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31 gennaio, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°5


Programmazione insolita (niente giovedi e/o venerdi, ma sabato e domenica, e vedremo perchè...) per il quinto concerto stagionale de laVERDI, che ha proposto opere di Ciajkovski, Respighi e Schumann, brani tra loro lontani nel tempo e nei contenuti.

Di Ciajkovski è stata eseguita un’opera giovanile (in origine un esercizio di Conservatorio): trattasi dell’Ouverture in Fa maggiore nella seconda stesura del 1866. Della prima, di un anno più vecchia, eseguita in origine da studenti del Conservatorio di SanPietroburgo (quello di Rubinstein Anton, dove Ciajkovski studiava) erano andate perse - anzi, pare proprio date alle fiamme dall’Autore medesimo - le tracce, ma poi si è riusciti a ricostruirne la partitura e a renderne possibile l’esecuzione. Qui un esempio con una vecchia conoscenza de laVERDI alla guida dei radiofonici moscoviti. Come si noterà, sono poco più di sei minuti di musica, piuttosto acerba, ma che lascia intravedere stilemi che caratterizzeranno la produzione matura di Ciajkovski.

La seconda versione, predisposta su invito di colui (Rubinstein Nikolay) che stava per fondare il Conservatorio rivale (quello moscovita, dove Ciajkovski insegnò) e ascoltata qui, oltre ad irrobustirsi nella quantità (quasi raddoppiando la durata e impiegando un organico assai rinforzato, soprattutto negli ottoni) si distingue per un maggiore respiro sinfonico ed anche per una certa enfasi (vedi la coda) che ritroveremo in più di una delle sei sinfonie che Ciajkovski snocciolerà nel seguito della sua carriera. Eccone un’eccellente interpretazione di Mikhail Pletnev con i suoi nazionali russi.

Nulla da dire sull’esecuzione dei ragazzi, che è servita a... scaldare i motori.
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Ecco poi un Respighi poco eseguito, quello del Concerto gregoriano per violino e orchestra, qui interpretato dal Konzertmeister titolare de laVERDI, Luca Santaniello.

Opera del 1921, non è parente nemmeno lontano dei concerti classici o romantici: il titolo tradisce chiaramente l’approccio di Respighi, che intende rifarsi alle più profonde radici della musica occidentale. La citazione letterale – nel centrale Andante - della sequenza Victimae Paschali laudes ne è una testimonianza incontrovertibile:

  
In quest’opera il solista, più che un eroe che sfida torme di agguerriti nemici, è un salmodiante che unisce la sua voce a quella di un coro di salmodianti: il che comporta una quasi totale mancanza di contrasti e invece una continua simbiosi dell’individuo con la comunità. Eccone una preziosa esecuzione storica (1991) di Uto Ughi.

Bene, Santaniello non sfigura affatto al confronto con il gigante veneziano, meritandosi applausi ed ovazioni. E così ringrazia tutti con uno dei fantastici tangacci di Piazzolla.
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Ha chiuso il programma la Seconda di Schumann, di cui avevo scritto qualcosa più di 5 anni fa, quando era risuonata in Auditorium sotto la bacchetta di sir Neville Marriner. È la più complessa (e sofferta, forse) delle sinfonie schumanniane, come testimonia il movimento iniziale, dove l’esposizione dei due temi (55 battute, più il da-capo) fa la figura di una fugacissima apparizione fra l’introduzione e lo sviluppo, che occupano (con la coda) le restanti 336 battute!  

Trascinante davvero la prestazione dei ragazzi, che cavano fuori tutta la luminosità di quest’opera, che è in contrasto stridente con le depressioni psichiche di cui l’Autore soffriva (e che si sarebbero presto aggravate). Successo pieno e meritato.
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Adesso Caetani, Santaniello e l’Orchestra si preparano ad una trasferta sicuramente eccitante: poichè nei prossimi giorni riproporranno (con piccole varianti) questo stesso programma nientemeno che... a casa di Mozart!

Il sommo Händel trionfa alla Scala

 

Ieri sera la Scala ha ospitato la seconda recita de Il trionfo del tempo e del disinganno, l’oratorio di Händel rappresentato in forma scenica da Jürgen Flimm. Teatro abbastanza gremito e pochissimi (ad occhio) abbandoni nell’intervallo, segno che lo spettacolo ha tenuto alta l’attenzione fino all’ultimo.

Ovviamente il merito maggiore va alla musica dell’imparruccato sassone e a chi l’ha mirabilmente diretta, suonata e cantata. Ma devo dire che anche l’allestimento ha dato il suo bel contributo al successo dello spettacolo.

Diego Fasolis è uno dei maggiori interpreti (ma anche promotori) del barocco e lo conferma, guidando (e cooperandoci lui stesso ad uno dei tre clavicembali) una compagine di professori scaligeri che hanno accolto con favore l’idea di cimentarsi con questo repertorio, impiegando strumenti d’epoca (quasi...) e con accordatura a 415. Pur nell’immenso spazio del Piermarini, l’ensemble che è di soli 28 esecutori, di cui 20 dell’orchestra di casa (tutti archi meno una tastiera) rinforzati da 8 barocchisti della Radio Svizzera Italiana (fra cui Gianluca Capuano, ben noto ai seguaci de laVERDI BAROCCA, protagonista all’organo) ha saputo farci sentire ed apprezzare ogni minima sfumatura del suono che esce da quel gioiello che è la partitura di Händel. Un suono (corde di budello e poco vibrato) mai stridulo o vetroso, al contrario sempre leggero ed etereo, come si conviene a rendere al meglio simili capolavori.

Lodevoli tutte le quattro voci, a partire dal Disinganno di Sara Mingardo, davvero impeccabile nel sostenere la parte – come dire – più filosofica dell’Oratorio: portamento severo e autorevolezza assoluta. 
 
Martina Janková è una protagonista ideale, per sensibilità, accenti e capacità di rendere la lenta ma progressiva maturazione del personaggio: dall’edonismo fine a se stesso alla contemplazione di un piacere che non è di questa terra...  

Piacere che è impersonato da una solida Lucia Cirillo, sempre brava nelle ammiccanti adulazioni alla Bellezza come nelle fiere contestazioni ai due pipistrelli che la vogliono... convertire. Si può opinare la scelta di affidare la parte ad un mezzo invece che a un soprano, ma i risultati hanno giustificato in pieno tale scelta, che si è accompagnata anche ad un accredito di un’aria (Un pensiero nemico di pace) che spetterebbe alla sua sodale.

Oltre che dal Disinganno-Mingardo, le severe forze della ragione-religione sono rappresentate da Leonardo Cortellazzi che veste efficacemente i panni del Tempo.

In poche parole, un’esecuzione di prim’ordine che fa onore al Teatro e che il pubblico ha mostrato di apprezzare riservando calorosi applausi a tutti i protagonisti. L’avventura della creazione di un ensemble barocco alla Scala mi pare iniziata sotto i migliori auspici.
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Ispirandosi probabilmente al platonico Simposio, dove un gruppo di amiconi, dopo abbondanti mangiate e libagioni, si imbarca in alate discussioni filosofiche (sull’amore) ecco che Jürgen Flimm e lo scenografo Erich Wonder hanno pensato bene di ambientare l’incontro dei quattro personaggi-concetto dell’austero Oratorio del Cardinal Pamphilj in un moderno ristorante (che richiama programmaticamente, ma solo nell’idea, la famosa Cupole parigina anni ’30) con annessa passerella per esibizioni di un particolare tipo di... Bellezza, impegnata in attività di Disinganno del Tempo per il Piacere dei convenuti (!) Certo, il porporato avrebbe forse qualcosina da obiettare, ma se lo facesse si prenderebbe come minimo dell’ipocrita! Quindi: va bene così, ecco.

Mettere in scena un Oratorio che ha come unico sviluppo narrativo la conversione di un... approccio esistenziale dal terreno al contemplativo non dev’essere semplice nè facile, ma Flimm e compagnia hanno trovato un plausibile equilibrio limitando per quanto possibile eccessi che avrebbero avuto l’unico risultato di distrarre l’ascoltatore dalla meravigliosa musica che sgorgava da buca e palco.

