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30 maggio, 2016

Ancora una fiaba a Torino


Al Regio torinese va in scena in questi giorni l’ultima delle tre fiabe musicali che hanno costellato la stagione 15-16: Pollicino di Hans Werner Henze (che compirebbe quest’anno 90 anni). Dopo la diretta su Radio3 della prima di sabato, ieri pomeriggio è stata la volta della seconda recita, cui ne seguono oggi e domani altre tre in special modo riservate ai piccoli. 

La composizione risale agli anni ’79-80, quando Henze stava per lasciare la direzione del suo Cantiere internazionale d’arte di Montepulciano, dove sabato 2 agosto 1980 (data per il resto infausta – la strage di Bologna) l’opera andò trionfalmente in scena per la prima volta.

Il soggetto è una libera rivisitazione della celebre fiaba, curata da Giuseppe Di Leva, che in particolare ha pensato (ma forse lo pensò Michele Risso) un nuovo finale, dove una combriccola di 7 coppie di bambini, ormai evidentemente emancipati dopo il loro percorso iniziatico, culminato nella traversata del fiume in piena, se ne va coraggiosamente a scoprire il mondo, invece di tornare a casa da mamma e papà a fare i bamboccioni. Oltre al percorso di iniziazione, non manca nel soggetto qualche riferimento esoterico (tipo flauto magico) visto che in scena abbiamo tre gruppi (bambini, bambine e animali) di sette elementi ciascuno.

E proprio per dare totalmente fiducia ai giovani, l’opera fu realizzata in origine impiegando complessi di musicisti in erba, primo dei quali il Concentus Politianus, allora guidato dall’attuale Direttore artistico del Regio, Gastón Fournier-Facio, che all’epoca fu in pratica l’agente promotore dell’impresa. L’Orchestra prevista dalla partitura – assai diversa da quella del melodramma classico - ha il seguente organico:

 
Qui a Torino è stata in pratica assemblata all’uopo l’Orchestra giovanile “Il Pollicino”, mettendo insieme giovani di ben cinque Conservatori, cui si sono aggiunti alcuni bambini (Compositori in erba) della scuola di Villanova d’Asti. L’organico prevede un notevole rinforzo degli archi, per far fronte alle dimensioni della sala del teatro, assai più ampia di quella del Poliziano di Montepulciano. Per le stesse ragioni il pavimento della buca è sollevato di un buon metro e mezzo rispetto al normale.

Il cast canoro è costituito da 21 voci bianche del Teatro e del Conservatorio torinesi, cui si sono aggiunte le quattro voci adulte (i genitori di Pollicino e i suoi... futuri suoceri!) Tutti guidati da Claudio Fenoglio, per l’occasione sceso in... semi-buca armato di bacchetta con la quale ha guidato i ragazzi con grande autorità e sicurezza.

Insomma, un’iniziativa fatta proprio nel lodevole spirito che animò 37 anni orsono Henze e i suoi collaboratori nella realizzazione dell’originale. E di ciò va reso merito al Regio e in particolare al suo Direttore artistico.  
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Henze e Di Leva hanno strutturato l’opera in un atto unico suddiviso in 12 Scene, precedute da una Sinfonia e inframmezzate da 5 Interludi strumentali, collocati in corrispondenza degli altrettanti mutamenti di ambiente:

scena
ambiente
personaggi



Sinfonia


1
casa
Madre, Padre, Pollicino, 6 Fratelli
2
esterno casa
Madre, Padre, Pollicino
3
esterno casa
Pollicino
4
verso il bosco
Madre, Padre, Pollicino, 6 Fratelli
Interludio I


5
bosco
Pollicino, 6 Fratelli
Interludio II


6
casa
Madre, Padre, 6 Fratelli
7
casa
Madre, Padre, Pollicino, 6 Fratelli
Interludio III


8
bosco
Pollicino, 6 Fratelli
9
bosco
Pollicino, 6 Fratelli, Animali
Interludio IV


10
casa Orco
Orco, Moglie, Pollicino, 6 Fratelli
11
casa Orco
Orco, Moglie, Pollicino, 6 Fratelli, Clotilde, 6 Sorelle
Interludio V


12
fiume
Pollicino, 6 Fratelli, Clotilde, 6 Sorelle

Henze impiega per lo più musica quasi tonale, in specie per accompagnare il canto, mentre si spinge su terreni più impervi in alcune parti dell’accompagnamento (violino e pianoforte) dove troviamo spunti squisitamente espressionistici. Gli interludi ed altri brani puramente strumentali includono una pastorale per chitarra, una marcia, una poliritmia di percussioni (à-la-Stravinski) e una passacaglia con base di 6 battute ripetute 11 volte più la coda.

