affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

24 novembre, 2014

Giulio Cesare per la prima volta a Torino

 

Quando si dice la tempestività: non sono passati nemmeno tre secoli (!) dalla prima di Londra e già il Regio di Torino ha ospitato Giulio Cesare (in Egitto).

Veramente più che in Egitto è in uno scantinato di un Museo Egizio, così per lo meno lo ha ambientato Laurent Pelly in questa produzione proveniente da Parigi (2011): un modo come un altro (e ce ne sono di ben peggiori, va detto!) per far digerire a noi scafati del terzo millennio una mappazza confezionata quando si portavano le parrucche e si girava con lo spadone alla cintola. Eh già, il barocco!

Ciò che ci rende particolarmente ostico questo genere di spettacolo è una micidiale miscela fatta di soggetti più o meno improbabili (come peraltro molti nell’intero teatro musicale) e soprattutto del terreno sonoro su cui sono adagiati: i cosiddetti recitativi secchi, dove le voci e il continuo sembrano proprio volerci torturare con qualcosa che non è né musica, né parola, ma una perfida fusione del peggio di entrambe…

Dopodichè, miracolo dei miracoli, ecco che da questo arido deserto spuntano oasi, palmizi e dimore principesche, e vi sgorgano chiare, fresche e dolci acque! Sono i numeri musicali, e soprattutto le arie. Parliamoci chiaro: anche nel caso in questione ciò che ha salvato l’opera dal cimitero della storia della musica è precisamente… la musica! Che oggi a 300 anni di distanza, grazie al mago Händel, è ancora capace di affascinare e di emozionare, mentre lo spettacolo a noi rischia di risultare una pizza indigeribile e insopportabile.

Ma bisogna avvicinarsi ancora un po’ al nocciolo della questione, per rendersi conto dell’insolubilità del nodo musica-teatro che caratterizza (rispetto ai gusti nostri, sia chiaro) questo genere di opere. In esse c’è sicuramente azione e inter-azione fra personaggi (= teatro!) ma essa è purtroppo relegata quasi esclusivamente a quelle parti supportate dal recitativo secco, cioè la componente per noi indigeribile dell’opera. Invece la componente non solo digeribile ma (proprio nel caso di Händel) addirittura entusiasmante, emozionante, affascinante… ecco, questa componente è intimamente connessa con la musica vera, cioè con le arie, dove però di azione, interazione - e quindi di teatro - non v’è quasi nulla, poiché lì c’è solo il cantante (quasi sempre un solo cantante) impegnato a raccontarci con monologhi (magari di celestiale lunghezza) i suoi gravi - o presunti tali - problemi esistenziali. E lo fa appoggiandosi appunto sull’aria, fra l’altro strutturata in modo davvero dittatoriale: sezione A, magari subito ripetuta con varianti, poi sezione B, contrastante, e quindi ancora la sezione A con abbellimenti lasciati all’interprete.

Per avere un’idea del problema, prendiamo come esempio proprio il Giulio Cesare: nell’originale intonso (a Torino è stata fatta qualche sforbiciata) su 4 ore complessive nette di spettacolo, abbiamo circa 50 minuti di recitativi secchi (= teatro) e più di tre ore di arie o consimili (= monologhi). Mettiamoci ora nei panni del regista, cui compete la componente teatro dello spettacolo: per quanto detto sopra, il suo campo di azione è limitato al 25% scarso della durata complessiva, perché sul restante 75% abbondante (quello che determina però la sopravvivenza del lavoro!) lui non può praticamente nulla, poiché condizionato dalle ferree leggi di questo genere di opera. Certo, nel presentare le arie può agire sulla recitazione, sui movimenti e sulle espressioni del volto dell’interprete, ma siamo ad aspetti poco più che marginali del teatro… Perché lì tutta l’azione è irrimediabilmente ferma per definizione, totalmente sospesa, in attesa che l’interprete abbia finito di presentare il suo elaborato, rigorosamente in struttura A-B-A. E allora ecco che al regista non resta che scimmiottare teatralmente quella struttura dell’aria facendo assumere all’interprete posizioni diverse per le due sezioni A e per la B, oppure introducendo alle spalle dell’interprete dei movimenti (di cose o persone) che attutiscano l’inevitabile staticità che indissolubilmente si lega al numero musicale.

E così accade anche per questo allestimento di Pelly: che si inventa uno scenario magari intelligente (il retrobottega di un museo egizio) per attingervi mille risorse che gli servono brillantemente per fare del teatro per… 30 minuti, mentre per le restanti 3 ore si vede costretto a miseri trucchi, tipo far cantare al malcapitato interprete dell’aria di turno la sezione A al proscenio, la sezione B appollaiato su un trespolo e la ripresa della sezione A sdraiato a pancia all’aria! E/o facendo contemporaneamente muovere qualcosa o qualcuno (quasi sempre inservienti e/o reperti archeologici del museo egizio) alle spalle o davanti all’interprete, tanto per dar l’idea che lì ci sia teatro! Ma raggiungendo invece il mirabile risultato di distrarre l’attenzione dello spettatore proprio dalla parte più a-valore-aggiunto dell’opera!    

Si dirà: ma anche Mozart è ancora strutturato così. E anche molto Rossini, se è per quello… E il Fidelio che è in programma a SantAmbrogio contiene – nell’originale – una buona dose di parlato (puro) accanto al cantato.

Sì, però attenzione: rispetto a Händel (che pure i Mozart e i Beethoven idolatravano) c’è qualche piccola differenza, e non solo quantitativa (il minor peso relativo dei recitativi secchi o del parlato); perché è la struttura della parte cantata ad essere totalmente diversa: certo ci sono ancora i numeri, ma sono assai più liberamente strutturati – o de-strutturati! - e proprio in funzione di acquisire quella teatralità che prima vi era quasi assente.