Un simpatico riferimento a quanto narrano le cronache della prima (1707) è stata la comparsa sulla scena di... Händel in persona a strimpellare sull’organo (i cui suoni però eseguiva Capuano in buca) la Sonata che precede l’aria Un leggiadro giovinetto, accompagnato però da un violinista, abbigliato alla ‘700, staccatosi all’uopo dall’ensemble.

Alcune trovate (lo smembramento di una bambola come biglietto da visita del Tempo, l’esplosione di un avventore ubriaco, le ragazze che sfilano sulla passerella, alcuni andirivieni di bizzarri avventori, che sicuramente nasconderanno qualche simbologia nota solo al regista...) possono sembrare gratuite, ma per fortuna non guastano più di tanto. La metamorfosi finale della Bellezza, che sveste i panni mondani per indossare il classico abito da monaca e si toglie la vistosa parrucca bionda per restare con i capelli rasati da penitente è forse eccessivamente didascalica e troppo... curiale, ecco: ad evocare assai bene la presa di coscienza della caducità di ciò che è puro edonismo terreno bastava il progressivo impoverimento (e oscuramento) della scena, che ha caratterizzato la parte finale dell’Oratorio.

Ma insomma, uno spettacolo godibilissimo, dove le tre ore filano via quasi senza che uno se ne accorga.

28 gennaio, 2016

Un baldanzoso Attila invade Bologna

 

Ieri al Comunale di Bologna quarta rappresentazione di Attila. Si ratta di un nuovo allestimento di Daniele Abbado, che verrà successivamente riproposto a Palermo e Venezia (co-sponsor della produzione). Insieme al sottoscritto, i più (cioè il solito 1,2-1,6% dell’italica popolazione) avranno già sentito/visto (in diretta o differita, su Radio3 e RAI5) la prima del 24.

Ciò che penso dell’opera lo avevo già esternato quasi 5 anni orsono, in occasione d una recita alla Scala. Ieri era la seconda con il cosiddetto secondo cast. Devo dire subito che non mi ha fatto rimpiangere il primo: forse l’unico interprete di cui ho sentito la mancanza è stato Simone Piazzola, il cui vice, Gezim Myshketa (Ezio) mi è parso impiegare poco proficuamente il suo pur naturalmente dotato strumento: voce artatamente scurita soprattutto nelle note alte, dove invece andrebbe esibito uno squillo penetrante, e non cavernosi schiamazzi.

Tutti gli alti interpreti non hanno affatto demeritato. A partire dal protagonista, un solidissimo Riccardo Zanellato, che ha esibito grande sicurezza e profondità di accenti, oltre che autorità e portamento scenico.

Bene anche Stefanna Kybalova, cui potrei rimproverare qualche acuto troppo tirato-via (ma non il DO di ingresso, più che dignitoso). Giuseppe Gipali ha pure ben meritato come Foresto, mostrando acuti squillanti ma anche buona espressività nei passaggi più introspettivi.

Gianluca Floris e Antonio Di Matteo come da minimo sindacale. Il coro di Andrea Faidutti ha ben sopportato le asprezze imposte da Verdi, sia nelle scene più cupe e opprimenti che in quelle dove si sprecano i fortissimo.

Da ultimo lascio Michele Mariotti per tributargli un doveroso omaggio: non aver avuto tema nell’impiegare in modo persino protervo quella tanto famigerata vanga che molti schizzinosi da sempre rimproverano a questo Verdi. Dico, Attila, se suonato così, ti porta semplicemente all’entusiasmo, ecco. E comunque, come dimenticare l’alba su RioAlto, evocata con pochi tratti, ma con grandissima efficacia... Quanto alle troppe cabalette, chiunque (credo) ne vorrebbe ancora di più...

Poche note sull’allestimento della coppia Daniele Abbado – Gianni Carluccio. Eccessiva insistenza su ambienti cupi ed opprimenti, quando invece ci dovrebbero essere anche squarci di luminosità e di sereno. Suppellettili in scena piuttosto insignificanti, o forse dal significato troppo criptico, non saprei; personaggi simbolici (un cristo seminudo e un rabdomante o domatore di serpenti) che potevano esserci risparmiati.

Costumi più o meno appropriati al fine di farci ben distinguere tra gli straccioni e malnutriti invasori e le truppe scelte di Roma (rancio ottimo e abbondante, divise appena uscite dalla stireria e stivali lucidati a specchio).

La regìa dei personaggi: l’impressione che si sia lasciato a ciascun interprete di recitare a soggetto, secondo la propria personale ispirazione. Insomma, nulla di indimenticabile. 

Ma, ripeto, ciò che conta è, nella fattispecie, l’accoppiata Verdi-Mariotti: e questa ha risposto davvero alla grande!

27 gennaio, 2016

La Scala attende il primo Trionfo

 

Dal 28/1 la Scala ospiterà otto recite de Il Trionfo del Tempo e del Disinganno, l’oratorio di Händel che viene rappresentato in forma scenica, per la regìa di Jürgen Flimm, spettacolo originariamente allestito nel 2003 a Zurigo (Pereira imperante!) e in seguito ripreso (dal 2012, Flimm imperante!) alla Staatsoper di Berlino.

Si tratta del primo dei tre Trionfi, quello composto a Roma nel 1707 dal 22enne di Halle. Il soggetto dell’Oratorio (basti dire che è farina del sacco della porpora di un cardinale, tale Benedetto Pamphilj) è un’amabile discussione filosofica (tipo il platoniano Simposio, ecco) fra quattro voci, che prendono le parti concettuali di Bellezza, Piacere, Tempo e, appunto, Disinganno. Che la Bellezza sia la protagonista assoluta lo conferma, oltre al contenuto del testo e al numero preponderante di arie musicali che la vedono protagonista, anche il titolo completo originale dell’Oratorio: La Bellezza raveduta nel trionfo del Tempo e del Disinganno. In effetti, dopo aver cercato di resistere alle severe argomentazioni di Tempo e Disinganno, lasciandosi tentare dalle lusinghe del Piacere, la Bellezza conclude l’Oratorio precisamente con un ravvedimento (à la Maddalena): getta lo specchio nel quale usava narcisisticamente rimirarsi, scioglie le chiome privandole di orpelli e lustrini e allontana da sè il Piacere, rimettendosi alla misericordia del Cielo.

Händel compose la musica dell’Oratorio qualche mese dopo il suo trasferimento a Roma da Amburgo, dove aveva fatto i suoi primi passi da compositore. Da un’opera scritta lassù (Almira) recuperò il tema di una sarabanda del primo atto e lo riciclò (impreziosito) in una delle arie più famose dell’Oratorio (Lascia la spina); più avanti riutilizzò lo stesso motivo nel suo Rinaldo (Almirena: Lascia ch’io pianga):



E a proposito di auto-imprestiti (come si vede, Rossini non inventò proprio nulla!) il nostro riprese l’accompagnamento dei flauti all’aria del Disinganno (Crede l’uom ch’egli riposi) nella sua opera d’addio all’Italia, rappresentata a Venezia nel 1709, Agrippina (aria di Ottone Vaghe fonti):


L’Oratorio è diviso in due parti di durata (circa 75’) e contenuti (numeri musicali) confrontabili. La prima comprende 12 arie, un duetto e il quartetto finale, più la Sonata introduttiva ed una seconda Sonata, assai virtuosistica ed appariscente, con Organo obbligato, collocata proprio fra il recitativo (Questa è la reggia mia) e l’aria del Piacere, Un leggiadro giovinetto. Guarda caso il giovinetto era proprio Händel in persona, seduto all’organo! Sicuramente un omaggio del cardinale al caro sassone, ed anche un vezzo auto-celebrativo del giovane compositore. Sonata e... suonatore scompariranno, come vedremo, in versioni posteriori. La seconda parte comprende 11 arie, un arioso, un quartetto e un duetto. La conclusione, dopo la conversione della Bellezza, è un mirabile Adagio in MI maggiore, che si spegne - pianissimo - sulla celestiale melodia dei violini. Non così si chiuderanno le due successive versioni albioniche (1737 e 1757) dell’Oratorio.

Durante la sua lunga residenza oltre-Manica, come ripiego per far fronte al declino londinese dell’opera italiana, Händel decide di riproporre, a 30 anni esatti di distanza, il suo oratorio giovanile romano, e per l’occasione ne appronta una nuova versione ristrutturata, modificata ed arricchita (ma sempre in lingua italica). La differenza più macroscopica, più che nel titolo (Verità rimpiazza Disinganno) risiede nella struttura dell’opera, che viene suddivisa in tre parti data la sua nuova, ipertrofica estensione (si passa da meno di 2 ore e mezza a tre!) Vengono introdotti qui i cori (assenti nella versione romana) ed apportate svariate modifiche, alcune di portata limitata, altre veramente pesanti, come la riscrittura completa di arie e/o il trasporto di tonalità (in funzione delle diverse voci disponibili).

