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consulta e zecche rosse

31 marzo, 2010

Un simpatico Tannhäuser indiano alla Scala

Ieri era la quinta e penultima rappresentazione, alla Scala, per il Tannhäuser di Mehta-Fura, dopo accoglienze, diciamo così… mixed. Teatro pieno, ma non pienissimo, e successo quasi pieno per tutti.

Tanto per entrare direttamente in-medias-res, sappiamo come Wagner avesse i suoi (buoni) motivi per ambientare l'opera in Germania, precisamente in Turingia, con tanto di meticolosi riferimenti logistici a due località nei pressi di Eisenach (città natale di un certo Bach - si noti bene - non di Buddha!): il castello della Wartburg, che si trova a meno di 2Km a sud-ovest della cittadina, e il fantomatico postribolo di Venere (il Venusberg) che nella versione parigina è da Wagner dislocato con temeraria precisione presso l'Hörselberg, 5Km - o giù di lì - ad est della stessa Eisenach.

Ecco cosa scrive Wagner sulla partitura d'orchestra, Atto I, Scena III, al momento per Tannhäuser di tornare all'aria aperta, dopo la sbornia del Venusberg: Tannhäuser, che non ha abbandonato la propria positura, si trova improvvisamente trasportato in una bella valle. Cielo azzurro, limpida luce del sole. A destra, sullo sfondo, la Wartburg; a sinistra, in lontananza, il Hörselberg. (…) Nel frattempo, da dietro la scena e da molto lontano, come se venisse da Eisenach, si ode il rintocco delle campane di una chiesa. Insomma, Wagner quasi-quasi ci dà le coordinate GPS del metro-quadro su cui Tannhäuser si trova: lui è più o meno a metà strada fra Hörselberg e la Wartburg (più vicino a quest'ultima) ed ha alle spalle Eisenach. Da qui in avanti tutta l'Opera è ambientata inequivocabilmente in quei precisi paraggi. Così come l'Aida è ambientata in Egitto e i Meistersinger a Norimberga, e la Tosca a Roma, la Bohème a Parigi (che dire di una Bohème ambientata a Mumbay, con Rodolfo che, affacciato alla finestra, canta: "Nei cieli bigi guardo fumar dai mille comignoli Parigi"?)

Ma qui Wagner non viene preso alla lettera (e neanche sul serio, per la verità) e perciò abbiamo un Tannhäuser indiano, in omaggio al Maestro, ovviamente. Avesse diretto Salonen, si andava in Finlandia, col Venusberg collocato in una gigantesca sauna pubblica. Dirige Chung? In Korea, no problem. Dudamel? La Wartburg di Maracaibo, perbacco, chi non la conosce?

Insomma, Padrissa e i suoi sono in grado di ambientare qualunque opera in uno qualunque dei 190 (o quanti sono) Paesi del pianeta. L'unico problema che hanno è trovare un direttore all'altezza nel Burkina-Faso o all'Isola di Pasqua!

Viceversa, sarei pronto a scommettere che – avesse Wagner ambientato la sua storia in India - Padrissa ce l'avrebbe trasferita in Turingia (smile!)

E sempre facendo cose divertenti, mica pizza&fichi! (Del resto, chi non si è mai divertito leggendo la famosa tragedia Ifigonia in Culide?)

Insomma, Tannhäuser assurto al rango di divertissement, ohibò! E dobbiamo consolarci, perché in giro c'è di molto, ma molto peggio.

Leggendo il corposo programma di sala abbiamo la conferma (non che avessimo dubbi) che Padrissa&C sono gente che studia bene i soggetti da mettere in scena. Quindi sanno benissimo che, sul piano esteriore (e superficiale?) del contenuto, Tannhäuser non racconta miti, ma casomai storie medievali (e per buona parte vere) con personaggi e luoghi squisitamente autentici e germanici; sul piano filosofico-religioso, mostra il contrasto insanabile (o sanabile solo una volta passati all'altro mondo) fra carne e spirito, fra l'impulso animalesco – e in quanto tale nemmeno poi peccaminoso – verso eros e sesso, e l'anelito umano verso il trascendente e il divino; infine, sul piano artistico, descrive (autobiograficamente) lo straniamento dell'artista-innovatore dalle consuetudini e dalle (più o meno ipocrite o interessate) convenzioni cui l'establishment è ancorato, e con le quali è però costretto fatalmente a fare i conti o addirittura a venire a patti, o a scontrarsi mortalmente. Addirittura Padrissa&C intendono dedicare questo allestimento a tutti i Tannhäuser di questo mondo, teste matte da Giordano Bruno a Michael Jackson, passando per Richard Wagner e John Lennon! Lodevole intenzione davvero.

Siccome però il pubblico è quello che è (e secondo alcuni non è cambiato troppo dai tempi di Parigi 1861, Jockey Club di buona memoria) è meglio non andare troppo sul difficile, e quindi si parte mostrando immagini, filmati e ologrammi di un bordello in piena regola (peraltro questo combina perfettamente con ciò che scrive Wagner nel libretto, cose del tipo: si formano coppie in cui ciascuno trova l'oggetto dei propri desideri, e poi si confondono e rimescolanoe subito dopo: le Baccanti eccitano gli amanti a una lussuria sempre più sfrenata. Costoro, inebriati, si abbandonano ad ardenti amplessi.) Se si può fare qui una critica, è di tipo economico: quanto sarà costato al regista (cioè dire: a NOI) girare tutte quelle scene con innumerevoli ragazze e ragazzi, tassativamente nudi ed aggrovigliati? Quando invece Padrissa e i suoi qui potevano tranquillamente propinarci immagini di filmetti groupsex o gangbangorgy scaricate gratis da internet, così dispensando Lissner dal prosciugare il FUS, e senza per questo creare scandalo, né essere irriverenti o dissacranti nei confronti dell'Autore.

Nel Venusberg, mentre la Gertseva-Venus è sufficientemente nuda, e mostra così le sue – di gran lunga migliori – qualità, il protagonista Robert Dean Smith è coperto da regolamentare pastrano, il che ci consente di tenere aperti gli occhi mentre canta (passabilmente, benino o così-così, le sue lodi-maledizioni). Ma, dopo essere faticosamente sfuggito al bordello dall'aria divenuta ormai irrespirabile, dove si va a cacciare il povero Tannhäuser? Nella severa Wartburg, direte voi, tempio della virtù e dell'arte. Ecco cosa vediamo all'inizio del secondo atto: mentre Elisabeth saluta la teure Halle, ci sono simpatici ragazzi e ragazze che fanno un balletto tipo Smeraldo anni'70. Ma non basta, quando arrivano gli ospiti, sul solenne canto Con gioia salutiamo la nobile sala dove sempre e soltanto arte e pace possan dimorare, i ballerini si scatenano ancor più, in una cosa bollywoodiana (io veramente me lo ricordavo come il twist): roba da far pensare al povero Tannhäuser di esser caduto dalla padella nella brace (adesso si capisce bene perché, durante la tenzone, gli prenderà la voglia matta di tornare là da dove era venuto!) Sì, anche Wagner si può ballare, incredibile! Perché, come ad esempio Ciajkovski nello Schiaccianoci, ha scritto musica in 4/4 o 3/4 o 2/4 o 6/8 e così via. Chi ci aveva mai pensato? Brava la Fura a scoprirlo!

Ma a proposito di balletto, bisogna sapere che nel 1860, quando a Wagner finalmente furono aperte le porte dell'Opéra di Parigi (grazie all'intercessione della crucca Pauline von Metternich, che era entrata nelle grazie nientemeno che dell'Imperatore Napoleone III) il compositore fu avvertito che, nel secondo atto dell'opera, doveva essere tassativamente programmato un balletto. Chè a quell'ora i simpatici membri del Jockey Club, dopo essersi ben saziati e abbeverati di champagne, arrivavano a teatro per ammirare le nude gambe (allora non si andava oltre) di compiacenti ragazze che, qualche mezz'ora dopo, sarebbero finite direttamente nei loro letti. Orbene, sembra un'enormità, ma Wagner si rifiutò cocciutamente di sottostare a simile imposizione. E sfidando l'Imperatore in persona (che pagava in toto l'allestimento, si noti bene!) Wagner si rifiutò di infilare un balletto a quel punto dell'opera (considerando già fin troppa concessione la nuova, pornografica scena del Venusberg del primo atto).

Ma a noi che 'cce frega? dice Padrissa, siamo in democrazia, mica in un impero, Wagner è morto, e il balletto lo mettiamo dove ci pare! E infatti il pubblico apprezza molto.

