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Ieri sera la Scala ha ospitato la prestigiosa London Symphony per un concerto in favore del FAI. Un programma di gran tradizione e anche di grandissimo impegno, per Daniel Harding e Christian Tetzlaff.
Teatro – ahinoi - con parecchi vuoti, sia in platea che nei palchi. I prezzi erano assai alti, vero, ma lo scopo non era di lucro; si vede che la crisi c’è ancora. Orchestra con layout tedesco, che vede gli archi bassi relegati al centro-sinistra, dietro i primi violini, mentre i violini secondi sono in prima fila, a destra, davanti alle viole. Palcoscenico ingombro di sedie, leggìi e strumenti, più della metà disoccupati per Mendelssohn. Subito l’occhio cade sul tavolaccio su cui si abbatterà un enorme martello ligneo nel finale mahleriano.
Il concerto per violino di Mendelssohn è così inflazionato che ormai lo si ascolta col timore di un’esecuzione di routine, di quelle che ti lasciano indifferente e non ti suscitano nuove emozioni. Tetzlaff, forse per attirare l’attenzione, lo attacca come un forsennato (col risultato di non essere impeccabile, all’inizio); poi torna nell’alveo normale, ma la sua è – andante escluso – un’interpretazione nervosa, tutta scatti e singhiozzi. Un Mendelssohn un po’ troppo espressionista, almeno per i miei gusti. Un’osservazione anche sull’orchestra: impeccabile, per carità, ma con i (relativamente) pochi professori sparpagliati in un deserto (di leggìi vuoti, già pronti per Mahler) è parsa dare un suono meno compatto del dovuto. E poi il timpano, messo laggiù da solo, a ridosso del pannello riverberante, ha con i suoi colpi sovrastato troppo il resto degli strumenti. Comunque gli applausi non sono certo mancati. È mancato invece un bis di Tetzlaff, magari del suo Bach, di cui è tanto cultore.
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La mia sesta, ebbe a dire Mahler, porrà agli ascoltatori degli enigmi che solo chi avrà digerito le mie prime cinque potrà sciogliere. Beh, anche dopo aver digerito tutto ciò che Mahler scrisse prima (e pure dopo!) della sesta, gli enigmi restano. Perchè sono più che altro di natura extramusicale e – credo io – cresciuti nella nostra testa a furia di accanirci nel cercarli a tutti i costi fuori dalla partitura.
Sul fronte strettamente musicale, la parola più autorevole (!?) l’ha scritta Adorno, in Variante e Forma, a proposito del Finale, quando ne dipinge la grandiosa immanenza formale. Certo, la forma. Abbiamo quattro movimenti (il primo in perfetta forma sonata, con tanto di ritornello dell’esposizione); le indicazioni dinamiche dei titoli nell’aulico italiano (solo brucknerianamente inquinato dal teutonico Wüchtig dello Scherzo); la concatenazione delle tonalità; insomma, parrebbe appunto Bruckner, se non proprio Beethoven!
Ma poi, leggendo di ciò che dissero e scrissero Mahler stesso e la moglie Alma (che gli fu vicinissima durante la composizione, facendo anche da copista delle parti) si viene a sapere che nella sinfonia si trovano anche: il ritratto della stessa Almschi (secondo tema del primo movimento) le bambine Putzi e Gucki che giocano in riva al laghetto (scherzo) e i colpi del destino - tre (o solo due?) tremende martellate a futura memoria - che si abbatteranno sul povero compositore (finale). Completano il quadretto i campanacci da mucca, il cui suono Mahler ascoltava sugli alpeggi durante le sue escursioni in montagna (insieme ad Alma, il cui tema li accompagna nel primo movimento); la gigantesca grancassa fatta appositamente costruire per la sinfonia (e poi non impiegata, poichè non faceva abbastanza fracasso!) e certe indicazioni dinamico-agogiche – tipo: Altväterisch nel trio dello scherzo – che poco o nulla hanno a che spartire con il classico e severo impianto formale di una sinfonia.