Ecco perché sono personalmente convinto che un’edizione in forma di concerto, o semi-scenica come si usa dire oggi, con taglio del 90% almeno dei recitativi secchi (sostituibili facilmente con la voce di un narratore e/o con audiovisivi che in poche battute spieghino allo spettatore l’azione che non viene mostrata) renderebbe assai più giustizia a Händel e al suo Giulio Cesare. Come a cento altre opere, anche non barocche, per la verità. E anche a rischio di trasformarle in qualcosa di più vicino al recital di canto, piuttosto che insistere a proporre messinscena che fatalmente rischiano di far più danno (alla musica) che altro: certo, così i vari Pelly si dovrebbero dare all’ippica, ma l’art.18, se si abolisce, si abolisce per tutti…
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Sulla parte allestimento e in particolare sui costumi aggiungerò che Pelly (di cui ho recentemente deplorato la goliardica visione del Comte rossiniano proposta alla Scala) è stato più tradizionalista che mai, ricoprendo gli interpreti con corazze, calzari, tuniche e pepli (mancava solo qualche elmo con la cresta!) che paiono trafugati da un vecchio set di BenHur; e abbigliando le donzelle di Cleopatra con abiti e orpelli squisitamente settecenteschi, probabilmente simili a quelli della prima di domenica 20 febbraio 1724 a Haymarket. Efficace l’impiego delle luci (Joël Adam). Sulle scene di Chantal Thomas (e relative comparse di lavoranti e muletti trasportatori) ripeto che l’idea non è proprio da buttare, poiché almeno conserva la coerenza dell’ambientazione con il soggetto.
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Discrete e anche buone le notizie dal fronte sonoro: innanzitutto un bravi! agli strumentisti del Regio e dell’Academia Montis Regalis, il cui Direttore stabile, Alessandro De Marchi, ha curato da par suo la concertazione dell’opera. Tutti innalzati di un metro e mezzo rispetto alla buca normale, per condivisibili ragioni. Bene anche il Coro di Claudio Fenoglio, pur impegnato da Händel con grande parsimonia. Quanto ai contenuti della partitura, il secondo atto è stato quello più… preso di mira (magari a fin di bene): vi è stata recuperata, cosa non infrequente, l’aria di Nireno (Chi perde un momento) dalla seconda versione (1725) dell’opera e spostata alla fine la strappalacrime Se pietà di me non senti, facendo così chiudere l’atto a Cleopatra invece che a Sesto.

Sonia Prima ricopre il ruolo del titolo: devo dire che la sua prestazione non mi è parsa impeccabile, soprattutto nelle parti più virtuosistiche delle arie, mentre l’ho trovata assai più convincente nelle esternazioni più intimistiche del complesso personaggio. Buon per lei che noi non abbiamo avuto diretta esperienza del Senesino, così possiamo evitare imbarazzanti paragoni (smile!)

La giunonica (quindi, probabilmente poco cleopatresca…) Jessica Pratt fa qui il suo esordio nel barocco e se la cava discretamente (ma per emergere in questo repertorio serve probabilmente lavorarci assai più a fondo): la voce c’è e arriva tranquillamente ai super-acuti, come nella sua ultima aria, però mi pare manchi ancora di quella fluidità e agilità necessarie a questi ruoli (dove per fortuna non si deve risalire alla Cuzzoni per trovare interpreti di grande spessore).

La trionfatrice del pomeriggio è stata indubbiamente Sara Mingardo, un nome, una certezza: la sua è una Cornelia quasi perfetta, non aggiungo altro.

Maite Beaumont impersona Sesto: mi sarei aspettato da lei più… mascolinità, ecco. È vero che si tratta di un giovinetto, ma Händel gli fa tirar fuori le unghie spesso e volentieri, e ciò non è emerso al meglio.

Il Tolomeo di Jud Perry mi ha personalmente lasciato indifferente: certo il personaggio sembra fatto apposta per non piacere, però questo non significa che debba anche dispiacere il suo canto.

Come detto, per Nireno (qui Riccardo Angelo Strano) è stata riesumata l’aria del second’atto e l’interprete ce l’ha proposta con un’esagerazione di cachinni francamente degna di miglior causa.

Meglio di lui ha fatto Guido Loconsolo come Achilla: voce di bel timbro e autorevolezza appropriata al personaggio.

Senza aria (smile!) è rimasto solo il povero Antonio Abete (Curio) che ha sostenuto onestamente i suoi recitativi secchi.
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Grande successo per tutti in un teatro piacevolmente affollato: oggi Torino non batte Milano solo nell’arte pedatoria!

21 novembre, 2014

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 10


Il flamboyant Wayne Marshall (uno dei tre Direttori Principali Ospiti) esordisce nella stagione con un bel pieno-di-RavelPieno e anche… piano, visti i due concerti offerti dal palinsesto e proposti da uno degli aficionados dell’Auditorium, Roberto Cominati.    

Anche il pezzo di apertura avrebbe in realtà a che fare con la tastiera: infatti è Alborada del gracioso (serenata mattutina del giullare) quarto dei 5 Specchi per pianoforte composti nel 1905. Noi però ascoltiamo la versione orchestrale che l’Autore produsse 13 anni più tardi. La maestria di Ravel in fatto di orchestrazione rifulge qui più che mai, basti pensare alla suddivisione degli archi, per i quali nella sezione centrale (Plus lent) del brano sono previste ben 24 parti (6-6-5-4-3)!

Questa di Ravel è una Spagna immaginaria perché… immaginata (forse dai racconti della madre) ma non per questo meno suggestiva ed accattivante. L’intera orchestra sembra impiegata come fosse un’unica, gigantesca chitarra, che accompagna danze sfrenate o languidi canti. Insomma, un breve ma straordinario affresco musicale, che l’orchestra ci porge nel migliore dei modi.
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Dal Ravel giovane passiamo direttamente a quello maturo, anzi ormai prossimo all’inesorabile decadenza, legata probabilmente all’incidente d’auto del 1932: sono i due concerti per pianoforte. Arriva quindi il… pilota di jet Cominati per cimentarsi dapprima con il Concerto in RE, quello amputato della mano destra, richiesto a Ravel dallo (e quindi dedicato allo) sfortunato quanto ricco pianista Paul Wittgenstein, tornato dal fronte ukraino della Grande Guerra (e dalla conseguente prigionia in Siberia) con il solo braccio sinistro…

Ravel ha cercato in tutti i modi di dissimulare la presenza di una sola mano, con una scrittura che – impegnando il solista al massimo – dà l’impressione che il suono provenga da tasti percossi da entrambi gli arti! Il Concerto è in un solo movimento, anche se vi si distinguono alcune sezioni in agogica cangiante: dapprima c’è un rigido alternarsi fra strumenti e solista (introduzione in Lento degli strumenti gravi) poi il pianoforte solo con una prima cadenza, quindi ancora la sola orchestra e poi il solista in tempo Più lento. Ora abbiamo il dialogo (Andante) che sfocia nell’Allegro (6/8) di piglio marziale e sapore jazzistico, un lungo passaggio con interventi improvvisi del solista e di strumenti diversi. Dopo una grande accelerazione, dove si sentono quasi degli accenti del Bolero, torna il tempo lento iniziale, orchestra e solista dialogano accanitamente, finchè si arriva alla virtuosistica cadenza conclusiva, chiusa infine da 5 battute di crome martellanti dell’intera orchestra.

