affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

31 agosto, 2008

MaaZeff vs Carsen&C

In questi ultimi giorni di agosto il Corriere ha ospitato una polemica piuttosto accesa sul cosiddetto Regietheater (la regia teatrale di opere liriche e drammi musicali) anzi, più propriamente su quel fenomeno “di costume” che viene etichettato sprezzantemente (ma non senza ragione, secondo me) Eurotrash (spazzatura europea).

Da una parte due vecchi (in tutte le accezioni - buone-cattive - del termine): Lorin Maazel e Franco Zeffirelli; dall’altra un regista canadese (Robert Carsen) in rappresentanza della nutrita schiera dei giovani registi-di-teatro che, soprattutto in Europa, imperversa da anni in molti teatri - non solo tedeschi, dove la practice è nata - con allestimenti controversi e spesso davvero indecenti, di opere e drammi musicali.

MaaZeff sostengono il principio sacrosanto - che sulla carta nemmeno Carsen&C contestano, altrimenti passerebbero subito dalla parte del torto - della supremazia dell’opera d’arte originale e del rispetto che le si deve.

Casren&C - i C si chiamano Bieito, Herheim, McVicar, Guth, Decker, Sellars, Vick, Wilson, Barlow, Brockhaus, Wagner (Kathi), Schlingensief... e hanno come maestri-tutori i vari Konwitschny, Kupfer... e come più lontani campioni Chéreau, Friedrich e addirittura Wieland Wagner - sostengono la necessità che l’ambientazione di un’Opera vada rinnovata, rispetto all’originale e alla tradizione interpretativa, in modo da renderla meglio e più comprensibile e godibile da parte di un pubblico che ha sulle spalle 50 anni, o uno o due o tre secoli di storia, di esperienza e di evoluzione della civiltà, rispetto a quello dei tempi in cui l’Opera fu creata. Lo slogan che tipicamente viene impiegato per supportare tale necessità è: se non viene innovata, un’opera lirica (o un dramma musicale) si trasforma in un museo.

Aperta parentesi: già, un museo. Come quell’obbrobrio del Louvre, vero? dove tuttora ci si interstardisce ad esporre (ma perchè mai milioni di persone la vanno ancora e sempre a vedere?) la Gioconda, proprio come il maestro la dispinse, senza cambiarle una virgola, che so, l’antiquato abbigliamento, o la ridicola pettinatura. Oppure gli Uffizi, dove si può sostare per un tempo limitato (dalla massa di visitatori che premono) ad ammirare capolavori del passato. O l’Ermitage, il Museo Egizio di Torino (o del Cairo) e tutti gli altri musei grandi e piccoli sparsi in tutto il pianeta. Insomma, il museo - per l’opera lirica e il dramma musicale - sarebbe equiparabile ad una discarica maleodorante e impresentabile! Chiusa parentesi.

In sostanza, i campioni del Regietheater sostengono la necessità - quindi il diritto addirittura - di regista, scenografo e costumista (e aggiungiamo pure del responsabile delle luci) di intervenire di testa propria su regia, scene e costumi di un’Opera musicale, con il nobile scopo di mantenere alti l’interesse e la partecipazione del pubblico verso questo genere di Arte.

Tutto ciò rappresenta un fine per nulla disprezzabile. A patto che non si superi un certo limite: quale? Quello oltre il quale l’operazione si trasforma in un vero e proprio sequestro di un capolavoro (come tale universalmente riconosciuto) da parte del regista, allo scopo di promuoverne la sua propria (del regista) visione, con ciò distorcendo però quella del creatore dell’opera medesima, fino a renderla irriconoscibile, privando quindi l’opera delle qualità che ne hanno determinato, nel tempo, l’universale riconoscimento di capolavoro.
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E proprio Carsen ci ha dato quest’anno un’esemplificazione perfetta di cosa significhi valicare o meno quel limite: le sue interpretazioni italiane di Salome e di Elektra.