Per la tenzone canora – una scena che si richiama nientemeno che al Symposium di Platone, e sappiamo quanto Wagner ammirasse la Grecia! - ci spostiamo invece al lunapark. Infatti, nell'austera Wartburg (o Bangalore, fate voi, visto che son tutti in turbante) ci sono - ad ospitare i canori contendenti - dei caddy da golf, o macchinine da autoscontro, ciascuna dotata di arpista, una specie di tata (anzi Tata, siamo in India!) o badante del Minnesanger di turno. Invece del motore elettrico, due robusti negroni che spingono e tirano qua e là. Ma tanto ha poco di che vantare austerità, la Wartburg, sappiamo quale indegna gazzarra vi si svolgerà, di cui vien data colpa al povero Tannhäuser, costretto a partire per Roma al seguito di pellegrini inturbantati e circondati da coloratissime, ma un po' fastidiose donnicciole che chiedono la carità (in Turingia proprio così funzionava, sapevate?)

Nel terzo atto tornano i pellegrini da Roma (sempre con donnicciole a latere). Elisabeth attraversa il corteo in cerca del suo Tannhäuser, sperandolo graziato dal Papa. Non ritrovandolo, che fa? Sentiamo Wagner: in atteggiamento doloroso, ma tranquillo (…) con grande solennità canta il suo sacrificio e resta in devota estasi. Insomma, non versa una sola lacrima, ma nobilmente offre la sua vita alla Vergine, per ottenerne l'intercessione in favore del reprobo. Ma una scena così sarebbe poco appariscente, e così il regista fa issare Elisabeth su un trespolo fino a 10 metri di altezza e da qui la pia donna allaga letteralmente di lacrime una piscina che occupa metà del palco. (Insieme alla piscinetta di cristallo del Venusberg, è forse una trovata per pubblicizzare qualche aquafan, visto che si va verso la bella stagione).

Ai bordi della quale piscina arrivano quattro lavandaie a lavare degli enormi panni, che scopriamo servire (una volta stesi, più sporchi di prima!) a proiettarci sopra immagini che supportano la parte cruciale del racconto di Tannhäuser del suo calvario a Roma: l'incontro disgraziato con un Papa talebano che, invece di perdonarlo cristianamente, lo invia direttamente all'inferno. E sulle lenzuola vediamo le immagini di un Papa (in visita in India, 1986?) che Padrissa ha accuratamente scelto fra quelli più retrivi, assolutisti, e diciamo pure repellenti che la storia della cattolica Chiesa ricordi: Woitilaccio! Mancava solo un titolo di giornale: "Giovanni Paolo II copriva i preti pedofili" …ma la regìa è stata pensata quando lo scandalo ancora non aveva occupato le prime pagine di giornali e tv, che peccato!

La scena del funerale di Elisabeth è un pout-pourri di idee genialoidi e di improbabili riferimenti alla biografia di Wagner. Sul laghetto di acqua-pianto, arriva un incrocio di piroga indiana e gondola veneziana, carica di lumini, su cui viene portato il feretro; il che è un incrocio fra Gange e Venezia: il funerale di Wagner a Bollywood? Ma allora qui si scimmiotta per caso lo Herheim del Parsifal attualmente in cartellone al tempio? Sulla trasformazione di Elisabeth in Venere (stella, non tenutaria) bisognerebbe scrivere enciclopedie e libelli, lasciamo perdere, siamo qui per divertirci, mica per pensare.

A proposito, sul programma di sala c'è una dottissima presentazione del professor Quirino Principe, che conclude con una considerazione (a proposito della lingua - originale o italiana - in cui rappresentare l'Opera): Quanti italiani amanti del teatro d'opera, ascoltando Tannhäuser in lingua originale, capiranno la meravigliosa complessità culturale di quest'opera? Vien da ridere, ma ovviamente il professore pensava a Tannhäuser, non al Bruschino o all'Elisir.

In sostanza, oggi ci si accontenta di tener buona ancora – ma per quanto ancora? perché la modernità prima o poi chiederà anche qui il suo pizzo – la musica di Wagner; le parole si lascino pure lì, perché tanto sono solo un ostrogoto grammelot, che serve giusto a far uscire i suoni dalla bocca dei cantanti. Tutto il resto: nel cesso, sostituito da trovate più o meno genialoidi. Che termini usare per operazioni di tal genere? Anticulturale, diseducativa, truffaldina?

Invece: divertimento assicurato, il pubblico ha gradito e – a differenza della prima – non ha contestato nessuno, men che meno il regista (che però non si è fatto vedere al proscenio).

Questo è lo stato-dell'arte, oggi, anno di grazia 2010. E dobbiamo accontentarci, essendoci in giro anche di peggio.

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La musica.

Mehta non mi è per nulla dispiaciuto. Come già nel Ring ascoltato uno-due anni fa al Maggio, tiene un approccio assai pragmatico, facendo ben emergere il lato italiano (meno male, non indiano!) presente – e come! – in Wagner, particolarmente in opere come questa. Nessuna enfasi gratuita, tempi forse più celeri rispetto ai metronomi di cui Wagner ha disseminato la partitura (ma che lui per primo invitava Kapellmeister e cantanti a prendere abbastanza con le molle, privilegiando la loro personale sensibilità). In un paio di occasioni ha forse lasciato troppa briglia al fracasso dell'orchestra, coprendo le voci, ma in complesso – per me – la sua è stata una direzione lodevole.

Dei cantanti, rispetto al recente Tannhäuser torinese, salverei giusto la Harteros-Elisabeth, gli altri da discreto (Dean Smith, voce debolissima, però, e Zeppenfeld-Langravio) a mediocre (Trekel-Wolfram) a insufficiente (Gertseva). Gli altri ancora, senza infamia, né lode. Bene al solito il coro di Casoni e i piccoli di Caiani.

Oggi si passa però a cose serie, da settimana santa: una passione bachiana all'Auditorium.

29 marzo, 2010

Il Parsifal di Bieito, al prezzo di quello di Wagner

Io devo condividere i miei pensieri e le mie sensazioni con il pubblico. Devo comunicarli, per questo sono diventato regista.

Mai definizione più appropriata fu data del fenomeno deteriore del Regietheater.

Il signor Bieito ha dei pensieri? Ha delle sensazioni? Le vuole/deve comunicare. Fantastico, siamo tutti occhi e orecchie!

Ma che ti combina il furbastro? Mica si mette a faticare per comporre testi e musica di un dramma, che ci comunichi i suoi pensieri e sensazioni, no!

Lui prende testi e – soprattutto – musica di un'opera d'arte ormai da secoli (si può dire) entrata nell'Olimpo, e li usa per vestirci i suoi brillanti pensieri e sensazioni!

E il pubblico paga per vedere il suo Parsifal, come per vedere quello di Wagner!

Ecco alcune sentenze del maestro da incorniciare:

Per me Parsifal tratta della crisi della religione. All'inizio del ventesimo secolo i simboli religiosi erano molto importanti. Oggi li abbiamo persi, ne abbiamo altri: Cristiano Ronaldo e David Beckam, in questa direzione si muove la nostra società.

La musica di Wagner sottintende un'architettura di arte. In scena presentiamo un'architettura, che simbolizza la fine del mondo. Ciò è appropriato per Wagner, che si spinse sempre ai confini per guardare nell'abisso. Ciò dà l'impressione dell'Apocalisse: un'architettura della fine del mondo.

Per me Parsifal rappresenta il poveraccio, culturalmente rozzo. Verrà stilizzato come un eroe, un nuovo Gesù Cristo. È il nuovo super-modello della società.

Sì, sono considerazioni davvero siderali; dico, chi sono al confronto Hegel, Goethe, Schopenhauer, Freud, Baricco?

Interessante la nota sulla locandina del Teatro: avvertiamo il nostro pubblico che in questo allestimento sono presenti scene di esplicita violenza, per cui preghiamo di tenerne conto in caso di presenza di minori o bambini.

Qualcuno (non molti) cerca ancora di dissentire.

26 marzo, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 24

È Ciajkovski il clou del concerto. Preceduto però da due composizioni dell'eclettico Leonard Bernstein, che non a caso è assai caro al Direttore.