Molto sarcasmo – e per nulla ingiustificato - si attirò poi il compositore per l’incredibile decisione (che mascherava evidentemente perplessità profonde sull’essenza stessa della sua opera) di scambiare l’ordine di Scherzo e Andante, decisione presa in fretta e furia nelle poche ore intercorse fra la prova generale e la prima di Essen del 1906. Tuttora non c’è accordo fra i critici su quale debba essere la sequenza dei movimenti interni più aderente alle intenzioni estetiche dell’Autore: C.F.Kahnt, editore dell’opera, mise sul mercato, prima della prima, la versione originale (con lo Scherzo davanti) e, subito dopo, la versione con l’Andante anticipato, che Mahler aveva deciso di presentare all’ultimo momento. Poi non ci furono altre edizioni autorizzate dall’autore, ma solo versioni critiche basate più sui ricordi di Alma che su documenti certi. Non c’è nemmeno accordo fra cronisti, biografi ed esperti su come Mahler stesso si comportò in vita: c’è chi sostiene che l’Autore diresse la sua sesta sempre con l’Andante in posizione avanzata, e chi – come l’autorevole H.-L. de La Grange, basandosi su testimonianze (affidabili?) – scrive che già per l’esecuzione a Vienna nel gennaio 1907 Mahler ristabilì l’ordine originario. Fino a dopo la metà del ‘900 si eseguiva regolarmente la sequenza Andante-Scherzo, poi Erwin Ratz – qualcuno dice per farsi pubblicità e senza prove che non fossero i vaghi ricordi di Alma – emanò un’edizione critica che ripristinava l’ordine originale dei movimenti. E così quasi tutte le interpretazioni e incisioni da 40 anni in qua recano la sequenza Scherzo-Andante. Poi qualcuno in USA ha di recente sbugiardato Ratz, ripristinando la versione Andante-Scherzo (ma i contestatori sono già all’opera). Una interessante tabella pubblicata su Wikipedia riassume l’approccio che diversi Direttori hanno tenuto rispetto a questa scelta nell’interpretazione della sinfonia. C’è anche chi propone salomonicamente di lasciare libero ciascun Direttore di scegliere secondo la propria sensibilità del momento (e così, ad esempio, Abbado registrò con la Chicago Symphony lo Scherzo in posizione avanzata e successivamente, con i Berliner, vi antepose l’Andante). Il che però equivale a rinunciare in partenza a spiegare i contenuti estetici – se ce ne sono – della sinfonia, trattandola alla stregua – che so – di una suite di brani da balletto; e ad ammettere che tanto tutto fa brodo, in qualunque ordine si servano in tavola i piatti del menu.
Ancora: i colpi di martello (su youtube ce n’è una gran quantità, uno più esilarante dell’altro, fra cui segnalo questo, perpetrato in montaggio, irrispettosamente, alle spalle dell’incolpevole Haitink e poi quest’altro, vibrato da una fierissima martellatrice ceca; ma altri non sono da meno). Dapprima tre, poi divenuti due (e poi forse tornati tre? ma qualcuno dice fossero addirittura cinque, in origine! e la loro forza in diminuzione, il che attirò le critiche di Strauss) insieme allo scambio dei movimenti, essi completerebbero il quadro di una composizione dove la forma appare quasi come una foglia di fico messa lì per coprire le vergogne del contenuto extramusicale: in realtà un poema sinfonico contrabbandato per sinfonia! (E Mahler in questo sarebbe pure recidivo, dopo i casi della prima e – in parte – della seconda).
Ma anche autobiografico? Beh, se teniamo presente Strauss e la strana condizione di coopetition (si direbbe oggi) che caratterizzava i loro rapporti, non si può escludere che la sesta mahleriana sia anche – magari nelle intenzioni inconsce - una risposta all’amico-concorrente che alcuni anni prima, nella sua Heldenleben e successivamente nella Sinfonia Domestica, aveva descritto sereni quadretti familiari ed epiche battaglie contro i critici, da cui però lui esce vincitore, a differenza di Mahler. In fondo, se il tema in FA maggiore dell’Allegro iniziale è da associare ad Alma, perché non supporre che quello principale, in LA minore, rappresenti Mahler stesso, tutto preso dalla lotta per arrivare? E che sulla sua strada incontra presto Alma, un frammento del cui tema (note discendenti) già si intravede fin dall'inizio dell'esposizione?