17 agosto, 2008

Ciajkovski l’incompreso

La Sinfonia Patetica percorrre tutti i maleodoranti canali e le fogne dell’umana disperazione; è sozza come la musica può ben essere. Il primo movimento potrebbe definirsi come la trasposizione in musica de “La confessione di Claudio” di Zola. Il secondo movimento, con il suo ritmo strabico, è a malapena meno ignobile; il terzo, puro linguaggio sguaiato. Nel finale, ci troviamo faccia a faccia con una paresi da vista debole; e quel solenne conclusivo epitaffio dei tromboni potrebbe cominciare con: “Qui continua la decomposizione”.

Comparso nel 1898, sul Boston Evening. Citato qui.

16 agosto, 2008

Barenboim, la Palestina e Wagner

Sono convinto che i destini del popolo palestinese e di quello israeliano siano legati in modo inestricabile. Siamo benedetti o condannati a vivere insieme. Io preferisco essere benedetto.”

Chi parla in questo modo è Daniel Barenboim: un ebreo, nato in Argentina da genitori di discendenza russa, che non solo non odia Wagner, ma lo apprezza a tal punto da essere, ancor oggi e di gran lunga, il recordman in fatto di direzioni a Bayreuth (161).

Ma è anche un accanito e convinto assertore della necessità e della possibilità di convivenza fra i due popoli che abitano la Palestina, e che da più di mezzo secolo invece si affrontano e arrossano di sangue le dolci colline di Qalqilya, come gli affollati viali di TelAviv.

Israeliani e palestinesi, ebrei e islamici, insieme a formare quanto di più cooperativo si possa immaginare a questo mondo: un’orchestra (la Divan).

E dove entrambe le parti devono rinunciare a fior di pregiudizi: gli islamici, accettando di suonare la musica nata dal seno della civiltà occidentale, quella che i loro integralisti dipingono come demonìaca; gli ebrei, accettando di suonare la musica di un autore che è da molti dei loro padri considerato il responsabile oggettivo dell’Olocausto.

Eppure... funziona. A Ravello l’11 agosto scorso ne abbiamo avuto tangibile conferma.

Parsifal 2008: aveva ragione Gatti? (update)

I gentili Klingsor e Nike hanno voluto onorare il mio post precedente esprimendo interessanti impressioni, che hanno l’indubbia qualità dell’esperienza diretta e non (come la mia) mediata dai media!

Su questo Parsifal, le mie sono perplessità di fondo, come non manco di ripetere, e riguardano precisamente le conseguenze che una certa (non tutta) “regia di teatro” induce sulla fruizione dell’opera (soprattutto dei drammi wagneriani) da parte dello spettatore. Il rischio è che il dramma diventi il mezzo usato per raggiungere il fine della spettacolarità dell’allestimento, e cioè l’esatto contrario di ciò che dovrebbe essere... secondo logica.

L’avviso del 1951 - riportato da Herheim come testimonianza storica di ciò che Bayreuth ha rappresentato e rappresenta, non solo in Germania - è la dimostrazione lampante di quell’inversione fra causa ed effetto, fra mezzo e fine, fra significato e significante, che finisce per negare allo spettatore la possibilità di vivere nel modo giusto l’esperienza davvero unica, o quasi, dei drammi wagneriani (diverso è ovviamente il discorso per le classiche opere di belcanto, dove non c’è molto da capire, ma solo da godere appunto il canto e la musica). Lo spettatore “non iniziato” a Wagner ne uscirà con una impressione come minimo distorta, quello “esperto” rischia di sentirsi “disturbato” dagli aspetti gratuiti dello spettacolo. Leggo sulla stampa tedesca commenti che rivalutano (rispetto ad Herheim) nientemeno che Schlingensief (?!) che almeno aveva un sua personale interpretazione “filosofica” del sacro dramma.