Possiamo ascoltare il dedicatario in brani (fra cui la cadenza) del concerto in questa esecuzione a Parigi, 1933.

Cominati ha fatto del suo meglio per farci digerire questo pezzo che è francamente ostico, oltre che per l’interprete, anche per l’ascoltatore: non è un caso che fra autore e dedicatario fossero insorte, ai tempi, divergenze e persino liti sui contenuti estetici dell’opera.
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Ancora Cominati nel celebre Concerto in SOL, da lui già eseguito e con grande successo qui in Auditorium più di 3 anni fa. Questo lavoro è praticamente contemporaneo dell’altro, ma ha una struttura assai più tradizionale, quindi più abbordabile, oltre a risentire ancor più dell’influsso americano (Ravel aveva viaggiato in USA) e così jazz e blues vi hanno una parte fondamentale (evidentissima già all’attacco del tema del clarinetto, che pare proprio Gershwin!)

Il lungo centrale Adagio assai è noto per aver impegnato Ravel fino alla consunzione fisica (parole sue). In esso compare, fra gli altri e verso la fine, un bellissimo intervento del corno inglese, ieri suonato dalla bravissima Paola Scotti.

Il breve Presto conclusivo è una palestra di virtuosismo, e non solo per il pianista. Ad esempio i due fagotti sono chiamati, nella sezione centrale, ad autentiche acrobazie, con inebrianti volate di semicrome, e lo stesso avviene verso la fine per tutti gli strumentini.

Cominati non si smentisce e ci offre ancora un’interpretazione davvero trascinante, accolta con grande calore.
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Tornando indietro negli anni (nella vita di Ravel, s’intende) ecco per finire la seconda suite di Daphnis&Chloé, che include tre brani (Alba, Pantomima e Danza generale) della seconda parte del balletto e dura poco più di 15 minuti, circa un quarto dell’intero balletto. La partitura prevederebbe anche la presenza del coro, che qui (come quasi sempre) non viene scomodato, anche perchè Ravel stesso ha pensato a come rimpiazzarlo con parti dell'orchestra.

All’apertura, flauti e poi clarinetti sono impegnati in incredibili virtuosismi (biscrome ondeggianti) sui quali ottavino e flauto paiono uccellini che cinguettano al sorgere del sole, sottolineato dall’esplosione di tutta l’orchestra, mentre Daphnis ancora dorme. Arriva poi a svegliarla il pastore con il suo gregge (accompagnato dal clarinetto). Quindi la Pantomime inizia con il flauto che suona il richiamo di Daphnis, fino al'abbraccio fra i due innamorati e al giuramento, che apre la travolgente Danza generale, in LA, dove si alternano il tempo zoppo di 5/4 (3+2) e quello ternario, fino alla conclusiva apoteosi in 2/4.


Marshall e soprattutto i ragazzi non si sono risparmiati,  meritandosi così l’applauso del loro pubblico, che peraltro non era proprio oceanico: chissà, forse parecchi frequentatori abituali dell’Auditorium hanno storto il naso di fronte ad un menu troppo a senso unico, un po’ come una cena a base di solo… camembert (smile!)

17 novembre, 2014

Ancora Simonacido alla Scala

 

Ieri penultima recita alla Scala del Boccanegra targato Barenboim-Domingo. Quest’anno, a differenza della prima edizione di qualche anno fa, la coppia è relegata (almeno dal punto di vista dei tempi di programmazione) a secondo cast (?!)

Teatro con il solito e un po’ deprimente colpo d’occhio dei palchi occupati forse al 50%, cosa cui andrebbe posto rimedio (a meno che non ci sia un sacco di gente che butta quattrini in abbonamenti e biglietti che poi non utilizza… mah).

Di questo Simone si sapeva ovviamente tutto, fin dal 2010, e poco di nuovo è emerso oggi. Bravo per me Barenboim, che con questo Verdi evidentemente si sente a suo agio, bravi con lui gli strumentisti e bravissimi i coristi di Casoni.

Fra gli interpreti Fabio Sartori è quello che ha convinto di più (per lui l’unico applauso a scena aperta della serata) ma questo già la dice lunga sulla mediocrità del resto. Anastassov ha una voce adatta a salette per pochi intimi (Barenboim lo ha inesorabilmente coperto, specie nella scena finale, e forse questo è l’unico appunto da muovere al Kapellmeister); per lui gli unici buh alla fine. La Serjan direi senza infamia e senza lode, una voce certo adatta al personaggio di Amelia-Maria - né soprano drammatico, né leggero - ma ieri piuttosto opaca e in certi momenti calante. Un filino meglio Rucinski, voce proprio baritonale (!) anche se nell’ottava bassa tende a… sparire. Panariello, Albani e Lavarian come da minimo sindacale (ma a questi ruoli non si chiede di più).

Eccomi quindi al Topone: che può cercare di ingrossare la voce quanto vuole, ma resta sempre un… Gabriele Adorno! Nobbuono davvero, perché a cantare le note giuste sarebbe capace anche… Sartori! E così, col protagonista cantato dal cantante sbagliato, addio Simone. 

Tiezzi non inventa concetti arditi, si lascia andare solo nelle ultime battute, quando ci mostra il popolo in abiti… verdiani e poi il solito specchione che cala dall’alto e si inclina, facendo vedere al pubblico l’orchestra a 45 gradi! (sempre meglio che a… 90, smile!)  