Dopodichè Henze infila simpaticamente nel suo racconto musicale svariate citazioni, o meglio reminiscenze, da musiche classiche e popolari; fra le più facilmente riconoscibili citerei: nella Scena 10 ‘Na gita a li castelli (So’ meio de la sciampagna li vini de ‘ste vigne... canta l’Orco ubriacone) che Henze doveva conoscere benissimo, avendo casa proprio a Marino! Nella Scena 11 ecco nientemeno che il povero Rigoletto (compresa la tonalità di MI minore!) sul buffo però-però dell’Orco che rientra in camera per mangiarsi qualche bambino. La chiusura della Scena 12 e dell’opera è cantata dai 14 bambini (ormai fattisi adolescenti) su una celebre canzone toscana (qui l’indimenticabile Narciso Parigi).
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L’allestimento di Dieter Kaegi è perfettamente funzionale al soggetto, ma anche all’impostazione originariamente data dagli autori: scene (di Italo Grassi, come i simpatici costumi) assai sobrie, pannelli mobili che chiudono gli ambienti domestici e poi svelano il bosco; proiezioni (di Mauro Matteucci) sul velario al proscenio a supportare gli interludi e luci (di Andrea Anfossi) sempre appropriate ai diversi ambienti in cui si svolge la fiaba. Molto efficaci i movimenti scenici di tutti i grandi e piccini; significativa la finale discesa in buca e risalita in platea dei 21 ragazzi, quasi a conferma della raggiunta emancipazione.

Ecco, ancora una proposta intelligente oltre che interessante del Teatro torinese, che il pubblico (ieri non oceanico, ma piacevolissimamente composto da giovanissimi) ha salutato con grande entusiasmo, distribuendo applausi ed ovazioni indistintamente a tutti i protagonisti di questo eccellente spettacolo.

28 maggio, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°19

  
Il redivivo Gaetano D’Espinosa sale sul podio dell’Auditorium per dirigervi un concerto che accosta un autore italiano ancor oggi quasi sconosciuto ad un suo contemporaneo che invece conoscono anche nel Burkina-Faso (con tutto il rispetto). 

Dopo la Seconda sinfonia proposta da Francesco Attardi un anno e mezzo fa, la Sgambati-renaissance de laVERDI prosegue con la presentazione di ben due lavori del compositore romano. Il quale aveva solo 8 anni meno di Brahms e precisamente uno meno di Ciajkovski, quindi (pur essendo campato fino al 1914) è da considerare come un figlio del più romantico ‘800. E Brahms e Ciajkovski lui ebbe modo di conoscerli bene, quanto Liszt (di cui fu allievo a Roma) e Wagner (che lo introdusse all’editore Schott): ciò si può benissimo dedurre ascoltando il suo Concerto per pianoforte, che pare volersi ispirare ai modelli più famosi del suo tempo (Liszt, in primis). Purtroppo capita spesso che l’ispirazione degradi a imitazione, e questo lavoro sa di velleitari scimmiottamenti: un succedersi di enfasi, retorica e affettazione, teatralità a buon mercato, virtuosismi del solista fine a se stessi, da cui si salvano a stento il tema contemplativo del Moderato iniziale e la centrale Romanza. Insomma, gli si addicono vecchie sentenze: effetti senza causa, cominciamenti che non portano da nessuna parte, o se si preferisce: molto fumo e poco arrosto, ecco.

L’apertura del Moderato-maestoso ha la pretesa di imitare Chopin (1° concerto) con il solista lasciato inoperoso ad aspettare che l’orchestra esegua da sola l’intera esposizione tematica, prima di dare la parola il suono al pianoforte. Solo che Sgambati... non è Chopin, ahilui, e il risultato lascia alquanto a desiderare. Come detto, la Romanza è più digeribile, forse anche perchè assai breve! Anche il finale Allegro animato non riscatta le magagne precedenti, a dispetto degli ammiccamenti all’ungherese. Insomma, ci sono valide ragioni per spiegare perchè il Concerto sia finito nel dimenticatoio.