Sul piano musicale, temo che Gatti sia vittima, da un lato dell’eccessiva attenzione riposta sulla regia, dall’altro di una (immeritata) fama di “italianate” che lo accompagna, oltre che dei suoi modi riservati, dal basso profilo che tiene (il che per me è un merito, sia chiaro) ed anche della non perfetta dimestichezza con la lingua tedesca (al contrario di un Sinopoli, per dire): iniziare un’intervista in radio o in TV con poche parole di circostanza in tedesco, e poi passare subito all’inglese... costituisce agli occhi di molti (orchestrali inclusi) un indizio piuttosto negativo. L’impressione che ne ho avuto ascoltando in radio la prima del 25 luglio è stata positiva, ma non entusiasmante, in particolare l’atto di mezzo ha lasciato a desiderare (complici le “fanciulle-fiore”?) Adesso, oltre alle restanti rappresentazioni 2008, Daniele avrà altri 3-4 anni di repliche e tutto il modo di rifarsi.

04 agosto, 2008

Parsifal 2008: aveva ragione Gatti?

In un’intervista rilasciata a poche ore dalla prima, Stefan Herheim aveva candidamente riconosciuto come Daniele Gatti fosse rimasto enormemente scettico di fronte alla sua idea (il Konzept) dell’allestimento.

La prima di venerdi 25 luglio sembrava invece aver consacrato Herheim (molto meno Gatti, per la verità) alla storia.

Domenica 3 c’è stata la seconda (con un pubblico prevedibilmente più competente e di bocca meno buona - anche perchè pagante, e sono bei soldoni, oltre agli anni di attesa!): molti buuh per la regia, e critiche non proprio morbide anche per il Kapellmeister.

Insomma, un pallone che si sta già sgonfiando? Effetti senza cause?

01 agosto, 2008

Strauss l’incompreso

“Così parlò Zaratustra” mette a dura prova la pazienza dell’ascoltatore. Per lo più è brutto, pertanto distante dal ben fondato principio che richiede all’arte nobile la devozione per il bello. È poco saggio emettere un giudizio avverso su questa musica moderna, poichè col passare del tempo si potrebbe scoprire che questo lavoro straborda di bellezze che il futuro ci rivelerà. Ci si può abituare a tutto, attraverso la consuetudine - anche alla miseria. Tutto ciò che un avversario di questa musica moderna può permettersi di dire è che non gli piace.
Recensione apparsa nel 1900 sul Boston Herald. Riportata qui.

30 luglio, 2008

Bayreuth: AAA - cercasi aspirante nudo

La scapestratissima Kathi Wagner - candidata a sostituire il venerabile paparino Wolfgang alla testa dei Festspiele - non contenta delle scempiaggini di cui aveva già lo scorso anno infarcito la sua messinscena dei Meistersinger, per migliorare ulteriormente la sua opera d’arte (povero bisnonno!) quest’anno ha deciso di perfezionare la scena del finale dell’opera, dove Beckmesser plasma da un enorme ammasso di argilla un Adamo (ci sarà mica un’allusione alla Eva, protagonista dell’opera, per caso?)

Questo Adamo è un uomo in carne ed ossa, insomma, una comparsa (pare sia un negoziante di Bayreuth). Nudo come un verme - sennò che Adamo sarebbe? - deve saltare da una balaustra e scappare via. Cosa non ti succede? Che, umido come giustamente dev’essere l’argilla, scivola e inciampa. Per non cadere fa uno sforzo sovrumano, una contorsione impossibile, e scompare dietro le quinte. Risultato: è in ospedale, da operare di ernia al disco!

La prossima rappresentazione è lunedi 4 agosto: se c’è qualcuno disposto a togliersi le mutande, si può fare avanti. Tanto lo vedranno solo i 2.000 spettatori del Festspielhaus, e non - come sabato scorso - anche i 20.000 che seguivano dallo schermo gigante e i 15.000 collegati in streaming.