15 novembre, 2014

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 9


Zhang Xian ancora sul podio per proporci un tardo- e tardissimo-romantico concerto. Il tardo sarebbe poi Antonin Dvorak, che incastona fra due sue composizioni il tardissimo Erich Wolfgang Korngold, aka… la musica di Errol Flynn! Concerto già andato in onda questa settimana in quel di Bolzano-Trento, dove laVERDI ha fatto tappa martedi e mercoledi. 

Ma andiamo con ordine. Apre le danze (è proprio il caso di dirlo) Karneval, che il venerabile Aldo Ceccato (di Dvorak innamorato…) ci aveva proposto un paio di stagioni orsono. Eseguendolo da solo – come del resto è prassi istituita dall’Autore medesimo – si perde il fil rouge che lo lega agli altri due brani del ciclo (Natura, Vita, Amore) rappresentato da una specie di motto musicale che compare nelle tre opere del trittico. Ma pazienza, anzi… meglio così, tutto sommato.

Vigorosa prestazione dei ragazzi, che così scaldano i muscoli per il prosieguo del concerto, che vede il 24enne Eugene Ugorski (nato a SanPietroburgo, ma emigrato a 5 anni in California, al seguito della famiglia) cimentarsi con il Concerto per violino di Korngold. Opera composta dopo la WWII, quando Korngold, avendo ormai fatto il suo (gran) tempo come autore di colonne sonore di Hollywood, si rimise a comporre musica (cosiddetta) seria.

Un concerto che sembra volersi rifare a modelli del profondo ‘800 (che so, Wieniawski o Bruch o Saint-Saens) o magari del primissimo ‘900 (Sibelius) calati dentro un mondo che nel frattempo è cambiato da così a… cosà (non so se questo spieghi la presenza di una cospicua batteria di percussioni, peraltro impiegata con grande parsimonia). E infatti qualcosa di Sibelius si intravede, così come del conterraneo Mahler (alla cui moglie Alma Werfel il concerto è dedicato) anche se le reminiscenze più evidenti sono quelle delle musiche da film, con cui il compositore originario della Boemia (austriaca, ai tempi) aveva inondato l’America.   
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Seguiamone la struttura in questa recente esecuzione di Arabella Steinbacher.

Il Moderato nobile che apre il concerto (in RE maggiore, tonalità che è quasi un must nella fattispecie) è basato su due temi presi da colonne sonore di film dell’Autore:

Il primo (tema-a) è subito esposto (a 26”) dal violino solista e viene dalla colonna sonora di Another Dawn, un film poco fortunato del 1937. Il solista arricchisce la melodia (51”) con un controsoggetto e qualche moderata variazione, poi ecco un crescendo che culmina (1’21”) su una veloce ascesa dei flauti a cui segue una risposta del solista, che inserisce qualche virtuosismo e quindi esegue una scalata fino alla sensibile DO#, sulla quale un rullo di timpani e i trilli di flauti e clarinetti preparano (1’45”) la riesposizione del tema-a nell’orchestra, subito però raggiunta dal solista che contrappunta il tema con veloci figurazioni che ricordano il finale del concerto di Sibelius.

Qui abbiamo una lunga transizione cadenzante, affidata al solista con interventi dell’orchestra, finchè a 2’54” l’oboe introduce un ponte (basato sempre sul tema-a) che vede impegnati gli archi in veloci semicrome; ponte che conduce, su un intervento dei corni, all’esposizione (3’16”) del secondo tema (tema-b) Meno mosso, cantabile. Ligio alle convenzioni (effettivamente si può qui parlare di forma-sonata, con sviluppo limitato) Korngold lo presenta nella tonalità dominante di RE: LA maggiore. Il tema è di stampo vagamente mahleriano - 4a sinfonia – e proviene dalla colonna sonora di Juarez (si ascolti a 1’33”) del 1939. Il solista lo sviluppa con grande nobiltà e portamento (oltre che inframmezzando un paio di velocissime scale ascendenti) fino a chiudere, su un glissando dell’arpa, sul DO maggiore. Qui (4’54”) si può individuare l’inizio dello sviluppo, dove è il corno a farci riudire l’incipit del tema-a, mentre il solista riprende le figurazioni che richiamano Sibelius, fino a sfociare (5’26”) in una cadenza (sulla quale c’è qualche intromissione dell’orchestra) con passaggi in corda doppia, cadenza che poi porta ad un’ascesa fino ad un trillo sul RE.

E quindi, a 6’54” abbiamo la ripresa, dove si ripresenta, nel canonico RE maggiore in orchestra, il tema-a, sul quale ancora interviene il solista che riprende le redini del discorso e con veloci arpeggi guida al ritorno – dopo un gran rullo di timpani - del tema-b (8’02”) in corni, oboi, clarinetto, violini e celli, e in tonalità appropriata alla circostanza (RE maggiore!) Dopo che il solista ha completato l’esposizione del tema, a 9’15” un crescendo generale dà inizio alla coda, che a 9’51” si fa parossistica, col solista rimbeccato da autentici starnuti dei legni e degli archi, solista che chiude con la sigla del tema-a su cui si schianta l’intera orchestra.

Il secondo movimento, Romance, impiega un tema derivato, peraltro abbastanza liberamente, dalle musiche per il film Anthony Adverse del 1935:

La struttura è tripartita, del tipo A-B-A, quindi con il tema principale che incastona una sezione centrale, contrastante nella tonalità più che nell’atmosfera.

10’22” Vibrafono, arpa, violini II e viole, poi seguiti dalla celesta preparano un tappeto di SOL maggiore, appena sporcato da un FA#. A rinforzarlo entrano flauti e oboi (10’37”) poi i clarinetti e i corni, che preparano l’entrata del solista (una prima versione prevedeva l’ingresso del clarinetto ad esporre il tema principale).