La croata Martina Filjak (una... gran gnocca che nasconde benissimo i suoi 38 anni - accipicchia, pare una ragazzina, ieri poi si è presentata come una caramella avvolta in carta dorata sberlucicante!) ha cercato di indorare la pillola proponendocelo con grande piglio e tecnica sopraffina. Anche per lei si tratta di un pezzo ancora da mandar bene a memoria (si è portata dietro tanto di spartito e assistente volta-pagine...) e chissà se mai deciderà di metterlo stabilmente in repertorio. Così si è rifatta con un applauditissimo bis bach-lisztiano (lei ha fatto solo il preludio).
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Il concerto si era però aperto con la prima italiana di un altro lavoro di Sgambati: un Cantabile per archi (con nove parti reali) che è in effetti una ricostruzione (fedele non si sa quanto) fatta da Roberto Fiore di una composizione andata perduta. Devo dire che (forse grazie al ricostruttore!) si tratta di 10 minuti di musica gradevole e... ispirata, che si può ascoltare qui, diretta proprio da Fiore in occasione della prima in Polonia.

Questa volontà de laVERDI di promuovere la riscoperta del dimenticato Sgambati, così come la recente riproposta di lavori di Malipiero, ha di sicuro molti meriti, compreso quello di evidenziare l’oggettiva distanza che separa le opere di questi compositori da quelle dei loro coevi, ecco.  
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Ha chiuso il concerto la Quarta di Brahms, nelle ultime stagioni già comparsa qui sotto le bacchette di Ceccato, Xian, Axelrod e dello stesso D’Espinosa. Che ne ha dato un’interpretazione severa, a partire dall’Allegro non troppo, dove lui ha calcato la mano sul non troppo, comunque senza mai perdere nerbo e tensione. Accattivanti le diverse, impercettibili, cesure che lui ha introdotto qua e là (ma non certo a caso, bensì in punti strategici della partitura) che dimostrano se non altro il coraggio di esprimere la propria sensibilità interpretativa. L’Orchestra ha risposto come sempre alla grande, e grande è stata l’accoglienza di un pubblico non particolarmente numeroso, che però si è fatto sentire con reiterate grida di bravi! in aggiunta ai calorosi applausi.

27 maggio, 2016

Il teatro di Ravel alla Scala

 

Dopo un paio di passi (Beffe e Fanciulla) se non proprio falsi certo non entusiasmanti (per me, ovviamente) la stagione della Scala ha ripreso il buon ritmo iniziale con questa gran bella proposta del dittico raveliano, ieri arrivato alla quinta delle otto recite, per la regìa di Pelly e la direzione di Minkowski: vengono infatti appaiate nella stessa serata, come si usa di frequente, le due uniche e brevi opere del musicista francese. Qui vengono eseguite nella sequenza di composizione (prima L’Heure del 1907, rappresentata nel 1911, e poi L’Enfant, iniziata nel 1919 e rappresentata nel 1925) il che permette anche di toccare con... orecchio l’evoluzione stilistica del compositore nel periodo centrale (dai 30 ai 50 anni) della sua attività artistica.

Curiosamente e assai modestamente Ravel non chiamava opere queste sue composizioni: L’Heure è sottotitolata Comédie musicale en un act e L’Enfant reca la dicitura Fantaisie lyrique en deux parties.

Con L’Heure espagnole Ravel si ripromette nientemeno che di colmare una grave lacuna in tutta la produzione musicale francese: l’opera buffa. Secondo lui (lo disse in un colloquio con René Bizet alla vigilia della prima del 1911 all’Opéra Comique) Offenbach aveva fatto in realtà una parodia dell’opera, ma la sua musica, per quanto gradevole, non faceva ridere. Invece Ravel sosteneva di aver cercato accordi volutamente balordi, ridicoli, spassosi, proprio una musica strampalata ed umoristica.

Spagna trasgressiva e orologi: ecco in sintesi tutto il DNA di Ravel - madre iberica e padre di ascendenza rossocrociata - emergere prepotentemente in questo bizzarro lavoro. Il soggetto – tratto da una pièce teatrale di Franc-Nohain (nickname di Maurice-Etienne Legrand) è tipicamente da farsa, essendo basato su un succedersi di situazioni improbabili di sapore boccaccesco, su continui sottintesi e malintesi e sul ribaltamento dei ruoli di tre dei cinque personaggi (i visitatori del negozio di Torquemada e Concepcion). Ecco, già i nomi dei due coniugi che mandano avanti il laboratorio di orologeria (ma anche di meccanismi da automa, stile dottor Coppelius) è tutto un programma: lui, Torquemada, nome terribile di inquisitore e fustigatore di costumi, è in realtà un gran cornuto! Sì, perchè la moglie Concepcion (hai presente l’immacolata? ecco, ci siamo capiti...) lo tradisce ogni santo (!) giovedi con un nuovo spasimante.