29 luglio, 2008

Ancora sul Parsifal di Herheim

Il commento preoccupato di Amfortas al post precedente mi spinge a qualche doverosa precisazione riguardo ai problemi posti dal cosiddetto Regietheater.

La regia di opere e drammi musicali è ormai assurta ad uno status di arte (!?) di per sè, e dobbiamo quasi ringraziare un Herheim che almeno con Parsifal non è caduto in gratuite volgarità, come altre volte ha fatto (vedi il tristemente famoso Ratto del 2003 a Salzburg o il Don Giovanni dell’anno scorso a Essen) e come altri fanno spesso e volentieri (a proposito, dare un’occhiata alle immagini dell’attuale salisburghese Don Giovanni di Claus Guth - quello che l’anno scorso ha fatto scempio dei Meistersinger, superando persino la “piccola peste” Kathi Wagner, sonoramente “buata” anche domenica sera).

Che lo spettacolo del Parsifal 2008 a Bayreuth sia sontuoso ed emozionante, non lo metto in dubbio: peraltro ho visto cose superbe anche agli MGM-Studios in Florida, e persino - senza allontanarmi troppo - a Gardaland!

Ecco, produzioni di questo genere dovrebbero magari farsi in cinema, e avendo il coraggio di chiamarle con il loro nome: libere interpretazioni di un’opera originale, secondo i criteri e gli approcci più diversi.

Oltre a quello usato da Herheim e dal suo team per Parsifal (rappresentare l’opera tramite le circostanze esterne in cui è stata concepita e gli “effetti” che essa ha storicamente provocato - o cui ha per così dire “assistito”) si può interpretare liberamente un’opera trasponendone i fatti e i personaggi nel presente, o nel futuro, o nel passato, fate voi... insomma: in epoche, tempi e scenari diversi da quelli scelti dall’autore. Oppure interpretare a proprio modo il significato del significante (termini la cui cardinalità è - per definizione - n:1, con n tendente all’infinito) Quindi va bene anche il Parsifal che fa - come il Papa a Montecitorio - una visita al Bundestag, ma potrebbe anche fare il missionario in Sudan, o l’aspirante kamikaze a Jenin, o il figlio illegittimo di una prostituta che si intestardisce a voler redimere il magnaccia di sua madre e poi, non riuscendo a redimerlo, lo fa semplicemente secco. Lo scenario dei cavalieri del Gral e del cattivone Klingsor potrebbe essere trasposto nel Bronx, dove di pretesti per rappresentare faide tra bande di disperati spacciatori di drogral ce n’è a volontà. Se passiamo al Ring, si può inscenare l’imprenditore apparentemente probo ed onesto (Wotan) che invece fa concorrenza sleale ad Alberich, rubandogli nottetempo i suoi segreti industriali (ah, mi avvertono in questo momento che l’idea è già stata applicata anche a Bayreuth...) o Siegmund e Sieglinde che si iscrivono al partito radicale per rivendicare almeno i dico, o i pacs, e invece il papa (o papà) Wotan che è costretto dalla binetti di turno a sopprimerli per coprire lo scandalo dell’incesto; Alberich si può personificare in un vallanzasca - un vero genio del male, capace però di impensabili arditezze mentali - e le Figlie del Reno trovano mille possibili applicazioni, dal trio-lescano alle spice-girl, alle sorelle-bandiera o alle simpatiche brasiliane finte del cacao-meravigliao, il moderno oro del renato (carosone).

Quel geniaccio di Calixto Bieito ha spiegato di aver avuto la sua fulminante idea per un Fliegende Holländer (pieno di lavatrici e frigoriferi, tutto in partitura, s’intende...) un giorno che stava seduto all’aeroporto di Zurigo, aspettando un volo puntualmente in ritardo: lì ha capito come doveva sentirsi quel pirata-giramondo olandese, sballottato da un oceano all’altro, con la possibilità di scendere a fare pipì solo una volta ogni sette anni!