Poi, a 50 anni dalla sua composizione originale, un Händel ormai malconcio si convince a riproporre una nuova versione dell’Oratorio, questa volta tradotta in lingua inglese dal suo più fido librettista, Thomas Morell. L’oratorio è soggetto a nuove modifiche, ritocchi e imprestiti da altre opere, interventi probabilmente fatti da mani diverse (John Christopher Smith Jr.) da quelle dell’Autore: la durata totale torna più o meno quella della versione originale romana (2 ore e 35’).

Quanto alle voci, sappiamo come la scelta fosse condizionata anche dalle disponibilità occasionali. La versione originale prevede un soprano (B), un soprano (P), un tenore (T) e un contralto (D) mentre non prevede cori. Quella del 1737 (vedi sotto le note relative all’edizione Naxos, l’unica oggi disponibile) prevede un soprano (B), un soprano (P), un contralto-controtenore (T) e un contralto-controtenore (D) più i cori. Quella del 1757 prevede un soprano (B), un tenore (P), un basso (T), un soprano (D), i cori e in più un contralto per la nuova parte di Verità (o Saggezza, Counsel) che nelle versioni precedenti veniva semplicemente citata da altri personaggi, senza mai intervenire in prima persona, mentre qui prende una parte del ruolo del Disinganno.

A suo tempo (metà ‘800) Friedrich Chrysander, che pubblicò in Germania tutte le principali opere di Händel, predispose l’edizione delle due versioni estreme dell’Oratorio (1707, in italiano e 1757, in inglese-tedesco) basandosi su materiali di seconda mano, quindi non certo a prova di bomba. Non solo, ma gli mancarono totalmente reperti relativi alla versione del 1737, che lui arbitrariamente e sommariamente pensò potesse ricostruirsi appiccicando a quella del 1707 le parti diverse del 1757.

Solo (relativamente) di recente è stato possibile ricostruire la versione 1737 in modo plausibile (anche se manca tuttora quella che si chiama un’edizione critica). Tuttavia il risultato di questo lavoro (dovuto a Joachim Carlos Martini) mi pare assolutamente apprezzabile, pur se presenta alcune scelte forzatamente arbitrarie, date le circostanze. Martini ha inciso questa versione per l’etichetta Naxos, con complessi di Francoforte.

Per avere una visione sintetica delle differenze fra le tre versioni ho predisposto una scheda, ritrovabile qui: essa presenta nelle tre macro-colonne le tre versioni, e nelle righe i dati salienti dei diversi numeri. In particolare il contenuto della sotto-colonna titolata ton indica la tonalità principale del brano (di norma le modulazioni interne virano classicamente alla dominante o alla relativa) e la colonna titolata n/m contiene l’attributo n ad indicare un numero non presente nella versione precedente, e m ad indicare un numero modificato rispetto ad essa. Lo sfondo arancione sul titolo sta ad indicare una modifica sostanziale (per i recitativi ho trascurato di indicare differenze marginali). Quindi la colonna 2 (1737) si confronta con la 1 (1707) e la colonna 3 (1757) si confronta con la 2 (1737). I contenuti delle versioni 1707 e 1757 sono ricavati dalle partiture di Crhysander, mentre quello della versione 1737 è stato desunto dalla citata edizione di Martini per la Naxos che, come detto, ha comportato scelte magari anche opinabili (si veda qui la scheda informativa di Martini sui criteri da lui seguiti per la ricostruzione della partitura). 

I libretti delle tre versioni sono reperibili (non esclusivamente) ai seguenti indirizzi: Versione 1707 (Scala-2016); Versione 1737 (Martini, documento citato più sopra); Versione 1757 (Stanford).
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Il Trionfo del Tempo e della Verità (Londra, 1737)

Sulla base dell’edizione di Martini si possono rilevare le seguenti principali novità:   

Alla Sonata del Overtura viene aggiunta una Sinfonia, il cui Allegro riprende il tema dell’Overtura e lo arricchisce soprattutto di corposità strumentali (trombe e timpani).

L’apertura è affidata al Contralto solo e al Coro (Solo al goder) ed è stata composta espressamente, così come il successivo recitativo di Bellezza (Qual veggio il mio sembiante). 

L’aria (B) Fido specchio subisce alcune variazioni soprattutto nell’accompagnamento.

L’aria (P) Fosco genio è riscritta totalmente: passa da MI minore a LA maggiore, da 3/4 (giga, Allegro) a 4/4 (Andante) cambiando completamente faccia.

L’aria (D) Se la bellezza passa da DO a RE minore, con tempo accelerato e l’aggiunta di un’introduzione diversa.

L’aria (B) Una schiera di piaceri passa da LA a FA maggiore, con melodia totalmente rinnovata, struttura assai ampliata, ma con meno virtuosismi.

Anche l’aria (T) Urne voi è totalmente rinnovata: da 4/4 passa a 3/4 e assume ritmo di marcia funebre. Un Coro è aggiunto in coda, che ripete gli ultimi due versi dell’aria.

L’aria (B) Un pensiero nemico è totalmente riscritta: da 4/4 con grandi virtuosismi passa a 12/8 in un clima languido.  

L’aria (T) Nasce l’uomo è trasportata da SOL a RE maggiore. La seconda parte dell’aria (L’uomo sempre se stesso distrugge) passa dal Disinganno al Coro, per chiudere solennemente la nuova prima parte dell’oratorio.

La seconda parte è preceduta da un nuovo Interludio tripartito (Concerto con organo, soli-coro e Sinfonia).

La Sonata per Organo e orchestra (quella che a Roma suonò Händel in persona) viene espunta e sostituita da due Sonatine, per violino e carillon.

La prima aria (Piacere: Un leggiadro giovinetto) è praticamente riscritta: cambiano il tempo (da 3/8 a 4/4) e la tonalità (da SOL a LA maggiore) e aumentano i virtuosismi.

L’aria (B) Venga il Tempo viene completata con un Coro (O tempo, padre del dolor) e ritornello orchestrale.

L’aria (T) Folle dunque, tu sola presumi è pesantemente rivista, con maggiori virtuosismi assegnati alla voce.

Anche il quartetto Se non sei più ministro (che chiude la prima parte della versione originale) è pesantemente rimaneggiato, nella tonalità (DO e non RE minore) e nel tempo (2/4 al posto di 4/4) e quindi nel ritmo.
  
L’aria (B) Io sperai trovar nel vero è pesantemente rivista: da Adagio in SI minore si trasforma in un Larghetto in SOL maggiore, dal ritmo più mosso.

L’aria (B) Io vorrei due cori in seno viene trasposta da DO a SI minore ed accorciata, mantenendo soltanto il primo intervento di Bellezza ed espungendo quelli successivi di Disinganno e di Bellezza.

L’aria (D) Più non cura viene trasposta da SIb a DO maggiore.

L’aria (T) É ben folle quel nocchier viene completamente rimaneggiata: trasposta da 4/4 in SIb maggiore a 6/8 in MIb maggiore, e dotata di un ritmo più blando. 

Il Quartetto Voglio tempo per risolvere, dovendosi ora chiudere la seconda parte, viene completamente ristrutturato. La parte che rimane del quartetto (la prima) assume un tono e ritmo mesto (3/4) invece di quello agitatissimo (3/8) dell’originale, e si chiude sul verso ...ma il Consiglio è il tuo dolor. La restante parte (Pria che sii converta in Polve) viene rimpiazzata da un Coro, in FA maggiore.

La terza parte si apre con una Sinfonia e subito dopo il primo recitativo presenta una grande novità; una nuova versione dell’aria (P) Lascia la spina, veramente irriconoscibile rispetto all’originale. Il quale è basato sulla lenta sarabanda dell’Almira, mentre qui abbiamo una veloce giga (Allegro, 6/8).

Nella citata ricostruzione di Martini viene di seguito proposta una trascrizione per due clavicembali della sarabanda dell’Almira, seguita dalla versione originaria di Lascia la spina.

