo essere attribuito. Lui per prudenza (evidentemente questo lavoro ancora non lo ha stabilmente in repertorio) si tiene davanti lo spartito, cui peraltro dedica solo qualche sporadica occhiata. Ne esce un’esecuzione di grande leggerezza, impreziosita da pregevoli virtuosismi e ben assecondata dal discreto accompagnamento dell’orchestra.

Marc ci lascia con un ispirato bis del suo amato Bach: l’Andante (in DO maggiore) dalla Seconda Sonata (BWV1003, in LA minore).  
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Chiude il concerto la Quarta di Beethoven. Immeritatamente relegata fra le minori (come le sue altre tre pari) nel panorama beethoveniano. Certo, dopo la terrificante novità dell’Eroica, con il suo precipitare in-medias-res fin dalla prima battuta, questa sinfonia pare retrocedere (come del resto la seconda e anche la prima) diciamo di un paio di lustri per uniformarsi all’imparruccato Josephus (Haydn) con quella lunga introduzione lenta all’Allegro di apertura.

In realtà non mancano le innovazioni, a partire dal Minuetto che (sulla scia dell’Allegro vivace dell’Eroica) anticipa già le fattezze dello Scherzo che diventerà da lì in avanti uno standard nella struttura della sinfonia.

La Xian - che già aveva diretto la Sinfonia qui un paio di volte, proprio all’inizio e alla fine del suo direttorato - ha confermato il suo approccio: massima concisione (ignorati i ritornelli nei due movimenti esterni) ed esaltazione dei chiaroscuri nelle dinamiche (cito ad esempio gli strappi dominante-tonica nell’Adagio). L’Orchestra ha risposto alla grande, con un’esecuzione che ha trascinato il pubblico all’entusiasmo.

17 novembre, 2021

laVerdi ancora alla Scala (per MilanoMusica) mentre si prepara al 2022

Ieri sera laVerdi è tornata al Piermarini (abbastanza affollato) nell’ambito del Festival Milano Musica per presentare un programma assai impegnativo, sotto la bacchetta di Michele Gamba, ormai più che una promessa nel panorama direttoriale italiano.

Ha aperto la serata to an utterance di Rebecca Saunders, del 2020, interpretato alla tastiera dal pianista Nicolas Hodges (munito di guanti senza dita, come da precisa prescrizione) che già aveva suonato il brano alla prima assoluta a Lucerna.

Basta un’occhiata alla partitura per avere un’idea, sia pur sommaria, del contenuto: di musica come siamo abituati a pensarla (melodia-armonia, sia pur seriale e dissonante...) non ce n’è. Siamo invece in presenza di continui sussulti, singulti, imprecazioni, cascate e scivoloni (i mille glissando...), strazi sonori che si protraggono per mezz’ora e improvvisamente si estinguono, senza alcuna (fino a prova contraria) narrativa. E la stessa prefazione che l’Autrice pone in testa alla partitura in fondo ce lo conferma. Quanto poi alla meticolosità delle indicazioni per l’esecutore, beh, a me pare già un segno di... impotenza, ecco. 

Detto con tutto il rispetto, sia ben chiaro.

Hodges, che la conosce (quasi...) a memoria, essendone stato primo interprete oltre che dedicatario, e Gamba (che immagino l’abbia conosciuta in questa occasione) l’avranno pur resa secondo le intenzioni dell’Autrice, ma basta questo a far uscire quest’opera dal recinto della musica (?!) di élite autoreferenziali?

Comunque buona parte del pubblico ha applaudito, quindi o tutta l’élite era lì, oppure a molti la cosa è piaciuta, e buon per loro.
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Del maestro (uno dei) della Saunders, Wolfgang Rihm, è stata poi eseguita la Verwandlung III, deI 2007. Qui devo dire che ci si raccapezza già di più, quanto meno melodia-armonia ci sono, e come, magari un po’ ostiche da digerire, ma almeno comprensibili e delineanti un percorso, appunto una narrativa, come del resto indica il titolo (metamorfosi).

Ciò spiega, credo, gli applausi assai più convinti che hanno accolto l’esecuzione dei verdini (! questi sono buoni, però...)
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Ha chiuso la serata Four Sea Interludes di Benjamin Britten. Questo collage estrapolato dal Peter Grimes ha quasi l’aspetto di un poema sinfonico di soggetto marino, musica assai accattivante, anche se personalmente la ritengo più apprezzabile proprio quando inserita nell’originario contesto dell’opera.

Insomma, procedendo a ritroso nel tempo il tasso di musica è cresciuto a vista d’occhio udito d’orecchio! (fossimo retrocessi ancora, tipo a Dvorak, chissà che festa, hahaha!)

Chi ha fatto un figurone è comunque l’Orchestra, che dimostra di non temere alcun terreno, per quanto ostico. Buon viatico per la seconda parte della stagione 21-22, annunciata ieri stesso.
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Poche ore prima in Auditorium si era tenuta infatti la presentazione della seconda parte della stagione 21-22 de laVerdi. La Presidente Ambra Redaelli ha fatto gli onori di casa e il Direttore Generale ed Artistico Ruben Jais ha esposto il programma della stagione principale (20 concerti che spaziano da Capodanno a fine Maggio) e delle sei (!) stagioni collaterali.

Presenti, come da tradizione, gli Assessori alla Cultura di Regione Lombardia (rappresentato da Graziella Gattulli, che ha letto un messaggio del titolare Galli) e Comune di Milano (Tommaso Sacchi) che supportano generosamente le operazioni della Fondazione; gradito anche il messaggio, letto dalla Presidente, del Ministro Dario Franceschini, che ha elogiato l’opera della Fondazione in favore dello sviluppo della cultura in Italia e non solo.

I concerti - si torna ad un approccio degli ultimi anni pre-Covid - avranno per metà tre repliche (giovedi-venerdi-domenica) e per metà due (venerdi-domenica) agli orari consueti (20:30, 20:00 e 16:00).

La scelta dei brani in programma ha tenuto conto di eventuali... recrudescenze nelle limitazioni relative al distanziamento, e quindi si è orientata ad opere che - in casi di emergenza, appunto - possano essere eseguite senza danni anche con organici ridotti rispetto allo standard. Quindi poco Mahler, poco Bruckner e niente Strauss, per dire. In particolare è il Coro ad essere abbastanza penalizzato, e l’unica sua presenza (la Nona beethoveniana di Capodanno) lo vedrà cantare dalla balconata.

Oltre a Flor, che dirigerà 5 concerti (più uno con la Sinfonica Giovanile) prima di concludere il suo term come Direttore Musicale, tornano Axelrod, Caetani, Grazioli, Boreyko, Bignamini, Guggeis, Jais, Lintu, Kochanovsky e Sanderling; e poi Kristian Järvi, Gamzou, Forès Veses, Vizireanu e Pascal.