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da stellantis a stallantis

30 ottobre, 2010

Zauberflöte al Grande

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Ancora il Circuito Lirico Lombardo in evidenza, con la mozartiana Zauberflöte. Una recente co-produzione di Jesi-Treviso-Fermo che viene ripresa in Lombardia. Dopo le due rappresentazioni al Ponchielli di Cremona, è approdata al Grande di Brescia (poi a gennaio sarà a Como e Pavia). Come sempre, l'orchestra è quella dei Pomeriggi Musicali, in questa occasione condotta dall'albionico Oliver Gooch, con il coro diretto da Antonio Greco.

La regìa e i costumi sono del pregiato marionettista Eugenio Monti Colla. Insieme a Roberto Gritti, che manovra le luci, ha allestito un Flauto in cui convivono in modo intelligente e piacevole i diversi aspetti dell'opera: quello magico, quello massone e quello popolar-leggero. Insomma, ha coadiuvato al meglio il grande Teofilo, che riuscì a padroneggiare mirabilmente con la sua divina ispirazione - cavandone uno dei capolavori più straordinari del teatro musicale - il bizzarro intruglio partorito dalla mente un po' troppo fervida di Schikaneder.

Da 220 anni studiosi, critici, recensori ed esegeti si sbizzarriscono a trovare - spesso inventandosele per mettersi in mostra – le altezze (e le magagne) e le più recondite e cerebrali significanze che si celerebbero nell'opera. Cercando ad esempio di spiegare (o di dimostrarne l'insussistenza) le palesi contraddizioni e bizzarrie del libretto. Chi – uno per tutti, Massimo Mila - attribuendole a un qualche incidente di percorso – accaduto durante la composizione dell'opera - che avrebbe portato il librettista-cantante-guitto-gaudente (e Mozart al seguito) a stravolgere tutta la trama originaria del Flauto – derivata dalla Lulu di Liebeskind – e nientemeno che a ribaltare, dopo 2/3 del primo atto, le personalità dei due sovrani. E chi - uno per tutti, Sergio Sablich - ad affannarsi a spiegare e dimostrare il contrario, e quindi la perfetta e mirabile concezione unitaria dell'opera, con argomentazioni tanto dotte e sottili, quanto poco razionali.

Quanto poi ai nobili fini etici e morali che sarebbero alla base dell'opera, basterà ricordare come le femmine ribelli (per così dire) vi fanno tutte una brutta fine, chè la teoria e pratica massonica relegava la donna a ruoli decisamente subalterni (le femministe avrebbero parecchio da ridire sul razionale presentato dal sapientone-massone Sarastro per giustificare la restrizione di libertà imposta alla povera Pamina: Un uomo deve guidare i vostri cuori, poiché senza di lui suole ogni donna deviare dalla via che le è propria. Le parole saranno anche auliche, ma il concetto resta quello che usava ripetere il simpatico Bracardi: la dona c'ha 'n cervelo de galina!)

Insomma, Monti Colla non ha cercato minimamente di coprire le magagne del libretto, che sono molte e piuttosto clamorose, e la sua regìa lascia perciò aperte tutte le domande che lo spettatore inevitabilmente si pone: perchè Astrifiammante ci viene presentata come regina del bene e madre offesa, nel primo atto, e poi campionessa del male e aspirante terrorista nel secondo? A proposito, se la Regina rappresenta il male, perché allora fa distruggere il male-serpente per salvare Tamino? E perché non ha usato le armi (che più tardi scopriremo possiede) per difendere Pamina dal sequestro di Sarastro? E perché presenta i tre fanciulli-angeli-custodi come suoi fedeli, se invece si scopre dopo che questi sono al servizio e alla corte di Sarastro? A proposito del quale, se non è (più) un tiranno sanguinario, ma il sommo sacerdote della nobile massoneria, perché ha commesso un odioso delitto (il sequestro di persona) per strappare Pamina alla madre prima di incontrare l'aspirante-iniziato Tamino, giudicato idoneo a guidare la principessa sulla retta via? E come mai ci sono degli schiavi nella sua reggia? E perché tiene al suo servizio Monostatos, un bieco aguzzino (per poi divertirsi a punirlo ripetutamente)?

Parliamoci chiaro, non ci fosse sotto la musica del divino Mozart, questa sarebbe una farsa, e pure mal riuscita, come un tale Richard Strauss, che di teatro musicale si intendeva appena un pochino, non esitò a rilevare. Monti-Colla si limita – meritoriamente – a presentarci ciò che troviamo scritto su libretto e partitura, mostrandoci il serpentone-drago con fumanti narici, fatto secco dalle tre dame (e questa è effettivamente una libertà) con colpi di bacchetta magica, i tre genietti che svolazzano sopra una bianca nuvoletta, i leoni di Sarastro che muovono le minacciose mascelle di cartapesta, le belve che fanno capolino al suono del flauto di Tamino, e i diversi paesaggi e palazzi dove si svolge la trama. I personaggi si muovono il minimo necessario, salvo Papageno che interpreta al meglio il ruolo da macchietta che Schikaneder si era costruito per sè.

Quanto alla musica, Gooch ne dà un lettura convincente, nella qualità ed anche nella quantità, facendoci ad esempio ascoltare tutti i ritorni del Dreimalige Akkord previsti nella scena parlata all'inizio del secondo atto. A proposito di parlato, è pesantemente tagliato, come sempre, ma forse meno di altre volte. Francamente rimane sempre il dubbio sulla sua efficacia in generale e particolarmente nel caso di rappresentazioni davanti ad un pubblico di lingua non krukka. Assolutamente all'altezza il coro di Greco.

La compagnia di canto si è dimostrata di livello più che accettabile, a partire dai due principi innamorati, il Tamino di Leonardo Cortellazzi e la Pamina di Serena Gamberoni.

Filippo Bettoschi, assai bravo nella parte attoriale di Papageno, se l'è cavata piuttosto bene anche sul fronte voce, ricevendo un particolare applauso all'uscita singola.

L'Astrifiammante Regina della notte è Clara Polito. Che mostra qualche affanno nelle parti più spiccatamente virtuosistiche: per la verità arriva abbastanza bene ai diversi FA sovracuti che la sua parte comporta.

Il Sarastro di Stefano Rinaldi Miliani ha tutta la necessaria autorevolezza scenica: l'unico appunto che gli si può muovere è la scarsa udibilità del famoso FA sotto il rigo, sul doch della sua reprimenda a Pamina.


Dignitoso anche il Monostatos di Anicio Zorzi Giustiniani, forse meno cattivo di quanto servirebbe. Laura Catrani assolve bene il suo compito (del resto limitato nella quantità) nei panni di Papagena.

Le Dame Loredana Arcuri, Angela Nicoli, Lorena Scarlata e i Genietti Silvia Spruzzola, Beatrice Palumbo, Simona Di Capua sempre gradevoli nelle loro ripetute apparizioni. Han fatto del loro meglio anche Alessandro Calamai e Marco Voleri, nei panni dei Sacerdoti/Armigeri.

Dopo che, durante la rappresentazione, erano praticamente mancati applausi a scena aperta, grandi ovazioni e trionfo per tutti alla fine.

29 ottobre, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 8




Sempre ed ancora Mahler all'Auditorium, sul cui podio questa settimana sale il magiaro Adam Fischer, che diventò famoso – purtroppo per noi – in un momento assai triste per la musica (italiana in particolare, ma non solo): la scomparsa di Giuseppe Sinopoli. Era la primavera del 2001 e Sinopoli avrebbe dovuto tornare a Bayreuth a fine luglio per la sua seconda stagione (su 5) di Ring. Fu proprio Adam Fischer a sostituirlo – con merito, va detto subito - per quell'anno e per i tre successivi. Da allora Fischer ha accumulato 62 presenze sul podio della collina verde, dirigendovi anche Parsifal (2006 e 2007).

 
Ma lui dev'essere proprio destinato a sostituzioni dell'ultima ora: esattamente una settimana fa è stato chiamato d'urgenza a Monaco per rimpiazzare, in uno dei concerti dell'Orchestra della Radio Bavarese, il titolare Mariss Jansons, improvvisamente ammalatosi. Poi è andato con quell'Orchestra in una tournée in Spagna, da cui è rientrato il 25 ottobre, giusto in tempo per annunciare le sue dimissioni dall'Opera di Stato di Budapest, di cui era in pratica Direttore musicale; motivo: interventi del nuovo governo di destra (vuoi vedere che Bondi ha fatto scuola anche laggiù? smile!) che avevano già portato alla sostituzione del Direttore artistico.

 
Si comincia con Gli addii dell'imparruccato Josephus Haydn. Alla prima di questa sinfonietta, nell'estate del 1772, c/o Estheráz, residenza estiva dei principi di cui Haydn era musico stipendiato, accadde una cosa alquanto insolita: durante l'ultimo movimento, al presto improvvisamente subentrò un adagio (che strano…) al che gli orchestrali, uno dopo l'altro, spensero il lume sul leggio e se ne andarono alla chetichella, lasciando lo stesso Haydn e il primo violino a chiudere la sinfonia. Qui il momento in cui se ne va anche l'ultima viola:

La geniale trovata servì a far capire al principe Nikolaus, padrone di casa, che era finalmente ora di chiudere bottega e tornare tutti alle rispettive dimore ed alle proprie mogli, su ad Eisenstadt (distante peraltro meno di 50 Km) mettendo fine ad una vacanza (del principe) più lunga e noiosa del previsto (per gli orchestrali).