10’54” il violino solista espone il bellissimo tema, languido, caratterizzato da un ondeggiamento fra dominante, tonica (SOL) sottodominante e risalita alla sensibile, subito sviluppato (11’21”) con salita fino alla mediante superiore. L’entrata del corno inglese (11’47”) introduce una nuova frase del violino, che comincia una lunga peregrinazione che lo porta a sfociare (12’45”) in DO maggiore, dove inizia (13’07”) una transizione che porta (13’30”) ad una lunga e languida cadenza che chiude la prima esposizione del tema. 

La breve sezione centrale del movimento – Poco meno (misterioso) - inizia a 15’07” con un improvvisa virata a MI maggiore. Violino, legni e archi, con la celesta, sembrano dipingere soffici arabeschi sonori, sfociando in SI maggiore dove (16’00”) i primi violini cominciano a ricordare l’incipit del tema principale, due volte, salendo prima al SIb, poi al DO#. Qui rientra il solista (16’06”) ad esporre il tema in FA maggiore (!) ma tornando subito sul precedente MI per poi avvicinarsi - passando dal SI fino a raggiungerlo a 16’50” - al SOL maggiore di impianto. Da qui riprende lo sviluppo del tema, che si protrae languidamente fino a 18’46” (Tranquillo) dove inizia la conclusiva e sognante cadenza.

Anche il finale - Allegro assai vivace, 2/4 in RE maggiore - è tributario di una colonna sonora, precisamente quella di The Prince and the Pauper, del 1937. È in effetti costituito da una serie di variazioni sul tema dal film. Curioso che il tema non venga esposto immediatamente, ma sia preceduto (e poi seguito) da sue variazioni.

20’08” Uno schianto dell’orchestra apre il finale e il solista subito entra con una variazione del tema, una specie di giga, tutta in terzine e in staccato. Lo imitano poco dopo tutti i legni, prima che il violino la riprenda a sua volta. Il gioco si ripete, ovviamente con continue varianti e interventi di diverse sezioni dell’orchestra, finchè (a 21’20”) ascoltiamo per bene il tema, esposto dal solista in SIb maggiore:

Notiamo subito che il suo incipit richiama da vicino quello del tema iniziale del concerto. Vedremo come alla fine verrà scandito proprio come lo era stato il primo, alla chiusa del movimento iniziale. Quindi possiamo da subito apprezzare la coerenza tematica di questo concerto, e il suo carattere ciclico.

Il tema ha un controsoggetto, che udiamo a 21’34” nel violino, di sapore mozartiano: sale da mediante a dominante e da qui fino alla settima abbassata superiore. Poi il tutto è ancora ribadito, finchè si torna (22’11”) dopo una presa di respiro, al RE maggiore e al tema variato. Come da sacri canoni, a 22’35” il solista lo riprende nella dominante LA maggiore, questa volta tutto in quartine di semicrome. E così si continua con l’orchestra e sporadici interventi del solista, fino ad arrivare a 23’43”, dove il violino riespone il tema nella sua forma genuina e adesso nel canonico RE maggiore.

A 23’57” è il violino di spalla che si sostituisce momentaneamente al solista, esponendo il controsoggetto, ma subito ecco che il solista si riappropria delle sue prerogative e riprende il tema variato, poi (24’12”) espone il controsoggetto in SOL maggiore. Dopo una pausa di riflessione - con un intervento del fagotto - il solista attacca (a 24’32”) una nuova variazione del tema, con un botta-e-risposta con le viole che introduce un affrettato crescendo, culminante (24’52”) in un paio di pesanti accordi di DO, seguiti da uno stentoreo intervento dei corni (in FA maggiore) a stamparci bene nella memoria, per due volte, il tema del film!

Il violino solista (25’16”) espone con suoni in armonici il controsoggetto (sempre in FA) poi l’atmosfera si fa più calma e vira, con i corni, al MI maggiore, poi al LA maggiore, dove torna (a 26’11”) l’iniziale schianto dell’orchestra, questa volta seguito da altri sei!    

IIl solista, sempre in LA, riprende ancora a variare il tema principale, librandosi in virtuosismi degni di Paganini, finchè l’orchestra lo zittisce con un’orgia di semicrome. Ma il solista (26’53”) risponde per le rime, in corda doppia, con un’accelerazione che culmina, a 27’16” nell’enfatica perorazione dei corni, che ancora esplodono (adesso nel canonico RE maggiore) l’incipit del tema. Subito dopo, un’affrettata rincorsa del violino principale porta direttamente all’esilarante conclusione dove, dopo una scala discendente, uno sbifido DO# si ostina ad inquinare l’accordo perfetto di RE maggiore, decidendosi a togliere il disturbo proprio sull’ultima battuta!
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Rimarchevole la prestazione di Ugorski, dotato di grandissima tecnica ma anche di sensibilità interpretativa, emersa soprattutto nel movimento centrale. Per lui grandi applausi, ripagati con… Ysaye.
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Il concerto si chiude in gloria con la sinfonia Dal nuovo mondo, uno di quei pezzi che sono da sempre nel repertorio dell’orchestra e che Xian ha già diretto qui proprio ad inizio anno. Come dire: difficile che non sia suonata al meglio! Col che si potranno perdonare alcuni eccessi… interpretativi (soprattutto nel movimento iniziale) che la cinesina evidentemente lascia in giro come segni del suo passaggio (smile!)

Superfluo dire dell'accoglienza trionfale.

07 novembre, 2014

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 8

 

Zhang Xian ci propone una gita in Spagna, servendoci nel concerto di questa settimana un menu spagnolo (o para-). Sappiamo che parecchia musica spagnola (o spagnoleggiante) fu composta da non-spagnoli (francesi e russi in testa) e così in questo concerto abbiamo due autori locali (peraltro… svezzati a Parigi) e due alieni (russo e francese, guarda caso) simmetricamente disposti attorno ad un perno… italo-turco!

Manuel deFalla apre il programma con la seconda Suite dal balletto El sombrero de tres picos, per la descrizione del cui contenuto letterario rimando a questo mio post di un paio d’anni fa, in occasione di un concerto che aveva tre brani in comune con quello attuale e che Bignamini era stato chiamato a dirigere proprio in sostituzione della Xian, allora divenuta prematuramente mamma per la seconda volta. Dal balletto (con intervento di una voce di mezzosoprano, che possiamo vedere qui in una versione di Antonio Márquez) deFalla estrasse due suites, la seconda delle quali ascoltiamo in questo concerto, chiusa dalla trascinante Jota.

