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03 dicembre, 2022

laVerdi 22-23. 8

Mentre ancora risuonavano in Auditorium le note del Messiah eseguito giovedi sera da laBarocca di Ruben Jais, ecco un classico Mozart seguito da due poemi sinfonici (Sibelius - Strauss) dare forma all’8° concerto della stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano. Sul podio Jaume Santonja, da quest’anno uno dei Direttori Ospiti dell’Orchestra.

Insieme a lui entra subito in scena l’israeliano Tom Borrow, ex-bambino-prodigio e giovane speranza del pianismo internazionale, per inoltrarsi nel complesso groviglio del K488 mozartiano, un concerto invero innovativo nella forma e nei contenuti. (Una mia personale esplorazione dell’opera – poggiante su un’esecuzione della coppia Horowitz-Giulini alla Scala - si può leggere qui, inserita in un commento ad un concerto de laVerdi del 2015.)

Borrow – a dispetto dell’età o proprio a causa di essa – è tanto perfetto tecnicamente quanto algido emozionalmente: il suo Mozart scorre senza un’increspatura, ma quasi roboticamente, ecco. Gli applausi non sono mancati, certo, perché Mozart accontenta sempre. C’è da dire che il pubblico ieri era proprio scarsino (c’è chi dice a causa dello sciopero dei mezzi pubblici) e forse il ragazzo si è un filino deconcentrato: fatto sta che non ci ha nemmeno regalato un bis… 
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La seconda parte della serata è occupata, come detto, da due poemi sinfonici, di fatto due opere prime (o quasi…) nel genere reso famoso da Franz Liszt.

Il primo è En Saga, composto in origine da un 27enne Jan Sibelius nel 1892, ma poi riveduto, corretto e… ristretto (-142 battute su 952) 10 anni più tardi (guarda caso, dopo aver ascoltato Strauss dirigere il suo Don Juan!) e da allora entrato in quest’ultima versione nei repertori delle principali orchestre. La versione originale è stata riportata alla luce da poco, e si può ascoltare – anche per compararla alla seconda – in questa incisione finnica che le presenta entrambe. Volendo, si può andare ancor più indietro, e ascoltare il Settetto (frutto peraltro di una contestata ricostruzione americana) che fu verosimilmente il primo germoglio della composizione.

Il titolo dell’opera resta un mistero: letteralmente si tratta di una storia, o di una leggenda, o di un’avventura, ma Sibelius si rifiutò sempre di esplicitare un programma extra-musicale per la sua composizione (siamo all’eterno dilemma dell’estetica musicale, che si perpetua da Hanslick, come minimo, in poi…) Peraltro (vedi Mahler) nel corso degli anni ne lasciò immaginare addirittura un paio (!): il DNA della Finlandia e le saghe islandesi (Saemund & Snorri, per intenderci). Ma ogni volta poi concluse (ancora seguendo Mahler) che questa musica altro non esprime se non ciò che è inesprimibile con segni o parole (per citare Goethe: Das Unbeschreibliche, Hier ist’s getan): sensazioni interiori e stati d’animo o stati della mente del compositore.

Sì, però: siamo sicuri che l’ascolto di queste note ingeneri in noi precisamente le stesse sensazioni e gli stessi stati mentali (entrambi a noi ignoti) che spinsero Sibelius a vergarle, quelle note? Mah, visto che nemmeno l’Autore ci può e vuole aiutare a raggiungere l’obiettivo, che possiamo fare? Forse ci conviene – ancora una volta – abbandonarci alla musica senza pregiudizi, per sentire… l’effetto che fa sulle nostre corde interne: certo, scoprendone allo stesso tempo, se esiste, una narrativa, un racconto (per l’appunto, una… saga?) che ha per protagonista non un eroe o un ideale, o gli stati d’animo del compositore, ma solo i temi, i motivi musicali che ricorrono all’interno del brano.     