Tornando a Parsifal, nel 1995 a Monaco tale Peter Konwitschny, un altro che va per la maggiore, si è distinto nell’impossibile impresa di rovesciare come un calzino lo spirito del dramma sacro: da religioso ad ateistico, dalla redenzione al nichilismo, dalla ricerca della luce alla disperazione. E la cosa è tanto piaciuta che verrà ripresa nel 2009, ormai è un classico, più classico del Parsifal di Wagner, e Herheim dovrà farci i conti!

Insomma: ci può stare tutto, basta un po’ di fantasia... ma bisognerebbe cambiare le locandine!

Le domande che vengono spontanee sono tante:
- dell’opera originale non frega più nulla a nessuno, è roba passata e decrepita (le resta appena il titolo) e quindi può solo essere contrabbandata dopo opportuna e drastica adulterazione;
- i frequentatori dei teatri sono gente incolta (per lo meno sul piano artistico): quindi vanno attirati con effetti speciali (sesso, violenza e spettacolari trovate tecnologiche sono ingredienti matematicamente appropriati);
- i veri appassionati ed esperti sono un’infima minoranza (per di più con pochi quattrini in tasca) e l’economia di larga scala di oggi non può permettersi di accontentarli a costi sostenibili (ma l’opera biologica, non si potrebbe fare?);
- una cricca di furbi e smaliziati individui ha capito che più le spara grosse, più viene apprezzata e valutata dai manager della cultura, e così si è creata una nuova casta, il Regisseur, che invece di servire (che fatica!) si serve delle cose importanti inventate da altri per far soldi e carriera a buon mercato e a colpo sicuro;
- il progresso umano è inarrestabile, e comporta la totale revisione, rimanipolazione, ristrutturazione, e reimpasto di tutte le espressioni artistiche: in fondo già il cinema si fa oggi più col computer e con le animazioni, che non con gli attori e le riprese in studio o dal vivo; e l’opera non può sottrarsi a questo inevitabile destino.

Quest’ultima variante del fenomeno è forse la più subdola e al tempo stesso moderna e innovativa: torniamo ad Herheim e al suo Parsifal. Quest’opera (Wagner mi perdonerà se la apostrofo così, neanche fosse un Bruschino qualunque) si presta magnificamente - come altre del maestro di Lipsia - ad operazioni tipo Herheim. Costui, con un indefesso lavoro di un intero team, composto da storici (non solo della musica) e da esperti, esegeti e topi di biblioteca, ha saputo e potuto costruire un allestimento del Parsifal impiegando tutto quel mare di riferimenti (extra-musicali ed extra-artistici, sia chiaro) che l’opera si tira dietro. Parsifal nasce nel bel mezzo della civiltà guglielmina, in una Germania che cerca la sua identità e il suo redentore; e Wagner si autopone - sul piano artistico, quanto meno - come il faro che illumina la via da percorrere. Wahnfried e il Festspielhaus diventano - per la società di quel tempo - autentici luoghi sacri. Richard non c’è più, ma la terribile Cosima, col figlio prediletto (e maledetto?) si incarica di continuare a celebrare i riti del gral e a nutrire di illusioni e di ideologia di grandezza i suoi compatrioti. La grande guerra è uno dei passaggi di questo inseguimento alle chimere parsifaliane; una volta persa, con milioni di morti, diventa un pretesto per rilanciare, come si fa a poker, e la nazista-ante-litteram Winifred si appropria delle opere del suocero per supportare adeguatamente il sein Kampf, e Parsifal volentieri si presta alla bisogna. Perduta un’altra guerra, stavolta in modo tragicamente definitivo (Zertrümmert! Zerknickt! verrebbe da dire, con Alberich) ecco che Parsifal si rifà vivo, portato per mano dall’ex prediletto del Führer (Wieland) a porsi, ancora e sempre, come il faro che illumina la via al nuovo Gurnemanz, Konrad Adenauer. Herheim si è fermato qui, ma poteva benissimo arrivare fino al parsifaliano Helmuth Kohl, che nel 1989 ha riportato la Germania al suo apice... prima della diluizione del Deutsche Mark nell’Euro.