Un brano proprio adatto a rompere il ghiaccio e scaldare l’atmosfera, accolto da scroscianti applausi.
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Ecco poi il secondo spagnolo-doc, Joaquín Rodrigo, con il suo celeberrimo Concerto de Aranjuez che viene interpretato da Miloš Karadaglić. Oddio, forse celeberrimo è un’esagerazione, e comunque riguarda, caso mai, solo il centrale tempo in Adagio, che effettivamente ha fatto il giro del mondo:


Lo si può apprezzare qui eseguito proprio dall’interprete di oggi. Il Concerto, dedicato al chitarrista Regino Sáinz de la Maza y Ruiz, fu composto a Parigi nei primi mesi del 1939 ed eseguito per la prima volta a Barcellona, solista il dedicatario, sabato 9 novembre 1940, in pieno regime franchista. Rodrigo ne formulò una specie di programma, secondo il quale il primo movimento (Allegro con spirito, in RE maggiore) si ispirerebbe all’idilliaca natura dei giardini del palazzo reale di Aranjuez, che lui aveva visitato con la moglie; il secondo (il famoso Adagio, in SI minore) sarebbe un autentico lamento per il figlioletto nato morto e il terzo (Allegro gentile, RE maggiore) rappresenterebbe la sua serena accettazione del destino. Mah… secondo me è meglio ascoltare questa musica per quello che è, non per quello che dovrebbe evocare.

Al grande successo di pubblico il bel Miloš risponde con un celebre bis, sempre in terreno ispanico, ma facendosi stavolta accompagnare dall’orchestra.
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La zeppa italiana del concerto è una suite per chitarra denominata Koyunbaba, di Carlo Domeniconi, ancora interpretata dal bravissimo Miloš, che introduce la sua performance parlandoci di sé e di come ha incontrato e amato questo pezzo. Il cui titolo ai milanesi può suonare fra lo scurrile e l’offensivo, ma in realtà è anche… peggio, avendo fama di menagramo. In ogni caso ha a che fare con la Turchia, dove l’Autore ha soggiornato a lungo occupandosi di musica del folklore locale: Koyunbaba è il nome di un paesino sul mar Egeo, vicino a Budrun, ma anche quello di antiche famiglie turche di pastori e possidenti, legate a vicissitudini poco rassicuranti… L’inserimento di questo brano in un concerto tutto spagnolo in realtà non è per nulla fuori luogo, non solo per lo strumento, un classico della musica iberica, ma anche per le inflessioni della melodia. Del resto Spagna e Turchia risentirono, nei secoli, dell’influsso della grande cultura araba, musica compresa.

Il brano è in quattro parti, più una coda che richiama l’inizio; lo possiamo ascoltare qui dallo stesso Karadaglić. È aperto in tempo Moderato, seguito (3’20”) da un Mosso, poi (4’31”) da un Cantabile e dal conclusivo Presto (7’48”) cui segue la coda (Moderato, 10’00”). In realtà la partitura, derivata in origine (1985) da un’improvvisazione, è stata rivista diverse volte nel corso degli anni e presenta (in particolare nel Presto, ma non solo) diversi da-capo che l’interprete può decidere se rispettare o meno, a seconda della sua sensibilità, il che può determinare tempi di esecuzione più o meno lunghi, rispetto agli 11’ del filmato.

Grandissimo successo per il 30enne montenegrino, protagonista di questa straordinaria esibizione di tecnica e insieme di sensibilità interpretativa.
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La parte finale del concerto ci propone i due autori non-spagnoli di musica spagnola divenuta celebre. Dapprima il Capriccio spagnolo di Rimski, che la Xian ha già eseguito qui almeno un paio di volte, e che dà modo all’orchestra di esprimere tutta la sua potenza di fuoco, ma anche alcune individualità di spicco. Prestazione trascinante, accolta da ovazioni.
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Infine ecco il bolerodiravel, un modo di dire più che un titolo (smile!) È sempre il percussionista-capo de laVERDI, Ivan Fossati, a porsi al centro dell’attenzione e dell’orchestra con il suo tamburino che deve sostenere – a mo’ di pedale - l’intera esecuzione, per un buon quarto d’ora! Però questa volta Xian ha evidentemente deciso di essere ultra-fedele alla partitura, che prevede l’impiego di un secondo tamburino per l’ultima apparizione del tema del bolero e da lì fino alla fine; e così a fianco di Ivan Fossati si è esibito anche Luca Bleu, per raddoppiare il fracasso della chiusa! 

Immancabile successo, così Xian ci fa riascoltare proprio la sezione finale del Bolero e ci manda a casa col morale alle stelle.

01 novembre, 2014

Il Quartetto di Cremona a MilanoMusica

  

L’Auditorium SanFedele ha ospitato ier sera il sesto dei dieci concerti del 23° Festival (Percorsi di musica d’oggi 2014).

Siccome a me non piace usare giri di parole o espressioni politically-correct o, peggio, ipocrisie, dico subito che mi sono recato al concerto esclusivamente perché l’ultimo dei brani in programma era (in origine almeno) l’ottavo quartetto di Shostakovich, poi rimpiazzato dal decimo, che personalmente metto un filino al di sotto dell’altro, ma sempre grande musica è.  E come fioretto per meritarmi quel premio ho ascoltato, con vivo interesse ed altrettanta delusione, gli altri tre brani in programma.

Il primo dei quali era un altro quartetto, il Terzo, di Helmut Lachenmann (nato nel 1935) che è sottotitolato Grido, composto nel 2001. Qui lo si può ascoltare eseguito dai dedicatari del Quartetto Arditti (1., 2., 3.) A Lachenmann Alex Ross dedica ben… una pagina del suo The rest is noise, prima per citarne una specie di programma etico (La mia musica si occupa di un negazionismo rigidamente strutturato, con esclusione di ciò che mi appare come l’aspettativa di ascolto che si forma nella società); poi per ricordarne le idee di estrema-sinistra-estrema, che si materializzano (nel libretto della sua opera La piccola fiammiferaia) persino in una citazione della terrorista Gudrun Ensslin, della banda Baader-Meinhof (Rote Armee Fraktion), che inneggia a se stessa e ai suoi complici come distrutti che si ribellano alla distruzione; infine, bontà sua, gli riconosce di sapere ancora darci degli shock, dopo un secolo di rumore! A ribadire il concetto: di simili shock farei volentieri a meno, mi bastano ed avanzano quelli procurati da giornali, tv e web.