Forse su una locandina, o su un programma di sala, non è politically correct scriverlo, ma il filo conduttore del programma è – pochi dubbi – l'omosessualità. Innanzitutto dei due autori, sia pure da essi vissuta in modo assolutamente diverso: con serenità, naturalezza e in (quasi) piena armonia con la vita coniugale e la famiglia, da parte di Lenny; e invece con patologica tensione, colpevolezza e ossessione, da parte di Piotr Ilijc. Ma è poi anche presente, in modo esplicito, in una delle opere in programma, la Serenade di Bernstein, che si richiama direttamente al platonico Simposio, dove l'amore omosessuale è al centro (o quasi) dell'attenzione.

Si apre però con Divertimento for Orchestra. Commissionato per celebrare il centenario della Boston Symphony (1980) a Bernstein – che era proprio di casa a Tanglewood, dove sorge il Music Center della BSO. Ora, la sigla BC (Boston Centenary) in musica (anglosassone) sta per SI-DO, e queste due note diventano la sigla dell'opera, suddivisa in 8 brani.

I - Sennets & Tuckets sono due termini coniati in Albione ai tempi di Shakespeare, traducendo onomatopeicamente (e maccheronicamente) Sonata e Toccata. Bernstein ci mette ritmi sincopati e grande uso di percussioni e batteria.

II – Waltz dovrebbe essere un walzer, ma è una cosa dall'andamento assai bizzarro, irregolare, anche se delicatissimo. Perché è scritto in 7/8, tempo invero inconsueto (ma anche Ciajkovski non sarà da meno).

III – Mazurka, contrariamente a ciò che si può immaginare, è in tempo lento, affidata soprattutto agli strumentini. Vi sentiamo l'oboe suonare un inciso della quinta beethoveniana.

IV – Samba: qui ci siamo proprio, rispetto al titolo, e si scatenano tromba, trombone e caraibiche percussioni.

V – Turkey Trot, una divertente parodia del fox-trot, richiama abbastanza scopertamente America da West Side Story.

VI – Sphinxes, sfingi è un breve movimento lento, oscuro, impenetrabile.

VII – Blues prolunga l'atmosfera pensosa del brano precedente.

VIII – In Memoriam; March "The BSO forever". Dopo un doveroso omaggio ai padri fondatori della BSO, ecco il panegirico… che sembra quasi portarci – con Nino Rota - al circo felliniano!

Wayne Marshall, da buon caraibico, si trova proprio a suo agio a dirigere queste note, quasi danzandovi sopra, e strappa applausi convinti.

Ecco poi Serenade, un concerto per violino, archi, arpa e percussioni, eseguito in prima assoluta a Venezia, Biennale 1954. Ispirato al Symposium di Platone (che di questi tempi è di attualità anche per via dei tanti Tannhäuser in programmazione in Italia) è suddiviso in 5 movimenti, corrispondenti agli interventi nella tenzone dei diversi personaggi:

I. Phaedrus & Pausanias (lento e allegro): il violino introduce il delicato tema di Fedro, l'amore come il dio più antico (un inciso tornerà in West Side Story… Maria); poi arriva, allegro e marziale, il tema di Pausania, dell'amore celeste, ma anche… omosessuale; i due temi poi si fondono mirabilmente, con le percussioni che imperversano.

II. Aristophanes (allegretto): si noti che Bernstein inverte la sequenza degli interventi (nel Simposio è Erissimaco a parlare prima di Aristofane il quale, con una scusa, salta il suo turno e parla dopo, criticando sia Pausania che Erissimaco). Il movimento – senza interventi delle percussioni - alterna un tema languido, femminino, e uno secco, mascolino: un modo per presentarci poeticamente il mito dell'andrògino, caro ad Aristofane.

III. Eryximachus, the doctor (presto): Erissimaco è un medico, ma possiede anche grandi conoscenze musicali (un Sinopoli ante-litteram!) e il suo è un appassionato intervento in favore dell'armonia, nel corpo come nello spirito. In questo brevissimo movimento (poco più di 100 secondi) il solista propone delle idee e l'orchestra, con poderosi interventi delle percussioni, risponde sempre e perfettamente a tono.

IV. Agathon (adagio): Agatone descrive l'Amore come il più buono e bello e giovane di tutti gli dèi. E Bernstein ci costruisce un mirabile adagio (anzi, se si esclude un centrale climax, con fortissimo delle percussioni, quasi un… adagietto mahleriano!)

V. Socrates & Alcibiades (molto tenuto e allegro molto vivace): Socrate è introdotto, in tempo sostenuto, dall'intera orchestra, che lascia poi spazio al solista, concertante con il violoncello. È la nobile perorazione del filosofeggiare di Diotima di Mantinea. Poi arriva Alcibiade, ubriaco, e l'orchestra infatti dà in escandescenze, con le percussioni a contrappuntare rumorosamente il solista.

Bravissimo Sergej Krylov e grande successo quindi per lui, che ci ripaga con un monumentale regalo: la bachiana Toccata e Fuga in RE minore! Una cosa stratosferica!

Dopo la pausa, eccoci a Ciajkovski e alla Sesta Sinfonia. Wayne Marshall qui fa una cosa davvero temeraria, ma assolutamente grande: da patetica, la trasforma in tragica, una cosa mahleriana, a tratti quasi espressionista!

Nel primo movimento troviamo una chiara reminiscenza dalla Carmen (Ciajkovski ne disseminò più ancora nel Concerto per Violino): lui si era davvero infatuato dell'Opera di Bizet:





..

Il secondo movimento, in quell'asimmetrico tempo di 5/4 (2+3) è preso da Marshall con molto brio, tutto teso, senza sdolcinamenti.

Nel terzo movimento abbiamo davvero un'esplosione di carica vitale, con il finale fracasso che scatena uno spontaneo applauso. Che fosse dovuto a ignoranza, o a genuina manifestazione di giubilo, poco importa: era del tutto meritato! E la cosa ripropone l'antico interrogativo: se siano da contemplare ed accettare applausi a scena aperta, nel bel mezzo di un'esecuzione (come si usava nell'800, peraltro).

Il quarto movimento presenta il famoso tema ottenuto per mirabile fusione di due linee melodiche separate (Violini I + Viole e Violini II + Celli):













. la cui risultante va letta (e appare all'orecchio) alternando le note di Violini II e Violini I.

Marshall lo affronta con decisione, stringendo un po' il tempo. Solo alla fine si ferma, piantato di fronte a violoncelli e contrabbassi, che hanno esalato la triade di SI minore in pppp. E resta lì, quasi in trance, per 4, 5, 6, 7 secondi (come chiudesse la nona di Mahler): qualcuno applaude, lui ancora resta immobile, l'applauso rientra, poi lui cala le braccia e finalmente, poco a poco, arriva l'applauso corale, crescente e interminabile! Una patetica da ricordare!

Si avvicina la Pasqua, e quindi ecco, per la prossima settimana, Bach!

24 marzo, 2010

Direttori rampanti

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La Münchner Philharmoniker ha trovato un nuovo, giovanissimo sostituto del ripudiato Christian Thielemann: si tratta di tale Lorin Maazel.
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Mehta in concerto (fra un Tannhäuser e l’altro)

Zubin Mehta affianca alle rappresentazioni di Tannhäuser un paio di concerti alla Scala, con un programma tutto francese.

Apertura con Olivier Messiaen e il suo Et expecto resurrectionem mortuorum. Siamo nel 1964, e il francese – peraltro commissionato a scrivere quest'opera - torna ai temi religiosi che gli erano stati così cari in giovinezza, e che poi aveva abbandonato per darsi all'ornitologìa! Ma gli uccelli (meglio, i loro imitati suoni) non mancano nemmeno qui. In assenza di testo (le parole restano solo nei sottotitoli dei 5 brani) è davvero difficile associare a questa musica un alcunché di mistico; la composizione poteva benissimo intitolarsi più asetticamente Cinque pezzi per fiati e percussioni, o qualcosa di simile, senza che nulla cambi nella percezione dell'ascoltatore.