Quanto al contenuto tragicamente divinatorio della sesta, risiede solo nel senno-di-poi di Alma e dei suoi amici. Anche Strauss – ancora lui – aveva scritto anni prima Tod und Verklärung, ma non certo perché si sentisse poco bene (lo citerà ancora a 84 anni, 60 dopo averlo composto!) Certo Mahler doveva essere molto meno ottimista e forse meno sicuro di invecchiare di quanto non lo fosse Strauss, e poi la sua posizione di Generalmusikdirektor a Vienna comportava - per un ebreo dalla sospetta conversione - più rogne e rischi di quella di Strauss a Berlino. Però ci si deve intendere sulla pretesa tragicità della sesta: è tragica, in senso greco, la sinfonia, o è tragica anche la circostanza materiale ed esistenziale in cui l’Autore la compone? Nel caso specifico, la seconda risposta è di sicuro errata. Mahler, negli anni in cui compose l’opera, era un uomo all’apice di tutto ciò che si può desiderare dalla vita: una bellissima e famosa moglie, due figlie (una a cavallo fra gestazione e nascita) e il posto di gran lunga più prestigioso al mondo che un Kapellmeister potesse sognare. (O forse Mahler si comportò come el Giupì delle nostre parti che, quando c’è un bel sole, invece di rallegrarsene e di goderselo, si rattrista al pensiero che – inesorabilmente - il tempo cambierà…?) Infatti, dopo ci furono certamente le disgrazie. Ma cosa dire del fatto che, contemporaneamente e anche dopo le disgrazie, Mahler scrisse la settima, che chiude con un esilarante DO maggiore, l’ottava, tutta infarcita – persino Strauss ne fu nauseato – di borghese e curiale MIb maggiore, e il Lied, la nona e i frammenti della decima, che tutto sono tranne che esternazioni sconfortanti e sconfortate (per dire: nessuna finisce più in minore, come solamente la sesta finisce). Ed è stato giustamente osservato che anche la sesta – bastava poco – avrebbe potuto assumere tutt’altro aspetto: alla misura 773 del finale (50 prima della chiusa) si arriva con una scala discendente (tromboni) di LA maggiore; interrotta alla sopratonica (misura 772) cioè ad un passo dal possibile trionfo (che avrebbe semplicemente consolidato quello dell’Allegro iniziale…) per far posto al LA minore che descriverà invece la fine tragica, gettando retrospettivamente l’alone di tragicità su tutta la sinfonia, che per la verità aveva vissuto su un continuo alternarsi di maggiore-minore, di cupezza e serenità, di dolori e gioie (di cui è costellata la vita di tutti, individui e umanità) anche e soprattutto nel conclusivo movimento.
Allora alcuni critici, nel tentativo di salvare capra e cavoli (e magari le proprie personali convinzioni) ci spiegano che – in realtà – il tragico contenuto in questa sinfonia non è il destino di Mahler, ma quello dell’umanità intera: la Vienna asburgica in dissoluzione, la guerra imminente (?! 10 anni prima !?) magari persino Auschwitz e Hiroshima, chissà. Domanda: allora la successiva settima prefigurerebbe la vittoria degli alleati sul nazifascismo? E l’ottava – col Veni, Creator - l’avvento di papa Ratzinger? Altra spiegazione del tragico: è, sul fronte artistico, il destino della musica, incapace di trovare una strada percorribile, dopo i travagli dell’800 e i colpi che le aveva assestato Wagner (e prima ancora Liszt, non a caso citato nell’Allegro iniziale). Domande: c’è allora differenza per l’esecutore dei colpi di martello immaginare di darli in testa a Mahler, o all’umanità intera, o alla musica stessa? E il Kapellmeister come fa a spiegargli la differenza? O sceglie un particolare martello, fra mille? E c’è un martello più adatto per la testa di Mahler, e un altro per quella dell’umanità o della musica? E cambia forse l’effetto per l’ascoltatore, dal puro punto di vista musicale? Oppure è l’ascoltatore che interpreta le martellate a seconda del suo personale approccio alla sinfonia? E un ascoltatore che nulla sa di tutti quei retroscena, come ci rimane?
Queste domande e questi dubbi (enigmi?) valgono, pari-pari, anche per tutti gli altri aspetti dell’interpretazione. C’è un modo di far suonare i campanacci da poema-sinfonico, e un modo diverso per farli suonare da sinfonia? Come si dovrebbe suonare il tema di Alma per far sì che Alma non si veda, non si senta e non si immagini, in modo da poterne godere (del tema, intendo) Hanslick-ianamente? E la dinamica, è per caso in relazione con l’antinomìa poema-sinfonia? Se si attacca il primo movimento con fiero cipiglio si è tragici, se lo si attacca più lento, si è… melodrammatici? L’Andante è, in realtà, Andante moderato, quindi in una zona grigia, verso l’adagio. Se un Direttore lo prende sul lento, che diciamo: sdolcinature tardo-romantiche? E se lo prende più spedito: espressionismo da XX secolo? Se lo dispone prima del finale è un lungo sguardo indietro verso la Vienna che lentamente muore, mentre il mondo – compositore in testa - corre su un treno che va verso la catastrofe. E se lo antepone allo scherzo, cosa diventa, il treno stesso che corre in avanti, verso un futuro di illusioni che prima o poi crolleranno? Insomma, mi pare che gli enigmi ce li creiamo noi e poi ci maceriamo nel cercare di risolverli.