L’aria (B) Voglio cambiar desio viene significativamente modificata nella melodia principale. 

L’aria (D) Che già fu del biondo crine viene trasposta da SOL a LA minore, con minime modifiche alla fine delle strofe. 

Completamente rivista Il bel pianto dell’aurora: originariamente un duetto (D-T) in LA minore, diventa un’aria per il solo Tempo, in SI minore.

L’aria (P) Come nembo che fugge viene profondamente modificata. Tempo (da 3/4 a 6/8) e ritmo cambiano completamente: da forsennati si addolciscono parecchio.

L’accompagnato (B) Pure del cielo viene assai modificato e ridotto ai soli tre versi finali (Or se la Verità).

L’aria (B) Tu del ciel ministro che chiude l’Oratorio nella versione originale, viene modificata assai, e non solo nel testo del primo verso (Quel del ciel ministro) ma anche nella melodia.

Ma una novità eclatante della versione 1737 riguarda proprio la conclusione dell’Oratorio: adesso non è più un progressivo spegnersi della musica a supportare, per così dire, l’ascensione di Bellezza nell’empireo; qui viene aggiunto un finale preso di peso dalla precedente (1733) Athalia – ah, gli imprestiti! - e costituito da un coro esultante (Alleluja!) Come si vede, una chiusura retorica e bombastica, che contraddice palesemente l’approccio originale... Per di più Martini, nella sua edizione, lo fa precedere – proprio come in Athalia – anche da un Concerto per organo (mutuato a sua volta dall’opus 292).

Dal punto di vista delle durate, sono le due parti estreme a dare il maggior contributo: sommariamente ciascuna di esse incrementa i tempi di circa 15’ rispetto a quelli della versione 1707. Si passa quindi da circa 150 a circa 180 minuti (va ribadito però che la versione 1737 è quella di Martini, che ha operato inserimenti magari opinabili).  
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The Triumph of Time and Truth (Londra, 1757)

É ragionevole pensare che la versione del 1757 abbia avuto come base quella del 1737, perchè più recente e già rappresentata in Inghilterra. Lo testimoniano fra l’altro la struttura in tre (e non due) parti e le tonalità di molte arie. Come detto, Händel era ormai in condizioni precarie e non potè dedicare a questa versione tutta l’attenzione che si meritava, lasciando molto del lavoro di preparazione a diversi collaboratori. Tuttavia è innegabile che anche questa versione abbia un grande fascino e contenga nuove pagine indimenticabili. Qualche sommario cenno sulle principali novità introdotte:

Viene impiegata una nuova Ouverture bipartita.

Dopo l’aria (P) Pensive sorrow il soprano canta una nuova aria (Sorrow darkens) e subito dopo, insieme ad un coro di voci bianche canta Come, Come, ripetuto infine dal Coro.

Il nuovo personaggio della Verità (Counsel) prende il posto del Disinganno, a partire dal recitativo Turn, look on me, poi nell’aria The beauty smiling, quindi ancora nel recitativo Our diff’rent pow’rs.

Dopo l’aria (T) Loathsome urns abbiamo un nuovo coro (Strenghten us, o Time) che sostituisce quello del 1737. Il successivo recitativo (Too rigid the reproof) non è più affidato al Piacere, ma al Disinganno, che subito dopo intona una nuova aria (Happy beauty) completata da soprano e coro (Happy, if still they reign).

Vengono quindi cassati il duetto Bellezza-Piacere (Il voler nel fior degl'anni) il successivo recitativo (Della vita mortale) e l’aria (B) Un pensiero nemico. Il successivo recitativo (Folle, tu nieghi il tempo) cambia testo (Youth is not rich in Time) e voci: non più Disinganno-Piacere-Bellezza, ma Verità-Tempo-Piacere. Il coro finale (Like the shadow) è accorciato rispetto alla versione 1737: non si esegue la seconda strofa.

Assente qui l’interludio fra prima e seconda parte, per cui quest’ultima attacca subito con un coro nuovo di zecca (Pleasure submits to pain). Niente sonatine e invece un recitativo (Hark! What sounds are these) che include in apertura una fanfara di corni, che anticipa una nuova intera sezione (che rimpiazza l’aria del Piacere Un leggiadro giovinetto): si tratta di un sontuoso coro (Oh, how great the glory) seguito da ben tre arie consecutive di Piacere e Disinganno che precedono a loro volta un’altra aria della Bellezza (Come, O Time) che viene direttamente da... Roma.

Escluso il coro del 1737 (O tempo, padre del dolor) dopo l’aria originale del Disinganno (Mortals think) ecco un nuovo recitativo del Tempo, seguito da una nuova aria (False destructive ways).

Cassati l’aria del Tempo (Folle, dunque tu sola presumi) e il quartetto (Se non sei più ministro) abbiamo uno spostamento significativo: l’aria del Disinganno (Melancholy is a folly) viene inserita qui (variata) trasferendo dalla parte terza la famosa Ricco pino.

Cassate poi le arie di Bellezza, Piacere e Tempo, si passa alla chiusura della seconda parte con il coro (Ere to dust is chang'd) già introdotto nel 1737.

La terza parte vede leggere variazioni alla Sinfonia introduttiva e l'aggiunta di un’aria del Disinganno (Charming Beauty). L’aria Lascia la spina resta nella versione 1737 col titolo Sharp thorns despising, mentre non si ripropone l’originale romano.

Dopo l’aria della bellezza (Pleasure! My former) abbiamo l’inserimento di un coro, il famosissimo Comfort them, che in realtà è un imprestito bello e buono dalla HWV268, un Inno composto da Händel nel 1749.

Ricco Pino, come detto, è stato spostato con diverso testo nella parte seconda. La chiusura è – come nel 1737 - sull’Alleluja!

Quanto alla durate, rispetto alla versione 1737 tutte e tre le parti vengono sfrondate di alcuni (7-10) minuti, per un totale di circa 25. Si passa quindi da circa 180 a circa 155 minuti complessivi, pochi più rispetto all’originale del 1707.

Una recente apprezzata edizione della versione 1757 è quella degli scozzesi della Ludus baroque.
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Questa edizione scaligera si avvale della Direzione di Diego Fasolis, che sta collaborando con il Teatro per creare all’interno dell’Orchestra un ensemble orientato alla musica del ‘700, con uso anche di strumenti d’epoca. In questa occasione si potranno constatare i primi risultati dell’operazione.

25 gennaio, 2016

La Volpina di Carsen al Regio

 

Ieri al Regio torinese (non proprio esaurito...) penultima recita di Příhody lišky Bystroušky di Leóš Janáček, nell’allestimento di Robert Carsen, già apparso a Strasburgo nel 2013 e derivato da quello originale di Gent del 2001.

Sul podio Jan Latham-Koenig (un britannico con ascendenze francesi, danesi, polacche e mauriziane...) che è un esperto di Janáček e lo ha confermato, con una direzione pulita e attenta ai dettagli, forse (se posso permettermi) leggermente sovraccarica nelle dinamiche.

Fra gli interpreti metterei in prima fila il Guardiacaccia di Svatopluk Sem, di cui mi hanno impressionato il bel timbro di voce e la grande espressività (nelle ultime due scene davvero lodevole).

Voce potente quella della Volpe Lucie Silkenová, forse ancora da... mettere meglio sotto controllo (alludo a qualche acuto un filino urlato) ma anche lei bravissima nel rendere la multiforme (!) personalità dell’animale.

Maestro e Curato+Tasso (rispettivamente Jaroslav Březina e Ladislav Mlejnek) si sono ben distinti, in particolare il primo, efficace nell’interpretare la personalità complessata del cattedratico (purtroppo non quella... fisica, ma per lui sarebbe stato difficile perdere il 40% del suo peso, smile!)   

Il banditesco Harašta è stato ben interpretato da Jakub Kettner: il personaggio compare soltanto nella prima scena dell’ultimo atto, ma ha un ruolo di primo piano, imprimendo la svolta drammatica (voluta da Janáček in barba al racconto originale di Těsnohlídek) a questa fiaba per adulti. Stesso discorso per la brava Michaela Kapustová, che ha ben interpretato le dolci ma infuocate passioni amorose del maritino della protagonista.