E quest’opera giovanile di Sibelius si fa apprezzare proprio per la ricchezza dei temi e per il racconto di cui essi sono protagonisti. Proviamo ad esplorarla sommariamente - osservando la partitura - in questa incisione di Ashkenazy con la Philharmonia. Qui segue una raccolta dei principali temi e motivi dell’opera:

L’introduzione (Moderato assai) ci porta all’orecchio sommessi arpeggi degli archi sulla scala di LA minore, mentre i violini primi tremolano la quinta vuota LA-MI: su questo tappeto sonoro un fagotto e i corni espongono un classico lamento (motivo-A, MI-FA-MI-FA…)  

A 20” appare nei legni un nuovo motivo-B in DO maggiore, dalla natura ostinata, che viene interrotto (41”) da un’irruzione sul LAb dei flauti, reiterata poco dopo (53”) in presenza, nella tromba, del motivo-C, che anticipa le caratteristiche di attacco dei due primi temi. E in effetti i tre motivi esposti finora diventeranno germogli, per così dire, di temi o incisi che riappariranno nel corso del brano.

A 1’11” gli archi riprendono ad arpeggiare, passati adesso in DO# minore, preparando in questa tonalità l’arrivo (1'19") nel fagotto e archi bassi del Tema-1, dall’aspetto mesto e dolente. L’atmosfera si ravviva (1’54”) con quattro battute di improvviso crescendo e stringendo dell’orchestra, in cui spiccano saltellanti semiminime dei flauti, che ci portano a RE minore (o al modo dorico) introdotto (2’01”) da altri arpeggi degli archi. Si è così preparato il terreno per l’entrata (2’10”) del Tema-2 in corni e celli; questo tema mutua dal Tema-1, trasponendola in alto di un semitono, tutta la prima parte, per poi svilupparsi ulteriormente (2’26”) accompagnato ancora dalle saltellanti semiminime di tutti i legni. Ritroveremo verso la fine questo tema in posizione preminente. Un nuovo crescendo e stringendo (2’51”) è interrotto inopinatamente (2’58”) con la ripresa del tempo precedente, che però porta ora ad una rapida transizione che prepara il passaggio al tempo Allegro (3’21”).

Siamo tornati – momentaneamente – al DO maggiore, ed ascoltiamo, in clarinetti e primi violini, il nuovo Tema-3, che mutua l’incipit e poi lo sviluppo precisamente dalla seconda frase del Tema-2. Si passa a DO minore (3’40”) per lo sviluppo del tema, che (4’16”) innesca negli archi una rapida scalata che porta (4’20”) all’arrivo del Tema-4, esposto dalla prima viola. Esso si caratterizza per riprodurre al suo interno un arco di note mutuato (trasposto) dal motivo-B dell’Introduzione. Spentosi il Tema-4, ecco comparire prepotentemente (5’12”) negli archi il Tema-5, subito sviluppato dai legni e poi reiterato dagli ottoni e chiuso perentoriamente. 

Ora tocca al Tema-4 tornare (6’30”) in primo piano, sottoposto poi ad altri consistenti sviluppi. A 7’54” sembra di piombare nella nebbia più fitta: i soli archi, suonando in tremolo sul ponticello, evocano una specie di indistinto ronzio, dal quale si esce (8’14”) ritrovandoci inaspettatamente in SOL# minore: dove (8’21”) torna ad imperversare il Tema-5. Che poi (8’47”) svaria in MI minore per preparare il ritorno (8’56”) al DO minore, dove il tema viene reiterato, prima di cominciare a spegnersi (9’21”) quasi sfaldandosi progressivamente. Ora è il Tema-4 a dare gli ultimi sussulti (9’46”) nei violini e poi nelle viole, contrappuntate dai legni, poi ancora (10’14”) in violini e viole; sussulti che non arrestano tuttavia l’inevitabile collasso del tema. Adesso è il Tema-5 a tornare mestamente nell’oboe (10’44”) e poi nel flauto (11’15”) che, scortati dal clarinetto, ne testimoniano la fine. Otto battute degli archi (12’24”, Lento assai) e quattro del corno ne siglano la sepoltura, poi (13’05”) negli archi, quindi nel corno, si conclude il compianto.