 
Fischer, che viene proprio dagli stessi paraggi dei principi austro-ungarici, mostra di saperla lunga anche in fatto di Haydn (non per nulla ne ha registrato tutte le sinfonie proprio nel palazzo Esterhàzy di Eisenstadt!) e ci regala un'esecuzione gradevolissima, che rispetta anche il copione scenografico, con i professori che se ne vanno in punta di piedi e - non essendovi lumi da spegnere sui leggii – con le luci sopra il palco che vengono progressivamente ridotte di intensità, fino a creare quasi il buio totale allorquando se ne va anche Fischer, lasciando Luca Santaniello e Lycia Viganò ad esalare – allontanandosi dalla scena - gli ultimi accordi di FA#.

 
Insomma, ci sono le dovute sceneggiate, ma per fortuna non le pagliacciate che si son viste proprio a casa di Haydn!

 
Il piatto forte è la Settima sinfonia di Mahler, introdotta prima del concerto da Carlo Lanfossi, che ha cercato di spiegare come mai questa sinfonia non ha mai incontrato grande popolarità. Forse perché, dopo le notevoli innovazioni portate (in senso positivo) dalla quinta e (in senso involutivo) dalla sesta, qui sembra che Mahler senta quasi il bisogno di ritornare indietro, magari proprio alla quinta, ma in realtà anche alla sua seconda. Intanto la macro-struttura è quasi identica a quella della seconda: due movimenti estremi, fra loro labilmente collegati dal ritorno del tema principale, e tre movimenti intermedi (due andanti e uno scherzo) che paiono quasi fuori dal contesto (ed infatti le due Nachtmusik furono composte per prime, assieme al completamento della sesta, un anno prima dei restanti tre movimenti).

 
Qui non ci sono voci umane, ma il programma interno richiama assai la Auferstehung, oltre che la quinta, magari in abito borghese e in versione laica, dalle stalle alle stelle (smile!) Si inizia quasi con un calvario (anche se non è proprio il mortorio della Totenfeier, nè lo spettrale richiamo della trombetta della quinta, ma poco ci manca). Qui è il corno tenore in SIb, dislocato da Fischer fra tromboni e tuba, ad aprire in un'atmosfera per nulla idilliaca:
Tutto il primo movimento lascia trasparire uno sforzo continuo per scalare impervie asperità, in cerca di qualche provvisorio altopiano dove respirare aria pulita. È vero che poi si chiude in MI maggiore, ma nulla prima di allora giustificava eccessivi ottimismi.

 
Ecco la prima Nachtmusik, costellata da marce ora faticose, ora più scorrevoli, sempre oscillante fra maggiore e minore (come si sente la vicinanza di composizione con la sesta…) È un ambiente simile a quello dei berlioz-iani pellegrini dell'Harold, qui in più ci sono anche dei campanacci (forse per ammortizzarne il costo – smile! - dopo l'impiego nella precedente sinfonia) pur se limitati a pochissime battute. Segue il cupo scherzo, una specie di sgangherato walzerone da halloween, che rivaleggia in bizzarria con la predica di SantAntonio ai pesci della seconda (quello della quinta, diciamolo pure, è al confronto di livello nobile). Una nuova Nachtmusik comincia ad introdurre un po' di pace e serenità, anche se siamo più al Prater che al Musikverein, con tanto di chitarra e mandolino (meno pacchiani, peraltro, del martellone della sesta, trattandosi pur sempre di strumenti a corda, smile!)

 
Da ultimo arriva il Rondò, che contiene dentro di sè molto teatro (e non parlo dei Meistersinger, né della Vedova Allegra, che pure vi aleggiano chiaramente) e chiude la sinfonia, dopo un ritorno preoccupante del primo tema del movimento iniziale, in modo quasi esilarante, come a voler scacciare - proprio mentre si affacciavano per davvero all'orizzonte, guarda caso – i fantasmi che Mahler si era inventato nella sesta.

 
Adam Fischer, che dirige a memoria, ne dà – a mio avviso - un'interpretazione del tutto convincente: tempi sempre stringati, nessun cedimento a sdolcinamenti o rilassatezze, cui pure un Direttore sarebbe tentato, in particolare nelle due serenate… Ne esce una settima che mostra, accanto ai limiti ahimè congeniti, tutte le sue interessanti qualità: appunto, come è stato scritto, interessante, non bella!

 
Splendida invece la prestazione dell'orchestra, lungamente acclamata alla fine, con le diverse parti e sezioni giustamente chiamate da Fischer a ricevere applausi speciali.

 
Il prossimo appuntamento è tutto russo, con Stravinski servito in un sandwich di Rimski.
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22 ottobre, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 7



Altra tappa della lunga marcia mahleriana, il settimo concerto de laVerdi. In programma, dopo un antipasto mozartiano, la monumentale Auferstehungs-Symphonie, con il malesiano d'adozione Claus Peter Flor sul podio (ma Xian Zhang è stata vista aggirarsi in platea...) Alla vecchia conoscenza de laVerdi il clima equatoriale deve far bene, viste le sue rotondità (smile!) che, insieme alla capigliatura, lo fanno apparire in distanza come James Levine.

 
Con un'orchestra poco più che cameristica (dove i due corni sono posti a destra del podio) è il 28enne Martin Helmchen ad aprire il concerto con il K503 di Mozart. È quello dove compare un tema che (prima in modo minore, poi in maggiore) assomiglia vagamente alla Marsigliese. Nel caso di contestazioni di plagio, pare debba darsi ragione a Mozart, chè Allons enfants venne al mondo – si dice - qualche mese dopo.

 
A proposito di plagi, o più bonariamente di citazioni, l'Allegretto conclusivo si apre con una citazione quasi letterale di una gavotta dai balletti dell'Idomeneo. Ma anche lo Stravinski del Pulcinella, affermando di rifarsi a Pergolesi (in realtà ad altri musicisti settecenteschi, quali Gallo e Monza) ci propina la stessa (quasi) melodia, solo spostandone l'accentazione:
Sappiamo che Mozart attinse a piene mani idee e spunti da opere di musicisti italiani e non (proprio con Il Prigioner superbo di Pergolesi è stata rilevata una rassomiglianza notevole dell'ouverture della Zauberflöte) per cui non è da escludersi che per questo tema anche lui si sia ispirato – 140 anni prima – alle stesse fonti del musicista russo…

 
Il bravo Martin Helmchen interpreta questo gioiellino quasi in punta i piedi, con grazia e delicatezza tutta settecentesca. Ci offre anche un bis, sempre mozartiano, meritandosi calorosi consensi.

 
La Seconda di Mahler – introdotta prima del concerto dal musicologo-pianista-compositore Pietro Dossena - è una di quelle composizioni costruite da un musicista in disperata ricerca di se stesso e di una strada maestra che ancora non è riuscito a trovare (perché obiettivamente – a meno di non essere fuori dal mondo, come tale Bruckner, oppure di adeguarcisi borghesemente, come Strauss - trovare strade maestre nella musica, a fine '800, non era propriamente uno scherzetto, dovendosi l'artista muovere costretto fra i denti della tenaglia Wagner-Brahms). Ha scritto in modo fulminante Ugo Duse: Egli (Mahler) si trova al centro del problema sinfonico.

 
E per la verità, in questo problema, ci si dibatte come un pesciolino fuor d'acqua: scrive dapprima un Poema sinfonico in 5 parti, che poi – depennato Blumine – rinomina arditamente Sinfonia in RE maggiore. Prima ancora di farla eseguire ha già scritto una Totenfeier, un ibrido fra una marcia funebre e un'anticipazione ipertrofica della Tod und Verklärung (priva – per il momento - di Verklärung) che il suo futuro amico-rivale Richard Strauss comporrà di lì a poco. (Siamo accanto alla tomba di una persona amata, scrive Mahler in uno dei suoi, poi rinnegati, programmi. Strauss immaginerà invece di essere al capezzale di un moribondo, per la cronaca). Ci infila un Dies-Irae, à la Berlioz, poi una scimmiottatura dell'Andante moderato del terzo movimento della nona beethoveniana. Quando la fa sentire al pianoforte a Hans von Bülow, manca poco che questi non lo strozzi seduta stante! Ma proprio ai funerali del cornuto-da-Wagner Mahler troverà l'ispirazione per il tempo conclusivo della sua seconda: ascoltando l'ode funebre di Klopstock.

 
Nel frattempo il nostro aveva già aggiunto al minestrone: un assai poco sinfonico, e a tratti pure sguaiato Ländler (forse per scimmiottare gli stucchevoli minuetti settecenteschi) e poi – ma sì, esageriamo! – non uno, ma ben due Lieder dal Wunderhorn (uno senza e uno con parole). Il primo è la Predica di Sant'Antonio ai pesci; il testo – che qui non si ode – ci dice che ascoltano attentissimi, nell'ordine: carpe, lucci, stoccafissi, anguille, storioni, gamberi e tartarughe. Finita – e piaciuta - la predica, se ne tornano ciascuno alle proprie occupazioni… precisamente come i comuni mortali! (dico: in una sinfonia? smile!) Il secondo (Luce primordiale) è invece supportato dalla nobile voce del contralto, e procede su una melodia di spiccato ascendente bruckneriano; curioso che, a sbarrare la strada dell'Uomo verso Dio, non sia qualche bieco lucifero, ma un angioletto! (Ma questo, amici miei, era l'ambientino del Wunderhorn).

 
Infine Mahler, reduce dal funerale di von Bülow, chiuderà il tutto con l'Auferstehung, e avrà una bella pretesa a chiamare sinfonia un pot-pourri del genere. Ma di peggio farà con la successiva Terza, limitata all'ultimo momento, e solo per aver di che chiudere la Quarta, a sei movimenti, invece che sette (Messiaen arriverà appena 50 anni più tardi a scrivere una sedicente sinfonia – Turangalila – in dieci movimenti!)