Quindi - come per molta musica a programma, beninteso - sono i titoli a guidare la nostra immaginazione per cercare – ma è dura! - di rendere la musica congruente ad essi, non certo il viceversa! Si comincia con Des profondeurs de l'abîme, je crie vers toi, Seigneur : Seigneur, écoute ma voix! dove le profondità sono interpretate da tube e tromboni, con pesantissimi accordi che richiamano piuttosto il lento muoversi di pachidermi o ippopotami; il grido è una serie di dissonanze acute, che nessun Signore potrebbe mai apprezzare! Segue poi Le Christ, ressuscité des morts, ne meurt plus; la mort n'a plus sur lui d'empire. Un movimento lento, suonato in prevalenza dagli strumentini e con interventi di campanacci e poi di trombe stridenti, che con la Resurrezione, come uno se l'immagina, ha veramente poco a che vedere! Nel terzo brano - L'heure vient où les morts entendront la voix du Fils de Dieu... - appare l'uccello amazzonico (Uirapuru) una reminiscenza dell'incipit del movimento finale della mahleriana Resurrezione, dove sentiamo usignoli in lontananza. Poi campane, fremiti di tam-tam, trombette dissonanti e ritorno di tromboni e tube (la voce del Figlio di Dio?) Quindi segue Ils ressusciteront, glorieux, avec un nom nouveau - dans le concert joyeux des étoiles et les acclamations des fils du ciel. Tam-tam (di tre diversi calibri) gong e campanacci da vacche la fanno da padroni, con intermezzi di strumentini e trombette stridenti, con chiusa in fortissimo, che più che la voce dei figli del cielo sembra lo strepito di qualche suino sottoposto a sevizie, altro che concerto di stelle! Qui qualcuno comincia forse ad infastidirsi e applaude… sperando che sia finita. Invece c'è ancora Et j'entendis la voix d'une foule immense... dove udiamo sonorità (scimmiottate) da Gral, con campane e gong a profusione. Insomma, a mio modo di sentire, un pezzo velleitario e francamente insincero, per non dire insulso.

In ogni caso, Mehta (partitura sul leggio, fatto portare via per i successivi due pezzi) e i professori lo eseguono con la massima concentrazione, e si meritano un giusto applauso.

Dopo il laborioso trambusto per smobilitare l'ipertrofico armamentario percussivo di Messiaen e far posto agli archi (disposizione all'antica, con violini secondi sul davanti, a destra) passiamo a cose francamente più serie, con Debussy e Ravel.

La Mèr è un'opera straordinaria, anch'essa musica a programma, dove le note cercano di calzare con il soggetto, non sempre riuscendovi alla perfezione. Ma insomma, la classe non è acqua (smile!)










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Bravissimo Mehta a cavar fuori le delicate e impressioniste sonorità del grande Claude.

Chiude Ravel con Daphnis et Chloé (precisamente la seconda Suite). Che viene aperta da questo incredibile virtuosismo dei flauti:

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ripreso alla battuta successiva dai clarinetti; e sottolineato poi dalle due arpe (a turno), prima che anche la celesta ci metta lo zampino. La didascalìa ci informa: nessun rumore al di fuori dei rigagnoli formati dalla rugiada che sgocciola dalle rocce. Ecco, anche questo è un capolavoro! Travolgente poi la danza finale, col suo tempo zoppo di 5/4 (3+2) che poi sfocia in 3/4 e ancora in 2/4 per la chiusa in fortissimo.

Trionfo per Mehta e per l'Orchestra, strumentini su tutti. Il Maestro torna più volte, stringe la mano alle prime parti degli archi, alla fine unisce le mani davanti alla fronte, proprio all'indiana, e poi appoggia la destra sul cuore, per ricambiare autentiche ovazioni. Si vede che è proprio una persona serena e felice!

22 marzo, 2010

Bayreuth: si chiude un’era

Ieri è scomparso, a 90 anni, Wolfgang Wagner, nipote di Richard e dal dopoguerra alla testa del Festival di Bayreuth (prima in comproprietà col fratello Wieland, poi da solo).

Figura controversa: considerato mediocre regista (al contrario del geniale Wieland, che introdusse a Bayreuth concetti di regìa teatrale poi magari degenerati nel peggiore Eurotrash) e organizzatore furbastro ed opportunista, ha contribuito a rilanciare il teatro del nonno in un momento in cui, causa il fiancheggiamento al nazismo, la cosa era tutt'altro che scontata.











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Poi ne ha consolidato la fama anche con scelte dove il coraggio si accompagnava spesso al più bieco opportunismo. Ed è stato quindi anche responsabile dell'abbassamento del livello qualitativo medio del festival, che viene oggi snobbato proprio dai migliori interpreti wagneriani.

Oggi le due figlie (di mogli diverse) Eva e Kathi sono al posto di comando (hanno già un'edizione al loro attivo) e fra un paio d'anni dovranno gestire l'evento del secolo, i 200 anni dalla nascita del fondatore dell'impero.

19 marzo, 2010

E bravo Conlon!

La newyorkese milanesizzata blogger di Operachic ha intervistato di recente il maestro James Conlon (che ha diretto – per me assai bene – l'ultimo Rigoletto alla scala).

Un passo topico dell'intervista è questa considerazione di Conlon:

Our job as performers is to surrender our own egos and to completely open ourselves to the work itself and to transmit that work as if we're not there. This is on the one hand a very easy and simple thing to do. On the other hand, we're all crippled by our own egos. To me, I'm not interested in knowing what my interpretation is. When I was studying at The Juilliard School, the big movement was objectivism vs. subjectivism and the popular methodology was, "You have to find your own feelings, your own voice, and you have to find yourself. What's your take on this piece of music?" Well, I had an allergy to that type of conversation. I thought, "I know what my feelings are and I couldn't care less what my own feelings are. I want to know what the object is." Is that objectivism? Well, yes, that's objectivism. I want to know who Haydn is. I want to know who Beethoven is. I want to know how their music works. How does it fit? Why is it this? And why is it that? And to me, the beauty of that method is that you can devote yourself to the other, and a byproduct of that is that you find yourself. However if you go from the other point of view -- the "find yourself" subjectivism -- you don't find the other.

In sostanza, il Maestro sembra dire: io vorrei poter trasmettervi la quinta di Beethoven, non la Quinta di Conlon, da paragonare con quella di Abbado, di Furtwängler, di Kleiber o di HvK.

Personalmente: parole sante!

Stagione dell’OrchestraVerdi - 23

Interessante e impegnativo programma alla stagione dell'OrchestraVerdi, con pezzo forte la sinfonia Turangalila di Olivier Messiaen.

C'è anche un'insolita anteprima, chissà se e come legata alla presenza sul podio del basco Juanjo Mena e a festeggiamenti con cui il Consolato di Spagna a Milano celebra l'attuale turno di presidenza spagnola della UE: la città di Bilbao (presente il sindaco) si fa un po' di pubblicità, con la proiezione di un filmato che mostra le magnifiche sorti e progressive della famosa città del Paese Basco, passata in 30 anni da una profondissima depressione all'attuale prosperità. E fin qui, tutto bene. Peccato che il festeggiamento comporti anche l'esecuzione di una ouverture di uno sconosciuto musicista di Bilbao, Juan Crisóstomo de Arriaga (primi dell'800) una cosa a metà fra Paisiello e Rossini. Nulla di peggio da ascoltare subito prima di Preludio+Liebestod dal Tristano di Wagner. È come bere un bicchierone di vecchia spuma prima di un calice di amarone. Nobbuono.

E forse ciò è funesto anche sulla concentrazione dell'orchestra, che è tutt'altro che perfetta in Wagner, colpa anche di Mena, sicuramente: tempi piuttosto slentati, poco o nulla del pathos che caratterizza queste pagine, qualche evidente imprecisione negli attacchi. Inoltre – e qui nessuna colpa per maestro e orchestrali - l'esecuzione puramente strumentale del finale del dramma lascia sempre il sapore di un manicaretto che il cuoco abbia cucinato dimenticando un ingrediente fondamentale; che so, come mangiare una bagnacauda senza acciughe, o i tortelli di zucca senza… la zucca o addentare un panino al salame, cui qualcuno ha sottratto il salame. Nella Liebestod la voce ha una sua propria linea melodica autonoma, che l'orchestra sostiene e richiama, ma che mai raddoppia alla lettera. Quindi se si esegue il brano senza la voce, davvero non ci si raccapezza, si sente solo l'accompagnamento che, per quanto sia grande musica, è appunto solo un accompagnamento. Non ho mai capito perché Wagner per primo o qualche musicista avveduto non abbia pensato di far cantare, al posto della soprano, che so, una viola o un flauto, per darci almeno l'idea vaga di cosa sia il brano originale. Tanto per fare un esempio, quando una soprano esegue in concerto Sempre libera dalla Traviata e non si vuole scomodare un tenore solo per fargli cantare i versi fuori scena (sono poche parole, ma straordinariamente efficaci) lo si sostituisce con il canto di un violoncello, per non farci perdere quel bellissimo effetto. Pazienza, anche stavolta restiamo con un certo amaro in bocca, e buonanotte.