Per chiudere questo tormentone, Berg: l’unica sesta, a dispetto di Beethoven, la definì il giovane ammiratore di Mahler, dimenticando perlomeno (in ordine di apparizione): Schubert, Dvorak, Bruckner e Ciajkovski. Quisquilie, pinzillacchere. (Ma gli possiamo perdonare tutto, in forza di ciò che – proprio grazie all’esempio di Mahler – ci ha poi lasciato.)
In definitiva, credo che la sesta mahleriana sia piena non già di enigmi, ma di incrostazioni extramusicali, che possono (e rischiano di) indirizzarne l’esecuzione da parte dell’interprete e conseguentemente la fruizione da parte del pubblico. Mahler scrisse nel 1888 una specie di poema sinfonico, poi mutato in prima sinfonia, ricco di pagine solari e di altre oscure, e culminante nell’apoteosi. 16 anni dopo scrisse un altro poema (vogliamo chiamarlo tragedia?) rivestendolo delle forme della sinfonia, ricco di pagine solari e di altre oscure, e culminante nella catastrofe. Qualunque significato si voglia dare a queste opere, e al resto della produzione mahleriana, resta che sono tutte grande musica (con gli inevitabili difetti, anche). Una musica che sentiamo proprio come attuale, a più di un secolo da quando fu composta da questo piccolo uomo arrivato dall’estrema periferia della Mitteleuropa.
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Veniamo alla serata di ieri. Se proprio si vuol parlare di approccio interpretativo alla sesta, uno degli aspetti non secondari (anche se non è certo l’unico) è legato alla sequenza dei movimenti. A me personalmente – ma non mi sogno di imporre ad alcuno questa vision - parrebbe logico che un’interpretazione che cerchi di spogliare l’opera da tutte le incrostazioni extramusicali dovrebbe anteporre l’Andante allo Scherzo (e rimuovere poi la terza martellata) ossia fare proprio il ripensamento che Mahler maturò dopo la prova generale di Essen.
Ecco: così ha fatto – meritoriamente, sempre secondo me - Daniel Harding! Il quale era al suo primo incontro con quest’opera (per la verità alla seconda esecuzione, dopo quella al Barbican dello scorso 12 novembre). La LSO viceversa ha con la sinfonia una lunga consuetudine, che nei soli sette ultimi anni l’ha vista eseguire in particolare sotto la guida di Mariss Jansons (2002) e poi di Valery Gergiev (2007), entrambi fermi assertori della sequenza Andante-Scherzo.
Credo che Harding si sia ciecamente fidato dell’esperienza della LSO, astenendosi dal prendere personali iniziative (che scadono normalmente in gigionerìa, specialmente con una partitura come questa). I tempi si possono sempre discutere, anche perché Mahler sembra su di essi volutamente sibillino (ad esempio, come interpretare Allegro energico, ma non troppo, scritto in testa al primo movimento? Il non troppo si riferisce all’Allegro o all’energico? O ad entrambi?) Harding ha seguito strade sicure, nel senso che non si è mai portato ai limiti delle ragionevoli forchette di velocità che si possono di volta in volta accettare. A parte qualche forzatura del volume delle trombe (nel finale) la sua è stata una direzione che ha rispettato la partitura alla virgola. La LSO ha fatto il resto, davvero una cosa grande, in tutti i reparti (rinforzati di un’unità – rispetto alla prescrizione mahleriana – corni, trombe e tromboni). Fantastici i corni, sottoposti da Mahler ad un tour-de-force inaudito; come le trombe, la prima in particolare, chiamata a interventi davvero mozzafiato; strepitosi – in senso proprio - gli strumentini, che spesso devono emettere in fff degli urli strazianti; così come le percussioni, che hanno un ruolo fondamentale in questa sinfonia; ma bravi proprio tutti, indistintamente.
Quindi grandi ovazioni per Harding e la sua banda, davvero ultra meritate.
All’uscita poi, forse per toglierci di bocca l’amaro della tragica fine… dolcissimi gianduiotti offerti nel foyer dai padroni di casa del FAI. Così anche la pioggerella autunnale che ci aspetta fuori sembra meno fredda e triste.