I 50 minuti scarsi volano via in un susseguirsi di 21 scenette (2 minuti e mezzo l’una, in media!) dove i 5 personaggi vanno e vengono con la rapidità del... suono. La tabella sottostante dà un’idea del tourbillon cui assistiamo (il simbolo [] accanto al personaggio indica che sta chiuso nella pendola, l’italico sul nome significa che non canta-parla):
   
scena
entrano
escono
in scena
1
Torquemada, Ramiro

Torquemada, Ramiro
2
Concepcion

Torquemada, Ramiro, Concepcion
3

Torquemada
Ramiro, Concepcion
4
Gonzalve
Ramiro
Concepcion, Gonzalve
5
Ramiro

Concepcion, Gonzalve, Ramiro
6

Ramiro
Concepcion, Gonzalve[]
7
Inigo

Inigo, Concepcion, Gonzalve[]
8
Ramiro

Inigo, Concepcion, Gonzalve[], Ramiro
9

Concepcion,  Gonzalve[], Ramiro
Inigo[]
10
Ramiro

Ramiro, Inigo[]
11
Concepcion

Ramiro, Inigo[], Concepcion
12

Ramiro
Inigo[], Concepcion
13
Ramiro, Gonzalve[]

Inigo[], Concepcion, Ramiro, Gonzalve[]
14

Ramiro, Inigo[]
Concepcion, Gonzalve[]
15

Concepcion
Gonzalve[]
16
Ramiro, Concepcion

Gonzalve[], Ramiro, Concepcion
17

Ramiro
Concepcion, Gonzalve[]
18
Ramiro, Inigo[]

Concepcion, Gonzalve[], Ramiro, Inigo[]
19

Concepcion, Ramiro
Inigo[], Gonzalve[]
20
Torquemada

Torquemada, Gonzalve, Inigo
21
Concepcion, Ramiro

quintetto

La trama si può riassumere come una serie di infruttuosi tentativi di Concepcion di amoreggiare con Gonzalve: nella scena 4 (in... scena); nella 10 (fuori scena, in camera); nella 14 (in scena) e nella 17 (in scena, con la rinuncia definitiva). Alla fine amoreggerà con Ramiro, nella scena 19, fuori scena (in camera). 

Una farsa, si diceva: i due spasimanti di Concepcion arrivano come... fornitori (di piacere peccaminoso) dell’insaziabile ninfomane e alla fine se ne vanno come clienti di Torquemada, che gli rifila le due capaci pendole dove avevano trovato rifugio. In compenso, il rude mulattiere Ramiro entra come cliente di Torquemada - per far riparare un orologio da taschino che lo zio torero indossava alla corrida (apperò!) e dal quale, in funzione di scudo anti-cornate, aveva avuta salva la vita – e se ne va come fornitore (sempre di carnali piaceri) della bella Concepcion.

In omaggio al teatro che la doveva ospitare (l’Opéra Comique) Ravel struttura la sua operetta quasi fosse un Singspiel: dove mancano del tutto numeri chiusi (poichè finirebbero per interrompere l’incessante flusso dell’azione) e dove ci sono molti parlati, sia pure sempre con accompagnamento musicale (qui il Debussy del Pelléas ha fatto scuola, evidentemente). Ecco cosa scrive espressamente Ravel in calce alla partitura:

Salvo il Quintetto finale, e, in maggior parte, il ruolo di Gonzalve, che è lirico e con affettazione, dire piuttosto che cantare (finali di frasi brevi, portamento di voce, ecc.) Si tratta, per quasi tutto il tempo, del quasi-parlando del recitativo buffo italiano.