 
Insomma, la seconda è un gigantesco (e sufficientemente confuso) agglomerato di idee, sentimenti, sensazioni, imprecazioni, prediche e preghiere. Formalmente indefinibile, come la sua stessa genesi del resto spiega benissimo: due movimenti estremi - labilmente collegati da un paio di motivi - e tre movimenti centrali piuttosto avulsi dal contesto. È sempre abbastanza piaciuta, e ancor oggi piace, forse proprio perché non soggiace a regole rigide, è una specie di fantasia costruita con musica ora drammatica, spesso orecchiabile, a volte tronfia ed enfatica, e infine nobilmente religiosa.

 
Per dire, un tema come questo, che compare nel primo movimento, è più tipico di un Lied o di un'Aria d'opera che di una sinfonia, non lo si può negare:
E infatti ritorna poi nel finale, a sostenere la teatrale e fugata perorazione del coro, sui versi della redenzione:
E tutto il Finale, più che un movimento di sinfonia, assomiglia ad una teatrale cantata sulla fine del mondo, con tanto di trombe del giudizio e resurrezione dei corpi. Certo, la strada per simili trovate era stata aperta – involontariamente? – da tale Beethoven e pure il classico Mendelssohn ci si era una volta inoltrato, con la sua Lobgesang. Ma Mahler va oltre, mettendoci anche un'orchestrina supplementare (4 trombe, 4 corni, timpani, grancassa, piatti e triangolo) piazzata in lontananza (Verdi aveva fatto, con più parsimonia, qualcosa del genere, ma in un Requiem, non in una sinfonia!)

 
Pertanto non ha proprio tutti i torti chi ha accusato Mahler di aver inquinato la forma sinfonica con l'Opera e il Lied, perpetrando un'operazione speculare a quella wagneriana, di inquinamento dell'Opera con contenuti sinfonici. A ben guardare, dopo Mahler si ritornò abbastanza nell'alveo delle regole, come dimostrano le poche (e spesso piuttosto velleitarie) sinfonie composte dopo di lui da Sibelius, Prokofiev e (in buona parte) da Shostakovich. Insomma, quello di Mahler fu un onesto ed apprezzabilissimo tentativo di mantenere in vita una forma musicale ormai ridotta allo stremo; uno sforzo immane, il suo, che ha dato anche risultati di assoluto valore, ma non ha potuto far altro che accompagnare amorevolmente la sinfonia sulla strada che portava – per l'appunto – al cimitero.

 
Claus Peter Flor poi, con una lettura - tutta fatta di opposti-estremismi – in cui ha pervicacemente amplificato a dismisura tutti i contrasti dinamici e agocici della partitura, ha contribuito (credo io) ad alimentare le malevole dicerie degli anti-mahleriani, che sostengono essere questa non una sinfonia, ma una sua parodia, infarcita di sesquipedali effetti senza cause.

 
Cervellotica anche la decisione, nientemeno che annunciata su un volantino allegato al programma di sala, di voler rispettare i 5 minuti di pausa fra la Totenfeier e il Ländler. A parte che qualcuno del pubblico ne ha approfittato per uscire e rientrare (magari in ritardo!) dalla sala, ma i 3 (non 5) minuti di intervallo sono serviti solo a far entrare sul palco il coro e le due soliste, assenti all'inizio: quindi buonanotte al raccoglimento (ci mancavano solo gli applausi di benvenuto!) Anche la disposizione delle soliste è apparsa assai strana: Gerhild Romberger va a sedersi sul proscenio per Urlicht, poi trasloca – mentre già l'orchestra sta esplodendo l'incipit del Finale - proprio in fondo al palco, dietro il coro, dove la attende Sibylla Rubens.

 
Il Finale è poi anche inquinato da qualche infelice incespicamento delle trombe, che peraltro non guasta la prestazione, complessivamente eccezionale, dell'Orchestra. Anche il coro di Erina Gambarini è stato come sempre all'altezza. Come pure le due soliste, nonostante la dislocazione piuttosto strampalata.

 
Alla fine, dopo tutto quel fracasso, che per la verità - venendo dopo un nobilissimo coro cantato quasi tutto sottovoce - sa molto di paradiso paesano (da Wunderhorn, appunto) applausi e ovazioni non possono comunque mancare.

 
Sempre Mahler, stavolta notturno e in compagnia di un Haydn in vena di saluti, nel prossimo concerto.
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21 ottobre, 2010

Noseda per Sesto agli Arcimboldi



Ieri sera Gianandrea Noseda ha diretto un concerto per una raccolta di fondi a supporto di iniziative socio-culturali del Comune di Sesto San Giovanni, sua città natale.

La sede era l'enorme Arcimboldi, che si trova formalmente sul territorio di Milano, ma è in realtà ad un tiro di schioppo da Sesto, e sul cui sagrato spiccano i cinque blocchi di ferro delle Scogliere (scultura di Giuseppe Spagnulo) che magari non saranno stati sfornati da qualche pressa della vecchia Falck, ma ricordano assai efficacemente l'ormai tramontata vocazione siderurgica della vicina ex-Stalingrado d'Italia.

Che da anni è alle prese con un lento ma inesorabile processo di riconversione al terziario, e dove sterminate aree, un tempo occupate da altoforni e laminatoi – Noseda dice di ricordare ancora la sirena che da ragazzino lo svegliava ogni mattina - sono divenute terreno di conquista (e campo di battaglia) per i soliti noti palazzinari, piombati qui da ogni dove, che le amministrazioni comunali (quasi ininterrottamente di sinistra, o di centro-sinistra) cercano in qualche modo di tenere a bada, per limitarne quanto meno i danni.

Il concerto è stato una specie di prova generale di quello che – proprio questa sera, 21 ottobre – inaugura la stagione del Regio. Dopo il Boris, con cui ha aperto quella operistica, Noseda si ferma quindi in Russia – paese che lui conosce bene per essere stato a lungo Direttore ospite al Mariinskij – per proporci due opere fra loro assai distanti come struttura e concezione, oltre che come data di composizione. Una curiosità nella disposizione degli ottoni dell'orchestra: corni a destra, trombe a sinistra e tromboni-tuba al centro.

Nella prima parte viene eseguita la cantata Alexandr Nevskij di Prokofiev, tratta dalle musiche che l'autore compose nel 1938 per l'omonimo film di Eisenstein, il regista della C(or)azzata (smile!) Potemkin. Film patriottico (chiaramente apologetico del simpatico Baffone) e che mette alla berlina i tedeschi dell'odiato nazista-anti-bolscevico Hitler. E quindi ritirato precipitosamente dalle sale cinematografiche sovietiche all'indomani della firma del trattato Molotov-Ribbentrop (23 agosto 1939) per esservi riammesso puntualmente il 22 giugno 1941, il giorno stesso dell'invasione tedesca (ah, la Realpolitik!)
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Dalle 21 sezioni della colonna sonora del film, Prokofiev estrasse la cantata, che è costituita da sette brani, per orchestra, voce e coro:

1. La Russia sotto il giogo mongolo: cupa introduzione in DO minore, eseguita dalla sola orchestra, a presentarci la triste condizione della Russia (attorno al 1200) percorsa dalle orde degli sbifidi invasori Mongoli. In realtà proprio Nevskij sarà piuttosto arrendevole e diplomatico con figli e nipotini di Gengis Khan (del resto assai poco interessati ad imporre religioni, molto a riscuotere le decime) arrivando ad accettare per la sua Novgorod un ruolo di vassallaggio (tributi inclusi, che lui stesso riscuoterà!) nei loro confronti, per potersi interamente dedicare con ostinazione (e ferocia, diciamolo pure) a fronteggiare le minacce cattoliche provenienti dall'occidente.

2. La vittoria di Nevskij nel 1240 sugli svedesi presso la Neva (tonalità di SIb). Le cronache - piuttosto romanzate - dell'epoca narrano di un'armata nordica (svedesi, norvegesi e finnici, guidati da tale Spiridon) arrivata dal Baltico sulla Neva - con tanto di benedizione papale e con arcivescovi al seguito - e intenzionata a conquistare Novgorod e tutta la regione del lago Ladoga, per imporvi il cattolicesimo. Nevskij, aiutato da sei valorosi eroi (e da miracoli di santi e sante in paradiso…) la domenica del 15 luglio guida il suo popolo alla vittoria sugli invasori, ai cui superstiti non resta che ammucchiare i cadaveri dei loro capi e vescovi su alcune navi e affondarle nella Neva! E proprio dal nome del fiume deriva l'appellativo Nevskij affibbiato dopo la vittoria al ventenne (!) principe Alexander Yaroslavich, di cui il coro canta il ricordo, su una nobile melodia, che è diventata un po' la sigla dell'opera:

Sì, una battaglia abbiamo sostenuto sulle rive della Neva, presso la profonda Neva, presso l'ampia Neva.