Nell'intervallo i simpatici ospiti baschi si fanno perdonare Arriaga, offrendo un assaggio del loro pregevole rosso della Rioja Alavesa.

Così ristorati, ci possiamo apprestare all'impresa – titanica invero – di ascoltare il clou della serata: Turangalila di Olivier Messiaen, questa strana e spuria sinfonia in dieci movimenti. In realtà una cosa che ha tratti del concerto per piano e onde martenot (complimenti ai solisti: il giovane Simone Pedroni e la veterana Valerie Hartmann-Claverie) o della cantata (senza voci); altri del poema sinfonico, altri ancora delle variazioni su alcuni temi, o addirittura di una messa sacro-profana, insomma un UMO (oggetto musicale non meglio identificato).

Messiaen ci ha raccontato assai dettagliatamente contenuti e tecnica costruttiva di questo monumentale inno all'amore (che non per nulla si ispira al Tristan): ma come sempre, se e quando una musica ha bisogno di troppe spiegazioni tecniche, è perché da sola fatica a far vibrare le corde interne dell'ascoltatore. Così in sala la prendono per la Leb'wohl di Haydn, nel senso che - ad ogni pausa - c'è gente che si alza e se ne va, alla spicciolata. Al termine del 5° movimento, che chiude con il fracasso di tutta l'orchestra in fortissimo, molti pensano sia finita, e qualcuno comincia ad applaudire. Ma siamo solo a metà! Lenny Bernstein (che diresse la prima del 1949 con la Boston Symphony) faceva a questo punto un intervallo in piena regola, come dargli torto!

Chi è stoicamente rimasto fino alla fine (erano ormai le 23!) ha comunque tributato il giusto riconoscimento a professori, solisti e maestro per l'abnegazione mostrata.

Il prossimo appuntamento prevede "la Patetica" introdotta proprio da Bernstein.

17 marzo, 2010

Tannhäuser a Torino

In attesa dell'arrivo di Zubin Mehta e dei saltimbanchi della Fura alla Scala, ieri sera un Tannhäuser di pura e semplice musica al Teatro Regio di Torino. Della serie: così non occorre chiudere gli occhi per godersi l'opera (smile!) L'anfiteatro del Regio non è proprio colmo-colmo (brutto segno) ma il peggio accadrà al secondo intervallo.

Tannhäuser è rimasta un'opera incompiuta: Wagner riconobbe, proprio a Venezia, poco prima di morire, di esserne ancora debitore al mondo (sì, al mondo, non a qualche appassionato d'opera… lui era un pochino, ma proprio poco, megalomane, si sa). Quindi la curiosità principale che nasce di fronte ad un'esecuzione è: quale versione o rivisitazione ci verrà propinata? La prima, del 1845? O la seconda, o la terza, del 1847, con Venere in bella vista nel finale? O quella del 1861 (del colossale tonfo parigino)? Ma proprio quella di Parigi-Francia, con l'intera Ouverture, o quella parigina-tedesca del 1872-1875, con l'ouverture castrata a due terzi per correre in fretta e furia al tristanizzato – ed anche un filino meisterizzato - bordello di Venere? O qualcosa di diverso ancora?

Bychkov è andato sul sicuro, offrendoci l'ultima versione messa a punto da Wagner, che è – con qualche buona ragione – quella statisticamente impiegata di più, anche se proprio a Bayreuth si ostinano – non sempre – a dare la versione ante-Parigi, forse per postuma ripicca contro quei simpaticoni del Jockey Club, ingrati, che fecero a pezzi l'opera rivisitata proprio per loro e preparata con più di 200 prove, a spese dell'Imperatore!

Quanto alla storia delle interpretazioni, qui c'è una vera enciclopedia!

Bychkov attacca l'Ouverture, e le primissime battute non sembrano molto felici (forse per colpa di un clarinetto?) poi però tutto fila per il giusto verso (tempi compresi). Il baccanale è davvero travolgente, quindi udiamo i dolcissimi richiami delle sirene da lontano (il coro femminile è fuori dalle quinte, sul palco solo i maschi, pronti per la terza scena). In proscenio Venere e Tannhäuser. Michaela Schuster (che in realtà ha un fisico da Giunone, e pure abbondante) mostra subito pregi e difetti, ottima espressività, con qualche urlo sforzato. Johan Botha (che ha la stazza dell'ultimo Lucianone, con la metà dei suoi anni) è esordiente nel ruolo, ma già interprete di altri importanti personaggi wagneriani: all'inizio sembra un pochino contratto, quasi timoroso sulla prima grande frase in RE bemolle (Dir töne Lob!) poi via via migliora, già dalla seconda (che sale al RE naturale) e sulla terza (che sale ancora, al MI bemolle) mostrando la sua voce chiara e squillante, ben adatta per una parte tutta spostata verso l'alto del pentagramma; espressioni efficaci, insomma, grande autorevolezza e padronanza del personaggio. Che non potrà che migliorare con la consuetudine al ruolo.

Brava Erika Grimaldi nelle vesti del pastorello: pur sistemandosi dietro l'orchestra (davanti al coro) la sua vocina passa benissimo, insieme alla struggente melodia del corno inglese (che non arriverà alle altezze del Tristan, ma poco ci manca) suonato da Alessandro Cammilli. Entrano poi, sistemandosi sul proscenio, il Landgravio, un sicurissimo Kwangchul Youn, che ha imparato il ruolo in quel di Bayreuth, e i cantori. Fra i quali spicca subito il Wolfram di Boaz Daniel, voce morbida, assai appropriata per il ruolo (ne avremo conferma i due atti successivi). Jörg Schneider era Walther, Jochen Schmeckenbecher Biterolf, Dominic Armstrong Heinrich e Lucas Harbour Reinmar. Tutti all'altezza dei rispettivi – non impossibili – ruoli. Wagner – megalomane, al solito – prescrive, fuori dall'orchestra, sulla scena, addirittura 12 corni! Bychkov ha la fortuna di disporre di esecutori eccellenti, e gli basta un quarto della dotazione (la stessa cosa accade nel secondo atto, dove Wagner prescrive 12 trombe sulla scena!)

Nel secondo atto vediamo subito la Elisabeth di Ricarda Merbeth. Ottima presenza e portamento, anche lei con luci ed ombre: benissimo finchè canta sul piano, poi, quando deve andare sul forte, e oltre il SOL acuto, mostra una certa tendenza all'urlo. La cosa migliore la farà nel terzo atto. Breve apparizione di Wolfram, che introduce il protagonista e qui abbiamo il duetto Gepriesen sei die Stunde, dove Botha spicca in modo particolare. Torna Hermann, ancora autorevole nel suo incontro con Elisabeth; poi i cori (maschi in alto, signore sotto) per una grande e per nulla enfatica scena della presentazione dei cantori e della tenzone. Dove Boaz Daniel ancora si mette in bella mostra con il suo inno all'amore, poi interrotto dall'esplosione di Botha, che canta per la quarta volta (salendo ancora, al MI naturale) la sua irresistibile attrazione verso Venere.

Poderosa la scena successiva, con cantori e coro ad aggredire il blasfemo, interrotti a tratti dalle irruzioni di Elisabeth (Haltet ein! Zurück, sempre con gli alti-e-bassi ricordati). Dopo il rinsavimento di Tannhäuser (la cui frase principiante con Zum Heil den Sündigen zu führen e fino a für sein Leben è giustamente lasciata al solo protagonista, senza il contrappunto di coro e cantori) si arriva al finale, ancora con il gigantesco concertato generale, culminante nella perentoria intimazione al reprobo: Nach Rom!

Ecco, qui un buon 5-10% di spettatori deve aver preso alla lettera l'invito e se l'è squagliata (correndo a Porta Nuova a prendere l'ultimo Frecciarossa per la capitale?) Desolante, a dir poco!

All'inizio del terzo atto vediamo finalmente sul palco tutti i coristi: in alto i ragazzini di Claudio Fenoglio, sotto le signore e più in basso ancora i maschi (per ragioni, penso, legate alla resa del coro iniziale dei pellegrini). Dopo l'introduzione strumentale, magistralmente diretta da Bychkov, è ancora Wolfram a presentarci Elisabeth, in perenne attesa del ritorno dell'amato. Strepitoso qui il coro di Roberto Gabbiani, un piano davvero religioso, che esplode poi nel fortissimo di Der Gnade Heil, una cosa da mozzare il fiato!

