intime gioje

chiuder la prigione e buttar la chiave

30 agosto, 2013

Berlusconi: un’occasione persa


Proprio ora che avrebbe potuto finalmente farsi una cultura musicale, approfittando di un compagno di banco come Claudio Abbado, Berlusconi rischia di dover abbandonare il Senato per ritirarsi agli arresti domiciliari.

Che sfiga!

Rimini: amarcord verdiano


Anche Rimini ha voluto rendere un piccolo omaggio a Verdi in occasione del bicentenario.

La città di Fellini è in effetti legata al Maestro di Roncole da un preciso avvenimento: la prima rappresentazione – 16 agosto 1857 – dell’Aroldo (ex-Stiffelio)  - nell’inaugurando Teatro Vittorio Emanuele, intitolato oggi (ma non è più un teatro, a parte la facciata e il foyer, bensì una… palestra!) ad Amintore Galli.

Il Comune ha pubblicato un opuscolo che, oltre ai salamelecchi del Sindaco Gnassi, riproduce per intero una pubblicazione di 20 pagine del 1913 – prezzo 50 cent. - redatta da Girolamo Bottoni – storico e critico letterario - e rievocante quel periodo di presenza verdiana in riviera.

Molti mi devono credere morto, ma io però vivo e pianto alberi con grande attenzione.

Questo scriveva Verdi ai primi di settembre del 1858, fra un Simone e un Ballo!!!

28 agosto, 2013

Aperta la Sagra Musicale Malatestiana


Yannick Nézet-Séguin alla testa della prestigiosa Rotterdam Philharmonic ha aperto l’edizione n°64 della Sagra riminese.

Programma di gran tradizione, incentrato su Ciajkovski ma con una corposa spruzzata wagneriana (siamo pur sempre nel 2013…)

Concerto aperto da Romeo&Giulietta, la versione seconda (1880) e largamente la più eseguita dell’Ouverture-fantasia (qui Gergiev). La prima versione del 1869 (nella quale mise un pesante zampino anche Balakirev) è decisamente più… rozza e immatura (per constatarlo, eccone un’esecuzione di Geoffrey Simon).

In particolare nella versione ultima Ciajkovski sostituì completamente il tema dell’introduzione, invero banalotto, con un corale assai più nobile e di chiara ispirazione russa, seguito da una cadenza arpeggiante in minore che verrà ripresa in maggiore poco prima della chiusa; eliminò poi la prima timida e scipita comparsa del tema dell’amore (che chiudeva sulla dominante, invece che sulla sesta abbassata); espunse un’enfatica e velleitaria ripresa del motivo dell’introduzione all’interno della seconda esposizione del tema della guerra civile; e soprattutto introdusse un paio di sviluppi in cui i tre temi principali (Lorenzo, guerra, amore) si contrappuntano mirabilmente, mentre nella prima versione compaiono quasi semplicemente giustapposti; infine ingentilì anche la finale cadenza sul tema dell’amore.

Nézet-Séguin ne ha dato un’interpretazione caratterizzata da forti chiaroscuri, esagerando forse in lentezza nell’introduzione e poi scatenando l’orchestra nel tema della guerra Capuleti-Montecchi. Apprezzabile ed emozionante l’attacco delle viole sul tema dell’amore. Qualche apparente compenso, almeno a giudicare da chi come me stava verso il fondo della sala, fra i piani sonori delle diverse sezioni è forse da attibuire all’acustica non ottimale di questo enorme spazio (che non a caso hanno chiamato la Piazza!)

E penso che questa sia anche la causa della scarsa udibilità della voce di Anna Caterina Antonacci (che non è propriamente una vocina) che ci ha proposto successivamente i cinque Wesendonk-Lieder di Wagner. I testi della bella e giovane Mathilde Luckemeyer, maritata con Otto Wesendonk e con lui trasferitasi dalla Germania a Zurigo per ragioni di business, non sono certamente di qualità eccelsa: nessuno se ne curerebbe se Wagner non li avesse rivestiti con le sue note, tutte impregnate di abbondante tristanismo, misto a qualche eco di motivi del Ring, ciclo che proprio in quel periodo (1857-58) il nostro aveva momentaneamente accantonato nel bel mezzo del Siegfried per dedicare le sue morbose attenzioni contemporaneamente al Tristan e alla sua ispiratrice (oltre che ricchissima mecenate).

La quale a sua volta trasse ispirazione dai testi del Tristan, che Wagner le aveva letto in anteprima e così Der Engel (L’Angelo… custode) sembra proprio una dichiarazione d’amore di Mathilde per il musicista: un angelo venuto dal cielo su piume lucenti per sollevare in alto il suo spirito (!)

Stehe still (Resta immobile… sembra il Tell) vorrebbe fermare il tempo per assaporare attimi di estasi. Versi come Aug’ in Auge sembrano proprio mutuati da Herz an Herz dir, Mund an Mund del celebre duetto del second’atto del Tristan.

Im Treibhaus (Nella serra, esplicitamente definito da Wagner Studio per Tristan und Isolde) lascia emergere concetti quali il vuoto chiarore del giorno e Chi veramente soffre si ammanta nel buio del silenzio, che non lasciano dubbi sulla sua ascendenza tristaniana!

Schmerzen (Dolori) sembra far da contraltare al Tristan: qui il sole (che muore, tramontando, ma rinasce ogni mattino) fa accettare tutti i dolori che la natura riserva all’essere umano.

In Träume (Sogni, anche questo indicato da Wagner come Studio per Tristan und Isolde) troviamo versi come Allvergessen, Eingedenken, che paiono venire proprio dal duetto del Tristan.