3. I crociati a Pskov, in DO# minore, dove il coro evoca i Cavalieri Teutonici e le loro visite (non propriamente di cortesia) sul suolo russo. Gli odiati Nemtsy (termine dispregiativo, tipo testa-di-rapa) che dopo Pskov si apprestano ormai a conquistare Novgorod, sono descritti da Prokofiev con parole e musica che – cripticamente o scopertamente – sono indirizzate a colpire un paio di rappresentanti, o simpatizzanti, della cultura musicale tedesca. Tanto per cominciare, i cavalieri cantano versi in latino, e già questo la dice lunga: il latino era – per i russi - la lingua del Papa di Roma e di tutti coloro che al Papa erano in qualche modo asserviti. Si ricorderà che Musorgski, nella seconda versione del Boris, fa comparire a Kromy due gesuiti polacchi, cui mette in bocca delle giaculatorie in latino, musicate in modo da rendere i due immediatamente riconoscibili, e quindi disprezzabili come vermi dal popolo russo. Qui i teutonici cantano: Peregrinus expectavi pedes meos in cymbalis, che di per sè non significa proprio un bel nulla, meno di qualunque filastrocca strampalata. Ma significa molto quando si scopre – come ha fatto un solerte soprano del BBC Symphony Chorus - che si tratta della giustapposizione di parole estratte da diversi testi della Symphony of Psalms di Igor Stravinski! Cioè di quel traditore della patria, del quale notoriamente Prokofiev aveva una considerazione (perfettamente ricambiata peraltro) che non arrivava ai talloni. Quanto alla musica, non ci vorrà molto a riconoscervi più di una somiglianza con O Fortuna, dagli ancora freschi di stampa Carmina Burana, ultimo prodotto di colui che una propaganda appena un pochino faziosa poteva far passare benissimo come cavaliere-teutonico-filo-nazista: Carl Orff. Come si vede, anche la musica può diventare, all'occorrenza, un'arma da impiegarsi sul campo di battaglia…

4. Sollevati, o popolo russo! Nevskij, che si era nel frattempo ritirato a vita privata, tornando a fare il pescatore nella sua natìa Pereslavl, sul lago Pleshcheyevo, a nord di Mosca (quasi 500Km a sud-est di Novgorod!) viene supplicato, dagli abitanti della città minacciata, di tornare a guidare la lotta del popolo russo contro gli invasori teutonici. La musica (prevalentemente in MIb, poi in RE) descrive - con campane a festa e strombazzamenti che supportano il coro, con fiero cipiglio, ma anche con calme melodie tipicamente russe - la chiamata alle armi del popolo contro gli invasori:

Sollevati, o popolo russo a gloriosa, a mortale battaglia! Sollevati, popolo libero e difendi la nostra amata patria!

5. La battaglia sul ghiaccio del lago Chudskoye (al confine fra Russia ed Estonia) combattuta il 5 aprile del 1242, un sabato (dopo la domenica sulla Neva: evidentemente i week-end a quei tempi - in mancanza del campionato - erano dedicati allo sport della guerra). Lì, sullo stretto che collega la parte settentrionale del lago (Peipus) con quella meridionale (Pskov) presso una località chiamata roccia del corvo Nevskij sconfigge i Cavalieri Teutonici (e i loro alleati estoni Chud) guidati dal principe-vescovo Hermann di Buxhöveden. La cronaca romanzata, e mostrata nel film, ci informa che Nevskij, dopo un'intera giornata di battaglia corpo-a-corpo (incluso un suo vittorioso duello equestre con lo stesso Hermann) respinge i crociati sul ghiaccio del lago, che crolla sotto il peso delle loro metalliche armature e li inghiotte, ibernandoli direttamente! In realtà, magari, la vittoria dei russi fu specialmente dovuta al loro numero enormemente preponderante (ma ciò dichiarano gli sconfitti, toh!) Nella musica che accompagna la battaglia si trova anche un poco di Bruckner (introduzione della terza sinfonia) e ancora i Carmina dei Teutonici, che hanno la lezione che si meritano.

6. Il campo della morte, in DO minore. Una fanciulla, Olga, cerca il suo amato fra feriti e deceduti nella feroce battaglia. Il suo mesto e ansioso peregrinare è sottolineato dalla voce del mezzosoprano, presente soltanto in questo numero, che canta una straordinaria melodia:

A colui che cadde per la Russia in morte nobile, io bacerò i morti occhi, accarezzerò la sua fredda fronte.

7. Nevskij entra trionfalmente in Pskov riconquistata (in SIb maggiore). L'accordo che introduce il brano sembra portarci – non a caso – davanti La Grande Porta di Kiev di Musorgski. Ma subito il coro intona nuovamente – qui con grande enfasi - il nobile canto del secondo brano, e poi quello del quarto, per sottolineare l'apoteosi del popolo intero:

Nessun nemico calpesterà la nostra grande Russia! Sollevati in armi, nativa madre russa!

Si chiude con la gloria al Principe, che verrà addirittura canonizzato dalla Chiesa ortodossa, che gli ha dedicato più di una cattedrale (come quella di Parigi, costruita a metà dell'800).

Noseda ne dà un'interpretazione asciutta e stringata, senza lasciarsi andare a facili enfasi e a tempi retoricamente dilatati. Impressionante il volume di fuoco (smile!) sfoderato nel numero della battaglia. Come sempre perfetto il coro di Gabbiani, nelle melodie sussurrate, come nei poderosi e solenni proclami; brava la Nadežda Serdjuk, applaudita dopo il suo numero (al solito non si sa se per deliberato omaggio alla sua prestazione, o per… ignoranza dei contenuti della cantata) ma tutti – maestri, solista e professori – sono stati veramente all'altezza del compito e lungamente acclamati.

Seconda parte con la Seconda di Rachmaninov, composta 30 anni prima del Nevskij. Un'opera – come quasi tutta la produzione del nostro – che guarda all'indietro, proprio negli stessi giorni in cui un tale Mahler faceva da battistrada a Schönberg&C, verso nuovi orizzonti. Sinfonia che sta comunque riconquistando terreno, se è vero che solo a Milano la si è sentita per altre due volte in meno di un anno: con Pappano e i Filarmonici della Scala a novembre 2009 e poi con Zhang all'Auditorium lo scorso maggio.

Noseda ci mette tutta la passione del suo cuore, che ancora batte in russo, evidentemente: serve quanto meno a farci meglio digerire la mappazza. L'unico problema che ha, poveretto, è la partitura formato-tascabile che si ritrova sul leggìo, con le pagine che si rigirano da sole. Il pubblico, folto ma largamente insufficiente a riempire l'enorme anfiteatro, apprezza assai e applaude lungamente il suo beniamino e l'orchestra del Regio, davvero superba in tutte le sezioni.
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18 ottobre, 2010

L’Orchestra Verdi ancora alla Scala per opere di bene .


Dopo il concerto inaugurale della stagione, laVerdi è tornata al Piermarini per un concerto a favore dell'Istituto dei Ciechi di Milano. Sul podio uno dei Direttori Principali Ospiti dell'Orchestra, il venerabile Helmuth Rilling. Il programma è assai vicino a quello diretto dallo stesso Rilling in Auditorium lo scorso aprile.
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In un teatro assai affollato si comincia con la breve Ouverture dal Paulus di Mendelssohn (lo scorso giugno Rilling aveva diretto, sempre in Auditorium, l'intero oratorio). Vi compare fin da subito il famoso tema bachiano Wachet auf, ruft uns die Stimme, ripreso e variato su una severa fuga, dopo l'introduzione lenta, e riproposto con enfasi e solennità nel finale.
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Dopo il necessario (?) trambusto per traslocare il pianoforte, arriva Davide Cabassi per cimentarsi con il Concerto n°23 in LA maggiore di Mozart (ad aprile era stato un altro bravo pianista italiano, Roberto Cominati, ad interpretarlo). Come sempre estroverso e quasi scanzonato, sorridente ed ammiccante a direttore e orchestrali, l'ex-barbuto 34enne ci offre una lettura sobria e serena del K488, specie nel languido movimento contrale, nella relativa FA# minore.
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Grandi applausi per lui, che ci regala come bis una virtuosistica Sonata di Padre Antonio Soler (qui da 2:10 a 6:05).
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Chiude la Praga, 38ma sinfonia, in RE maggiore, del sommo Teofilo. Che Rilling – come suo costume – esegue con i ritornelli canonici, sia nell'Allegro iniziale, che nel Presto conclusivo.

Applausi convinti e ripetuti, premiati con la ripresa della solenne Ouverture del Paulus, che chiude il concerto proprio come l'aveva aperto. Un bravo a tutti i ragazzi de laVerdi, che - non sarà superfluo ricordarlo – avevano chiuso la colossale sesta mahleriana in Auditorium alle 17:30!
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15 ottobre, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 6



Nuovo appuntamento mahleriano all'Auditorium (con parecchie poltrone vuote, ahinoi). Sul podio il 52enne albionico Paul Daniel.

Che dirige in apertura il Concerto per violoncello di Schumann (compositore austriaco, secondo qualcuno, smile!) interpretato allo strumento solista da Daniel Müller-Schott. Orchestra assolutamente classica, con tutti i fiati a coppie (naturalmente banditi tromboni e tube) timpani e archi.
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Dopo le quattro battute iniziali, con gli accordi dei legni, il violoncello canta la nobile melodia del tema principale:



Da essa si sviluppa, in pratica, tutto il concerto, che in realtà Schumann aveva inizialmente battezzato come Konzertstück, termine effettivamente più appropriato a definire una composizione che si allontana parecchio dalla forma classica e tradizionale.

Già le indicazioni dinamiche sono in lingua tedesca (ma qui siamo proprio all'etichetta) ma poi, nel movimento iniziale, manca la struttura di forma-sonata, sostituita da una serie di riproposizioni del tema in diverse tonalità, inframmezzata da motivi affidati all'orchestra. Seguono l'intermezzo lento e il finale molto vivace, verso il termine del quale Schumann scrive una cadenza accompagnata (qui a 6:27 eseguita da Rostropovich con un barbuto Bernstein nel lontano 1976) cui si attiene anche il giovane violoncellista tedesco, al contrario di quanto fanno altri interpreti, come il sommo Pablo Casals, che esegue (qui a 4:37) con Ormandy nel 1953 una sua cadenza solistica basata sul tema principale.