Ecco poi due pezzi di giovani (30enni) autori italiani, presenti in sala, composti a margine di una sessione di studio proprio con Lachenmann, e che gli interpreti avevano dato alla luce pochi mesi fa.

Dapprima ci viene proposto Come di tempeste di Daniele Ghisi. Sul suo sito, dove il brano può essere ascoltato nella sua interezza, il compositore ce ne descrive una specie di programma: che per fortuna ha come protagonisti quattro grammofoni, e non i quattro… elicotteri di funesta memoria… E va bene così (faccio per dire).

Poi Grammar Jammer di Alessandro Perini. Il titolo suggerisce un’intrusione non propriamente delicata all’interno di un discorso. Secondo Giorgio Pestelli il contenuto…  si riferisce alla funzione di disturbo o meglio di inceppamento esercitata su un flusso di parole o di note, alla ricerca di un rapporto tra suono e rumore entro i limiti di una grammatica che tende a costituirsi a partire da trasformazioni lineari di elementi diversi. Oh, così sì che si capisce tutto (stra-smile!) E no-comment.

Il pezzo forte – sì, almeno per me – della serata è stato il Quartetto n°10 di Dimitri Shostakovich. Un brano apparentemente disimpegnato, ma che in realtà lascia emergere tratti nobili e soprattutto, una narrativa chiara e convincente: che non ha bisogno di spiegazioni legate a grammofoni o ideologie assortite, perché si fa benissimo apprezzare come musica!

I quattro movimenti presentano temi ben riconoscibili ed efficacemente dialoganti: ci troviamo reminiscenze mahleriane (nell’Andante iniziale) e stilemi inconfondibili del compositore (i due Allegretti). Magistrale anche la passacaglia dell’Adagio, che ritorna, seguita dal tema del primo movimento, nella sezione conclusiva (in Andante) del quartetto, che viene così ad assumere anche caratteri di ciclicità.

I cremonesi si sono confermati compagine di grande valore e il successo è stato pieno, in un SanFedele che vedeva deserte pochissime delle sue 350 (circa) poltrone.

30 ottobre, 2014

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 7

 

Quello che si materializza in questi giorni è uno degli appuntamenti ormai inamovibili nelle stagioni de laVERDI: il Requiem. Questa volta a dirigerlo è il Direttore Associato dell’Orchestra, che con Verdi sta convivendo da anni, essendo entrato ormai a pieno titolo nel mondo dell’Opera: non più tardi di due giorni orsono ha chiuso al Regio di Parma le rappresentazioni della Forza, accolto da unanimi consensi di pubblico e critica.

E devo dire che anche questa sera non ha tradito le attese, padroneggiando da par suo questa grande partitura, ben assecondato da orchestra e coro (di Erina Gambarini) che ormai il Requiem ce l’hanno nel sangue. Piccole sbavature (come il ritardo di una tromba a chiudere il Tuba mirum) non inficiano l’ottima prestazione delle masse.

Chi francamente mi ha suscitato qualche riserva è stato il gruppo dei solisti, dei quali salverei a fatica il soprano Chiara Taigi e il basso Massimiliano Catellani, mentre non mi sento di dare la sufficienza al mezzosoprano Anna Maria Chiuri (voce che sembra artificiosamente scurita) e soprattutto al tenore Yusif Eyvazov, quasi sempre ingolato e con voce assai poco squillante. 

In ogni caso Verdi è sempre Verdi e (grazie a laVERDI, in questa occasione) regala pur sempre momenti di emozione e di elevazione dell’anima; è uno di quei rari segnali che ci aiutano a credere ancora, nonostante tutto, in questo mondo per altri versi davvero barbaro, dove c’è chi, in sostituzione del pane quotidiano, non riceve nemmeno simpatici messaggini sull’iphone, ma pugni e manganellate, proprio come ai bei tempi dei telefoni a rotella…

27 ottobre, 2014

L‘Otello di Kunde a Torino

 

Dopo avervi esordito alla grande a Venezia quasi 2 anni orsono e poi ripetutosi a Genova, Gregory Kunde è tornato a vestire i panni del moro in quel di Torino, in un nuovo allestimento che ha aperto (dopo il verdiano Requiem) la stagione 14-15 del Regio, toccando ieri pomeriggio la penultima delle nove rappresentazioni, in un teatro assai gremito.

Posto d’onore quindi per il tenore americano, per il quale magari ogni mese che passa, dopo i 60 anni suonati lo scorso febbraio, si fa sentire sempre di più, ma devo dire che la sua resa complessiva mi è parsa ancora di tutto rispetto e di gran pregio estetico, proponendoci un Otello che compendia in sé i due lati del carattere del personaggio, che troppo spesso vengono messi in aut-aut: l’autorevolezza-durezza e l’ingenuità-dolcezza che albergano nel suo animo. Due antipodi che vanno dall’Esultate dell’esordio al bacio della chiusa, passando per tutte le stazioni intermedie della sua via-crucis. Per lui un meritato trionfo.

Su Erika Grimaldi (Desdemona) mi sentirei di dare un giudizio… bifronte: efficace e coinvolgente nelle mezze-voci (bellissima la sua AveMaria) e invece un filino carente nel canto spiegato, con acuti tendenti al vetroso e bassi poco udibili. Ma ha certamente tempo (e speriamo volontà) per migliorare ancora: intanto ha avuto un gran successo, e sfatare il detto nemo propheta in patria non è di tutti i giorni!