Tutto finito? Non proprio: come dice Macbeth, dopo la visione di Banqo? La vita riprendo… Ecco, anche qui (13’39”) si ricomincia a vivere. È l’oboe (Moderato) a riprendere l’arco sonoro della terza battuta del Tema-5 e ad innescare un progressivo crescendo culminante in un fragoroso tutti orchestrale che salta dal MIb al DO minore e prepara (Allegro molto) l’ingresso trionfale dei corni (14’17”) sul Tema-2. Che si sviluppa poderosamente culminando (14’49”) nell’esposizione, in DO maggiore, di una variante (Tema-2b) della seconda sezione del tema originale, variante che evoca sogni (sfumati?) di gioventù. L’orgia sonora prosegue fino ad interrompersi bruscamente (15’51”) per poi spegnersi sul MIb. 

Moderato e tranquillo: è il clarinetto solo a scrivere (16’25”) sul Tema-2 accompagnato dal motivo-A negli archi, un epitaffio in MIb minore, dove però ricorre (17’33”) la variante, ora patetica (Tema-2b) in modo maggiore. Infine (18’16”) sono i violoncelli (poi solo il primo) a riprendere sommessamente il Tema-4, sul MIb minore di clarinetto e archi, con il timpano a finire (quasi niente) sul morendo degli archi.  
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Adesso che lo conosciamo un po’ meglio, potremmo anche azzardare una descrizione sommaria della macro-struttura del brano: che si apre con un’Introduzione cui segue l’Esposizione dei 5 temi principali (Tema-1 e Tema-2 sempre in Moderato assai; Tema-3, Tema-4 e Tema-5 in Allegro); quindi Tema-4 e Tema-5 sono sottoposti ad uno Sviluppo che si chiude sul Lento assai. Segue (Moderato, poi Allegro molto) una grandiosa Ripresa del Tema-2 (con Tema-2b). Infine la mesta Coda, con il Tema-2 e poi il Tema-4.

Che dire, un racconto musicale godibile, costruito con sapienza e ispirazione, che Santonja ha cercato di valorizzare, mettendone in risalto i contrasti, fra le zone di quasi-silenzio degli archi e le esplosioni degli ottoni. Certo, è difficile trasformare un buon-lavoro in un… capo-lavoro.
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Come è invece Don Juan, composto da Richard Strauss (nato 18 mesi prima del collega finnico) a soli 24 anni. Qui, almeno sulla carta, rispetto a Sibelius le cose sono un po’ meno equivoche, poiché il titolo dell’opera non lascia adito a dubbi: Strauss intende programmaticamente proporci la sua musicale visione della personalità del burlador (versione Lenau, peraltro). Del quale sbozza in altrettanti temi musicali il piglio scanzonato e irriverente, le pulsioni della libido e gli slanci ideali.

Dopodichè starà pur sempre a noi giudicare la riuscita del suo sforzo compositivo: e decideremo se apprezzarlo per la coerenza della musica con il soggetto ispiratore, oppure (come alla fine magari accade) semplicemente per l’irresistibile fascino che da quella musica emana, del tutto indipendentemente dalla presenza di (e dalla fedeltà a) quel medesimo soggetto ispiratore…

E chissà che non scopriamo che dietro, o sotto, la crosta dello spunto extra-musicale esiste in realtà un rigoroso impianto formale (esposizione e sviluppo dei temi) che regge l’intera costruzione.

Grande prestazione dell’Orchestra, che in questo repertorio ha pochi rivali. Santonja ha saputo cavarne il meglio, assecondato dalle prime parti che hanno qui ruoli da protagonista. Per lui applausi convinti anche da parte di Dellingshausen&Co.

25 novembre, 2022

laVerdi 22-23. 7

Un ardito accostamento viene proposto dal 7°concerto dell’Orchestra Sinfonica di Milano: Shostakovich e Beethoven!

Ne è protagonista Luigi Piovano, da una vita primo violoncello a SantaCecilia, che affianca esibizioni solistiche alla direzione d’orchestra. E in questo doppio ruolo si presenta qui in Auditorium.