Müller-Schott sciorina una buona prestazione, anche se forse bada più, come dire, al virtuosismo e alla precisione, che alla poesia. Ma si merita un caldo applauso e concede un bis britteniano.

Ecco poi il piatto forte della serata, la Sesta mahleriana. La consueta conferenza di presentazione della sinfonia è stata tenuta ieri sera da un giovane ma valentissimo musicista e musicologo: Davide Verga. Che ha incentrato tutta l'attenzione sugli aspetti per così dire filosofici della tragicità che pervade questa sinfonia. Sulla Sesta e i suoi enigmi ho scritto alcune considerazioni circa un anno fa, in occasione del concerto della London Symphony alla Scala, che si possono leggere qui.

Paul Daniel non passa, per la verità, per grande interprete mahleriano, per di più paroneggiare questo mostro che è la sesta non dev'essere per nulla facile. Intanto però, che scelta ha compiuto riguardo la sequenza dei movimenti (scherzo-andante o andante-scherzo?) su cui Mahler per primo ebbe infiniti tentennamenti? Prima di dare la risposta, mi permetterei di indicare alcune diverse prospettive interpretative che possono condizionare la scelta (ciascuna ha i suoi pro e contro, come lo stesso Mahler ebbe occasione di sperimentare):

1. Se si guarda all'equilibrio dell'opera in termini di durate temporali, sembrerebbe pacifico mettere lo scherzo in seconda posizione: abbiamo in questo caso i movimenti 1+2 che occupano 35 minuti e poi l'andante di 15 minuti che serve a prender fiato prima dell'altra mezz'ora del finale burrascoso. In questa soluzione la Sesta si avvicina quasi alla Quinta (che ha tre movimenti mossi, poi il calmo adagietto prima del finale allegro).

2. Se si guarda alla forma classica - che secondo taluni, Adorno in testa - sarebbe alla base della concezione artistica della Sesta, allora l'andante dovrebbe venire prima dello scherzo (in fondo anche Beethoven fece uno strappo alla regola soltanto con la sua Nona, per il resto collocò sempre il movimento più lento in seconda posizione).

3. Poi c'è la vista da poema sinfonico, autorizzata sia dai riferimenti extramusicali e autobiografici, che dalle arditezze di certe indicazioni dinamiche e dall'uso di strumenti che nulla hanno a che fare con la sinfonia classica (celesta, campanacci da mucca, martello e altre percussioni). Secondo tale approccio verrebbe ancora da preferire lo scherzo in posizione avanzata, in quanto avremmo: il ritratto di Alma, poi le piccole Putzi e Gucki che giocano in riva al lago, quindi un accorato sguardo all'indietro verso i bei giorni passati, e infine le tre mazzate del destino che abbattono definitivamente l'artista e l'uomo.

Daniel – come ci sia arrivato lo saprà lui – ha deciso per la soluzione Andante-Scherzo, quella che per la verità sta tornando di moda, dopo che per lunghissimo tempo i direttori hanno privilegiato l'altra (ma in attesa che il ritrovamento di qualche appunto, diario, lettera, faccia ri-pendere la bilancia dalla parte opposta). E quindi anche i colpi di martello ligneo del finale sono ridotti a due. Abbastanza inconsueta anche la disposizione degli archi, un misto fra quella alto-tedesca e quella moderna: i violini secondi vengono in prima fila, a destra del direttore, ma a sinistra – dietro i violini primi – traslocano le viole, mentre violoncelli e bassi restano sulla destra.

Che dire dell'esecuzione? Attestata e riconosciuta l'abnegazione di tutti, non si può certo parlare di un modello. Daniel ha parecchio gigioneggiato (segno per me di insicurezza su come domare il mostro) già dal tema di Alma e poi nello scherzo. Il finale ha purtroppo sofferto anche di alcune evidenti stecche di corni e trombette. Insomma, c'è qualcosa da migliorare, magari per le due prossime repliche.

E la prossima settimana arriva un altro toro mahleriano da prender per le corna, sperabilmente (ma l'orchestra ci è già riuscita in passato): la Resurrezione, preceduta da un beneaugurante Mozart al pianoforte.

Però laVerdi è infaticabile, e domenica 17, dopo la replica pomeridiana di questo concerto correrà alla Scala per fare un'opera di bene.
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13 ottobre, 2010

L’ur(ca)-Boris a Torino



 
Ieri pomeriggio sesta rappresentazione, al Regio di Torino, del Boris Godunov di Modest Musorgski per la regìa di Andrei Konchalovsky. Sul podio Gianandrea Noseda.

 
Come già ampiamente desumibile dalla presentazione dell'Opera da parte del Teatro, si tratta di una sedicente versione (ma meglio sarebbe chiamarla collage) della prima stesura (1869) del capolavoro di Musorgski. Riprendo – con qualche dettaglio in più, e lo metto in appendice, così chi non vuole annoiarsi lo può ignorare più comodamente – il discorso sulle fonti e sulla struttura del Boris di Konchalovsky-Noseda, già sommariamente fatto qualche giorno fa, e passo direttamente alle mie impressioni sulla recita, interpretata ieri dal cosiddetto secondo cast.

 
Che vedeva nel ruolo principale il venerabile Vladimir Matorin, ultrasessantenne già protagonista di innumerevoli Boris, che rimpiazzava il giovine Orlin Anastassov, ricoprendo invece accanto a lui il ruolo – non proprio secondario - di Varlaam nelle recite col primo cast. Orbene, senza poter fare confronti, mi pare di poter dire che la sua interpretazione sia stata di buon livello vocale, ma di livello attoriale non meno che straordinario. Un Boris davvero grande: nell'imponenza, anche fisica, della sua figura, come nella tragica schizofrenia che emana dal suo animo esacerbato. Da notare qui un particolare: il famoso monologo Ho il potere supremo era quello della seconda versione (1872) del Boris! (Ma qui siamo nel pieno bailamme delle fonti, e quindi per il  momento non insisto).

 
Sergej Aleksaškin è stato un efficacissimo Pimen, una parte che sembra in certi momenti precorrere nientemeno che il wagneriano Gurnemanz. Detto di passaggio, in effetti fra Musorgski e Wagner ci sono innumerevoli punti di contatto, anche se i due conobbero assai poco delle rispettive opere. Ricordava il compianto Teodoro Celli che proprio la scena del convento dei Miracoli, dove appare Pimen per la prima volta, si apre con misteriose quartine delle viole che richiamano in modo stupefacente le sestine del mormorìo della foresta del Siegfried (io ci aggiungo anche l'introduzione mahleriana al Der Einsame im Herbst). E che la melodia che sostiene l'ultima parte del duetto fra Marina e Grigorij-Dimitri (che qui a Torino ovviamente non si è ascoltato) ha una incredibile rassomiglianza con lo starnberg-iano tema della Pace, sempre dal Siegfried, atto terzo!
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Grigorij (poi falso Dimitri) è Ian Storey. Al solito, come in Tristan, grande presenza scenica – però nessuno gli potrebbe dare solo 19 anni, smile! - accompagnata da una prestazione vocale non più che discreta.
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La coppia Misail-Varlaam è interpretata da Luca Casalin (la parte meno in vista) e da Vladimir Baykov il quale ultimo rimpiazza qui il Matorin del primo cast e devo dire che ci fa un'ottima figura, soprattutto nella sua aria (lo so che Musorgski si arrabbierebbe moltissimo a chiamarla così…) nella quale descrive con realismo misto a compiacimento il simpatico scherzetto – costato 43mila vite, una bazzecola - che il terribile Ivan fece agli sbifidi Tatari di Kazan.
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Evgenij Akimov è l'Idiota (in termine politically correct, l'Innocente). Direi più che buono sia sul piano della gestualità che su quello del suo canto lamentoso e strappalacrime, che nella sua cantilenante languidezza esprime il fatalismo di un intero popolo.
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Ščelkalov è impersonato da Juri Laptev (2° cast). Imponente la sua figura fisica ed efficaci i suoi interventi (nei due quadri estremi). L'inaffidabile Šujskij è affidato (smile!) ad un dignitoso Peter Brondy, voce chiara e sottile (come il carattere del personaggio).

 
Tutti gli altri su uno standard più che onorevole. Un'ultima e doverosa citazione per Pavel Zubov, il ragazzo che recita, e canta benissimo, la parte del giovinetto Fëdor, rampollo di Boris.

 
Non ci sarebbe quasi bisogno di elevare peana ai Cori di Gabbiani e Fenoglio, tanto superbi nel canto, quanto efficaci nei movimenti in scena.

 
Noseda, si sa, ha un feeling particolare con i russi. Forse già innato, ma di certo irrobustito dal suo lungo sodalizio con il Mariinskij. Direzione di assoluto rilievo la sua; che – a mio sentire – si è sempre mantenuta entro limiti di sobrietà, pur non celando tutte le spigolosità e le ruvidezze dell'orchestrazione di Musorgski.