Apprezzabile (anche se… flebile, smile!) l’interpretazione della Antonacci, ben supportata dall’orchestra (assai ridotta nei ranghi) che il Direttore ha dosato con la dovuta parsimonia.

In chiusura di serata la celeberrima Patetica. Essendo un’opera nota quanto e più del Danubio blu, ecco che ogni direttore si sente in dovere, per distinguersi, di metterci parecchio di suo. E anche Nézet-Séguin non fa eccezione, infarcendo la sua interpretazione di arbitrari interventi su dinamica e agogica (forse accentuati, ancora una volta, dall’acustica del luogo…) Il pubblico, che è rimasto in silenzio alla fine del movimento iniziale, applaude al termine dell’Allegro con grazia, così il Direttore, al termine del poderoso tatata-tà di SOL maggiore dell’Allegro vivace (dove è quasi normale che il pubblico si scateni) non lascia a nessuno nemmeno il tempo di battere le palpebre, e attacca subito l’Adagio lamentoso, effettivamente condotto, questo, come si deve.

Alla fine buon successo e applausi da parte del pubblico assai folto e che, come è un po’ di prammatica in questi festival vacanzieri, costringe tutti ad un indebito quarto d’ora accademico prima che si possa iniziare.

La Sagra prosegue fino al 15 settembre con altri 4 concerti (Fedoseyev, Valcuha, Mehta, Salonen).
 

24 agosto, 2013

ROF XXXIV: La donna del lago chiude con uno Zedda da… brivido

 

Chiusura del ROF in grande stile – e con intermezzo drammatico - al Teatro Rossini: come è diventato ormai consuetudine il venerabile Alberto Zedda ha proposto un’opera in forma concertante e diffusa in diretta in Piazza del Popolo. Quest’anno è toccato a La donna del lago.


Teatro gremito e posti in piazza già occupati un’ora prima dell’inizio, a testimoniare dell’interesse del pubblico. Al quale l’ottantenne maestro ha pure riservato momenti di suspence allorquando - chiusa la strofa di Rodrigo col Fa quest’anima bear - invece di scattare per dare l’attacco al coro si è girato sulla sinistra, appoggiandosi al corrimano del podio, colto da un principio di collasso. Dopo attimi di smarrimento generale in cui si è temuto il peggio, il maestro è stato soccorso dai due violini di spalla, poi dal patron Mariotti uscito dal suo palco di barcaccia, infine accompagnato (ma camminando sulle proprie gambe) fuori dal palco, abbandonato anche da orchestrali, coristi e dal povero Spyres, rimasto lì interdetto e senza saper che pesci pigliare.

Per fortuna Zedda è rientrato dopo una quarantina di minuti, più arzillo che mai, senza la giacca a code, ed ha ripreso a dirigere come nulla fosse, portando in porto l’impresa. Tutto è bene ciò che finisce bene!     
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Una bella Donna, devo dire, grazie alla verve del Direttore, alla sicurezza dell’Orchestra, dove gli ottoni hanno ben risposto alle difficili sollecitazioni, e alla splendida prova del Coro di Andrea Faidutti.

Quanto agli interpreti, Dmitry Korchak e Michael Spyres erano i due tenori che impersonano i rivali Uberto(Giacomo) e Rodrigo. Korchak ha mostrato bella voce squillante, forse ancora da… maturare con studio ed esperienza, ma la sua è stata una prestazione assolutamente apprezzabile. Spyres, già visto e udito qui lo scorso anno come un sontuoso Baldassare (nel Ciro) ha confermato le sue grandi doti, sciorinando la grande ampiezza della sua estensione, che scende fino a note da… basso, e la potenza del suo canto aperto (era l’unico, fra parentesi, a cantare senza lo spartito sotto gli occhi). Fra i due, una vera gara a sparare DO acuti, nel terzetto con Elena del second’atto!  

La protagonista Elena era Carmen Romeu: che ha svolto più che dignitosamente il suo compito, con qualche piccola sbavatura sulle note basse.

Chi ha trionfato è la travestita (ma solo… virtualmente) Chiara Amarù: un’efficace (o un efficace?) Malcom, la cui aria Ah si pera è stata accolta da un autentico tripudio.

Simone Alberghini, già Melcthal nell Tell di questi giorni, ha cantato la parte di Duglas con discreta sicurezza, senza peraltro entusiasmare nella sua aria Taci, lo voglio.

Mariangela Sicilia e Alessandro Luciano avevano le due parti di contorno (Albina e Serano) che cantano per lo più recitativi accompagnati, nel second’atto. Entrambi reduci da apparizioni in questo ROF (lei come apprezzabile Elvira nell’Italiana, lui come il cattivone Rodolphe nel Tell) hanno svolto adeguatamente i loro compiti.

Quanto ai contenuti, Zedda si è limitato a tagli più che giustificati (dato anche il tipo di esecuzione): così sono stati cassati, nel primo atto, la Scena IV (recitativi di Albina e Serano) e l’inizio della Scena VIII (recitativo di Serano e Malcom, prima dell’entrata di Duglas); nel secondo il recitativo di Uberto, dopo la cavatina d’entrata, e la Scena IV (recitativi di Giacomo e Duglas) con soppressione tout-court del personaggio di Bertram.

Archiviato, con molte luci e qualche ombra (ma è naturale…) questo ROF-34, già qui ci si prepara al 35, con la prima-ROF dell’Aureliano.

22 agosto, 2013

ROF XXXIV: ancora sul Tell di Vick

 

Torno brevemente sull’allestimento del Tell per chiarirne la natura - sovversiva e fondamentalmente umiliante del capolavoro rossiniano - analizzando più in dettaglio un solo ma significativo esempio.    