Tutti gli altri comprimari (cristiani e... bestie!) hanno lodevolmente contribuito al successo pieno della recita: fra essi anche le voci bianche del Regio e del Conservatorio, oltre al Coro, diretti da Claudio Fenoglio.
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Che dire dell’allestimento? A parte che si conosceva a menadito (per esperienze dirette o per sentito dire) essendo in giro – pur con rimaneggiamenti - da ormai tre lustri, espongo qui qualche mia considerazione e valutazione.

Comincio dagli aspetti di ambientazione. La scena quasi fissa e sempre spoglia (collinette coperte da fogliame o da un lenzuolone a simulare la neve) non mi pare renda giustizia alla componente naturalistica dell’opera. È vero che ci pensa la musica di Janáček ad evocare la Natura, e certo non si pretende di vedere alberi di cartapesta con foglioline di cartavelina mosse da ventilatori, per carità. Ma tra questo e il nulla quasi assoluto credo ci stia qualche soluzione più soddisfacente, ecco. Appropriati invece i costumi, che non eccedono in kitsch (parlo sia dei personaggi umani che, soprattutto, degli animali). Efficaci le luci, che Carsen sa bene come impiegare (quelle laterali, in particolare).

A proposito di Natura, anzi propriamente di fauna, mi ha lasciato invece perplesso la scelta del regista di ridurre drasticamente le specie animali che popolano la foresta di Janáček. Tutto il (wagneriano) Waldweben che il compositore ha voluto rappresentare (insetti, animaletti, zanzare, rane) qui non trova cittadinanza ed il bosco si riduce ad una specie di riserva per volpi! La cosa ha ripercussioni curiose laddove animali che Carsen elimina devono però cantare! Così accade che i versi assegnati alla Zanzara vengano cantati dal Guardiacaccia (il che ha del paradossale) e che la Volpina assuma anche il ruolo della rana, andando a mordere il Guardiacaccia e poi chiedendo alla madre se quell’animale sia commestibile (!?) Così poi nell’ultimissima scena dell’opera è ancora una volpettina (la figlia della protagonista) che sostituisce la rana e avverte il Guardiacaccia che l’animale da lui conosciuto all’inizio era suo nonno (!?!) Di facile effetto la discesa... dal cielo di Civetta, Ghiandaia e Picchio alla fine del second’atto (nozze volpine).

Quanto al fluire del tempo, il testo di Janáček è molto parco di indicazioni, tuttavia vi si possono fissare alcuni punti fermi: l’apertura è in estate (quadro I) mentre la scena in fattoria (quadro II) è in autunno. Quindi sono passate alcune settimane da quando la Volpina è in cattività, come confermano anche le esternazioni di animali e cristianiInvece lo scenario ci mostra in entrambi i quadri lo stesso paesaggio autunnale e poi all’inizio del quadro II Carsen fa arrivare a casa il Guardiacaccia con la Volpina appena catturata. La cosa potrebbe essere considerata veniale, però resta il fatto che così viene a mancare il cambio di stagione, il che non mi pare una banalità. Lo stesso dicasi (atto II) nel passaggio fra il quadro V (le peripezie dei tre uomini nel bosco) e il quadro VI (l’incontro e il matrimonio delle volpi) dove, secondo il testo originale, si dovrebbe ancora avere un cambio di stagione (poichè si torna in estate, dall’autunno dove erano verosimilmente rimasti ambientati i quadri precedenti, che non presentano fra loro evidenti salti di tempo: fuga della Volpina, espropriazione del Tasso, scena in osteria e successiva scena nel bosco). Invece Carsen ci mostra sempre lo stesso paesaggio brullo, coperto di fogliame secco. All’inizio del terz’atto (quadro VII, quello della morte della Volpina) c’è un cambio di stagione che dovrebbe essere estate-autunno, mentre Carsen ci fa invece piombare in pieno inverno, con tanto di neve che copre ogni cosa. Neve che poi sparisce per lasciar spazio ad erba verde, come fosse primavera: ma il testo non lascia dubbi che si dovrebbe essere sempre in autunno (fra i quadri VII, VIII e IX non paiono esserci soluzioni di continuità temporale) e il mirabile monologo finale del Guardiacaccia accenna al prossimo ritorno del maggio, quando la Natura si risveglierà, e dovrebbe contrastare proprio con il malinconico presente autunnale. Insomma, scelte registiche che mi paiono francamente discutibili.

Vengo ora a qualche ulteriore (importante) dettaglio. Carsen immagina che la trasformazione della Volpina in ragazza (quadro II) sia in realtà un sogno del Guardiacaccia, che appunto in sogno si accoppia con lei, prima che tutto torni normale. L’idea che fra Volpina e Guardiacaccia ci sia sotto qualcosa di particolare e di sospetto è giustificata da quanto avviene nel second’atto (quadro IV, in osteria) dove il Maestro e poi l’Oste fanno al Guardiacaccia (che se ne risente in modo esagerato) allusioni che parrebbero gratuite se riferite ad un animaletto, e invece pertinenti se riferite ad un essere umano. Quindi l’idea di Carsen non è proprio da buttare, anzi!     

Quando (atto II, quadro III) vediamo la Volpina fare abbondante pipì nella tana casa del Tasso (cosa che non si trova nel testo di Janáček) dobbiamo ricordare che questa scena è invece rappresentata con grande enfasi in uno dei disegni di Stanislav Lolek che ispirarono il racconto originale di Těsnohlídek, dove il fattaccio è descritto per filo e per segno.

Carsen pare essersi poi ispirato alle idee di Max Brod (il traduttore in tedesco dei testi di Janáček) per rappresentare quanto avviene nel quadro V (atto II) dove il Maestro e il Curato, ricordando le loro avventure e/o infatuazioni sentimentali, hanno al loro fianco la Volpina, che in pratica assume il ruolo della Terinka del racconto. Orbene, va ricordato che Janáček si oppose sempre fieramente a questa (come ad altre) interpretazioni di Brod (di cui peraltro aveva grande stima): nella fattispecie il Maestro, ubriaco, crede di vedere Terinka in un girasole, il cui fiore viene mosso dalla brezza, mentre la Volpina è soltanto nascosta nei pressi, occhieggiando poi alle esternazioni del Curato. Invece Carsen fa sparire anche i girasoli! Peccato...

Per ultimo vengo al quadro VII (inizio atto III) e alla fine della Volpina. Carsen ci mostra una specie di sfida all’OK Corral fra l’animale e il bracconiere (e fin qui tutto... OK) facendo però sparire dalla scena i volpacchiotti che invece dovrebbero fare razzìa di galline nella sua cesta. Così lo sbifido Harašta spara un primo colpo a caso (come da libretto) senza che nulla accada (si dovrebbero invece vedere i volpacchiotti scappare in una nuvola di piume...) e poi, a sangue freddo e prendendo bene la mira, esplode un gratuito secondo colpo (mortale) in pieno petto alla Volpina. Tutto ciò contraddice profondamente non solo la lettera ma anche lo spirito del testo originale, dove la morte della protagonista è un fatto del tutto accidentale, come mille ne accadono nella vita di tutti i giorni... e per questo Janáček non le riserva alcuna particolare enfasi (tipo esequie in pompa magna, o cose simili). Fin troppo realistico poi l’atto della scuoiatura dell’animale, di cui il bracconiere si porta via la pelliccia (ciò che Janáček invece ci chiarisce con discrezione nel quadro successivo, in osteria).

Ecco, elencate queste (per me) ombre nell’allestimento, resta ovviamente la grande maestria che Carsen sa impiegare per proporci uno spettacolo comunque di alto livello, che merita la fama da cui è circondato. E questo è solo l’inizio del ciclo-Carsen-Janáček che il Regio lodevolmente ha messo in programma per le stagioni a venire. 

23 gennaio, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°4


Giuseppe Grazioli si sta specializzando in un mestiere ormai desueto da circa 90 anni: quello di accompagnatore di film muti (! in questo segue peraltro le orme di tale Shostakovich!) Dopo aver diretto, meno di 2 anni orsono, la colonna sonora di un film sul Rosenkavalier, proiettato sullo schermo gigante dell’Auditorium, il nostro si cimenta ora nientemeno che con Aleksandr Nevskij, dirigendo le musiche di Sergei Prokofiev in sincrono con la proiezione del famoso film di Eisenstein.