Dapprima per interpretare il primo Concerto per violoncello di Dmitri Shostakovich. Concerto di alta difficoltà, come logico, essendo stato composto espressamente per - e dedicato a - quel mostro che rispondeva al nome di Mstislav Rostropovich. Due giorni dopo la prima leningradese (domenica 4 ottobre, 1959) con Mravinski sul podio, autore e interprete si spostarono a Mosca per realizzare (con la locale Filarmonica diretta da Gauk) la prima registrazione dell’opera, cui si fa riferimento nelle note successive.
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Come sempre, Shostakovich resta formalmente fedele ai modelli classici e al diatonismo, ma li riempie di contenuti innovativi e spesso dissacranti. Basti considerare proprio l’attacco dell’iniziale Allegretto, in forma-sonata, dove troviamo tre bemolli indicati in chiave:

Sarà MIb maggiore o DO minore? Ah, saperlo, anche perché la prima battuta, occupata dal solo violoncello, contiene le prime tre note (SOL-FAb-DOb) del motto che informerà tutto il movimento e tornerà anche nel terzo e infine a chiudere il concerto: tre note che enarmonicamente lette altro non sono se non la triade perfetta di MI minore (SOL-MI-SI) assai lontana dalle tonalità prospettate in chiave. Ma poi, alla seconda battuta, il motto chiude scendendo di una seconda minore, al Sib, cui si aggiungono il MIb e il SOL dei legni, il che finalmente ci porta alla triade maggiore di MIb, tonalità classicamente evocante natura, religione o eroismo.  Ma c’è chi invece ci vede l’individuo intellettualmente libero che cerca (triade di MI minore) di elevarsi al di sopra delle convenzioni, o delle ideologie, o dei regimi, rappresentati dal MIb maggiore! Insomma: Shostakovich vs Stalin? E del resto qui c’è un MIb maggiore quasi irriconoscibile (vi manca per caso l’armonia?) che non è certo quello dell’Eroica

Dopo una breve transizione (1’27”) Il secondo tema (1’33”) è canonicamente in DO minore, con melodia più spiegata e distesa:

Melodia reiterata dal solista (2’15”) e poi (2’24”) dal clarinetto, che ci porta allo sviluppo (2’37”) che è prevalentemente occupato dal primo tema in cui spicca in particolare il corno. Poi la ripresa (4’35”) è assai variata (e accorciata) rispetto all’esposizione (il secondo tema, nel corno - 4’56” - resta però in DO minore). Segue (5’39”) la coda, monopolizzata dal primo tema, ma chiusa repentinamente (6’17”) dall’incipit del secondo nel violoncello, in MIb maggiore!

Il centrale Andante (LA minore, e relativa FA# minore) è in una forma - volutamente? – ambigua: c’è infatti chi lo riconduce ad uno spurio (in quanto tronco) rondò (A-B-A-C-A-B) e chi lo classifica come un macroscopico ternario X-Y-X (AB-AC-AB). In altri termini: uno sbeffeggio tutto shostakovich-iano alle classiche forme.  

Il ritornello A viene esposto (6’25”) dagli archi e completato (6’49”) dall’intervento del corno:

Ecco ora il primo episodio B:

esposto (7’03”) dal solista, che poi (7’36”) lo reitera, imitato (8’19”) dal clarinetto, che ne lascia al violoncello il completamento.

Ricompare negli archi (9’33”) il ritornello A in FA# minore, ma qui senza l’appendice del corno. 

Ora (10’22”) siamo al secondo episodio C, davvero esteso e complesso, di cui notiamo almeno due motivi:

Il motivo a è ripreso a 11’26”, il b a 11’58”. Poi si procede ad un progressivo intensificarsi dell’atmosfera sonora, fino a raggiungere un climax che sfocia nella reiterazione (13’48”) del ritornello A, sempre in FA# minore nella sua prima parte, poi tornando a LA minore (13’58”) con il corno che lo completa. L’ultima apparizione dell’episodio B (14’18”) è avvolta in un’atmosfera irreale, creata dagli armonici del violoncello e dall’ingresso della celesta.