Si tratta proprio della primissima scena dell’opera, che subito ci dà l’idea dell’assurdità della concezione registica e dell’irrispettosità con cui Vick tratta l’originale.

Cosa ci dice il testo? Paesani e paesane sono intenti ad adornare le dimore delle nuove tre coppie che si sposeranno. Versi che esprimono serenità e amor di Dio. E la musica? Un dolce Ländler in 3/8, SOL maggiore.

Poco più in là, il pescatore chiama la sua amata per una gita in barca: il cielo è sereno e promette una bella giornata. Musica? Una cullante barcarola in 6/8, DO maggiore (compreso il DO acuto del tenore).

A turbare questo scenario pressocchè idilliaco ecco, dopo la prima strofa del pescatore, intervenire Tell: il suo commento, con la musica che vira - attenzione! - a DO minore, esprime tutto il disagio e il cruccio del bravo patriota al vedere i suoi concittadini che vivono una vita quasi spensierata, mentre la loro patria è sotto il giogo straniero.

Un contrasto davvero lancinante - e non solo per Tell, ma anche per lo spettatore - mirabilmente scolpito in musica da Rossini.

Ora, che ci propina quell’ideologo vetero-comunista che risponde al nome di Graham Vick?

La vista di un campo di lavori forzati, con i poveri svizzeri costretti da aguzzini nazisti a lavorare la terra con le mani, o a portare scarpe appese alle orecchie (la Nike in Bangladesh?)

E poi la scena del pescatore, mostrata come una… messa in scena di regime, con tanto di fondali finti, barchetta sospesa ed oscillante nel vuoto e cinepresa che documenta il tutto ad uso e consumo degli sfruttatori stranieri.

Quindi abbiamo: popolo fisicamente vessato e perciò perfettamente cosciente della sua dura condizione; e popolani vendutisi all’occupante che si prestano, per due lire o anche per nulla, a fingere scene di vita idilliaca. 

Cioè: l’esatto contrario dell’originale!

Di conseguenza, anche l’esternazione di Tell perde qui totalmente di significato, pratico ed estetico (hai detto niente!)

Capito che bella interpretazione? E così continuerà per l’intera opera: Vick ha semplicemente stravolto lo scenario originale, in barba ai versi e soprattutto alla musica del grande Gioachino, per proporci il suo scenario, volto a convincerci che il sistema in cui viviamo (e da cui lui ricava pingui parcelle!) è merdoso e schifoso.

Ora, che la sua sia un’operazione proditoria, lo ammette lui stesso quando, in un’intervista, confessa candidamente che la prima volta che andò in teatro a vedere il Tell se ne uscì dopo il primo atto, completamente annoiato!

Ecco: da uno che si annoia ad ascoltare Rossini, cosa vogliamo pretendere?


21 agosto, 2013

ROF XXXIV: Guillaume Tel…lenin!

 

In una giornata a dir poco autunnale (pioggia insistente e max 18°… ma oggi sta tornando l’estate) l’Adriatic Arena ha ospitato ieri sera (anzi… pomeriggio) l’ultima rappresentazione di Guillaume Tell.


Palazzetto stracolmo di pubblico che ha decretato un autentico trionfo allo spettacolo: o perlomeno alla componente musicale; quanto all’allestimento, i buh e le sonore disapprovazioni al termine della seconda scena del terz’atto (il Pas de Soldats) hanno fatto chiaramente capire come non sia stato propriamente gradito (ma ci torno fra poco).

Dicevo della parte musicale, di buon livello, pur non toccando, a mio modesto avviso, vette di eccellenza assoluta.

JD Florez, il più atteso alla prova, ha mostrato di essere all’altezza del compito e mi è parso più sicuro rispetto alla prima ascoltata in radio: evidentemente due recite in più gli sono servite per completare il… rodaggio. Si conferma comunque un gran professionista, che sa garantire sempre il risultato: per lui lunghissimi applausi a scena aperta. Certo, come attore non è un gran che, forse perché concentra tutto se stesso sul canto (e come dargli torto!)

Con lui bene ha fatto Marina Rebeka, che a dispetto di una certa metallicità negli acuti ha sciorinato una prestazione più che positiva. Insieme i due hanno meritato un autentico trionfo dopo il duetto del second’atto.   

Anche Amanda Forsythe mi ha fatto miglior impressione rispetto alla prima: non ha urlato troppo gli acuti e soprattutto ha più che dignitosamente esposto la sua non facile (e spesso tagliata) aria di Jemmy del terz’atto.

Meritevoli anche Veronica Simeoni come Hedwige, Simon Orfila nei panni di Walter e Simone Alberghini nella parte breve ma importante di Melcthal.

Un Gesler passabile era Luca Tittoto, voce piuttosto cavernosa, peraltro adatta al truce personaggio. 

Celso Albelo ha fatto onestamente la sua parte, inclusi i due DO che gli son venuti un po’ meglio che alla prima.
 
Il Rodolphe di Alessandro Luciano ha appena la mia sufficienza: voce poco passante priva di espressione. Un filino meglio di lui ha fatto Vojtek Gierlach nei suoi due ruoli di contorno. 

Tell? Beh, Nicola Alaimo ha la prestanza fisica (fin troppo abbondante!) dello svizzerotto tutto patria, casa e chiesa. Quanto alla voce, già sopra il RE tende ad ingolarsi e a produrre schiamazzi più che suoni rossiniani. In complesso una prestazione discreta ma non certo da ricordare nella storia.

Il Coro di Andrea Faidutti ha meritato ampiamente le ovazioni ricevute alla fine, che hanno anche accolto l’Orchestra e il suo Direttore stabile, che si conferma profeta-in-patria: il suo è un Tell assai misurato, poco incline alle enfasi e alla retorica, più religioso che eroico, mi verrebbe da dire.
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Ed ora eccoci a Graham Vick.