Quanto alla strumentazione, è da grande orchestra, compreso un sarrusofono contrabbasso (specie di controfagotto a doppia ancia) e con corposa batteria di percussioni, fra le quali spiccano anche tre bilancieri da pendola, che si fanno sentire da subito, nell’Introduzione, ticchettando con tre velocità diverse: su un metronomo di 72, il primo batte 40, il secondo 100 e il terzo 232. Si odono anche delle campane di orologi che suonano le ore con ritmi ancora diversi, il jeux de timbres (una specie di xilofono pesante) e i carillon di alcune marionette e automi. Uno di questi suona la tromba (simulata da un corno naturale con suoni armonici); altri si muovono danzando, accompagnati da celesta, xilofono e arpe; il sarrusofono (qui suonato soffiando direttamente nell’imboccatura) imita un galletto meccanico, l’ottavino cinguetta come un uccello delle isole. Ravel trova poi intelligentemente il momento per far cessare tutta questa polifonia di suoni e rumori da orologeria: è quando Ramiro, subito all’inizio della prima scena, informa Torquemada che la sua cipolla ad ogni momento si ferma, ed ecco che anche i tre bilancieri, uno alla volta, a partire dal più veloce, si tacciono, dopodichè taceranno per il resto dell’opera. 

Sul piano della rappresentazione dei personaggi, Ravel non impiega programmaticamente gli ormai classici (da Wagner a Debussy) Leit-Motive: l’opera è ovviamente ricca di spunti melodici, alcuni di carattee lirico, altri più parodistici, ma i personaggi si riconoscono più che altro dai ritmi e dai timbri orchestrali che li accompagnano. Così ad esempio il mulattiere Ramiro si caratterizza per un ritmo che evoca il passo faticoso delle bestie e dalla presenza di sonagli e frusta; ritmo che si modifica, appesantendosi, quando il poveraccio deve prendere in spalla le pendole occupate da... passeggeri. Gonzalve, poeta piuttosto vanesio e cui fa difetto qualunque concretezza, è quasi sempre accompagnato da evanescenti e iridescenti arabeschi dell’arpa (la lira del poeta) mentre il suo canto-recitato, con frequenti stucchevoli vocalizzi, poggia prevalentemente su classici ritmi spagnoleggianti. Ad Inigo sono effettivamente attribuite alcune cellule motiviche che ne evocano la personalità piuttosto dissociata fra l’ostentazione di potere (lui è un ricco e influente banchiere) e la consapevolezza della sua scarsa attrattività fisica (obesità ed età anagrafica). I due coniugi si muovono musicalmente sui bizzarri motivi uditi nell’Introduzione, che evocano la polifonica bottega e i suoi orologi.         
___
L’allestimento di Laurent Pelly viene direttamente da Glyndebourne-2012, ma remotamente da Parigi-2004 (qui quella produzione con Ozawa). Rispetto ad allora poche, anzi pochissime sono le differenze a livello esteriore.

Di quell’ormai lontano allestimento porta oggi la testimonianza alla Scala il Torquemada di Jean–Paul Fouchécourt, tenore-buffo (trial, come indicato in partitura, dal cantante settecentesco Antoine Trial, specialista in questi ruoli). Più che buona ancor oggi la sua prestazione. Certo, se un’opera musicale è programmaticamente orientata al dire piuttosto che al cantare, sarà poi difficile giudicare il canto! Comunque tutti han fatto del loro meglio: metterei al primo posto Vincent Le Texier, un solido Inigo; poi il Ramiro di Jean-Luc Ballestra e quindi i due mancati amanti Stèphanie D’Oustrac e Yann Beuron.

Dato che il protagonista musicale qui è l’orchestra, diamo atto a Marc Minkowski di averla guidata con sensibilità nel rendere al meglio l’impressionismo della partitura.

Calorosi applausi per tutti, da un teatro con i soliti buchi, ma non più del... solito.
___
L’Enfant et les sortilèges nasce dalla collaborazione fra Ravel e la scrittrice-danzatrice Colette (Sidonie-Gabrielle Colette). Costei, divorziata da Henry Gauthier-Villars nel 1906 e madre di una figlia avuta nel 1913 da Henry de Jouvenel, aspira a far rappresentare all’Opéra un balletto per la figlia (Divertissement pur ma fille) di cui aveva ideato la trama. Riesce quindi a convincere il Direttore del teatro, che propone l’ingaggio di Ravel – che lei già ben conosce - per le musiche, così lei si mette al lavoro sul testo (attorno al 1915). Ma il compositore è partito per il fronte e non potrà prenderne visione prima del 1917, ricavandone peraltro un’impressione non proprio entusiastica: si dice per la ragione che lui non aveva una figlia, ma probabilmente perchè era ancora sotto lo choc per la recente perdita della madre. Ma proprio il ruolo che la madre ha nel soggetto di Colette finisce per spingere Ravel ad accettare e addirittura a proporre un upgrade di genere: il balletto diventerà un’opera musicale con il titolo definitivo. Colette ne è entusiasta e Ravel comincia a pensarci fin dal 1919, ma assai a rilento, tanto che finirà il lavoro soltanto nel 1924. La sede della rappresentazione nel frattempo viene trasferita dall’Opéra di Parigi a quella di Montecarlo, dove la prima – un successo clamoroso! - avrà luogo sabato 21 marzo 1925, con Victor de Sabata sul podio. La ripresa a Parigi nel 1926 – con accoglienza peraltro meno calda - sarà ancora (come per L’Heure) all’Opéra comique