Spentosi così l’Andante, attacca subito (16’35”) la Cadenza, invero ipertrofica e massacrante, basata prevalentemente su motivi del precedente Andante, ma con reminiscenze del motto. E appunto, senza soluzione di continuità si attacca al finale Allegro con motto moto.

La forma è uno spurio rondo (A-B-A-C) oppure un mozzicone di forma-sonata, dove in realtà C la fa da padrone, sfociando in un enfatico ritorno del motto. L’inizio (21’50”) non è che la conclusione della precedente Cadenza, poi ecco (21’56”) il brillante tema A, esposto da oboi e clarinetti:

In seguito (22’19”) lo riprende il violoncello, che prepara l’arrivo (22’34”) dell’episodio B, dentro il quale Shostakovich nasconde abilmente (22’52”) una citazione impertinente della canzone popolare (si dice piacesse a Stalin!) Suliko:

Torna quindi (23’07”) il tema A, un’ottava sopra, sempre in oboi e clarinetti cui si aggiunge il flauto.

Ecco ora (23’23”) la parte più corposa del movimento, con l’episodio C, che inizia con un brusco cambiamento di ritmo, da binario a ternario:

Il tema è ripreso poco dopo (23’33”) dal solista che attacca un crescendo che porta (24’01”) alla progressiva, vaga ricomparsa del motto, che poi appare davvero protervo (24’47”); motto che poi (24’58”) si allarga ulteriormente (corno) e poi (25’09”) è ripreso dal solista che innesca una progressione che si fa forsennata, finchè si arriva (25’04”) alla coda, dove ancora il motto si scatena e vi ri-occhieggia Suliko. All’ultimo, su un SOL tenuto saldamente dal solista (in tripla corda, su tre ottave!) ottavino e flauto ripetono il motto per l’ultima volta; poi restano solo due secche crome (di tutti, ottavino escluso) fatte di MIb-SOL, su sette martellate del timpano.
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Tale è il rilievo riservato (data la grandezza del dedicatario e primo interprete) al solista che l’orchestra quasi non esiste, riducendosi ad interventi (a loro volta solistici) di pochi strumenti (corno, strumentini, timpano, celesta). E ciò rende certo più agevole il compito a chi, come Piovano, opera con due cappelli in testa (anzi con un archetto e una virtuale bacchetta).

Successo strepitoso per lui, accolto da applausi ritmati dal pubblico… selezionato dell’Auditorium. E allora lui, facendosi accompagnare dall’orchestra, ci regala un vorticoso bis (qui con il suo Direttore ceciliano). 
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Ecco infine la Settima beethoveniana. Piovano l’ha mandata a memoria e la dirige con piglio enfatico: gesto ampio, ammiccamenti alle diverse sezioni, insomma una direzione plateale che – oltre l’udito - accontenta anche… la vista. L’Orchestra si lascia coinvolgere e suona come un sol uomo, suscitando, dopo il travolgente e ubriacante Allegro con brio, l’entusiasmo generale. 

18 novembre, 2022

laVerdi 22-23. 6

Conclusa a suon di trionfi la tournée ispano-olandese, l’Orchestra Sinfonica di Milano torna in Auditorium con un programma franco-russo di fine ‘800 – primi ‘900. Per la prima volta sul podio di Largo Mahler sale il figlio d’arte Emmanuel Tjeknavorian, 27enne austro-armeno nato violinista ma - seguendo le orme del padre Loris - ormai avviato stabilmente sulla strada della Direzione.

La prima sezione del concerto è tutta francese, aperta da Pavane pur une infante défunte di Maurice Ravel. Il quale, per negare al brano stretti riferimenti programmatici, ebbe a spiegare minimalisticamente e con tono dissacrante l’origine del titolo come un semplice gioco di parole, un esercizio di allitterazione (fante-funte): in realtà il minuscolo brano (6 minuti scarsi) composto nel 1899, divenne subito notissimo, tanto che 10 anni più tardi Ravel lo orchestrò da par suo (compiendo il percorso inverso rispetto a Fauré, la cui Pavane nacque per orchestra e fu poi down-gradata per la tastiera). Ed è nella versione orchestrata che ascoltiamo il brano in queste tre serate.