Il quale ha cucinato un autentico minestrone (ma di quelli proprio indigesti, però) in cui ha buttato quasi a caso, e con dosaggi strampalati, gli ingredienti più diversi e perfino inconciliabili, tipo mescolare curry e tartufo in un risotto, ecco: ti viene che è proprio ‘na schifezza.

Intanto siamo subito avvertiti (dal pugno chiuso sul siparione bianco-rosso) che ci sarà lotta di classe: siamo in Svizzera a novecento iniziato (cineprese a manovella) poi a novecento avanzato (il proiettore super-8 con cui Arnold guarda i filmini di quando era bambino) e però, invece dei banchieri che sfruttano, più o meno direttamente, l’immigrazione, ci sono finti austriaci che opprimono gli operosi contadini elvetici. Notare: gli occupanti son dotati di mitra, i locali di… balestre.

Certo, ci sono espliciti ed appropriati richiami alla terra e al lavoro (meno ai suoi frutti: nessuna traccia di emmenthal, né di orologi, in Svizzera, toh!) mescolati però a becere denunce dell’odierno sfruttamento minorile (le scarpe della Nike in Bangladesh? e perché non la UnionCarbide in India, già che ci siamo?) La prima scena dell’opera è emblematica: mentre libretto e musica ci presentano gente che accudisce serenamente alle proprie incombenze, Vick ci mostra persone vessate da aguzzini nazisti in campi di lavoro forzato. Ma forse lui la musica nemmeno l’ha ascoltata, altrimenti avrebbe capito che evocava tutt’altro. 

Insomma, Vick finge di confondere (dico finge perché non può essere così stupido da far confusione per davvero) una lotta di liberazione nazionale con la lotta di classe tout-court. Quindi bandiere e guardie rosse, neanche fossimo nella Russia del ’17. Sarebbe come presentare la Resistenza italiana al nazifascismo esclusivamente come una fase della rivoluzione proletaria internazionale: per carità, dentro la Resistenza c’erano anche (ed erano magari maggioranza relativa) i rivoluzionari dal pugno chiuso, ma quel movimento fu molto di più e di diverso dalla pura lotta di classe.

Vicende come la scena-madre della mela (tipiche rappresaglie contro innocenti) sono del tutto estranee a fenomeni di lotta di classe, e invece perfettamente plausibili in scenari in cui si confrontano quasi a livello personale un potere assoluto e la resistenza di un popolo (Fosse Ardeatine, Marzabotto e altri simili fatti ne sono testimonianza). Così pure l’uccisione di un monarca (o di un suo rappresentante, come nel caso di Gesler) non è assolutamente un atto tipico della lotta di classe, ma di fenomeni di irredentismo o al massimo di anarchismo. E la vittoria finale, nel Tell, è quella di un popolo che riconquista libertà e indipendenza dal giogo straniero, per tornare – in uno spirito assolutamente conservatore, per nulla rivoluzionario o sovversivo – alle sue antiche tradizioni e consuetudini minacciate dall’oppressore straniero; non è certo l’arrivo del sol dell’avvenir che Vick ci propina con lo scalone rosso alla fine. Fenomeno, il primo, ben presente nel frangente storico in cui Rossini compose l’opera, dove invece il secondo era ben di là da venire. (Ma di tutto ciò, al regista-narcisista, nun glie ne po’ ffrega’ dde meno!)

Quanto ai dettagli, davvero insopportabile - perché precisamente motivato da odio di classe e non da spirito patriottico – il trattamento che Vick ci propone degli occupanti austriaci: in particolare nelle scene del terzo atto, infarcite di gratuite violenze e di siparietti-porno di bassa lega. Qui Vick trasforma una delle parti più intense dell’opera (dove la musica fa convergere mirabilmente aspetti drammatici e sereni) in puro avanspettacolo scollacciato da teatrino underground. Non per nulla il pubblico ha buhato sonoramente, purtroppo coinvolgendo nella contestazione anche i musicanti e i danzatori, non solo incolpevoli, ma anzi meritevoli di applauso.       
 
E che dire dei cavalli di cartapesta del second’atto? Che ci voleva ricordare qui Vick? Le cariche della Lady-di-ferro contro i minatori in sciopero? Tanto erano nobili e appropriati i due destrieri dallo stesso Vick impiegati nella sua Bolena, tanto sono gratuiti i dodici che riempiono qui la scena, e dei quali uno (quello bianco, su cui era salita Mathilde) ritroviamo all’inizio del terz’atto con la testa mozzata, forse come simbolo della nascente rivoluzione proletaria guidata da Arnold…

E che dire dell’efferatezza gratuita di cui il regista riveste in egual misura (excusatio-non-petita?) oppressi ed oppressori? Che si materializza nelle due scene parallele: della gara di tiro che Jemmy vince mozzando di netto la testa di un manichino rappresentante l’occupante; e della fine del vecchio Melcthal, prima linciato e poi appeso precisamente come il manichino di poco prima.

Ecco, per dire dove portano le idee di chi vuole a tutti i costi coniugare l’impegno professionale con il proprio vincolo ideologico: rappresentare il Tell di Rossini e propagandare convinzioni politiche comuniste!

Insomma, ancora una volta (era già successo con il Mosè del 2011, in altro scenario) Vick manipola l’originale - in modo, per me almeno, inaccettabile -  per piegarlo alle sue concezioni politiche e al suo obiettivo maieutico, aspetti del tutto assenti (e direi proprio deliberatamente) nel testo e soprattutto nella musica del Tell.