Ambrogio Maestri si è cimentato nella tremenda parte di Jago. Devo dire che non mi ha completamente convinto: sugli acuti ha tendenza a vociferare e i proibitivi LA del beva son proprio stati una frana (Verdi, conscio che quella è una nota quasi impossibile per un baritono, li prescrive strisciando la voce, ma lui li ha fatti semplicemente… calando). Volgarotto il suo Credo, mentre assai meglio è andato nell’esposizione del (falso) sogno di Cassio. Mi pare che lui dia il meglio di sé in ruoli tipo Falstaff o Dulcamara, ecco. Fra l’altro, secondo Boito, Jago dovrebbe essere un giovane di 28 anni di bella presenza (smile!)

I comprimari erano Samantha Korbey, un’Emilia piuttosto incolore; Salvatore Cordella (un Cassio più che dignitoso); Luca Casalin che ha ben vestito i panni di Roderigo; Seung Pil Choi (un onesto Lodovico); Emilio Marcucci (Montano) e Lorenzo Battagion (un araldo): insomma, tutti degni di plauso.

Efficace e preciso il coro di Claudio Fenoglio e bravissimi i piccoli di Paolo Grosa in quella sempre discutibile e discussa cantilena del second’atto.

Il neo-riconciliato col Regio Gianandrea Noseda non ha tradito le aspettative, proponendoci un Otello vibrante: giustamente fracassone nell’iniziale tempesta ma anche lirico e intimistico, con Desdemona in particolare. Sempre buono l’equilibrio fra buca e palco e in buona forma l’orchestra, in tutte le sezioni.

Beh, tutto sommato – sul piano musicale – un esito più che positivo.
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Non così devo dire per quanto riguarda l’allestimento dell’albionico Walter Sutcliffe. Da buon britannico, per l’appunto, lui mostra di conoscere meglio Shakespeare di Boito-Verdi! Dando forse per scontato che i secondi abbiano semplicemente fatto un facile e pedestre bigino del primo: idea – ahilui e ahinoi – a dir poco deleteria.

Ecco che allora Jago diventa un ceffo violento e manesco: lo intuiamo dall’enorme sfregio che porta sotto l’occhio sinistro… e ne abbiamo subito conferma quando, nella prima scena, compare tenendo al guinzaglio un paio di prigionieri musulmani, ad uno dei quali poi rifila due coltellate a tradimento, così, tanto per gradire (qui Boito-Verdi si devono essere parecchio agitati nelle rispettive tombe…)

Passando direttamente all’epilogo, quello è proprio di Shakespeare, e pure peggio: Jago ammazza Emilia e poi – senza processo né tortura - viene fatto secco da Lodovico e Montano. Ora, sul programma di sala ci ricorda acutamente Antonio Rostagno che lo Jago di Boito-Verdi viene fatto fuggire proprio perché non può essere neutralizzato, rappresentando lui il veleno che da sempre corrompe e per il resto dell’eternità dovrà inevitabilmente corrompere innumerevoli altri Otelli! Cioè: lui non è un disgraziato in carne ed ossa, ma un istinto naturale; capito, mister Sutcliffe?

Tralasciando qualche trovata da avanspettacolo, devo dir male anche delle scene (di Saverio Santoliquido) gli ormai onnipresenti pannelloni mobili di peduzziana memoria all’interno dei quali compare via via qualche volgare piece-of-furniture: un mini-patio con gerani di plastica per la scena del giardino, un’unica sedia, il letto a baldacchino di Desdemona. Deprimente. Peggio ancora i costumi (di Elena Cicorella) roba da sfilata di carnevale.

Insomma, come sempre, è stato un tale Verdi a garantire la riuscita dello spettacolo, con ciò che arriva alle orecchie, e a dispetto di ciò che arriva agli occhi.

Perciò consoliamoci, perché poteva andare anche peggio, con ambientazioni in comunità di tossicodipendenti o in qualche gulag o in una dimessa sezione di estrema periferia del PD (stra-smile!)

24 ottobre, 2014

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 6


Ancora John Axelrod sul podio con un altro corposo programma ottocentesco: due sinfonie, composte a distanza di 17 anni.

La prima avrebbe dovuto essere proprio una Prima, invece l’altoparlante ha annunciato che sarebbe stata la Terza (di Brahms, del 1883) che Axelrod torna a dirigere qui dopo averla incisa, come parte dell’integrale, meno di un anno fa. Evidentemente il Maestro texano deve aver dedicato anima e corpo alle sinfonie dell’amburghese, e ogni volta riesce a cavarne esecuzioni davvero apprezzabili, benissimo coadiuvato da un’Orchestra in gran forma, in tutte le sezioni.
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L’inversione d’ordine rispetto al programma – il Maestro l’ha giustificata con ragioni, diciamo… enologiche: prima serviamo il vino pregiato, poi chiudiamo la festa con il moscato spumante – ci ha quindi riservato la Prima di Ciajkovski (1866-1874). Sulle sue caratteristiche salienti avevo scritto qualche nota in occasione di un’esecuzione (con Xian) di circa 3 anni orsono (purtroppo – internet è così, se ci pare - alcuni link presenti in quel post nel frattempo si sono… rotti). È tutto fuorchè un capolavoro, anche se Axelrod tale la definisce (ma lui deve giustamente fare del marketing). Certo qui l’Autore ha l’attenuante dell’inesperienza e possiamo quindi apprezzare comunque il suo sforzo, ma se sprechiamo l’attributo massimo per quest’opera, allora quale dovremo inventare poi per la Patetica o l’Onegin?

Chi, senza definirla un capolavoro, la sentiva e la viveva profondamente era un altro russo, che con laVERDI ha avuto assai a che fare, cominciando con il… fondarla! Eccolo in una vecchia trasmissione della RAI (parte di un ciclo sulle sei sinfonie) interpretare i Sogni d’inverno con i ragazzi del Conservatorio di Mosca e raccontare a noi e a loro le sue sensazioni, emozioni e sofferenze.

Axelrod qui si è preso la libertà (ma gliela possiamo concedere, dato l’oggetto in causa) di stiracchiare i tempi a suo piacimento: il drastico rallentando (una sua invenzione) con cui ha attaccato il trio dello scherzo ne è stato solo l’esempio più eclatante (ha tenuto lo stesso tempo di Delman nel filmato, peccato che però lo scherzo fosse a velocità doppia!) Ma appunto, qui siamo al moscato spumante e va benissimo così, soprattutto quando i ragazzi sono in questa forma smagliante!