La struttura è di rondo assai semplice (A-B-A-C-A) di 72 battute totali, così organizzato:

A - Refrain (7+5=12 battute);

B – Couplet-1 (7+8=15 battute);

A - Refrain (12 battute);

C – Couplet-2 (10x2=20 battute);

A - Refrain (12+1 battute).

Ne si può facilmente scoprire l’impianto in questa registrazione di Alexander Tharaud al pianoforte.    

Il ritornello A (SOL maggiore, con inflessioni modali e frequente appoggio sulla sesta) è inizialmente esposto a partire dal SOL centrale. Si compone di due frasi delicate, accompagnate nella mano sinistra in atmosfera assai rarefatta e discreta.

Segue (1’08”) il primo episodio (B) che presenta un motivo più risoluto, fatto di accordi di 4 o 3 note, con note lunghe nella mano sinistra; motivo che viene ripetuto.

Il ritornello (A) viene ora esposto (2’25”) un’ottava sopra rispetto all’esordio e con accompagnamento un po’ più corposo.

Il secondo episodio (C, in SOL minore, a 3’29”) è ancora più mosso del primo e come questo prevede la ripetizione del tema.

Ultima apparizione (5’14”) del ritornello (A) dalla stessa altezza della seconda, ma con accompagnamento assai mosso e ondeggiante, che poi si stempera in una presa di respiro (pp) cui segue la conclusione decisa (ff).

Nella versione orchestrata (qui Ormandy con la Philadelphia) le diverse sfumature sopra descritte vengono realizzate e moltiplicate attraverso un sapiente (proprio… raveliano) impiego dei colori orchestrali: il ritornello è aperto dal corno, poi nella successiva apparizione (2’07”) lo troviamo esposto dagli strumentini e nell’ultima (4’29”) da violini e flauti, poi clarinetti, con l’arpa che accompagna in arabeschi. Il primo episodio (58”) è affidato all’oboe, poi ripetuto dai violini; il secondo (3’05”) al flauto, raggiunto poi dall’intera orchestra. L’arpa fa il suo timido ingresso in chiusura del primo ritornello, poi il suo contributo prenderà via via corpo, fino ad essere protagonista nel terzo e ultimo.

Come si vede, gli strumentini e l’arpa hanno qui un ruolo chiave, e gli alfieri de laVerdi (Manachino, Greci, Ghiazza e Piva, più il corno magico di Amatulli) non hanno tradito la loro fama, giustamente ovazionati alla fine, insieme all’intero complesso e al Direttore.
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A seguire ecco Claude Debussy con i tre schizzi sinfonici intitolati La Mèr. Venuta alla luce all’inizio del ‘900, quando Strauss aveva appena chiuso la sua gloriosa stagione dei Tondichtungen, la composizione di Debussy, con tanto di titolo e soprattutto di tre ben specifici sottotitoli riferiti al mare, venne immaginata da pubblico e critica come un poema sinfonico in piena regola. Dopodichè, andandola ad ascoltare con questo pregiudizio, pochi ci sentirono davvero il mare e così la considerarono un mezzo fallimento. E a poco valsero le imbarazzate e un po’ piccate spiegazioni dell’Autore, che invitava a godere di quella musica dimenticandone gli specifici riferimenti acquatici: ma allora perché non intitolarla semplicemente Tre schizzi sinfonici… sul tipo di Ouverture, Scherzo und Finale di schumanniana memoria?