Teatro – ahinoi - con parecchi vuoti, sia in platea che nei palchi. I prezzi erano assai alti, vero, ma lo scopo non era di lucro; si vede che la crisi c’è ancora. Orchestra con layout tedesco, che vede gli archi bassi relegati al centro-sinistra, dietro i primi violini, mentre i violini secondi sono in prima fila, a destra, davanti alle viole. Palcoscenico ingombro di sedie, leggìi e strumenti, più della metà disoccupati per Mendelssohn. Subito l’occhio cade sul tavolaccio su cui si abbatterà un enorme martello ligneo nel finale mahleriano.
Il concerto per violino di Mendelssohn è così inflazionato che ormai lo si ascolta col timore di un’esecuzione di routine, di quelle che ti lasciano indifferente e non ti suscitano nuove emozioni. Tetzlaff, forse per attirare l’attenzione, lo attacca come un forsennato (col risultato di non essere impeccabile, all’inizio); poi torna nell’alveo normale, ma la sua è – andante escluso – un’interpretazione nervosa, tutta scatti e singhiozzi. Un Mendelssohn un po’ troppo espressionista, almeno per i miei gusti. Un’osservazione anche sull’orchestra: impeccabile, per carità, ma con i (relativamente) pochi professori sparpagliati in un deserto (di leggìi vuoti, già pronti per Mahler) è parsa dare un suono meno compatto del dovuto. E poi il timpano, messo laggiù da solo, a ridosso del pannello riverberante, ha con i suoi colpi sovrastato troppo il resto degli strumenti. Comunque gli applausi non sono certo mancati. È mancato invece un bis di Tetzlaff, magari del suo Bach, di cui è tanto cultore.
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La mia sesta, ebbe a dire Mahler, porrà agli ascoltatori degli enigmi che solo chi avrà digerito le mie prime cinque potrà sciogliere. Beh, anche dopo aver digerito tutto ciò che Mahler scrisse prima (e pure dopo!) della sesta, gli enigmi restano. Perchè sono più che altro di natura extramusicale e – credo io – cresciuti nella nostra testa a furia di accanirci nel cercarli a tutti i costi fuori dalla partitura.
Sul fronte strettamente musicale, la parola più autorevole (!?) l’ha scritta Adorno, in Variante e Forma, a proposito del Finale, quando ne dipinge la grandiosa immanenza formale. Certo, la forma. Abbiamo quattro movimenti (il primo in perfetta forma sonata, con tanto di ritornello dell’esposizione); le indicazioni dinamiche dei titoli nell’aulico italiano (solo brucknerianamente inquinato dal teutonico Wüchtig dello Scherzo); la concatenazione delle tonalità; insomma, parrebbe appunto Bruckner, se non proprio Beethoven!
Ma poi, leggendo di ciò che dissero e scrissero Mahler stesso e la moglie Alma (che gli fu vicinissima durante la composizione, facendo anche da copista delle parti) si viene a sapere che nella sinfonia si trovano anche: il ritratto della stessa Almschi (secondo tema del primo movimento) le bambine Putzi e Gucki che giocano in riva al laghetto (scherzo) e i colpi del destino - tre (o solo due?) tremende martellate a futura memoria - che si abbatteranno sul povero compositore (finale). Completano il quadretto i campanacci da mucca, il cui suono Mahler ascoltava sugli alpeggi durante le sue escursioni in montagna (insieme ad Alma, il cui tema li accompagna nel primo movimento); la gigantesca grancassa fatta appositamente costruire per la sinfonia (e poi non impiegata, poichè non faceva abbastanza fracasso!) e certe indicazioni dinamico-agogiche – tipo: Altväterisch nel trio dello scherzo – che poco o nulla hanno a che spartire con il classico e severo impianto formale di una sinfonia.