Il Parsifal di Herheim è tutto questo, quindi una grande cosa, indiscutibilmente, proprio sul piano artistico. Aggiungiamo poi l’impiego dei potenti mezzi della tecnologia ed abbiamo la spiegazione dell’enorme successo che il regista norvegese sta riscuotendo, dopo una sola rappresentazione.

Operazione subdola, peraltro, poichè utilizzando il vero Parsifal per raccontarci un pezzo di storia dell’umanità, finisce per distruggerlo.

Appropriazione indebita e scempio di un’opera d’arte, per impiegarla nella costruzione di un’altra opera d’arte, questo - per me - il succo dell’impresa.

Per il resto, manca solo di intervenire anche sul pentagramma... ma ormai temo sia solo questione di tempo.

27 luglio, 2008

Parsifal 2008: gli incantesimi di Herheim

Tanto per sgombrare il campo da qualunque sospetto: Stefan Herheim è indiscutibilmente un genio della regia, sotto ogni punto di vista. Uso delle moderne tecnologie (luci, filmati, macchine), sapiente impiego dei doppi-tripli-ennupli piani di presentazione dell’azione scenica, fantasia sbrigliata nell’individuare relazioni e connessioni causa-effetto fra opera e realtà nella quale l’opera fu creata e quella in cui essa fu recepita, capacità di ammiccamento verso i lati deboli dello spettatore medio...

Il suo Parsifal sta già diventando, a poche ore dalla prima rappresentazione, una specie di pietra miliare, la regia del futuro, la pietra di paragone con cui da oggi si dovranno confrontare e misurare tutte le regie (wagneriane e non) di opera. Questo si legge sulla stampa, tedesca e non. Chi se ne frega della musica. Gatti? Chi era costui? (di Knappertsbusch ne abbiamo avuti abbastanza, e del resto questo italianate sa solo vagamente scimmiottarlo...)

Allora, ecco il mago Herheim all’opera. Wahnfried è Monsalvat: geniale! I tedeschi del 1870: tutti angeli caduti all’inferno, con tanto di ali nere, che aspettano il redentore che li riscatti da quel fetentone di Klingsor, il viados che si è fregato la sacra lancia. Si fa una messa, si mostra il tabernacolo, e tutti corrono a far la prima guerra mondiale! (ne muoiono qualche milione? Chi se ne frega, c’è sempre quello stesso eunuco di Klingsor che organizza un lazzaretto per curare - anche con un pochino, ma poco, sesso, i feriti). Parsifal? È un puro imbecille, o no? Guarda come un ebete la gente che gli gira intorno, lui che giocava ingenuo col suo cavallino a dondolo... Poi si ritrova nel lazzaretto di Klingsor (che gira in giarrettiera) che è sempre villa Wahnfried (ma allora: Klingsor è Wagner? Già, il maestro aveva predilezioni particolari per l’abbigliamento intimo femminile, vero? Griffe italiana, preferibilmente. Ma allora Parsifal è forse Siegfried, il figlio culo del maestro? Certo, in casa di Klingsor ci sta proprio bene) Il nostro redentore fa un salto di sei metri dal balcone, giù nel giardino di villa Wahnfried dove si trastulla con le ballerine del can-can (già, Wagner provava odio-amore per Parigi e poi, quell’ingrato di Nietzsche non ha forse scritto che il Parsifal è un’operetta?) Adesso Klingsor mostra la sua vera faccia: è Göring, perdio! Ci aspettiamo i forni crematori, ma Herheim se li è riservati per quando farà il Ring (quello del bicentenario del 2013?) In mezzo ad un turbinìo di stendardi con croce uncinata, SS che imperversano col passo dell’oca (c’entra col cigno e con il finale del primo atto?) che fa Parsifal? Nessuno lo sapeva, fino al 25 luglio 2008, ma in Germania, sotto Hitler, ci fu la Resistenza! Sì, come in Italia e in Francia, anche in Germania! È chi ne fu l’eroe? Indovinate, da non crederci: PARSIFAL! Che prende la sacra lancia e fa secchi Klingsor/Göring, la Wehrmacht e la Luftwaffe in un sol colpo, e poi (chi è quel pirla che ha fatto il fotomontaggio dei sovietici che innalzano la loro bandiera della libertà sulle rovine di Berlino?) restituisce alla Germania la sua dignità. E - nel terzo atto - va anche a redimere, già che c’è (ma sì, facciamo 31) i parlamentari del Bundestag (la Merkel è in prima fila!) a volte gli venisse qualche idea di revanche, come a quelli del 1920! Alla fine Herheim cala enormi specchi dall’alto, in modo che il pubblico si possa riconoscere come diretto discendente ed erede di quei pecoroni che hanno affollato da sempre il Festspielhaus pensando di trovarci il Gral.