Nel successivo lamento di Elisabeth, la Merbeth dà il meglio di sé, sia come canto che come drammaticità di interpretazione. Come pure fa Boaz Daniel porgendoci con calore e gusto la sua canzone alla stella della sera, mentre la ragazza se ne esce, accompagnata stupendamente da Bychkov. Arriva Tannhäuser col suo lunghissimo racconto della penosa avventura romana, e poi torna sul palco Michaela Schuster per il suo ultimo disperato tentativo di riportare il peccatore al peccato.

Forse Bychkov lascia troppa corda all'orchestra (effettivamente deve fare un fortissimo) ma sta di fatto che lo stentoreo Elisabeth! di Wolfram (autentico momento topico) perde un pochino della sua drammaticità. Ora si chiude, con i ragazzini a cantare il loro parsifaliano Heil! Heil! Der Gnade Wunder Heil! Prima che tutti – in un colossale fortissimo – suggellino la redenzione del Nun geht er ein in der Seligen Frieden!

Un trionfo? È dir nulla! Schiamazzi e urla da stadio (o c'erano troppi interisti?) ad accogliere le sortite di cantanti e direttori e le alzate di professori e coristi. Una serata di quelle da incorniciare.

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Tornando alla Scala, proprio questa sera il Teatro più importante del pianeta (se lo dice Lissner…) offre la prima del suo nuovissimo allestimento. Che viene annunciato con un francamente inquietante giochetto di parole - Mehta-Fura - che lascia temere interpretazioni metaforiche, quindi di norma strampalate (trattandosi di Wagner e non del Rossini buffo). E pensare che Wagner già nel 1852 aveva sentito il bisogno di scrivere un autentico e dettagliatissimo trattato di messa-in-scena della sua (allora) penultima opera, con considerazioni sui tagli (fatti a Dresda per colpa di cantanti inadeguati) e consigli, anzi ordini in piena regola per Kapellmeister e Regisseur, oltre che per gli interpreti.

Chi, col regista, è ancora più severo dello stesso Wagner è il professor Quirino Principe (autore fra l'altro della pregevole traduzione del libretto, reperibile sul sito del Teatro). Trascrivo testualmente: Un regista che metta in scena Tannhäuser di Wagner deve conoscere la biografia e la poesia di Wolfram von Eschenbach e di Biterolf e di Reinmar von Zweter e di Heinrich der Schreiber, deve saper leggere e capire i testi in «mittelhochdeutsch», percorrere a menadito la storia e la geografia della Turingia, ed avere visitato la Wartburg. Altrimenti, è meglio che cambi mestiere, e si volga a professioni ugualmente onorevoli come il cancelliere di tribunale, l'idraulico, la guardia di finanza, l'impiegato dell'Agenzia delle Entrate.

Ora invece, Padrissa ci confida che lui – anziché nella ridente e linda, ma un po' noiosa Turingia - è andato a cercare ispirazione in India (in omaggio al Kapellmeister) e lì avrebbe trovato Venusberg e Wartburg quasi osmoticamente compenetrati …a Bollywood. La scena finale ci viene così anticipata: le lacrime di Elisabeth formano un lago, in cui Tannhäuser si purifica (e poi ci muore annegato? ndr) e in cui si specchia la luce di Venere, intesa qui non come tenutaria di casini, bensì come luminoso pianeta in cui Padrissa (non Wolfram) ha trasformato la suddetta Elisabeth. Povero Padrissa, come idraulico forse (data la tecnologia da acquari che la Fura impiega in questa occasione) posso anche vedercelo, ma come impiegato dell'Agenzia delle Entrate (?!) Che dio ce la mandi buona, viceversa converrà chiudere gli occhi e sperare almeno in Zubin e nelle voci…

12 marzo, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 22

L'atteso ritorno di Rudolf Barshai sul podio de laVerdi è – ahinoi – andato in fumo. Ragioni di salute lo hanno costretto al forfait (certo che quest'anno, Vedernikov escluso, le cose coi russi non stanno andando per il verso giusto!) A sostituirlo torna qui - dopo un mese o giù di lì - il Maestro Giuseppe Grazioli, con programma diverso da quanto riportato sul pieghevole a stampa originale (doverosamente ristampato per l'occasione!)

Si comincia con Shostakovich e la Sinfonia da camera, in realtà opera proprio di Barshai (peccato davvero che non fosse lì a dirigerla!) che vi trascrisse l'Ottavo Quartetto in DO minore op.110. Scritto in un momento non propriamente celestiale della sua vita (1960, idee persino di suicidio!) questo quartetto ha un carattere programmaticamente tragico, ma di una tragicità di cui lo stesso compositore quasi si vergognò successivamente: perché abbastanza affettata e quindi forse insincera, come la dedica propagandistica (imposta dal partito e francamente post-zdanoviana) alle vittime di fascismo e guerra.

Anche qui – come in innumerevoli altre sue opere - il compositore presenta subito la sua sigla DSCH (RE-MIb-DO-SI) che poi pervade l'intero quartetto. Una vera e propria manìa, questa del buon Dimitri, quasi fosse l'istinto del cagnolino che deve segnalare il suo passaggio in ogni dove, alzando la gambetta! Tutti i movimenti (escluso il quinto ed ultimo) terminano con l'indicazione attacca, quindi ciascuno sfocia nel successivo senza soluzione di continuità, dando al pezzo una connotazione quasi di fantasia.

Dopo il lugubre Largo iniziale, appena rischiarato da languide melodie del violino solo – qui Luca Santaniello ha avuto modo di mettersi in luce - l'Allegro molto è uno dei tipici moti perpetui di Shostakovich, dove un tema ossessionante e martellante viene contrappuntato, nel nostro caso, da quello della sigla DSCH, in diverse sezioni dell'orchestra. Si passa poi all'Allegretto (uno Scherzo con Trio, di fatto) che si apre con la solita sigla, poi sottoposta a diverse variazioni. Chiudono i due movimenti in Largo, che ci riportano all'atmosfera lugubre dell'inizio, con triplici colpi da destino che bussa alla porta e pochi squarci di luce, come nella parte centrale del quarto tempo. Finisce tutto in un progressivo spegnersi del suono, sul motivo (indovinate!) DSCH. Pregevole l'interpretazione di Grazioli, tenuto conto della (probabile) scarsa consuetudine con il pezzo.

Si continua con Franz Schubert e la sua Quinta Sinfonia. Se escludiamo la Grande (e magari l'Incompiuta) tutte le altre (e non solo la Piccola, che sentiremo prossimamente) sono in effetti delle sinfonie-cammeo (destinate ad esecuzioni quasi private, con complessi ridotti) rispetto alle quali anche l'altro Franz, il vecchio Haydn, che seguirà nel programma, pare un titano. In più, nel 1816 erano già sul mercato (e da 4 anni) ben otto delle nove sinfonie di Beethoven, per non parlare di Mozart! Tuttavia è innegabile che queste sinfoniette del Franz poco più che ragazzo abbiano tutte un fascino discreto… schubertiano, appunto!

Dopo l'Allegro iniziale, con introduzione brevissima e forma sonata piuttosto eterodossa, l'Andante con moto presenta un tema il cui incipit (dominante-mediante-dominante) ci ricorda quello del Largo della Sinfonia 88 di Haydn, che qualcuno sospetta addirittura scritto da Mozart (come si vede che tutti quanti respiravano la stessa aria…)

Il tema del menuetto poi è di chiara derivazione mozartiana (K550):



















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Il Finale è un Allegro vivace in forma-sonata, che Grazioli approccia con fiero cipiglio ma rispettando sempre la leggerezza e il carattere cameristico dell'opera.

Si chiude con la London di Haydn. Centoquattresima sinfonia (ma in tutto pare siano 106 o addirittura 108) di uno che, dopo averne scritte già 103 (o 105, o 107) ancora ne aveva voglia. Questa però è l'ultima, promesso! Poi, bontà sua (nel senso letterale del termine) si dedicherà, prima di togliere il disturbo, a cosucce come La Creazione e Le Stagioni, oltre che ad una messe di messe per i suoi mecenati di Esterhàza.

Essendo retrocessi nel '700, anche la disposizione dell'orchestra cambia: da moderna qual'era, adesso diventa alto-tedesca, con i primi violini davanti a destra e gli archi bassi al centro-sinistra.