Il soggetto è sinteticamente inquadrabile come il processo di iniziazione del bambino al rispetto delle regole della società, anzi della natura, dopo la sua iniziale, violenta ribellione. Presa di coscienza che inizia già alla costernazione di fronte alla tazza cinese, da lui mandata in mille pezzi; poi prosegue con l’arrivo dei pastorelli, il cui mondo lui aveva devastato strappando la tappezzeria; poi con l’incontro con la Principessa, di cui lui ha distrutto l’esistenza, insieme al libro che ne ospitava la fiaba. Ma il percorso più duro arriva nel giardino, con l’incontro con l’albero, da lui ferito con il coltello; poi con la libellula in cerca dell’amata, da lui inchiodata contro il muro; poi ancora con il pipistrello, di cui il bambino ha ucciso la compagna, che ora non può più nutrire i piccoli; e con lo scoiattolo, da lui ferito nella gabbia in cui era rinchiuso. Alla fine, quando tutti gli animali e gli alberi si accaniscono sopra di lui per punirlo, ecco l’estremo gesto di umanità: il bambino fascia con il suo nastro la zampetta ferita di uno scoiattolo, così meritandosi il perdono e l’amore di tutto il creato. Maman è l’ultima parola che esala sul calare del sipario, SI-FA#, la quarta giusta che è un po’ la sigla dell’opera.  

A proposito di note, si diceva più sopra di un’evoluzione dello stile di Ravel rispetto a L’Heure, e L’Enfant ne è la chiara testimonianza. Si tratta principalmente del ritorno (non certo regressivo!) alla melodia e al dominio del canto (un’operetta all’americana la definì lui stesso). Per carità, non siamo certo alla riedizione dei numeri chiusi del ‘700-‘800, ma poco ci manca... Ravel impiega in quest’opera una ben rifornita cassetta degli attrezzi: si va dagli arcaismi del madrigale e del rigodon fino al moderno rag-time, passando per minuetto, valzer, marcia e polka, ma senza escludere persino un paio di arie, un lascivo duetto (di gatti in amore!) e le più virtuosistiche colorature-à-la-Rossini.

Il frontespizio del libretto reca la dicitura in due parti, che poi sarebbero: l’interno della casa e il giardino. Ma salvo la corona puntata che chiude la scenetta dei gatti, in effetti fra le due parti non c’è musicalmente soluzione di continuità, ed anche il cambio di scena, contemplato in partitura, consiste semplicemente nel far rimuovere le tre pareti della stanza in modo da trasformare il palcoscenico nel giardino antistante la casa. Il lavoro è internamente suddiviso in scene (anche se il termine tecnico non compare mai) secondo una struttura rappresentata qui sotto, che ne riporta i numeri di riferimento della partitura e le caratteristiche musicali salienti:    

scena/personaggi
tempo
genere/ritmo




bambino
2
tranquillo

mamma
3(+4)
più animato – allegro

bambino
7
presto - agitato

poltrona-divanetto
17(-4)
lento maestoso
minuetto
orologio
21
allegro vivo
ostinato
teiera-tazza
28
allegro non troppo
rag-time
fuoco
39
allegro - moderato
aria di bravura-coloratura
pastori-pastorelle
50
moderato – più lento
ostinato – pastorale - balletto
bambino-principessa
62
moderato – lento – animato - andante
recitativo (P) – aria (B)
vecchietto-cifre
75
presto - prestissimo
polka - canone
bambino-gatta-gatto
95
adagio – andante
duetto d’amore