Molto sarcasmo – e per nulla ingiustificato - si attirò poi il compositore per l’incredibile decisione (che mascherava evidentemente perplessità profonde sull’essenza stessa della sua opera) di scambiare l’ordine di Scherzo e Andante, decisione presa in fretta e furia nelle poche ore intercorse fra la prova generale e la prima di Essen del 1906. Tuttora non c’è accordo fra i critici su quale debba essere la sequenza dei movimenti interni più aderente alle intenzioni estetiche dell’Autore: C.F.Kahnt, editore dell’opera, mise sul mercato, prima della prima, la versione originale (con lo Scherzo davanti) e, subito dopo, la versione con l’Andante anticipato, che Mahler aveva deciso di presentare all’ultimo momento. Poi non ci furono altre edizioni autorizzate dall’autore, ma solo versioni critiche basate più sui ricordi di Alma che su documenti certi. Non c’è nemmeno accordo fra cronisti, biografi ed esperti su come Mahler stesso si comportò in vita: c’è chi sostiene che l’Autore diresse la sua sesta sempre con l’Andante in posizione avanzata, e chi – come l’autorevole H.-L. de La Grange, basandosi su testimonianze (affidabili?) – scrive che già per l’esecuzione a Vienna nel gennaio 1907 Mahler ristabilì l’ordine originario. Fino a dopo la metà del ‘900 si eseguiva regolarmente la sequenza Andante-Scherzo, poi Erwin Ratz – qualcuno dice per farsi pubblicità e senza prove che non fossero i vaghi ricordi di Alma – emanò un’edizione critica che ripristinava l’ordine originale dei movimenti. E così quasi tutte le interpretazioni e incisioni da 40 anni in qua recano la sequenza Scherzo-Andante. Poi qualcuno in USA ha di recente sbugiardato Ratz, ripristinando la versione Andante-Scherzo (ma i contestatori sono già all’opera). Una interessante tabella pubblicata su Wikipedia riassume l’approccio che diversi Direttori hanno tenuto rispetto a questa scelta nell’interpretazione della sinfonia. C’è anche chi propone salomonicamente di lasciare libero ciascun Direttore di scegliere secondo la propria sensibilità del momento (e così, ad esempio, Abbado registrò con la Chicago Symphony lo Scherzo in posizione avanzata e successivamente, con i Berliner, vi antepose l’Andante). Il che però equivale a rinunciare in partenza a spiegare i contenuti estetici – se ce ne sono – della sinfonia, trattandola alla stregua – che so – di una suite di brani da balletto; e ad ammettere che tanto tutto fa brodo, in qualunque ordine si servano in tavola i piatti del menu.
Ancora: i colpi di martello (su youtube ce n’è una gran quantità, uno più esilarante dell’altro, fra cui segnalo questo, perpetrato in montaggio, irrispettosamente, alle spalle dell’incolpevole Haitink e poi quest’altro, vibrato da una fierissima martellatrice ceca; ma altri non sono da meno). Dapprima tre, poi divenuti due (e poi forse tornati tre? ma qualcuno dice fossero addirittura cinque, in origine! e la loro forza in diminuzione, il che attirò le critiche di Strauss) insieme allo scambio dei movimenti, essi completerebbero il quadro di una composizione dove la forma appare quasi come una foglia di fico messa lì per coprire le vergogne del contenuto extramusicale: in realtà un poema sinfonico contrabbandato per sinfonia! (E Mahler in questo sarebbe pure recidivo, dopo i casi della prima e – in parte – della seconda).
Ma anche autobiografico? Beh, se teniamo presente Strauss e la strana condizione di coopetition (si direbbe oggi) che caratterizzava i loro rapporti, non si può escludere che la sesta mahleriana sia anche – magari nelle intenzioni inconsce - una risposta all’amico-concorrente che alcuni anni prima, nella sua Heldenleben e successivamente nella Sinfonia Domestica, aveva descritto sereni quadretti familiari ed epiche battaglie contro i critici, da cui però lui esce vincitore, a differenza di Mahler. In fondo, se il tema in FA maggiore dell’Allegro iniziale è da associare ad Alma, perché non supporre che quello principale, in LA minore, rappresenti Mahler stesso, tutto preso dalla lotta per arrivare? E che sulla sua strada incontra presto Alma, un frammento del cui tema (note discendenti) già si intravede fin dall'inizio dell'esposizione?