 
Konchalovsky ha chiesto a Graziano Gregori delle scene spartane e minimaliste (in pratica un piano inclinato in sei sezioni che si possono unire o separare in modo da farle alzare ed abbassare alla bisogna. Quindi uno scenario monotono dove, tanto per fare un esempio, non si nota alcuna differenza fra i due monasteri: Novodevici, che era più che altro un rifugio in cui si ritiravano a meditare (o una specie di prigione in cui venivano di fatto rinchiusi) dei personaggi scomodi o complessati, e Chudov, che era invece un classico e rinomato centro di studi e di cultura e – trovandosi proprio dentro il Cremlino – era meta di frequenti visite degli zar, Ivan in primo luogo, come ricorda il vecchio Pimen a Grigorij. Scenario ravvivato però dalle irruzioni delle masse. I cui costumi (di Carla Teti) sono invece di una grande ricchezza (anche gli stracci della povera gente, smile!) e verosimiglianza. Il regista ha fatto muovere bene i personaggi, prendendosi qualche libertà (per giustificare la parcella, al solito): come il figlioletto che, all'incoronazione di Boris, invece di seguirlo, come da copione, gli si abbarbica ad un fianco e viene poi preso in braccio; o come il feroce accoltellamento delle guardie da parte di Grigorij, al momento di scappare dalla bettola. Discutibile anche il cambio di scena, a sipario alzato, fra SanBasilio e Kromy, che in pratica ci mostra un teletrasporto della stessa gente da un luogo all'altro, cosa abbastanza in contrasto con la logica (la seconda folla era appena stata descritta dalla prima) oltre che con il libretto. Di effetto notevole, e pure pacchiano, lo scivolone del trono sul piano inclinato, al momento del redde-rationem per lo zar. Nel complesso, una regìa dignitosa, che come minimo non crea scandalo (ed è già qualcosa).

 
Quindi uno spettacolo sicuramente all'altezza di un importante Teatro, quale il Regio è. Peraltro non destinato – credo io – a fare storia, anche per le ragioni che spiego nel tormentone che segue.
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Musorgski lasciò due versioni, assolutamente compiute e precisamente strutturate, del Boris. Va però notato che la prima (1869) non venne mai eseguita, vivente l'Autore, essendo stata bocciata dai censori estetico-politici del Mariinskij, quindi rimase in uno stato teoricamente modificabile e perfettibile, poiché l'Autore - avesse avuto la possibilità di metterla in scena - di certo vi avrebbe apportato ritocchi e cambiamenti piccoli e grandi, cose che già aveva in mente, o addirittura già scritto, e che utilizzò nella costruzione della seconda versione (1872, che per sua fortuna potè vedere autorizzata e rappresentata) in cui impiegò gran parte dei componenti della prima.

 
Ma allora una domanda viene subito spontanea: se la seconda versione è un passo avanti rispetto alla prima, e a differenza di questa potè essere curata nei dettagli da Musorgski, che cosa cavolo ce ne facciamo oggi della prima, se è solo un abbozzo di quella definitiva?

 
La risposta è semplice: le due versioni non sono affatto una l'abbozzo dell'altra, ma – pur avendo, com'è comprensibile, molte parti in comune – sono nondimeno strutturalmente, drammaturgicamente ed esteticamente assai diverse fra loro. E non solo per i tre quadri aggiunti (e uno tolto) ai sette della prima per costruire la seconda, ma per il diverso focus drammaturgico (e quindi anche musicale) che le due versioni presentano: la prima prevalentemente incentrata sulla complessa figura e sui drammi esistenziali dello zar; la seconda che mette in primo piano il popolo russo, all'interno del cui perenne e quasi disperato fatalismo si inquadra la tormentata figura di Boris. Ecco perché è (ma devo purtroppo dire sarebbe) oggi così interessante poter ascoltare, e vedere in scena, anche la prima versione: perché è di fatto un'opera diversa – pur se con lo stesso soggetto e molto materiale in comune – dalla versione definitiva.

 
Dal punto di vista della struttura del dramma, nella prima versione del 1869 (7 quadri) abbiamo una serie di zoom sulla figura dello zar (Quadro-2, all'incoronazione; Quadro-5 nella dimora di Boris e Quadro-7, al Cremlino) alternata a scene di popolo (Quadro-1, al monastero di Novodevici e Quadro-6, sul sagrato di SanBasilio) e alla presentazione del monaco Pimen e di Grigorij, che diverrà il falso Dimitri (Quadro-3, nel monastero dei Miracoli di Chudov e Quadro-4, in una bettola al confine lituano); e non a caso l'opera si chiude con la morte di Boris, estremo culmine della sofferta esistenza dell'uomo.

 
La versione messa definitivamente in partitura nel 1872 è in 9 quadri, organizzati in un prologo e 4 atti: quelli della prima più tre (i due polacchi e l'ultimo della seconda, di Kromy) meno il penultimo della prima (SanBasilio). Quindi la nuova versione ha una struttura assolutamente (e mirabilmente) simmetrica: agli estremi due scene di popolo (Prologo-scena-1, a Novodevici e Atto4-scena-2, a Kromy); subito all'interno di queste, due quadri con monologhi di Boris (Prologo-scena2, all'incoronazione e Atto4-scena-1, quello della sua morte, al Cremlino); all'interno ancora due coppie di scene – per così dire - di contorno (Atto1, Pimen, Grigorij e i monaci al confine lituano e Atto3, quello polacco, con Marina, il gesuita Rangoni e Dimitri-Grigorij); perfettamente al centro (Atto2) il quadro famigliare dello zar.

 
Si noti che in entrambe le versioni Musorgski segue quasi pedestremente – pur con sue aggiunte o variazioni – la sequenza dei fatti come esce dalla tragedia di Pushkin, che ispirò direttamente la composizione. Si noti anche che, elaborando la seconda versione, oltre ai macro-interventi (aggiunte ed espunzioni di scene) Musorgski operò anche una miriade di modifiche (come detto le aveva già in buona parte in testa o anche scritte) ad almeno 4 dei 6 quadri superstiti: ad esempio espunse dal terzo il racconto di Pimen sull'uccisione, a Uglich, del piccolo Dimitri, erede al trono; aggiunse la canzone dell'anatroccolo all'inizio del quarto quadro (la scena nella bettola al confine lituano); in quella di Terem, gli appartamenti dello zar (quinto quadro, divenuto secondo atto) modificò ampiamente il celebre monologo di Boris Ho il potere supremo; sempre lì, cambiò parecchio le parti dei figli di Boris, in particolare ampliando quelle del piccolo Fëdor e della nutrice; riprese dal sesto quadro (di SanBasilio, espunto nella seconda versione) la scenetta dell'Idiota schernito e derubato dai monelli e la infilò nel nuovo quadro (l'ultimo, presso Kromy) aggiunto come conclusione dell'opera (quadro sulla cui più opportuna collocazione - se cioè non dovesse precedere la morte di Boris - ebbe inizialmente più di un dubbio, accogliendo alla fine i consigli di suoi zelanti amici e propendendo quindi per la collocazione estrema, simmetrica). Insomma, la versione seconda è proprio un'opera diversa.

 
Rimsky rimaneggiò (splendidamente e per due volte, 1896 e 1906) questa seconda versione. Oltre ad apportarvi alcuni tagli (parzialmente ripristinati nel 1906) in parti più o meno secondarie (tolse dei brani, come l'appello di Ščelkalov all'inizio del quadro della morte di Boris) Rimsky fece un primo proditorio attentato alla struttura dell'Opera, scambiando gli ultimi due quadri (dando quindi credito all'idea primitiva, ma successivamente scartata, di Musorgski) e con ciò distruggendo la perfetta simmetria dell'originale; e distorcendone anche il significato complessivo, col riportare in primissimo piano la figura di Boris, la cui morte - e non il perenne e fatalista fluire della vita del popolo russo - torna a chiudere l'opera, come nella prima versione. E questo surrogato di Rimsky, come spesso accade (vedansi Carmen e Medea) è quello che ha fatto la fortuna del Boris per più di 50 anni. Poi arrivò anche Shostakovich a trastullarsi col giocattolo, ri-orchestrandolo, ma in pochi ne hanno fatto un punto di riferimento; stessa fine han fatto per fortuna altre velleitarie revisioni.

 
Quanto alle edizioni critiche, Pavel Lamm a fine anni '20 e – 50 anni dopo – David Lloyd-Jones, ne pubblicarono due di entrambe le versioni, ma in effetti strutturate come una versione che accorpa tutti i quadri (10) delle due originali, contenendo di fatto tutto ciò che Musorgski produsse sul Boris: in sostanza prendendo la seconda versione del 1872 e re-inserendovi tutti i tagli operativi dal compositore, incluso l'intero quadro (il penultimo della prima versione, quello ambientato davanti a SanBasilio) che l'Autore aveva espunto dalla seconda. Dovendo però a questo punto fare i conti con l'Idiota: il quale compare nel quadro di SanBasilio della prima versione (dove incrocia anche Boris) e poi ancora – proprio con le stesse parole e con la stessa musica - nell'ultimo, che lo sostituì, della seconda (a Kromy, dove ovviamente non può incontrare Boris, principalmente perché lo zar a quel momento è già defunto, ma anche perché un Boris che passeggia laggiù farebbe ridere). In queste versioni sedicenti complete, in 10 quadri, l'Idiota compare dapprima nel quadro di SanBasilio, mentre in quello di Kromy si limita ad apparire alla fine, e solo per ripetere il suo lamento fatalista sulle tristi sorti della Russia. Ma – dato che questa versione non è autografa, ma è invenzione di Lamm e Jones – è chiaro che chiunque può decidere e nella realtà ha deciso (ma è solo un esempio fra le tante possibilità combinatorie) di presentare prima Kromy (con/senza l'Idiota) e poi SanBasilio (senza/con l'Idiota) eccetera, eccetera.