Quindi, siamo alle solite: c’è una musica, composta per rappresentare ed evocare un certo scenario, che viene impiegata dal regista come colonna sonora per supportare il suo proprio scenario, che poco o nulla ha a che fare con l’originale. Nobbuono…

Dopodichè, essendo Vick un grande uomo di teatro, è garantito che il suo spettacolo sia di alto livello e in sé (basta dimenticarsi l’originale, che problemi ci sono?) persino coinvolgente e godibile.

Peccato che quello del regista albionico – ma questa è solo una quisquilia, una pinzillacchera! – sia un prodotto adulterato. Sì, lo ripeto fino alla nausea, proprio come spacciare una Lacoste, o un Rolex, o un VanGogh contraffatti. (Quindi anche questa volta un premietto penso che lo abbia di sicuro, smile!)
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Lo spettacolo sarà ripreso dal Regio di Torino il prossimo maggio; stesso allestimento, ma per il resto… tutto diverso, a cominciare dalla lingua (versione italiana di Bassi) e poi: via i balletti, altro cast, orchestra, coro e direttore (Noseda). Si vedrà…

19 agosto, 2013

ROF XXXIV: L’Occasione fa... centro

 

Terza e penultima recita dell’Occasione, ieri sera al Teatro Rossini, piacevolmente gremito da un pubblico più casalingo del solito, che forse ha voluto premiare con la sua presenza e poi con un autentico trionfo i beniamini locali (Orchestra Rossini e Accademici di Zedda).


È la quarta apparizione di questa farsa al ROF e, dopo la prima del 1987, anche gli altri ritorni si sono sempre giovati della concezione registica originale di Jean-Pierre Ponnelle, anche quest’anno ripresa da Sonja Frisell, che già l’aveva ripresentata anche alla Scala nel 2010.

Al contrario di quanto ha fatto Livermore con L’Italiana, un dramma giocoso buttato piuttosto beceramente in avanspettacolo, Ponnelle prese assai sul serio (come sempre) questa burletta per musica e ne ricavò una messinscena raffinata e geniale, che non per nulla resiste magnificamente alla sfida del tempo (leggi stramberie del Regietheater).

Qui è Paolo Bordogna ad impersonare, prima che Martino, il Rossini che arriva dal fondo della platea con il valigione in spalla, da cui dapprima estrae un gran tomo con la partitura, che consegna al Direttore, e poi sale sul palco per far uscire dalla valigia tutti gli… ingredienti dello spettacolo: protagonisti e pure le scene!

Poi, più che Martino, sarà ancora Rossini a provocare volutamente (e non fortuitamente, come riporta il libretto) lo scambio di valigie da cui nasce tutto il seguito di imbrogli, equivoci e assurdità, fino alla conclusione in gloria dell’improbabile vicenda.

E Rossini, pur di tutta fretta, ci costruì sopra una musica per nulla disimpegnata o di occasione (smile!) al contrario, ci si trovano arie e concertati degni di altre opere più famose. E come al solito ci si trovano anche semi di cose che verranno fatte germogliare anni e anni dopo da qualcun altro, come questa brevissima cellula della Sinfonia, che scopriremo avere figli e… nipoti!


E proprio di questa musica è stata interprete assai interessante la cinesina Yi-Chen Lin. La quale, lasciato chiuso sul leggio il volume consegnatole da… Rossini (e vorrà pur dir qualcosa) ha confermato quanto di buono aveva già mostrato domenica scorsa alla prima radiofonica: sfoggiando un gesto ampio ma mai enfatico ha padroneggiato con sicurezza questa non proprio banale partitura e ci ha messo quel pizzico di pepe che serve a valorizzarla. Una direzione più che positiva, ben assecondata dai ragazzi della locale Orchestra Rossini.

Roberto De Candia e Paolo Bordogna (i due buffi, padrone e servo) hanno offerto una prestazione onorevole, senza eccedere in facili gigionerie. Bordogna ci ha aggiunto anche le sue doti atletiche muovendosi con disinvoltura tra palco e… buca.

Ancora note positive da Elena Tsallagova, che anche dal vivo ha mostrato una bella voce, piccola ma non evanescente, insomma abbastanza tagliata per il ruolo.

Note (per me, non per il pubblico direi) meno liete da Enea Scala, che sopra la zona del cosiddetto passaggio mostra seri problemi e scade in uno sgradevole canto ingolato ed impiccato. Anche Viktoria Yarovaya non mi ha impressionato, anzi: troppo spesso calante e con difficoltà di intonazione. Dignitosa la prestazione di Giorgio Misseri.

Come detto, il pubblico assai caldo e ben disposto non ha avuto altro che applausi a scena aperta e ha poi decretato un gran successo per tutti, cantanti, direttore, orchestra e maestranze che entrano in scena per i cambi di… scena. 

Insomma, una serata che ha ampiamente superato le mie aspettative. E domani… Vick?

17 agosto, 2013

ROF XXXIV: L’Italiana in Algeri, ossia… altro petrolio


La mia personale avventura al ROF-2013 è cominciata ier sera con la terza delle cinque rappresentazioni dell’Italiana al Teatro Rossini, gremito quasi come la spiaggia di Rimini.


Quest’anno è toccato a Davide Livermore (che deve avere col ROF un contratto… vitalizio, smile!) riproporci uno dei più splendidi prodotti del genio di questi luoghi. 


Miracolo dell’invenzione registica moderna: siamo ad Algeri!

Niente Route66, niente Baku, niente MountRushmore, niente AlexanderPlatz, niente WallStreet. Però qualcosa che richiama il recente capolavoro di Castorf a Bayreuth c’è anche qui: il petrolio! Già, perché circa 150 anni dopo la composizione del dramma giocoso l’Algeria scoprì di avere sotto il culo un pochino (non certo tanto quanto ne hanno quei fottutissimi sceicchi) di oro nero, e così il regista ci ha trovato l’ambiente giusto (a suo insindacabile giudizio) per collocarci la sua Italiana.  