Quanto al contenuto tragicamente divinatorio della sesta, risiede solo nel senno-di-poi di Alma e dei suoi amici. Anche Strauss – ancora lui – aveva scritto anni prima Tod und Verklärung, ma non certo perché si sentisse poco bene (lo citerà ancora a 84 anni, 60 dopo averlo composto!) Certo Mahler doveva essere molto meno ottimista e forse meno sicuro di invecchiare di quanto non lo fosse Strauss, e poi la sua posizione di Generalmusikdirektor a Vienna comportava - per un ebreo dalla sospetta conversione - più rogne e rischi di quella di Strauss a Berlino. Però ci si deve intendere sulla pretesa tragicità della sesta: è tragica, in senso greco, la sinfonia, o è tragica anche la circostanza materiale ed esistenziale in cui l’Autore la compone? Nel caso specifico, la seconda risposta è di sicuro errata. Mahler, negli anni in cui compose l’opera, era un uomo all’apice di tutto ciò che si può desiderare dalla vita: una bellissima e famosa moglie, due figlie (una a cavallo fra gestazione e nascita) e il posto di gran lunga più prestigioso al mondo che un Kapellmeister potesse sognare. (O forse Mahler si comportò come el Giupì delle nostre parti che, quando c’è un bel sole, invece di rallegrarsene e di goderselo, si rattrista al pensiero che – inesorabilmente - il tempo cambierà…?) Infatti, dopo ci furono certamente le disgrazie. Ma cosa dire del fatto che, contemporaneamente e anche dopo le disgrazie, Mahler scrisse la settima, che chiude con un esilarante DO maggiore, l’ottava, tutta infarcita – persino Strauss ne fu nauseato – di borghese e curiale MIb maggiore, e il Lied, la nona e i frammenti della decima, che tutto sono tranne che esternazioni sconfortanti e sconfortate (per dire: nessuna finisce più in minore, come solamente la sesta finisce). Ed è stato giustamente osservato che anche la sesta – bastava poco – avrebbe potuto assumere tutt’altro aspetto: alla misura 773 del finale (50 prima della chiusa) si arriva con una scala discendente (tromboni) di LA maggiore; interrotta alla sopratonica (misura 772) cioè ad un passo dal possibile trionfo (che avrebbe semplicemente consolidato quello dell’Allegro iniziale…) per far posto al LA minore che descriverà invece la fine tragica, gettando retrospettivamente l’alone di tragicità su tutta la sinfonia, che per la verità aveva vissuto su un continuo alternarsi di maggiore-minore, di cupezza e serenità, di dolori e gioie (di cui è costellata la vita di tutti, individui e umanità) anche e soprattutto nel conclusivo movimento.
Allora alcuni critici, nel tentativo di salvare capra e cavoli (e magari le proprie personali convinzioni) ci spiegano che – in realtà – il tragico contenuto in questa sinfonia non è il destino di Mahler, ma quello dell’umanità intera: la Vienna asburgica in dissoluzione, la guerra imminente (?! 10 anni prima !?) magari persino Auschwitz e Hiroshima, chissà. Domanda: allora la successiva settima prefigurerebbe la vittoria degli alleati sul nazifascismo? E l’ottava – col Veni, Creator - l’avvento di papa Ratzinger? Altra spiegazione del tragico: è, sul fronte artistico, il destino della musica, incapace di trovare una strada percorribile, dopo i travagli dell’800 e i colpi che le aveva assestato Wagner (e prima ancora Liszt, non a caso citato nell’Allegro iniziale). Domande: c’è allora differenza per l’esecutore dei colpi di martello immaginare di darli in testa a Mahler, o all’umanità intera, o alla musica stessa? E il Kapellmeister come fa a spiegargli la differenza? O sceglie un particolare martello, fra mille? E c’è un martello più adatto per la testa di Mahler, e un altro per quella dell’umanità o della musica? E cambia forse l’effetto per l’ascoltatore, dal puro punto di vista musicale? Oppure è l’ascoltatore che interpreta le martellate a seconda del suo personale approccio alla sinfonia? E un ascoltatore che nulla sa di tutti quei retroscena, come ci rimane?
Queste domande e questi dubbi (enigmi?) valgono, pari-pari, anche per tutti gli altri aspetti dell’interpretazione. C’è un modo di far suonare i campanacci da poema-sinfonico, e un modo diverso per farli suonare da sinfonia? Come si dovrebbe suonare il tema di Alma per far sì che Alma non si veda, non si senta e non si immagini, in modo da poterne godere (del tema, intendo) Hanslick-ianamente? E la dinamica, è per caso in relazione con l’antinomìa poema-sinfonia? Se si attacca il primo movimento con fiero cipiglio si è tragici, se lo si attacca più lento, si è… melodrammatici? L’Andante è, in realtà, Andante moderato, quindi in una zona grigia, verso l’adagio. Se un Direttore lo prende sul lento, che diciamo: sdolcinature tardo-romantiche? E se lo prende più spedito: espressionismo da XX secolo? Se lo dispone prima del finale è un lungo sguardo indietro verso la Vienna che lentamente muore, mentre il mondo – compositore in testa - corre su un treno che va verso la catastrofe. E se lo antepone allo scherzo, cosa diventa, il treno stesso che corre in avanti, verso un futuro di illusioni che prima o poi crolleranno? Insomma, mi pare che gli enigmi ce li creiamo noi e poi ci maceriamo nel cercare di risolverli.