Apertura che più haydniana non si può: Adagio in RE minore (17 battute) e poi Allegro in RE maggiore. Forma sonata con certificato di garanzia, sia pure con economicità di mezzi (il primo tema fa anche da secondo, semplicemente portato sulla dominante LA). Poi segue l'Andante (SOL maggiore, ci si poteva giurare!) e quindi il Menuetto ancora in RE maggiore, con scolastica modulazione al SIb del trio. Il Finale la dice lunga sullo spirito che animava il 63enne Josephus in quel di Londra, poco prima di tornarsene a casuccia:





Così Grazioli ha modo di regalarci, con l'Orchestra, uno squarcio di primavera, che fuori sembra ancora molto di là da venire. Di ciò ringraziamo lui, i musicanti e Haydn!

Il prossimo appuntamento – dopo un filtro wagneriano per introdurre l'atmosfera – sarà dedicato a Turangalîla di Messiaen.

11 marzo, 2010

Eurotrash revival

Divertente questa recensione, fatta da un musicista del Wiltshire, della Traviata ripresa quest'anno alla Komische Oper Berlin (si replica fino a maggio, per i patiti del genere).

Protagonista di questo trash (del 2008) il genialoide Hans Neuenfels, ovviamente osannato dalla critica (ma solo quella di cui si pubblicano estratti sul sito del teatro, toh!) per le sue geniali intuizioni.

Fra le quali il nostro Guy Edwards ci elenca la guardia del corpo di Violetta (per difenderla da se stessa, non dagli ammiratori) che Alfredo ammazza, e a cui poi strappa il cuore; Giorgio Germont che ha una zampa zoccolata di animale al posto del piede sinistro (in Provenza deve far comodo); Alfredo e Douphol che non giocano a carte, ma a chi meglio infilza un cuore (di Violetta?) messo su un vassoio.

Ma il meglio arriva alla fine, quando, durante il baccanale, la guardia del corpo di Violetta ricompare, provvisto di enormi coglioni gonfiabili, che poi infilza – prima di andarsene - con uno stiletto, facendoli così esplodere.

perdonami lo strazio recato al tuo bel core

10 marzo, 2010

Da una casa di morti alla Scala


Z mrtvého domu di Leoš Janáček è forse il fiore all'occhiello del cartellone scaligero 2009-2010: prima rappresentazione italiana in lingua originale, direttore-super (Esa-Pekka Salonen) e regista-super (Patrice Chéreau). Il fatto di arrivare buona ultima – tre anni dopo la prima di Vienna, e poi Aix e il Met - a mettere in scena questa co-produzione dovrebbe dare alla Scala qualche vantaggio legato all'esperienza, sul fronte registico, ma anche musicale. Prima di questa produzione - creata originariamente e già in DVD da Boulez, cui è subentrato, dal Met, Salonen – avevamo la fondamentale interpretazione dei Wiener con Charles Mackerras, autore della moderna edizione critica di quest'opera che Janáček non aveva fatto in tempo ad ultimare in tutti i dettagli, e che i suoi contemporanei – magari in buona fede - avevano inizialmente adulterato alla grande, particolarmente nel finale, dove l'originale era stato totalmente travisato. Agli interessati segnalo che sabato 20 marzo, ore 18, la Bayerischer Rundfunk trasmette una registrazione dell'opera dal Met, con Salonen.
Lo scorso 24 febbraio, presso il Ridotto Toscanini, il consueto incontro di Prima delle prime - meritoria iniziativa de Gli amici della Scala - aveva ospitato un'interessante presentazione di Angelo Foletto (che di questi incontri fu l'ideatore più di 10 anni fa) e del Prof. Fausto Malcovati, che si erano soffermati sul retroterra letterario (dostojevskiano, da esperienza diretta) dell'opera e sulla maestrìa con cui Janáček ha saputo tradurre in suoni – ma prima ancora in una solida struttura drammatica - questo allucinato e allucinante squarcio di vita vissuta dentro un campo di lavoro russo della prima metà del 1800.
Janáček resta ancorato saldamente alla tonalità (e alla modalità) anche se nelle ultime opere decide – ma sembrerebbe più che altro per vezzo? – di abolire le armature di chiave dai suoi pentagrammi (con ciò infarcendoli poi di bemolli, diesis e bequadri, a la dodecafonica…) Altra curiosità: il personaggio di Aljeja fu assegnato dal compositore ad una soprano, decisione rispettata da Mackerras a suo tempo (l'estensione va dal MIb grave al SIb acuto) ma in questo, come in altri allestimenti, è interpretato da un tenore, il che riduce ad una sola (e marginale) la voce femminile all'interno dell'opera.
Opera davvero quasi unica nel suo genere, sia dal punto di vista della trama, di fatto inesistente e ridotta ad una sequenza di flash di vita nel bagno penale (Janáček eveva personalmente fatto un cut&paste di spezzoni del testo russo) e conseguentemente dal punto di vista musicale: una sequenza di motivi, frasi e incisi che apparentemente sembra caotica e priva di qualunque narrativa. E forse non solo apparentemente, se dobbiamo credere a ciò che lo stesso compositore confidò del suo modo di procedere nella stesura della parte musicale. La stessa ouverture, scritta prima del resto, ha solo vaghissimi legami con il corpo dell'opera. Anche senza studiare la partitura, basterà leggere la minuziosa analisi di Harry Halbreich per rendersi conto di come siamo di fronte ad una musica che – con uso stupefacente del colore e del timbro – ci fa vedere con l'orecchio la condizione di vita di quello spicchio di società e lo stato esistenziale di ciascuno dei suoi componenti, ognuno dei quali ha una diversa personalità, una diversa storia e un diverso approccio al proprio futuro.
Finisce con l'invocazione alla libertà (questo il finale adulterato della prima edizione, che chiudeva con un maestoso SI maggiore):




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poi frustrata – nell'originale oggi per fortuna ripristinato - dal perentorio DO con cui la guardia urla il suo terzo Marrrš! Però un fondo di speranza rimane, se è vero che la marcia finale (a sipario velocemente calante) è un allegro che sfocia nel REb maggiore.
Ora, suonare e cantare un'opera siffatta credo sia un'impresa di per sé (questo ne spiega forse lo scarso numero di rappresentazioni) e quindi va dato merito a Salonen e ai cantanti di aver offerto una prova maiuscola, che gli ha meritato un grande tributo da parte del pubblico di una Scala che mostrava pochissimi vuoti, nonostante il nevischio imperversante là fuori.
Qualche considerazione sull'allestimento, che per un'opera siffatta è a dir poco cruciale.
Mentre le scene di Peduzzi (quanto poi imposte dal regista è da vedere) sono di una piattezza fino eccessiva (almeno all'inizio del secondo atto – siamo all'aperto ed è una giornata di sole, per quanto siberiano - un pochino di luce e di colore in più non dovrebbero mancare) devo dire che la regìa di Chéreau mi è sembrata di una fedeltà quasi assoluta al testo e alla musica di Janáček. Persino minuziose didascalie del libretto sono rispettate quasi alla lettera. Giustamente il regista aggiunge idee sue proprie, e geniali (come il particolare degli occhiali persi da Gorjancikov e recuperati da Aljeja, oltre che le movenze curatissime di ciascun personaggio). Ma chiunque abbia letto il libretto (non necessariamente anche Dostojevski) si immagina precisamente di vedere in scena ciò che Chéreau ci propina. Praticamente perfetto, e complimenti!
Ma allora viene spontanea la domanda (maliziosa) al grande regista: perché non ha seguito la stessa strada quando (35 anni fa ormai) inscenò il Ring del centenario a Bayreuth, o anche quando (2 anni fa o poco più) ci presentò il Tristan, qui alla Scala?
Non solo, ma lo Chéreau di questa Casa sembra anche avere sconfessato quello che, proprio a proposito del Ring, negava ogni cittadinanza alla Zeitlösigkeit dell'Opera, calando proditoriamente il mito wagneriano nell'attualità di oggi. Invece oggi abbiamo uno Chéreau che ci mostra – e lo dichiara apertamente nelle sue esternazioni – una vicenda che è fuori dal tempo, uguale a se stessa in tutte le epoche e sotto tutti gli orizzonti. Mah…
Chiudo prendendomi la soddisfazione – io dilettante-nessuno - di irridere al sommo Paolo Isotta, che sul Corriere ha scritto una recensione zeppa di sciocchezze e meritevole di querela da parte degli eredi del compositore. A cominciare dall'affermazione secondo cui il libro di Dostojevski sia ormai introvabile (giudicate voi). Poi, per lui nell'opera manca ogni barlume di quella commozione mistica onde Dostoevskij è pieno. Ma che opera ha visto? O che tasso alcolico aveva nel sangue? E ancora: Non narreremo delle vicende testuali dell'ultimo lavoro del compositore ceco, tanto complicate esse sono. Ma che libretto ha letto? Forse quello in ceco, dove anche lui – come la maggior parte di noi - non ci capisce nulla?
Ma la migliore è questa frase: E non ripeteremo nemmeno una sua colossale ingenuità, che porta gli occhi suoi propri a disprezzare il suo genio, essere la lingua ceca già musica, anzi la sola musica possibile, e i tentativi, paradossalmente a tratti riusciti, di scrivere musica ricalcante la lingua del suo Paese. Sì, era proprio ubriaco (Isotta, mica Janáček) adesso è sicuro!
Dopo aver dato del giovane a Salonen (essendo tutto relativo, il finlandese sarà magari giovane rispetto a Isotta, ma ha pur sempre 52 anni, o Isotta ha scoperto la sua esistenza solo oggi?) la chiusa dell'articolo è precisamente da gulag: Scrive Janáček in esergo alla partitura: «In ognuno di questi criminali c'è una scintilla divina». La sua Opera dimostra radicalmente il contrario. Intanto, se vogliamo stare all'ufficialità – il frontespizio della partitura, per l'appunto – Janáček vi scrive "In ogni creatura (tvor) una scintilla divina"; e poi, basta ascoltare la musica per convincersi che è proprio così. Ma Isotta lo pagano anche?