Ahinoi, non c’è da scherzare, perchè il futuro di Bayreuth è questo: il 1° settembre la piccola Kathi, pronipotina di Richard, prenderà quasi certamente il comando al posto del venerabile Wolfgang (che per sua parte ne ha combinate abbastanza...) Basta leggere e guardare qualche immagine dei suoi Meistersinger per capire tutto. Poco fa, peraltro, i buuh si sono sprecati (c’è ancora un pò di giustizia a questo mondo...)

26 luglio, 2008

È arrivato Parsifal 2008: trionfo per tutti

Alla fine, applausi e bravo per tutti: quasi una novità per Bayreuth, dove gli allestimenti nuovi solitamente trovano accoglienza contrastata.

Chi non ha visto di persona, ma ha seguito solo alla radio-webbica, come il sottoscritto, può solo riferire sul lato musicale.

Intanto, Daniele: ha complessivamente accelerato (rispetto al suo Parsifal romano) chiudendo con un totale di 4 ore e 25 minuti, una durata che si pone fra quelle più lunghe, ma non lunghissime, nella storia di Parsifal. In particolare è stato più veloce (o meno lento) del previsto il primo atto, chiuso (per 5 minuti) sotto le 2 ore. Preludio davvero à la Knappertsbusch, nella più classica tradizione; la transizione al cambio di scena invece meno pesante (sempre rispetto a Roma) con qualche secondo risparmiato anche grazie al mancato raddoppio delle 4 battute delle campane. Secondo atto (1h e 7m) forse meno colorato rispetto alla tavolozza di Wagner; terzo atto (1h e 22m) impeccabile, con punte di eccellenza nell’introduzione strumentale e nel luminoso e terso finale (purtroppo gli applausi sono scattati quando Daniele stava ancora sulla corona puntata dell’ultima battuta... una conferma che anche lassù - alla prima - forse non c’è il pubblico più competente).

Fra gli interpreti, bene Ventris, un Parsifal forse un poco leggero, e benissimo Kwangchul Youn, grande Gurnemanz, a parte la pronuncia che ai tedeschi avrà fatto un poco storcere il naso. Jesatko un Klingsor quasi perfetto. La Fujimura è stata una Kundry a corrente alternata: in particolare, carente sulle note alte (SOLb, LA) quando deve arrivarci in salita (dove grida, invece di cantare) splendida invece, anche su un paio di SI (compreso quello sul “Geleit” del secondo atto, all’ottava sopra rispetto alla partitura) quando li deve sparare quasi da fermo, potendo prendere bene il fiato. Roth (Amfortas) bravo tecnicamente, ma anche lui con voce di baritono quasi tenoreggiante, poco drammatica per il personaggio.

In Germania ormai guardano quasi solo alla regia, su stampa e internet è tutto un commento su Stefan Herheim, come se la musica fosse un eccipiente: per me, ma credo soprattutto per Wagner e per la musica, brutto segno.