Il film dura circa un’ora e trequarti e la colonna sonora di Prokofiev ha una durata più o meno pari alla metà (50-55 minuti). Come è immaginabile, un pochino della musica sta lì solo per esigenze piuttosto prosaiche del regista del film, talchè lo stesso Prokofiev, volendo farci un’opera degna di questo nome (una cantata, nella fattispecie) ne impiegò, con qualche ulteriore aggiustamento, circa il 60%. In sostanza, i 27 (o 21, a seconda delle classificazioni) numeri della colonna sonora (distribuiti su 9 grandi scene) furono dal buon Sergei liofilizzati nei 7 che compongono la Cantata op.78. Cantata sulla quale avevo scritto qualche nota anni fa, in occasione di un’esecuzione di Noseda con i suoi del Regio agli Arcimboldi.

La locandina-web de laVERDI (non il programma di sala...) trae parzialmente in inganno, in quanto indica l’esecuzione della cantata, con proiezione del film, il che parrebbe qualcosa di analogo a quanto si può vedere e ascoltare in un montaggio fatto in studio della cantata medesima, diretta da Abbado-sr a Vienna nel 1990 (con la voce solista della Valentini-Terrani) abbinata ad alcune immagini del film: si tratta di un lavoro giovanile di Abbado-jr.

Invece Grazioli ripete in Auditorium l’impresa eseguita per la prima volta da André Previn nel 1987 a LosAngeles, dopo che tale William Brohn aveva ricostruito la partitura (allora introvabile, c’era ancora il muro di Berlino...) della colonna sonora del film in modo piuttosto avventuroso e bizzarro: impiegando dove possibile materiale della cantata (quindi non della colonna sonora originale, assai meno ricca della cantata, in fatto di strumentazione) e integrandolo (per le parti presenti nel film ma non nella cantata) da musica che lui stesso mise sul pentagramma derivandola (a... orecchio!) dalla piuttosto scalcinata colonna sonora del film. Aggiungendovi poi una specie di ouverture per accompagnare i titoli di testa del film (pare fosse questa un’idea del regista, peraltro fieramente osteggiata dal compositore, talchè nell’originale i titoli appaiono nel silenzio più totale). Insomma, un pastiche apocrifo – nè carne nè pesce, nè cantata nè colonna sonora - che ha come unico fine (però con pro-e-contro) quello di dotare il film di una colonna sonora musicale... reale e dal suono pulito, al posto di quella gracchiante (e male eseguita) che è appiccicata alla pellicola di Eisenstein.

Il film viene proiettato con il sonoro originale russo per le parti parlate (con didascalie in italiano) mentre i passaggi musicali vengono eseguiti in diretta dall’orchestra, dal coro della Gambarini e – per la scena dei morti sul campo di battaglia - dalla solista Annely Peebo. Questa simbiosi fra colonna sonora originale (parlato + alcuni rumori di fondo) e musica dal vivo è resa possibile dalla disponibilità, nel film originale, di tre separate componenti della colonna sonora medesima: parlato, rumori e musica. Di tali componenti viene usata qui la prima e – in misura assai ridotta – la seconda; la terza non viene impiegata per nulla, dato che la suona l’orchestra e la cantano il coro e la solista.

Devo dire che in complesso la resa è stata di ottimo livello, tanto che il pubblico (foltissimo, in pratica a quello della musica si è aggiunto quello del cinema, e non a caso, visto che l’Auditorium era in origine una sala cinematografica!) ha manifestato alla fine grandissimo entusiasmo ed apprezzamenti per tutti.

Certo, qualche purista potrebbe osservare che la colonna sonora di Brohn non è quella che aveva composto Prokofiev, poichè contiene troppa... cantata e quindi (probabilmente) troppo culto della personalità (leggi: Stalin!) La colonna sonora originale che si può ancor oggi ascoltare sarà tecnicamente schifosa, ma i suoi contenuti sono tutto tranne che gratuitamente enfatici, come invece sono quelli della cantata, che nacque a posteriori rispetto al film e proprio come pezzo celebrativo del regime (18° Congresso del PCUS) e del gran capo che pretendeva... pubblicità. Un esempio su tutti: sia nell’entrata di Nevskij in Pskov dopo la vittoria, che sui titoli di coda, viene riproposta la sua celeberrima canzone, ma in versione puramente strumentale; mentre Brohn fa nuovamente intervenire il coro (come nella cantata!) il che è di grande effetto... melodrammatico, ma tradisce forse lo spirito, oltre che la lettera, dell’originale di Prokofiev. 

Invece, a dir la verità oggi ci sarebbe una materia prima assai più solida da impiegare, al posto dell’intruglio di Brohn: nel 2003 il Direttore d’orchestra Frank Strobel, avendo avuto accesso a materiali di prima mano a Mosca, ha potuto predisporre una versione della colonna sonora più verosimilmente aderente all’originale di Prokofiev, versione che ha poi presentato alla Konzerthaus di Berlino e che è stata eseguita più volte in giro per il mondo (anche al Bolshoi, nel 2004) e di cui è disponibile un’incisione audio. Evabbè, vuol dire che sarà per la prossima volta!

17 gennaio, 2016

A Torino si prepara la caccia alla volpe

 

Martedi 19/1 (diretta audio su Radio3) il Regio torinese inaugura le recite di Příhody lišky Bystroušky, letteralmente Le avventure della volpe Orecchiofino, che è conosciuta ormai come La piccola volpe astuta, terz’ultima opera di Leóš Janáček (1923, preceduta di pochissimo dalla Kabanová e cui seguiranno Makropoulos e Casa di morti: quattro opere composte nell’ultimo decennio di vita del musicista moravo).

Opera che si presenta in superficie come una fiaba per bambini, o come una simpatica parodia della vita degli umani come vista dalla prospettiva degli animali; ma che in realtà nasconde significati e concetti assai seri, che spaziano dall’etica alla politica, al senso più profondo dell'esistenza. Sempre però evocati con grande equilibrio e con un certo pacato distacco.   

All’origine del soggetto pare esserci proprio una volpe in carne ed ossa, che nei primi anni dell’800 era diventata quasi una leggenda in Moravia, per la sua incredibile capacità di sfuggire a mille tentativi di cattura da parte di un guardiacaccia. Verso il 1890 uno studente aspirante pittore – che poi divenne infatti abbastanza famoso come paesaggista - tale Stanislav Lolek, fece per qualche tempo il guardiacaccia-aggiunto ed apprese dal suo superiore – che a sua volta da quegli animali aveva continui grattacapi - le storie della volpe leggendaria: così decise di rappresentare sia il suo superiore che le vicende di quella guerra volpe-guardiacaccia in una lunga serie di disegni. I quali rimasero poi ad ammuffire per 30 anni, finchè nel 1920 un responsabile editoriale del quotidiano Lidové noviny (Notiziario popolare) di Brno, incaricato di cercare spunti per racconti illustrati, ci incappò quasi per caso e così la storia della volpe, illustrata da 193 disegni di Lolek e romanzata con i testi di Rudolf Těsnohlídek, comparve in 51 puntate del giornale, con il titolo La volpe Orecchiofino, titolo in realtà dovuto ad un errore tipografico, causato da un correttore di bozze che travisò, ma tutto sommato senza stravolgerne la pertinenza, quello (La volpe Pièveloce) originariamente deciso da Těsnohlídek(Nel 1958 Fedele D’Amico intitolò curiosamente, ma con molta perspicacia, la sua traduzione del libretto di Janacek Le avventure della volpe Briscola.) Il tutto finì poi in un racconto in 23 capitoli pubblicato a Brno nel 1921.



Orbene, il giornale circolava, neanche a farlo apposta, proprio in casa Janáček, e per la verità fu la sua fedele domestica di lungo corso (Marie Stejskalová) a rimanere talmente affascinata da quella bizzarra storia a fumetti da consigliarla al compositore come soggetto per un’opera. E così Janáček stese di sua mano il libretto, consultandosi con Těsnohlídek, ma allo stesso tempo rivoltandone il testo come un calzino: il racconto chiude infatti con il vissero-felici–e-contenti della famigliola delle volpi, mentre l’opera ci mostra, nel seguito, la morte quasi accidentale della protagonista, e si chiude poi come era iniziata, con un pisolino del guardiacaccia che ora però ha modo di ragionare sul fluire del tempo, delle stagioni e delle generazioni. Steso il libretto, Janáček passò subito a musicarlo. E tanta fu la passione che ci mise, da convincerlo a disporre che il finale dell’opera venisse suonato – cosa che puntualmente avvenne - al suo funerale!
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Il soggetto si struttura in tre atti e nove quadri (2-4-3) ambientati di volta in volta nella foresta (l’habitat degli animali selvatici, frequentato anche dagli uomini, che accoglie 6 quadri) e in insediamenti umani (casa e osteria, in 3 quadri) dove al più possono vivere animali domestici, con l’unica eccezione rappresentata proprio dalla volpina, che per qualche tempo abita nella casa del guardiacaccia che l’ha catturata. Fra animali e cristiani emergono, esplicitamente o sotterraneamente, dei paralleli (atteggiamenti e comportamenti) dei quali il più smaccato è quello fra un tasso e il curato della parrocchia.