 
Come si vede, una storia intricata e infinita. Oggi addirittura si teorizza (lo ha fatto lo stesso Jones, forse per vendere meglio la sua edizione critica) che il Boris sia un'opera aperta, una specie di gioco del meccano da cui registi e direttori possono liberamente divertirsi a prelevare pezzi da montare e smontare a loro piacimento! E, conoscendo la smania di protagonismo di registi e direttori (e aggiungiamoci pure i cantanti) non ci si può meravigliare che tutto questo guazzabuglio di fonti abbia immancabilmente dato la stura a innumerevoli colpi di mano e ad invenzioni più o meno strampalate. Presentate trincerandosi dietro l'alibi che tutta la musica del Boris è grande e che quindi, comunque confezionata, l'Opera farà sempre un gran figurone. (Come quello che immagino farebbe la Nona di Mahler eseguita con l'Andante in testa, i movimenti lenti al centro e il Rondò-Burleske come finale… o no?)

 
Invece ci sarebbe un punto (almeno uno) da tenere ben fermo, poiché di una chiarezza incontestabile: l'incompatibilità fra SanBasilio e Kromy. Certificata proprio dal procedimento tecnico che Musorgski impiegò per costruire la sua seconda versione: eliminare SanBasilio e recuperare da esso ciò che gli tornava utile (la scenetta dell'Idiota) nella costruzione di Kromy. Ciò è la più chiara e convincente dimostrazione dell'impossibilità di coesistenza dei due quadri. E il bello è che – in teoria – ciò viene riconosciuto anche da eminenti studiosi. Come il prof. Richard Taruskin, un cui scritto apre il volumetto del programma di sala del Regio. Peccato che, subito dopo aver riconosciuto la validità dell'assunto logico, il nostro si affretta a dichiararsi entusiasta della convivenza fra i due quadri. E in base a quale ragionamento? Che la cosa piace al pubblico! Grandiosa davvero, questa affermazione, pari alla sua bizzarrìa. Chè allora, visto che sicuramente al pubblico piacerebbero, si potrebbero presentare infinite versioni delle sinfonie di Beethoven, costruite recuperando la montagna di schizzi, appunti e idee che il genio di Bonn ci ha lasciato in eredità. Rob de matt, bisogna avere una cattedra a Berkeley per sfornare simili idee…

 
Apro una piccola e irriverente parentesi, a proposito di professori. L'oggetto è la diatriba riguardo la morte del piccolo Dimitri (figlio di Ivan) che è all'origine di tutti i problemi esistenziali di Boris: morte accidentale, come sentenziò l'inchiesta ufficiale (addomesticata da Boris?) o assassinio commissionato proprio da Boris? Il citato Taruskin scrive che, per Pushkin, la colpa di Boris nell'uccisione dell'erede al trono era un dato di fatto: cosa che oggi nessuno storico crede. Tre pagine dopo la professoressa Caprioglio dell'Università di Torino sostiene che la versione della colpevolezza di Boris è ancor oggi la più accreditata, anche se non mancano gli storici (ndr: i colleghi di Taruskin? smile!) che sostengono la morte accidentale.

 
Tornando a bomba, si fosse coerenti con l'elementare assunto dell'incompatibilità fra quei due quadri, automaticamente le versioni del Boris si ridurrebbero a 3: le due originali dell'Autore più quella, che possiamo tranquillamente – per tutta una serie di buone ragioni - aggettivare come authoritative, di Rimsky. La quale oltretutto accontenta allo stesso tempo gli amanti della bella musica e quelli del finale in REb maggiore (una specie di Götterdämmerung ante-litteram).
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Adesso torno al Regio per chiedermi: cosa hanno combinato Konchalovsky-Noseda? Ecco: come altri, un pasticcio che non è né carne, né pesce, ma è un minestrone cucinato mettendo insieme ingredienti delle due versioni originali, e buttandoli in pentola e sul fuoco con una sequenza diversa da entrambe. Hanno preso come base la versione del 1869, ma poi l'hanno smontata e ricostruita a loro discrezione (vedi il citato arioso di Boris al Terem). Non contenti, strada facendo hanno pure cambiato idea – cosa di cui è bene rallegrarsi, come delle conseguenti modifiche apportate al riassunto dell'opera sul sito del Teatro e parzialmente sul programma di sala (ma non sulle locandine cartacee distribuite gratis) - rinunciando ad un paio di cervellotiche trovate. Sulle quali è comunque utile fare qualche considerazione, sia pure a reato non consumato.

 
La prima idea, falsamente innovativa e sufficientemente strampalata, era l'inversione della sequenza dei quadri 2 e 3. Che avrebbe creato due artificiose fratture all'interno del corpo della prima parte (i primi 4 quadri) oltretutto sovvertendo la cronologia degli avvenimenti: il Quadro-3 (Pimen e Grigorij nel monastero di Chudov) è chiaramente datato (da Pushkin, fonte diretta di Musorgski) nel 1603, quindi con Boris imperante da ben 5 anni, mentre il Quadro-2 è proprio quello che ci mostra Boris appena incoronato, nell'autunno del 1598. Invertirli avrebbe fatto cambiare non poco, o addirittura perdere del tutto, il senso dell'intera vicenda, chè la gravissima ed aperta accusa - abbiamo accettato quale sovrano l'assassino di uno Zar! - che Pimen muove a Boris (di aver soppresso il piccolo Dimitri, erede al trono) perderebbe parecchio di consistenza, se mossa ad un Boris che ancora sovrano non è, ed anzi – da ciò che si è appena udito nel Quadro-1 (Il Boiardo è irremovibile) - sembrerebbe riluttante a diventarlo! E attenzione: Pimen non sta facendo quattro chiacchiere al bar, ma sta scrivendo la Storia della Russia!

 
L'altra trovata – poi rientrata, forse dopo le prove in scena, quindi tuttora presente sul programma di sala - di Konchalovsky-Noseda era la ricomparsa del personaggio dell'Idiota proprio alla fine dell'opera, a lanciare il suo lamento. Col che si sarebbe scimmiottato – non certo ripristinato nella sua valenza drammatica - l'epilogo della seconda versione originale!

 
Delle trovate di regista-direttore è quindi rimasto in piedi l'inserimento (tanto caro a Taruskin) dopo SanBasilio e prima dell'ultimo quadro (morte di Boris) del quadro di Kromy, prelevato dalla versione 1872, recupero giustificato dal regista con la motivazione di voler mostrare al pubblico – soddisfacendone la morbosa curiosità? - dov'era finito Grigorij dopo la fuga in Lituania! Trattasi in verità di motivazione assai labile – pur se addotta già in origine da qualche zelante consigliere dell'Autore - dal momento che ciò è già stato spiegato a josa – poco prima - dai discorsi che la gente fa sul sagrato di SanBasilio e dall'anatema urlato dal pingue diacono contro Grigorij Otrepyev (poi anche dall'oggetto della riunione di Boiari al Cremlino) senza che ci sia bisogno di mostrare Grigorij/Dimitri in carne ed ossa (cosa invece necessaria – si badi bene - a Musorgski nella versione 1872, in conseguenza dell'espunzione di SanBasilio!) E come hanno risolto, regista e direttore, il problema dell'Idiota? Secondo l'approccio della versione di Lamm/Jones in 10 quadri, presentandocelo per il 90% a SanBasilio (scena con i monelli e incontro con Boris, senza il lamento) e per il restante 10% spedendolo in gita-premio a Kromy, solo per esalarvi il suo lamento fatalista sulle misere sorti e regressive della povera madre Russia.

 
Peraltro, dal recuperato quadro di Kromy sono spariti (anche se permangono sulla carta del programma di sala) oltre al 90% dell'Idiota (per i motivi già spiegati) anche i due gesuiti polacchi, quelli che se ne vanno in giro, quasi fossero un'avanscoperta del falso Dimitri, recitando litanie in lingua latina e inneggiando al pretendente-zar. Trovandosi quindi in una imbarazzante situazione, che rischia di fargli fare una brutta fine, poi evitata dal provvidenziale arrivo dello stesso Dimitri: essere dalla parte della folla anti-Boris, ma contemporaneamente invisi, in quanto cattolici, a quella medesima folla di ortodossi, che li tratta come fastidiosi pipistrelli da impiccare. Regista (e direttore?) devono essersi accorti (un po' tardi!) che la presenza a Kromy dei due gesuiti polacchi è una diretta conseguenza (logica, drammatica ed estetica) dell'inserimento nell'opera dell'atto polacco! Quindi si attaglia perfettamente alla versione 1872, mentre ci sta come i cavoli a merenda in quella del 1869, dove di tutte le vicende polacco-gesuitiche di Grigorij-Dimitri nulla viene presentato! Ci voleva proprio quest'altra dimostrazione dell'incompatibilità di Kromy con la versione 1869? Mamma mia…

 
In definitiva: Konchalovsky-Noseda, forse - e senza forse - presi dalla smania di strafare, o illudendosi addirittura di passare alla storia, hanno scelto il peggio degli approcci – già di per sé discutibili - di molti loro predecessori: compiendo quindi un'operazione cervellotica e falsamente innovativa. Il risultato è che lo spettatore non assiste a nessuna delle due – splendide, nella loro diversità – versioni di Musorgski, né a quella musicalmente eccelsa di Rimsky, ma ad un pasticcio che certo accontenterà gli spettatori à-la-Taruskin, ma che lascia un po' di amaro in bocca a chi ha un minimo-minimo di conoscenza degli originali (fatta ad esempio ascoltando le due versioni registrate da Gergiev negli anni '90, che pure avranno qualche pecca, ma sono di certo il meno-peggio in circolazione, in fatto di rispetto dell'Autore). In definitiva, a me pare trattarsi di una – ennesima, e ahinoi non sicuramente ultima - versione-usa-e-getta, non certo destinata a proporsi come pietra miliare nella storia dell'interpretazione del Boris.
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11 ottobre, 2010