Poco importa che l’Algeri di 50 anni fa fosse tutto tranne che una città dedita a baldorie e sfoggio di ricchezza (vi vigeva anzi, con Boumedien,  un socialismo piuttosto austero) e che di Mustafà rossiniani ne circolassero pochi o punti. L’Algeri di Livermore (complici Bovey e Falaschi per scene e costumi) è una specie di sultanato o sceiccato del petrolio trasportato a Hollywood, un minestrone di cartone animato, avanspettacolo, zelig e parodia di quelle che facevano i simpatici del Quartetto Cetra al sabato sera.

Ma alla fine va bene così, compreso il disastro aereo (ma senza conseguenze) che sostituisce l’originale naufragio. Però, accipicchia: petrolio e incidente aereo che coinvolge italiani, a metà del secolo scorso… vien in mente qualcosa di drammatico e assai poco giocoso: Mattei (?!) Ah già, ma Livermore è mica quello che ha infilato la strage di Capaci nei Vespri? Ecco…

Dopodichè l’impresa di mettere in parodia e buttare in ridicolo un soggetto che è già in partenza giocoso o buffo o farsesco non è delle più semplici, diciamolo francamente. E allora il regista e i suoi compari si inventano, in barba al recitar-cantando, il ballar-cantando; dico, non c’è una sola nota di Rossini che sia stata emessa (da interpreti, coro maschile e figuranti assortiti) senza molleggiamenti, mossette da swing o balletti da avanspettacolo! Il che per un po’ diverte, ma dopo 2 ore e mezza rischia francamente di stomacare.

Insomma, una proposta che si può anche digerire, come certi avanspettacoli di 40-50 anni fa allo Smeraldo di Milano (smile!)   

Sul fronte… serio conferme e smentite rispetto alla radioaudizione di sabato scorso.  Le prime vengono da Alex Esposito, che ha riempito il piccolo spazio del Rossini con la sua bella voce brunita, aggiungendovi una gran dose di teatralità (comprese alcune cadute di stile, come l’imbottirsi di viagra e lo spararsi nelle palle, imputabili esclusivamente a Livermore).

Anche Yijie Shi si conferma solido interprete di questi ruoli Lindoriani: chi ha avuto la fortuna di sentire dal vivo Duprez (smile!) non potrà non farci un chiaro accostamento.

Brava anche la Mariangela Sicilia, che ha una voce tanto potente quanto forse non ancora ben… addomesticata. Però nei concertati sovrastava tutti gli altri.

Una menzione anche per Davide Luciano, che canta l’aria forse più mozartiana di tutta la produzione di Rossini (Le femmine d’Italia, un vero gioiellino): e lì il nostro si è davvero ben destreggiato.

Mario Cassi (Taddeo-babbeo) e Raffaella Lupinacci (Zulma) su uno standard di sufficienza.

Chi francamente mi ha deluso (rispetto all’ascolto via radio) è Anna Goryachova: forse per la trasmissione le avevano sistemato un  microfono direttamente in faringe (stra-smile!) Fatto sta che, pur nell’angusto spazio del teatrino pesarese, la sua voce si stentava proprio a percepirla. In compenso, dal vivo si son potute apprezzare altre sue pregevoli qualità: prima fra tutte, quella di essere una gran gnocca!

Il coro dei maschietti di Andrea Faidutti mi è parso all’altezza del compito, gravato oltretutto dai compiti supplementari imposti dal regista.

Orchestra non al meglio, direi, con diverse sbavature (corni, ma non solo) e Direttore (Encinar) a livello di dignitosa routine, nulla più.

Alla fine applausi per tutti (Esposito ne ha mietuti di più) e pubblico (come al solito cosmopolita) tutto sommato soddisfatto e sorridente.
     

13 agosto, 2013

ROF XXXIV: dopo le “prime” alla radio


Come introduzione alle prossime visioni dirette, ho seguito la tre prime del cartellone principale diffuse nei giorni scorsi da Radio3, presente sui luoghi pesaresi con la voce di Giovanni Vitali, ormai diventata una piacevole tradizione (a proposito: forza Maggio!)

Ecco quindi qualche impressione, ovviamente condizionata, nel bene e nel male, dalla… tecnologia, che può far apparire Berlusconi come un Cavour e Stalin come un SanFrancesco…
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L’Italiana che ha aperto – sabato 11 agosto, a 200 anni e 3 mesi dalla prima a Venezia! - la rassegna di quest’anno è una delle opere veterane del festival, essendo alla quinta comparsa, dal lontano 1981, epoca in cui, tanto per dirne una, era ancora in attività tale Sesto Bruscantini, una specie di archètipo del baritono rossiniano.

Anna Goryachova (già un apprezzabile – o un’apprezzabile? hahaha - Edoardo nella Matilde del 2012) ha dato buona prova di sé, confermando pregi e difetti della sua constituency: convincente nell’ottava alta, assai meno in quella inferiore. Yijie Shi ha mostrato la sua vocina piccola e graziosa, creando un Lindoro interessante.
 
Un Mustafà dignitoso mi è parso Alex Esposito, che ha evitato facili gigionaggini, in favore di una concreta prosaicità.

Mariangela Sicilia e Mario Cassi hanno fatto del loro meglio per proporci le figure dei due sfigati della vicenda: lei e lui che nemmeno vengono cagati dai rispettivi partner!