09 marzo, 2010

La nona di Mahler secondo Esa-Pekka

Esa-Pekka Salonen di questi tempi risiede a Milano: tra concerti e opera non ha davvero un minuto libero. Ieri sera ci ha proposto, alla Scala, in un concerto della Filarmonica, la sua vision dell'ultima sinfonia (completata) di Gustav Mahler. Teatro affollato, ma non proprio al completo, orchestra disposta alla moderna (rinforzata di un corno e un clarinetto) e puntualità quasi …finlandese!

È stato giustamente osservato come nelle 6 misure introduttive ci sia in realtà tutta la sinfonia: così come uno zigote, un'unica cellula, contiene i suoi 46 cromosomi, che determineranno infallibilmente la natura del futuro individuo.









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Salonen fa emergere mirabilmente arpa e secondo corno (che cita il Mahler diciannovenne di Das klagende Lied) prima di lanciare i secondi violini nell'esposizione del primo tema (che riprende il discorso da dove lo aveva lasciato Das Lied von der Erde - Abschied e Leb wohl…) Insomma, come ogni interprete che si rispetti, sa conquistare immediatamente il pubblico, catturandone l'attenzione e l'interesse, che poi non scenderanno più, fino alla fine.

Il primo movimento è un continuo alternarsi – una curva bioritmica, si direbbe – di serenità, allegrezza e sconforto, se non addirittura disperazione. Ci si sente lo stato d'animo di un uomo che ricorda, ma anche vive tuttora, momenti sublimi, di grandezza, di felicità, di gloria (basti pensare ai richiami del finale della prima sinfonia). E poi, immancabilmente, al culmine dell'ebbrezza, arriva la depressione, lo schianto repentino, il pessimismo più cupo, persino un mortorio! Allo stesso modo gli incantevoli giorni delle sue ultime estati Toblachiane venivano immancabilmente interrotti dal duro richiamo del dovere, dall'alienante città (Vienna o NewYork, fa lo stesso). Come nel finale della sesta? Sì, ma là c'era non poca affettazione, martellate in primis, qui invece l'anima è proprio nuda! Non sono un finlandese, e quindi posso solo sospettarlo: ma, secondo me, il finlandese Salonen di questi sbalzi improvvisi di umore deve saperne molto, a livello personale; e ciò gli consente di compenetrarsi come pochi altri in questa schizofrenica partitura. Da lasciare letteralmente senza fiato - dopo le reminiscenze dell'Abschied (Die Welt schläft ein…) - la stupefacente cadenza che conclude il movimento, sul primo tema (FA#-MI) dell'oboe, che si spegne sul RE di ottavino e violoncelli in armonici.

Poi arriva il goffo e grossolano secondo movimento, con quei fagotti ad introdurre una comoda danza popolare. Subito però i clarinetti, in modo impertinente, ci rimandano all'ewig del Lied von der Erde! Dopo la seconda sezione quasi diabolica torna, nel trio, quello che può essere definito il leit-motif dell'opera: la seconda discendente mediante-sopratonica, nei corni e primi violini. Fanno capolino anche atmosfere che rimandano al secondo tempo della quarta sinfonia. Poi ancora un selvaggio e ubriacante sviluppo che si arena per sfinimento, ancora sulla scala ascendente dei fagotti – prima – e di controfagotto e ottavino poi, a chiudere in pianissimo, col pizzicato degli archi alti. Salonen ha benissimo in mano l'orchestra, ha anche la partitura sul leggìo, che guarda di traverso, di tanto in tanto. Sempre perentori gli attacchi, gesto preciso e secco, senza inutili platealità.

Il Rondò-Burleske è davvero un capolavoro: di Mahler e di Salonen. Anche qui si capisce tutto dalle prime 7 battute, davvero fulminanti, sui righi del compositore, come nella resa dell'interprete! Poi è tutto una vera e propria ubriacatura, interrotta dalla sezione solenne, che ci rimanda alla chiusa della terza sinfonia, col gruppetto (che sarà il cardine del Finale) a farla da protagonista, dapprima presentandosi con portamento nobile, ma poi trasformandosi in autentico sberleffo, nel clarinetto in LA, ma più ancora in quello piccolo in MIb. Il tutto culmina nel più stretto e poi nel presto conclusivi, dove i pur bravissimi Trepper Philharmoniker sembrano faticare a stare alle calcagna del Maestro, ma chiudono comunque in modo più che degno.

Che dire dell'Adagio conclusivo? Pura metafisica. Un trattato di esistenzialismo trasferito dall'anima direttamente sul pentagramma. Bruckner (nona) l'ispiratore, certo, ma qui c'è riassunta tutta la parabola di Mahler, in termini squisitamente musicali, sia chiaro. Alla battuta 13, dove i primi violini entrano – più rigorosamente a tempo – per esporre la seconda strofa del primo tema, Salonen è così deciso nel gesto che… perde la bacchetta, finita tra i piedi di un violinista: per un po' di battute dirige a mani nude, finchè il professore gli recupera lo strumento di comando. Tutta l'orchestra è come una corda tesa; stupenda la resa che Salonen ottiene dell'Höhepunkt dei corni, uno dei passaggi più straordinari di tutta la musica mai scritta. Danilo Stagni qui si supera e la cosa – oltre al resto della sua maiuscola prestazione – gli merita un gesto inconsueto da parte del Direttore: alla fine, Salonen sale fin sul palchetto dove sono sistemati i cornisti, e si va a complimentare personalmente con la prima parte dei Filarmonici!

Tornando a bomba, l'Adagio finisce in sospeso, degradando di un semitono dal RE maggiore del primo tempo, con una lunghissima cadenza, le cui ultime 34 misure sono affidate ai soli archi, contrabbassi esclusi. Il violoncello solo – assai dolce ma espressivo – fa due discese cromatiche, prima LA-SOL#-SOL e poi ancora SI-SIb-LA-SOL#-SOL: quest'ultima a me richiama irresistibilmente alla memoria quel Seines Elendes jammerte mich (MI-MIb-RE-DO#-DO) con cui Isolde ricorda la pena da lei provata di fronte alla miseria di Tristan morente.

Quindi, dapprima adagissimo, poi lento (sul ricordo della giornata, che è bella su quell'altura) e infine con la massima lentezza, arriva la chiusa, un autentico approdo all'omega, un'ora e venti minuti dopo l'alfa dei violoncelli. Si appoggia sulla dominante, ma solo apparentemente, poiché alle viole che vi ondeggiano intorno si aggiunge la tonica nei violoncelli e la mediante nei secondi violini: quindi una perfetta triade di REb maggiore: crepuscolare redenzione? un altro modo di mormorare ewig, ewig? chissà…






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Esa-Pekka chiede l'impossibile agli archi, primi violini in pppp (!) e gli altri in ppp spegnendosi. La Scala è in apnea, come il Duomo al sollevarsi dell'ostia… un religioso silenzio, che poi sfocia in una liberatoria ovazione, anzi in un vero e proprio trionfo per Salonen e per tutti. Un'emozione davvero indimenticabile!

E questa sera, sempre Scala e sempre Pekka!