Poche le indicazioni temporali fornite da Janáček: il primo quadro è ambientato in piena estate, il secondo in autunno, il sesto nuovamente in estate, il settimo in autunno: si dovrebbe quindi dedurre che l’intera vicenda si protragga per almeno un anno e più, ma di certo le famose unità aristoteliche poco hanno a che fare con un soggetto come questo. Caso mai è interessante notare la differenza fra i ritmi e i cicli di vita di animali e uomini: nel lasso di tempo coperto dall’opera, la volpe passa dall’infanzia alla maternità (e addirittura si sviluppano ben due generazioni di rane) mentre per gli umani c’è solo un lento, sia pure inesorabile, invecchiamento.

Preludio – A sipario aperto, ci introduce al bosco in un pomeriggio estivo che promette temporale. Facciamo così la conoscenza degli abitanti della foresta (tasso con pipa, libellula, moscerini: sembra la versione morava del wagneriano Waldweben...)

Atto I – Quadro ISi apre con l’arrivo del guardiacaccia, che si ferma a riposare un poco, benedicendo il suo fucile, strumento di lavoro e di potere. Concerti e polifonie, con annessi balletti, di grillo, cavalletta e zanzare. Una di queste (che deve evidentemente aver punto il guardiacaccia) si ubriaca di sangue e la rana cerca inutilmente di catturarla, mentre la volpina protagonista domanda alla madre (che non si vede, nè si sente) di che animale si tratti e se sia commestibile. Spaventata, la rana spicca un salto e atterra sul naso del guardiacaccia assopito. Costui la scaccia via, schifato, e si accorge della volpina: con un balzo ferino la afferra per la collottola e decide di portarsela a casa, neanche fosse un cagnolino.


Alla povera libellula, che torna per ritrovare la sua amica volpina, non resta che danzare sul triste postludio strumentale. 

Atto I – Quadro II – Un interludio orchestrale serve a... far passare il tempo: dall’estate siamo ora arrivati in autunno ed eccoci nell’aia della casa del guardiacaccia, dove troviamo la volpina alle prese con il cane (Lapák). La padrona di casa non pare entusiasta della presenza della volpina. La quale si lamenta per la sua cattività, suscitando la reazione del cane, che pure si dichiara infelice per mancanza di... amore: in primavera canta alla luna le sue canzoni appassionate, e il padrone per tutta risposta lo prende a bastonate. La volpina ammette di essere pure lei inesperta di rapporti sessuali, ma racconta di aver udito altri animali parlarne in termini osceni: in particolare narra di storni donnaioli impenitenti, o che se la fanno con i cuculi o compromettono le gazze; una loro figlia ha persino una relazione con un corvo! Il cane, arrapato da questi racconti piccanti, si avventa su di lei e ne viene scacciato con gravi perdite.

Adesso sono i ragazzi del guardiacaccia che si divertono a stuzzicare la volpina, che reagisce mordendone uno alla gamba, poi cerca la fuga, ma viene riacchiappata e così per punizione viene legata con un guinzaglio. Durante la notte - uno sbudellante interludio strumentale - la volpina appare incredibilmente sotto le spoglie di una fanciulla piangente; all’alba ritorna volpe. Solitamente si usa interpretare questo strano fenomeno come il sogno – irrealizzabile - della volpe di acquisire prerogative umane. Nel second’atto (quadro all’osteria) ci saranno però delle allusioni, come dire, piuttosto inquietanti...  

Per adesso è interessante notare la differenza di condizioni sociali che caratterizza i rapporti fra gli animali domestici (soggetti a vincoli atavicamente imposti loro dall’uomo) e selvatici (che vivono esclusivamente in base a leggi naturali): ne è specchio il conflitto insanabile che scoppia fra i domestici cane, gallo e galline e la selvatica volpina, che sconvolge le loro millenarie abitudini con discorsi tanto rivoluzionari (quanto utopistici) come ...abolite l’ordine antico! Create un nuovo mondo dove avrete la vostra parte di gioia e felicità! Dopodichè, delusa dal mancato successo delle sue sobillazioni, per sfuggire alla cattività usa lo stratagemma di fingersi morta e poi impone materialmente la legge della giungla, facendo strage dell’intero pollaio!


La scena e l’atto si chiudono su una rapidissima ed esilarante coda strumentale. 

Atto II – Quadro III - Legge della giungla che ovviamente impera nella foresta, dove ci riporta l'introduzione orchestrale (inizialmente pesante, ma che progressivamente si illumina) e dove la volpina tornata in libertà si procura una comoda abitazione sloggiando – supportata dal tifo degli altri animali - dalla sua comoda tana un ricco tasso, fumatore di pipa come ogni borghese arrivato. Dai disegni di Lolek e dal testo di Těsnohlídek si evince chiaramente quale sia l’infallibile e prepotente metodo impiegato dalla volpina per cacciare il tasso dalla sua casa: inondarla letteralmente di pipì! 



Janáček invece è meno truce e si limita a far alzare alla volpe la coda in faccia al tasso, che se ne va via offeso e imprecante con la pipa sotto il braccio... La scena evoca chiaramente problematiche sociali di assoluta attualità: il borghese che fa affari magari poco commendevoli con i quali procurarsi agiatezze e vizi, e i proletari che reagiscono con occupazioni di case senza rispetto alcuno per il decoro.

Atto II – Quadro IVIn compenso scopriamo subito dopo che c’è anche un esemplare umano di tasso: lo spigliato interludio strumentale ci porta all’osteria, dove troviamo il curato della parrocchia, che pure fuma la pipa, e che pure viene sloggiato dalla canonica, perchè trasferito altrove. Ciò diventerà chiaro solo nel terz’atto, per ora sentiamo il curato rispondere evidentemente ad una domanda dell’oste (Pásek) affermando che ...a Stráni le cose andranno meglio; e poco dopo l’oste gli comunicherà che i nuovi inquilini vi cercano...

Intanto facciamo la conoscenza anche del maestro di scuola, un tipo attempato, tutto pelle-e-ossa, che il guardiacaccia, fra una mano di carte e l’altra, cerca di stuzzicare con una canzoncina che allude a vecchi amori per una tale Verunka... che però ormai sarà pure sfiorita, come accade al larice, verde in primavera e spoglio in autunno.


Mentre il curato sfoggia il suo latino per esortare i maschi a non cedere il proprio corpo alle femmine, il maestro contrattacca accennando alle disavventure del guardiacaccia con la volpina. E lo stesso farà anche l’oste, a fine quadro, entrambi suscitando reazioni furibonde del guardiacaccia. Ora ci si potrebbe chiedere il motivo di tanta attenzione da parte dei conoscenti del guardiacaccia - e di tanta suscettibilità da parte di quest’ultimo - in relazione ad un episodio in sè risibile (la cattura di un animale selvatico allo scopo di addomesticarlo e la fuga dell’animale) in uno scenario dove l’oggetto della conversazione sono invece delle contrastate vicende amorose fra esseri umani! E adesso possiamo tornare al secondo quadro del prim’atto, e a quella apparentemente gratuita trasformazione notturna della volpina in una ragazza infelice. Insomma, vuoi vedere che la figura della volpina nasconde qualche segreto inconfessabile del guardiacaccia? Qualcosa a che vedere con il dualismo gazzella-imperatrice della straussiana Fr-o-Sch?

Il maestro, al canto del gallo, se ne va per tornare a casa. Lo stesso fa il curato, avvertito dall’oste dell’arrivo dei nuovi parrocchiani. Rimane solo il guardiacaccia, ormai ubriaco, che sproloquia volgarità sui vangeli e infine, punzecchiato anche dall’oste sull’affaire-volpina, ha una reazione scomposta e se ne va sbattendo la porta.