La nota non propriamente entusiasmante di questa produzione è di proprietà, nuda, unica ed indivisibile del Kapellmeister: tale Encinar sembra essere stato catapultato a Pesaro a sua totale insaputa. Lui che Rossini lo conosce solo di… fama (smile!) ha diretto, mi è parso, come avrei diretto io: chiedendo all’orchestra di suonare come sa e… tirando continuamente il freno a mano (insomma, per fare un paragone enologico, ho sentito un’Italiana invece che frizzante, ferma).
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Domenica poi il tanto atteso Tell.

Quest’anno l’ultimo lascito operistico del buon Gioachino è tornato al ROF dopo 18 anni dall’esordio. Qui sul tubo si può seguire l’edizione del 1995 con Gelmetti e i musicisti di Stoccarda, Praga e Cracovia (regìa di Pizzi).  

Merito principale, se non esclusivo, di quell’edizione è di aver presentato l’opera così come licenziata in edizione critica dalla Fondazione Rossini. Nella fattispecie, il Tell edito da M.Elizabeth C. Bartlet, pubblicato nel 1992 e comprendente (tanto per citare due esempi macroscopici che lo differenziano dalle poche edizioni e dalle rare rappresentazioni) il Pas de deux del primo atto (fra il Pas de six e il Pas d’archers, da 1h2’55” a 1h10’53” nel filmato citato) e l’aria di Jemmy (Ah que ton âme se rassure) del terz’atto, subito prima della scena-madre del tiro-alla-mela (da 3h06’38” a 3h13’00”, sempre nel filmato citato).

Uno dei meriti del ROF è sempre stato quello di offrire le opere in forma integrale: per il Tell la cosa è invero rimarchevole, dato che questo capolavoro va rispettato come si fa, per dire, con i drammi di Wagner, di fronte ai quali non sfigura di certo, anzi… E quando la musica è a questi livelli, la durata dello spettacolo non può di sicuro essere un problema, anzi si vorrebbe non finisse mai.

Ebbene, in questa edizione (che c’entri lo zampino di Vick?) il Pas de deux è stato invece cassato (forse per consolare… Ghedini? stra-smile!) È stata invece proposta l’aria di Jemmy, mentre altri piccoli tagliuzzi sono stati comunque perpetrati alla partitura, così, tanto per risparmiare forse 2-3 minuti del tempo prezioso di tutti noi. Fra questi anche l’invocazione degli austriaci e dello stesso Gestler a Tell perché li salvi dal naufragio, nella scena settima dell’atto finale.

Insomma, l’aspetto, come dire, filologico dell’operazione sa assai di… illogicità.

Sulla natura del Tell si è scritto e si discute molto, e si sono formate scuole di pensiero: c’è chi la cataloga come opera romantica, chi invece la definisce come l’estrema evoluzione del Rossini classico e settecentesco. Una cosa è certa: chiunque ascoltasse l’Italiana (non dico l’Occasione) e poi il Tell, senza saper nulla degli autori, giurerebbe trattarsi di due compositori diversi, anzi appartenenti a due diversi secoli!

In fondo il Tell è tutto pervaso da uno spirito eroico, che se non è romanticismo tout-court è certamente ben lontano dagli schemi del teatro italiano a cavallo dei secoli XVIII e XIX. E la musica, compresa la strumentazione, ne è la più concreta testimonianza.

Ad esempio: i corni dei cacciatori che si odono a più riprese non possono non richiamare – anche nella tonalità - il Trio dello Scherzo dell’Eroica:


E una sezione del coro finale del terz’atto (che grida la sua ribellione contro il tiranno) richiama scopertamente, fin nella tonalità (FA maggiore) l’enfatica perorazione dell’Egmont beethoveniano:

Credo proprio che la cosa non sia affatto casuale: Egmont, in fin dei conti, incarna (qualche secolo dopo) le stesse aspirazioni alla libertà che sono al fondo della vicenda di Tell. E Goethe, che ne scrisse la tragedia, è proprio la mente che fa da cerniera, da snodo, fra classicismo e romanticismo. Precisamente come Beethoven in campo musicale…

Insomma, un Rossini che certo non fu colpito dal fulmine romantico sulla strada di… Parigi, ma che seppe cogliere e interpretare da par suo tutti i fermenti che si agitavano attorno a lui. Per dire, Der Freischütz è di 8 anni anteriore, e imperversava a Parigi proprio negli anni in cui Rossini pensava e poi componeva il Tell… e si sente! E nella musica di alcune danze del Tell pare di ritrovare atmosfere schubertiane della Rosamunde.   

E a sua volta il Tell non mancò di lasciare segni sui posteri: Wagner, nel suo famoso incontro col maestro a Parigi, non fece che lodare le bellezze e le innovazioni dell’opera. Di cui troviamo tracce in opere di compositori francesi, come Bizet. E di cui scopriamo reminiscenze persino impercettibili a 70 anni di distanza: ecco come un inciso dell’Introduzione del Primo Atto verrà ripreso alla lettera (a parte la tonalità) da Mahler, nell’Andante moderato della Seconda Sinfonia:


Orbene, come ce lo ha propinato il Mariotti-jr? Al di là delle intenzioni (confidate al tollerante Vitali) mi pare ci abbia messo tutta la carica innovativa del pesarese-trapiantato-a-Parigi. Certe attenzioni ai dettagli, come l’affidare a pochi strumenti gli incipit delle danze, ne sono la testimonianza.

Così come la consumata (ormai possiamo dargliene atto) capacità di tenere insieme interpreti singoli e masse corali. E proprio il coro di Andrea Faidutti ha risposto da par suo, interpretando al meglio il ruolo di co-protagonista del dramma, e in tutte le sue declinazioni: fanciulle, svizzeri, austriaci, buoni e cattivi. L’Orchestra lo ha assecondato abbastanza bene (vedi il quintetto dei celli) con qualche (inevitabile?) imprecisione negli ottoni.