La Salome di Carsen al Maggio



Il Maggio fiorentino ripropone la Salome nell'allestimento di Robert Carsen (già ospitato un paio di stagioni or sono dal Regio di Torino). Ieri teatro quasi al completo. Sul podio non c'è Mehta, contrariamente a quanto risultava dal primissimo annuncio della stagione autunnale, e nemmeno il sostituto Carignani. Ma il veterano mestierante Ralf Weikert.
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Quanto alla messinscena, Carsen è uno di quei registi perennemente in cerca di novità interpretative e con la testa che è un vulcano di idee, quasi sempre geniali, ma di un genio cui spesso si accompagna la sregolatezza. E questa sua Salome è proprio un classico esempio di uso solerte e perverso al tempo stesso della materia grigia: insomma, un Carsen in versione dr. Jekyll e mr. Hyde.
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Cominciamo con l'ambientazione: alla trita cartapesta del palazzo di Palestina, Carsen preferisce enormi pareti di latta di un caveau di LasVegas (forse siamo al CaesarPalace, a giudicare dai costumi di alcune comparse, a metà fra l'egizio, l'assiro-babilonese e il carnevalesco). La cosa non deve scandalizzare, caso mai ci si può chiedere perché proprio LasVegas e un caveau. Chissà, dato che il regista è uso fare scavi sociologici e psicologici, può darsi che il suo subconscio abbia fatto emergere l'avversione di un canadese per la (in)civiltà dei merdosi cugini yankee, di livello assai prossimo a quella di Erode&C. Quanto all'oro che scorre a fiumi nel caveau, bisognerà tener conto che Salome comporta la presenza di ebrei, notoriamente stereotipo di padroni della finanza globale.
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E a proposito di ebrei, oltre al dileggio – ma sopraffino, proprio à la Wagner – che Strauss gli riserva con la sua musica che imita la cantilena yiddish, Carsen rincara la dose, presentandoci due dei cinque giudei nelle vesti di trans. Per la verità, ne ha anche per i cristiani (i due Nazarener) che appaiono vestiti da becchini, forse ministri di qualche più o meno nota setta nordamericana.
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Per restare alle piccolezze, ai dettagli, Carsen infila qua e là qualcosa a metà fra il becero e il goliardico, come Herodes che si strofina sul …ehm (cavallo dei pantaloni) la mela che offrirà a Salome. O Herodias che copula con un paggio durante la bevuta del marito con i compari, oppure uno dei trans giudei che si butta a pesce sullo smeraldo invano offerto dal tetrarca alla figliastra in cambio della testa di Jochanaan. Ma Carsen mostra anche di saper essere – quando vuole – fedelissimo al testo: il povero Narraboth, al momento di suicidarsi, invece di spararsi un colpo in bocca con la 45magnum di ordinanza che porta alla cintura, estrae un pugnale e se lo conficca nel ventre!
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Bella e nobile, invece, la scena dell'incontro di Salome con il profeta: sparisce la latta di LasVegas e Jochanaan appare su un appropriato sfondo desertico (che sia il Nevada o il Negev ci importerà poco). Lui e la ragazza restano soli, sulla scena assolutamente vuota, in modo da lasciare tutto lo spazio disponibile per… la musica del mago Strauss!
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Bando all'esteriorità, veniamo ai personaggi. Devo dire che qui Carsen è maestro, seriamente: tutti assolutamente centrati, a cominciare proprio da Salome, una ragazza che ne ha addosso di tutte: vizi, perversioni, turbe sessuali, ingenuità incredibili, paure, superbia, instabilità psichica; insomma, tutto quello che da millenni ormai l'immaginario collettivo associa a questa Lolita ante-litteram. Che è però, in fondo, ancora una ragazzina, se è vero che entra in scena emozionata, confessando di non capire perché Herodes la guardi così! E il Carsen – quello in versione dr. Jekyll - ce ne dà un'immagine oserei dire perfetta.
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Peccato che poi il nostro si trasformi, per circa un quarto d'ora, in mr. Hyde. E trasformi con sé, temporaneamente, anche la ragazza, affibbiandole i tratti – materiali e comportamentali – della madre. Facendone cioè – per la scena-madre dell'opera - una laida puttanona. Abbigliata ed acconciata (colore dei capelli incluso) come quella baldracca di sua madre. Che lei sia, come dirà, dopo la danza, Herodes: in Wahrheit ihrer Mutter Kind! (tutta sua madre) è vero, ma ciò riguarda esclusivamente la cocciutaggine e l'ostinazione del suo carattere. Invece è del tutto falso se si confrontano le personalità di madre e figlia, descritte – in primis – dalla musica di Strauss. Ed è persino inverosimile anche dal punto di vista dei desideri sessuali di Herodes, che di certo non saprebbe che farsene di una Herodias-due-la-vendetta!

Ma è sommamente disdicevole sul piano estetico, chè questa (provvisoria, onirica) identificazione trasforma la più straordinaria Tanz mai musicata in uno spogliarello di quart'ordine, di quelli che si vedevano anche a fine '800 in qualche scantinato di New York, con tanto di divaricazione di gambe, arieggiamento di passera a mezzo veletta, e strusciamenti vari addosso ad una coorte di altrettanto bavosi maschiacci, che non trovano di meglio che denudarsi e masturbarsi davanti a lei, e di fronte al pubblico in sala. Il tutto mentre alle orecchie di detto pubblico giungono suoni come questi:

Insomma, invece di un'enorme carica erotica, ciò che questa scena sprigiona è puro e semplice, e schifoso sesso venduto un-tanto-al-kilo. E davvero, poche volte una così forte divaricazione tra ciò che la musica esprime e ciò che il regista ci mostra è stata realizzata in un teatro. Proviamo a farci una semplice e banalissima domanda: se a Richard Strauss fosse stata presentata questa scena e gli fosse stato chiesto di musicarla, ci avrebbe scritto quella musica della sua Salome? Non sarà superfluo ricordare ciò che lo stesso Strauss – non so se mi spiego – scrisse testualmente, a proposito della sua creatura: …Salome (…) deve essere rappresentata con la massima semplicità e nobiltà di gesti; altrimenti (…) invece di pietà susciterà solo raccapriccio e orrore. Ecco, questo è ciò che suscita appunto la scena-madre dell'opera, selon Carsen.

Conclusa la quale scena, il nostro rientra nei panni del dr. Jekyll e Salome in quelli di… Salome. Prima della fine c'è però ancora tempo per una goliardata: una partita di palla-prigioniera in cui i compari e le comari del tetrarca si lanciano la testa mozzata di Jochanaan.
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Poi Salome chiude davvero in modo straordinario ed emozionante - pienamente in linea con il suo carattere e con i risvolti necrofili della sua personalità - con il voluttuoso, liberatorio bacio sulla bocca del profeta, finalmente tutto suo, come aveva testardamente desiderato. Dopodichè esce di scena – e da quel mondo per lei invivibile - dal fondo, verso il deserto, prima ancora che Herodes ordini ai suoi scherani di sopprimerla.
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Musicalmente?

Una grande (grandissima?) Janice Baird, voce potente, calda, chiara, espressiva. Le perdoneremo un paio di piccoli cali, ma davvero è stata eccellente, fino all'ultimo LA# dell'ultimo geküsst. Per lei un trionfo in piena regola.
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Mark S.Doss è ormai un punto di riferimento per Jochanaan. Non avrà – causa eccessiva abbronzatura, direbbe il nostro simpatico P.M. – la pelle bianca come le nevi di Giudea, ma la voce c'è tutta, e anche più. Personalmente – ma non glie ne faccio certo una colpa! – trovo il timbro della sua voce un tantino cupo per rappresentare un profeta che – contrariamente all'immaginazione nostra, e all'idea iniziale della stessa Salome – non è affatto un vegliardo, ma è addirittura giovanissimo. Grandi applausi anche per lui.
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Herodes era l'albionico Kim Begley: più che discreto, mi sento di dire, sul lato vocale, e davvero eccellente su quello attoriale.
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Alla Herodias di Irina Mishura darei un'ampia sufficienza: la musica che Strauss le affibbia non è delle più comode, ma lei vi ha tenuto dignitosamente botta. Eccellente anche lei nella recitazione.
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Narraboth era Mark Milhofer, vocina piuttosto debole e spesso superata dall'orchestra (colpa di Weikert?) Anche Jennifer Holloway (paggio en-travesti della regina) ha faticato a farsi sentire già a metà platea. Tutti più che all'altezza dei rispettivi compiti gli altri del cast.

Il povero Ralf Weikert è stato l'unico a beccarsi due o tre buh all'uscita. Per me francamente ingenerosi e forse più motivati dal disappunto per le defezioni di Mehta prima e Carignani poi, che da effettivo demerito. Del resto, dovendo sostituire il Kapellmeister a pochi giorni dalla prima di una simile opera non si poteva – credo io – far di meglio che ricorrere ad uno che almeno la Salome l'ha già diretta più e più volte e – vista l'anagrafe – deve essere anche rotto a tutti gli imprevisti.
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In conclusione: grazie al Maggio per averci ancora regalato, Bondi funestante, uno spettacolo di alto livello e di averci permesso di provare emozioni che certa musica non cessa mai di suscitare.
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