Poi però nel giro di pochi anni (dalla sofferta prima del 1905 alla ripresa, diretta dall’Autore, del 1909) il tempo ha fatto piena giustizia, sia delle critiche, che di titolo e sottotitoli! E l’opera è entrata di diritto fra quelle più innovative ed ammirate del secolo scorso. E la sua fama ha finito anche, paradossalmente, per portare i critici a rivalutarne persino il programma extra-musicale! Perché – in barba a dotte analisi musicali - non ci vuol molto, semplicemente ascoltandola, ad immaginare onde che si infrangono sugli scogli, o la risacca che accarezza la sabbia, o un improvviso mulinello di vento che si forma sul mare e si disperde in pochi attimi. (Però, senza troppa fatica e con un minimo di immaginazione, potremmo invece sentirci atmosfere di montagna – stormire di fronde, svolazzi di stormi di passeri, cascatelle e rigagnoli, veloci passaggi di nuvole… - perchè no!)

Insomma, un’opera affascinante, che affascina proprio per l’inafferrabilità delle sue forme e la perenne mutazione armonica delle sue atmosfere, con i motivi che sgorgano l’uno dall’altro senza apparenti legami di causa-effetto, ma che hanno un… effetto straordinario sulla nostra percezione.

Tjeknavorian dirige con gesto a volte fin troppo scolastico, nella scansione delle battute, ma evidentemente efficace, visto l’eccellente risultato dell’esecuzione, accolta con favore dal pubblico non… oceanico dell’Auditorium. 
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La serata si è chiusa con la celeberrima Sheherazade di Rimski, che Tjeknavorian ha scelto come primo brano da incidere su CD in veste di Direttore, con l’Orchestra Tonkunstler: e si deduce che l’abbia studiata a lungo, se ha fatto rimuovere il leggio e ha diretto a memoria! Qui ha poi il vantaggio di trovare una compagine che lo conosce come le sue tasche e una spalla (Santaniello) che non ha rivali nel sapersi calare nelle… corde della principessa!

Per carità, non vorrei essere frainteso: non sto insinuando che il giovine armeno si sia limitato a seguire col gesto i suoni emessi in totale autosufficienza dai ragazzi de laVerdi… Diciamo che non gli è stato difficile fare una bella figura, e la simpatia con la quale gli stessi orchestrali lo hanno salutato alla fine dimostra che il ragazzo deve pur avere qualche interessante qualità. Il futuro è tutto dalla sua parte.

14 novembre, 2022

Il Boris alla Scala: a vuoto le sanzioni ukraine.

Allora, pare che al simpatico Console di Kyiv a Milano ancora non vengano riconosciute sufficienti prerogative che gli consentano di cambiare in corsa la stagione della Scala, decidendo lui quando – bontà sua - concederci il malsano privilegio di tornare ad ascoltare musica russa.

Caso mai fanno discutere certe motivazioni (come questa, oppure questa e anche questa del maestro Chailly) al rifiuto di assecondare le richieste del Console: si sostiene che il Boris sia un’opera che non si presta a strumentalizzazioni da parte di uno zar moderno (Putin) poiché in essa è rappresentato precisamente un popolo vessato dal potere dello zar, e che piange sul suo disgraziato destino, mentre lo zar medesimo è schiacciato dalle sue colpe e muore in preda agli incubi che gli ricordano le sue malefatte. Quindi, un’opera che caso mai dovrebbe essere proprio il Console a voler rappresentata e Putin a voler cancellare dal cartellone…

Ok, ma allora, se l’opera in programma fosse, che so, Evgeni Onegin di Ciajkovski, dove si rappresentano scene liriche (con omicidio sì, ma per ragioni sentimentali) in un mondo che vive felicemente all’ombra dello zar, che succederebbe? Si darebbe ragione al Console?

Mah… 

11 novembre, 2022

Uno Zar minaccioso si profila all’orizzonte

No, Putin purtroppo è già qui fra noi, ne avvertiamo la nefasta presenza in molti momenti della nostra vita quotidiana. No, parliamo di quel Boris Godunov che dopo soli 20 anni (Putin si era da poco affacciato sulla scena, con il biglietto da visita della carneficina di Grozny, peraltro subito perdonatagli da tutti) tornerà a tener banco alla Scala per inaugurare la stagione 22-23.