Atto II – Quadro V – Un nuovo interludio strumentale ci porta nella foresta, attraversata in sequenza dai tre personaggi reduci dall’osteria e diretti alle proprie abitazioni. Dapprima ecco il maestro, che procede barcollando appoggiandosi al bastone. Passa accanto ad un campo di girasoli, spiato dalla volpina, nascosta dietro uno di questi. In preda ai fumi dell’alcol crede di vedere nel girasole il volto della sua innamorata, Terynka. Dopo due bizzarre esclamazioni (staccato!... flageolett!) che richiamano termini di agogica musicale, il maestro fa la sua dichiarazione d’amore al girasole e infine si slancia su di esso, perdendo l’equilibrio e rovinando sulla siepe.


È poi la volta del curato, che si siede cercando invano di accendere un fiammifero, e comincia a ricordare un suo amore giovanile, che lo tradì con un garzone di macellaio, lasciando su di lui i sospetti di averla compromessa... e gli occhi della volpina brillano per un paio di volte da dietro la siepe (!) Si sente infine arrivare il guardiacaccia - sempre a caccia della volpina - che esplode anche un paio di colpi della sua doppietta. Maestro e curato si rialzano a fatica e si avviano verso casa, accompagnati da un motivo che ricorda... la volpina (!?) Il guardiacaccia compare imbracciando il fucile ancora fumante.  

Atto II – Quadro VI – Restiamo nella foresta, ma è tornata l’estate, ed è quindi verosimilmente trascorso (almeno) un anno dall’inizio della fiaba. È una bella notte di luna, perfettamente attrezzata per una scena d’amore tra... volpi! Mentre si odono cori senza parole di animali che creano un’atmosfera romantica, nei pressi della casa del tasso della volpina si presenta un bellissimo esemplare maschio, dall’aspetto elegante e dai comportamenti nobili. La volpina se ne innamora perdutamente a prima vista, e gli racconta la sua storia, infarcendola subdolamente (non per nulla è femmina e pure... volpe!) di bugie e di vittimismo: la casa l’ha ereditata (!) da uno zio tasso, e poi lei ha vissuto – e ne fa un lungo racconto furbescamente romanzato - presso la famiglia del guardiacaccia, che la vessava continuamente, minacciandola di farci una pelliccia, finchè lei non riuscì a riguadagnare la sua libertà... Dopo qualche ammiccamento e un finto arrivederci, che serve alla volpina per convincersi della sua bellezza e del suo fascino, al punto da auto-cantarsi una specie di romanza, il maschio torna con del cibo e i due, dopo una bella mangiata e una tipica scaramuccia da innamorati, quasi all’alba si dichiarano il loro amore ed entrano nella tana di lei per... passare dalle parole ai fatti!

La libellula arriva e danza per la sua amata volpina (pare una Brangäne che veglia Isolde e Tristan...) mentre la civetta, che ha spiato tutto insieme alla ghiandaia, avverte l’intera foresta del misfatto! La volpina è la prima ad uscire dalla tana, seguita dal maschio, al quale comunica la dolce notizia: avranno dei cuccioli! Ma fuori dal matrimonio? No di certo, sentenzia lui, e guarda caso lì sopra c’è il parroco (un picchio) che li sposa seduta stante! Il quadro si chiude con una strepitosa festa nuziale di tutta la foresta.




Atto III – Quadro VII – É tornato l’autunno, siamo sempre nella foresta, a mezzogiorno, dove ora transita un nuovo personaggio (Harašta) che si rivelerà determinante per il successivo svolgersi dei fatti: trattasi di un venditore ambulante di polli (che a tempo perso fa pure il bracconiere...) L’introduzione orchestrale ha preparato il terreno (piuttosto lugubre) all’esternazione del vagabondo, che reca una cesta vuota e canta una sbracata filastrocca amorosa. Scopre sul sentiero una lepre uccisa (dalle volpi, evidentemente) ma mentre sta per raccoglierla... arriva il guardiacaccia, al quale comunica di essere prossimo al matrimonio. Con chi? Ma con la bella Terynka (l’amore del maestro!) Il guardiacaccia lo ammonisce a non fare il bracconiere, così il venditore gli indica la lepre morta, vantandosi di non averla raccolta. Il guardiacaccia, imprecando contro gli animali, monta sull’istante una trappola per volpi, poi i due se ne vanno in direzioni opposte.

Sopraggiungono la volpina, il marito e i volpacchiotti loro, cantando allegramente (una canzoncina popolare morava!) Scoprono che qualcuno è passato accanto alla lepre, ma non l’ha raccolta, così si insospettiscono e si accorgono della trappola installata dal guardiacaccia (la catena puzza della sua pipa!) e si fanno beffe di lui. Il maschio trova il tempo per fare altre avances (quando avremo altri cuccioli?) alla volpina, che lo invita ad aspettare... maggio! L’ultima parte del dolce approccio fra le due volpi è sovrapposta al canto di Harašta, che sta tornando dopo essersi approvvigionato di polli di cui ha riempito la cesta, e pensa alla sua bella. La volpina gli si para davanti deliberatamente, quasi a provocarne la reazione. Lui già pensa a impallinarla per farci un manicotto di pelliccia per Terynka, ma la volpina, provocandolo ancora e sfidandolo ad ucciderla, lo disorienta con mosse repentine tanto che lui cade a faccia in giù, sbattendo il naso. Mentre ancora si sta lamentando e impreca verso la volpina, i volpacchiotti hanno già azzannato tutti i polli nella sua cesta!


Esasperato, Harašta spara a casaccio un colpo di fucile: una nuvola di piume avvolge i volpacchiotti in fuga, mentre al suolo giace moribonda la volpina. L’orchestra le dedica una scarna e modesta orazione funebre.

Atto III – Quadro  VIII – Un lungo interludio strumentale, caratterizzato da un tempo moderato, ma con un paio di irruzioni in allegro, ci riaccompagna nell’osteria di Pásek, dove regna un’insolita quiete. L’oste è assente ed è la moglie a servire gli avventori. Che sono ancora il guardiacaccia e il maestro: manca il curato, di cui ora abbiamo contezza del trasferimento (si è fatto vivo per lettera dalla nuova parrocchia di Stráni, dove dice di sentirsi solo...) Il guardiacaccia rivela di aver trovato la tana della volpe deserta, quindi è evidente che sia stata uccisa: così ci sarà una lingua essiccata (miracolosa) per il maestro e ci saranno pellicce per farci manicotti per le signore! E infatti la moglie dell’oste rivela che Terynka, di cui il maestro ha annunciato le nozze, ha ricevuto un manicotto nuovo. Dopo aver confortato il povero maestro, invitandolo a prenderla con filosofia, il guardiacaccia se ne va per rincasare e trovare il suo cane, che ormai è invecchiato e malandato al punto da non poter più uscire con lui.

Atto III – Quadro IX – Un ultimo, lungo interludio orchestrale, dal sapore romantico e pastorale, ci riporta nello stesso luogo in cui la fiaba si era aperta. Ha appena smesso di piovere e il guardiacaccia sale la collina ricordando con nostalgia mista a serenità analoghe passeggiate fatte in compagnia dell’amata, ai tempi della gioventù, appena sposati. Si siede, appoggiando l’inseparabile fucile ad un ginocchio, e comincia ad ammirare estasiato la natura circostante: al ritorno della primavera tutte le creature godranno della divina beatitudine della vita (pare l’incantesimo del venerdì santo...!) Si addormenta, mentre compaiono gli abitanti della foresta, proprio come nel primo quadro. Sogna la volpina, e al suo risveglio gli pare di vedere una sua cucciolotta, tal quale la mamma, venirgli incontro. È tentato di acchiapparla, per allevarla come fece con sua madre, ma stavolta con i migliori propositi di evitarle qualunque disagio e... pubblicità sui giornali. Allunga il braccio, chiude il pugno e si ritrova in mano... una gelida ranocchia. Che subito lo avverte: guarda che ti sbagli, io non sono quello che ti immagini: il nonno mi ha raccontato tutto di te!   

Senza che lui se ne accorga nè ci faccia caso, il fucile gli scivola a terra... In tempo maestoso è il motivo della morte della volpina, mirabilmente trasfigurato in modo maggiore (REb) a chiudere la fiaba.