giardino
100
andante

raganelle
101
andante

albero-alberi
103
andante

libellula
105
valse lente
valzer
libellula-sfingi
107
valse americaine
valzer
libellula-usignolo-raganelle
109
valse americaine
valzer
pipistrello
113
abbastanza vivo
valzer
raganelle (danza)
117
abbastanza vivo
valzer - balletto
scoiattolo-raganella
129
moderato – lento
valzer
bambino-scoiattolo
131
andante

scoiattolo-bambino
132
valse lente
valzer
animali-alberi
136(-3)
vivo
marcia
animali
140
lento

animali
142
meno lento – acceler.
rigodon
animali
150
andante
madrigale

L’orchestra è sempre quella ottocentesca, ma con corposa presenza di percussioni, fra le quali curiosamente compare – nella scena teiera-tazza - una grattugia per il formaggio (!) da suonare grattare con lo stilo del triangolo.

L’opera contempla una miriade di personaggi principali: sono ben 21, più 10 cantati dai cori. 16 dei 21 principali sono interpretati da 7 cantanti, che assumono 2 o 3 ruoli diversi, come si evince dalla tabella sottostante, che mostra anche le poche e piccole deviazioni praticate in questa edizione alla Scala:

Ravel
Scala
Fuoco
Principessa
Usignolo

tassativamente (soprano leggero)
=
=
=
Aritmetica (il Vecchietto)
Raganella

tassativamente (tenore)
=
=
+ Teiera
Mamma
Tazza cinese
Libellula

opzionalmente (contralto)
=
=
=
Poltrona Bergère
Gufo
opzionalmente (soprano)
=
Pipistrello
Gatta
Scoiattolo
opzionalmente (soprano)
=
=
Orologio a colonna
Gatto
opzionalmente (baritono)
=
=
Divanetto
Albero
opzionalmente (basso)
=
=
Bambino
mezzo-soprano
=
Pipistrello
soprano
Gufo
Pastorella
soprano
=
Pastore
contralto
=
Teiera
tenore
con Vecchio e Raganella

___ 
L’allestimento di Pelly, sempre ripreso da Glyndebourne, è assai accattivante, nel rispetto quasi assoluto del libretto e delle didascalie: scene con suppellettili sempre ingigantite, come cioè viste da un bambino di 6-7 anni, e costumi e luci assai efficaci a scolpire i diversi personaggi e soggetti antropomorfi che si agitano in scena. Assai poetico il finale con animali (e anche alberi, con uno strappo al libretto) che riabilitano il bambino ribelle sotto gli occhi della mamma.

Minkowski ha tolto le briglie all’orchestra, mettendo in risalto la lussureggiante strumentazione raveliana e le mille diverse sfumature che caratterizzano i sortilegi di cui il bimbo protagonista è circondato.

I cori hanno una parte di primo piano e a Mario Casoni va il merito di averli preparati a dovere: una menzione particolare va ai piccoli dell’Accademia, che si sono affiancati ai grandi del complesso principale, bravissimi in special modo nell’impersonare le cifre nella scenetta dell’aritmetica.

Tutte da elogiare le voci soliste, a partire da quella della protagonista Marianne Crebassa, interprete ideale del piccolo ribelle. Poi a quella di Armelle Khourdoïan, splendida Principessa, ma anche vivacissimo e virtuosistico Fuoco.  
  
Jean–Paul Fouchécourt ha rivestito delle sue doti di tenore buffo la spiritata apparizione dell’aritmetico Vecchietto, dopo quella della minacciosa quanto ridicola Teiera albionica. Delphine Haidan è stata un’efficace e patetica Libellula, oltre che una severa Mamma e una risentita Tazza.

Jean-Luc Ballestra e Stéphanie D’Oustrac hanno impersonato la coppia di felini, davvero divertenti nei loro miagolosi approcci; lui ha anche impersonato l’Orologio e lei è stata commovente come Scoiattolo. Altrettanto strappalacrime il Pipistrello di Anna Devin, che in precedenza si era travestita da... poltrona Bergère, in coppia con il Divanetto di Jerôme Varnier, tornato poi come patetico Albero.

Le tre soliste dell’Accademia (Fatma Said, Chiara Tirotta e Elissa Huber) si sono ben disimpegnate nei rispettivi ruoli. Così come i sei solisti del Coro (due soprani, un mezzo, un contralto, un tenore e un basso) che cantano parti piccole ma in primo piano, come animali, nella penultima scenetta.

Al termine convinti applausi per tutti indistintamente, a degno coronamento di una bella e divertente serata.