Fra gli interpreti, ovvia la curiosità e l’attesa per l’Arnold di JDF. Nourrit o Duprèz? O una sintesi dei due? (che come tutte le sintesi finisce per perdere qualcosa dei componenti). Mah, una prestazione degna anche se non da… sballo. Speriamo che il DO (spurio) dell’All’armi finale non abbia convinto il tenore a vestire in futuro i panni di… Manrico (smile!) Insomma, lui le note le ha cantate tutte, ma basta questo?

Tell era Nicola Alaimo, apparso all’altezza del compito, con qualche problema di… autorevolezza (leggi, un timbro un filino più pesante).

Una bella sorpresa la Mathilde di Marina Rebeka, mentre Veronica Simeoni si è ben distinta nei panni della moglie di Tell. Amanda Forsythe non più che discreta come il piccolo Jemmy e Simon Orfila un Walter passabile.

Celso Albelo era il pescatore, che deve cantare due DO acuti: il primo gli è uscito… a metà, l’altro appena-appena meglio: per fare Arnold dovrà mangiar polenta (smile!

Gli altri quattro interpreti si son guadagnati onestamente la pagnotta.
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Lunedi è stata la volta della ripresa de L’Occasione, che si vide per la prima volta nel 1987 con Accardo. Esordio sul podio, nel cartellone principale, per la cinesina Yi-Chen Lin, che prova a seguire, in campo operistico, le orme della più famosa Zhang Xian: mi è parso che ci abbia messo la giusta verve.

Bene i due buffi, soprattutto Roberto De Candia (ma anche Paolo Bordogna non ha sfigurato).

Pessimo, ahilui, Enea Scala, che sopra il FA acuto si impicca e si ingola che è un (dis)piacere. Sui SIb poi pareva un cappone cui vien tirato il collo.

Note positive invece dalla Elena Tsallagova, gradevolissima vocina che sale come nulla fosse e senza urlacchiare fino al MIb.

Giorgio Misseri e la Viktoria Yarovaya su standard appena appena accettabili.

In complesso una serata gradevole, più da Accademia (con tutto il rispetto) che da cartellone principale.
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A proposito di Accademia, il suo papà (da 25 anni) Alberto Zedda ha confessato a Vitali i titoli del ROF XXXV: nuovo allestimento di Armida (Ronconi); prima assoluta dell’Aureliano (con Martone, cui doveva andare il Tell di quest’anno…) e Inganno felice (così torna Vick anche nel 2014).
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Nei prossimi giorni le mie esperienze dirette.

09 agosto, 2013

ROF XXXIV: il cartellone principale


Qualche nota, per lo più di natura statistica, sul cartellone principale del ROF 2013, che prende il via domani.

Apre L’Italiana in Algeri, la cui prima apparizione al ROF risale al 1981 (seconda edizione del festival) con i grandi Ramey e Bruscantini. Seguì una ripresa nel 1982. Nuovo allestimento, di Dario Fo, nel 1994, ripreso nel 2006.

Tre delle precedenti apparizioni furono dirette da Donato Renzetti. Per questa quinta comparsa l’opera è affidata a Davide Livermore (ormai di casa da queste parti) per la regìa e a José Ramón Encinar per la concertazione.     

Ecco poi il Guillaume Tell, che è al suo secondo passaggio al ROF. Il primo avvenne nel 1995, con la coppia Gelmetti-Pizzi e un cast in cui spiccavano Pertusi, Kunde, Dessì e Bacelli.

Tre sono i motivi principali (epidermici, magari) di interesse di questa nuova produzione: Florez come Arnold, la direzione di Mariotti-jr e la regìa di Vick, che forse si è ispirato a questo…
tera-smile!

Terzo titolo in programma L’occasione fa il ladro, che apparve per la prima volta al ROF nel 1987, con la regìa del grande Jean-Pierre Ponnelle, ripresa poi dall’ammerecana Francesca Zambello nel 1989 e ancora nel 1996 da Sonja Frisell, che ne cura la messinscena anche per questa quarta tornata.

Insomma, dopo 26 anni, ancora le cose fatte da gente con la testa sulle spalle e senza grulli per la testa resistono a tutte le ondate lanzichenecche del Regietheater!

Solo un cenno per Il viaggio a Reims, che è ormai diventato una specie di… palestra per l’Accademia rossiniana (alle 11 del mattino solo degli autentici stoico-masochisti, o sedicenti talent-scout, possono preferire il chiuso di un teatro alla bollente sabbia adriatica, stra-smile!)

Chiuderà il festival, come di consuetudine, l’esecuzione in forma di concerto di un’opera diretta dal venerabile Alberto Zedda che, con Gossett, Cagli e Mariotti-sr, è un po’ il nonno, il papà, lo zio e ormai anche il figlio e il nipotino del ROF, a 85 anni suonati!

Si tratta de La donna del lago che, come l’Italiana, fece la sua prima apparizione al ROF nel lontano 1981, con Maurizio Pollini (!) sul podio, poi ripresa nel 1983. Nuova produzione (Ronconi e Gatti) nel 2001 con un super-cast (JDF, Devia, Barcellona).

Per chi passa da quelle parti, solita e benemerita proiezione in Piazza del Popolo (c’è anche la disponibilità di un gelato o di una coca… non compresi nell’offerta gratuita!)
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Il mio ruolino di marcia, dopo l’ascolto delle prime via Radio3 (10-11-12) prevede la timbratura del cartellino il 16, 18, 20 e 23 (seguiranno impressioni…)