Per chiudere questo tormentone, Berg: l’unica sesta, a dispetto di Beethoven, la definì il giovane ammiratore di Mahler, dimenticando perlomeno (in ordine di apparizione): Schubert, Dvorak, Bruckner e Ciajkovski. Quisquilie, pinzillacchere. (Ma gli possiamo perdonare tutto, in forza di ciò che – proprio grazie all’esempio di Mahler – ci ha poi lasciato.)
In definitiva, credo che la sesta mahleriana sia piena non già di enigmi, ma di incrostazioni extramusicali, che possono (e rischiano di) indirizzarne l’esecuzione da parte dell’interprete e conseguentemente la fruizione da parte del pubblico. Mahler scrisse nel 1888 una specie di poema sinfonico, poi mutato in prima sinfonia, ricco di pagine solari e di altre oscure, e culminante nell’apoteosi. 16 anni dopo scrisse un altro poema (vogliamo chiamarlo tragedia?) rivestendolo delle forme della sinfonia, ricco di pagine solari e di altre oscure, e culminante nella catastrofe. Qualunque significato si voglia dare a queste opere, e al resto della produzione mahleriana, resta che sono tutte grande musica (con gli inevitabili difetti, anche). Una musica che sentiamo proprio come attuale, a più di un secolo da quando fu composta da questo piccolo uomo arrivato dall’estrema periferia della Mitteleuropa.
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Veniamo alla serata di ieri. Se proprio si vuol parlare di approccio interpretativo alla sesta, uno degli aspetti non secondari (anche se non è certo l’unico) è legato alla sequenza dei movimenti. A me personalmente – ma non mi sogno di imporre ad alcuno questa vision - parrebbe logico che un’interpretazione che cerchi di spogliare l’opera da tutte le incrostazioni extramusicali dovrebbe anteporre l’Andante allo Scherzo (e rimuovere poi la terza martellata) ossia fare proprio il ripensamento che Mahler maturò dopo la prova generale di Essen.
Ecco: così ha fatto – meritoriamente, sempre secondo me - Daniel Harding! Il quale era al suo primo incontro con quest’opera (per la verità alla seconda esecuzione, dopo quella al Barbican dello scorso 12 novembre). La LSO viceversa ha con la sinfonia una lunga consuetudine, che nei soli sette ultimi anni l’ha vista eseguire in particolare sotto la guida di Mariss Jansons (2002) e poi di Valery Gergiev (2007), entrambi fermi assertori della sequenza Andante-Scherzo.
Credo che Harding si sia ciecamente fidato dell’esperienza della LSO, astenendosi dal prendere personali iniziative (che scadono normalmente in gigionerìa, specialmente con una partitura come questa). I tempi si possono sempre discutere, anche perché Mahler sembra su di essi volutamente sibillino (ad esempio, come interpretare Allegro energico, ma non troppo, scritto in testa al primo movimento? Il non troppo si riferisce all’Allegro o all’energico? O ad entrambi?) Harding ha seguito strade sicure, nel senso che non si è mai portato ai limiti delle ragionevoli forchette di velocità che si possono di volta in volta accettare. A parte qualche forzatura del volume delle trombe (nel finale) la sua è stata una direzione che ha rispettato la partitura alla virgola. La LSO ha fatto il resto, davvero una cosa grande, in tutti i reparti (rinforzati di un’unità – rispetto alla prescrizione mahleriana – corni, trombe e tromboni). Fantastici i corni, sottoposti da Mahler ad un tour-de-force inaudito; come le trombe, la prima in particolare, chiamata a interventi davvero mozzafiato; strepitosi – in senso proprio - gli strumentini, che spesso devono emettere in fff degli urli strazianti; così come le percussioni, che hanno un ruolo fondamentale in questa sinfonia; ma bravi proprio tutti, indistintamente.
Quindi grandi ovazioni per Harding e la sua banda, davvero ultra meritate.
All’uscita poi, forse per toglierci di bocca l’amaro della tragica fine… dolcissimi gianduiotti offerti nel foyer dai padroni di casa del FAI. Così anche la pioggerella autunnale che ci aspetta fuori sembra meno fredda e triste.
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2 commenti:
Bellissima recensione, complimenti vivissimi. La Sesta, a mio avviso, è insieme alla Settima la partitura mahleriana piú ostica da rendere. Forse solo Bernstein la padroneggiava fino in fondo.
@mozart2006
Grazie, per la verità ho cercato di elencare problemi, più che soluzioni! Bernstein mi piace, anche se non lo metterei su un piedistallo, da solo. La prima incisione di Abbado a Chicago - a dispetto della sequenza dei movimenti - mi è sempre piaciuta assai.
A presto!
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