A meno che lo stupido autolesionismo del Console di Kyiv a Milano non abbia il sopravvento sull’universalità della cultura, sortendo così il brillante effetto di far aumentare dal 60 all’80% il numero degli italiani contrari all’ulteriore invio di armi a Zelensky… 

Quanto al Presidente e al Sovrintendente della Fondazione (Sala e Meyer) oggi si trovano in evidente imbarazzo a dare risposta al Console, a causa del loro stesso zelo con cui, allo scoppio della guerra, decretarono l’ostracismo agli artisti russi che non prendessero formalmente posizione contro Putin: per coerenza con quella passata decisione dovrebbero – ma proprio come minimo – chiedere la stessa cosa ad Abdrazakov, Denisova e agli altri artisti russi del cast del Boris. (Della serie: allora gli hai offerto un dito, oggi pretendono il braccio…) Non parliamo poi di come si sentirà il Presidente Mattarella ad affacciarsi in mondovisione dal Palco Reale il pomeriggio del 7 dicembre e di come fatalmente si noterà l’assenza del Console (di cui nessuno altrimenti si curerebbe).

Un’idea per salvare capra-e-cavoli potrebbe essere quella già praticata da Andrey Boreyko in Auditorium il 25 febbraio scorso: dopo Fratelli d’Italia, eseguire Šče ne vmerla Ukraïny.

Per ironia della sorte, l’ultima apparizione del Boris alla Scala (all’Arcimboldi, per la verità) risale al 2002 quando fu presentato l’allestimento del Mariinski, diretto da quello che oggi è bollato quale bieco propagandista dello zar Vladimir, tale Valery Gergiev.

Domani pomeriggio, nel foyer-Toscanini del teatro, si terrà una pubblica conferenza su questa prima. Moderata da Raffaele Mellace, recentemente nominato collaboratore scientifico della Fondazione, la tavola rotonda avrà come protagonisti il Direttore Riccardo Chailly, gli insigni musicologi Franco Pulcini ed Elisabetta Fava, e il russologo per eccellenza Fausto Malcovati (autore della traduzione italiana del libretto). Vedremo se la politica e le armi faranno capolino anche lì…

09 novembre, 2022

Gatti con Mahler scala la… Scala

La sesquipedale Terza Sinfonia di Mahler è comunemente etichettata (stando anche alle molteplici indicazioni programmatiche lasciate a più riprese dall’Autore medesimo) come una lunga e faticosa ascesa dalle… stalle alle stelle. Un percorso così schematizzabile: natura inorganica > vegetali > animali > esseri umani sottosviluppati > santificazione > ineffabilità dell’assoluto.

Mahler poi ritirò quei programmi, invitando l’ascoltatore ad apprezzare quella sua musica senza caricarla di (più o meno plausibili) significati extra-musicali o filosofico-religiosi, ma a fruirne come il frutto del lavoro di quel sesto senso che guida il rapsodo a decifrare, per poi esprimerle in suoni, le oscure sensazioni che nascono dal suo io profondo. 

E tuttavia è innegabile che proprio la musica di questa Sinfonia ci conduca inevitabilmente su un cammino di progressiva elevazione spirituale, culminante nel finale beethovenian-parsifaliano, dove ci sembra di abbandonare la dimensione spazio-temporale per entrare in……     

Ecco, Daniele Gatti – una direzione, appunto, mistica, la sua, degna del più ascetico dei Celibidache - ci ha proprio portato per mano in questa faticosa ma gratificante avventura. Dobbiamo ringraziare lui, l’Orchestra, i cori (femminile di Malazzi e dei piccoli di Casoni) oltre alla calda voce di Elina Garanča, se abbiamo avuto ancora una volta la fortuna di poterci emozionare.

Applausi interminabili per tutti in un Piermarini con qualche vuoto di troppo, francamente. Poi, ahinoi, si torna a casa a domandarci in che mondo viviamo…

06 novembre, 2022

Una gran Tempesta si abbatte sulla Scala

Eccomi a commentare questa prima scaligera di The Tempest di Thomas Adès, diretta dall’Autore e presentata con la messinscena del MET (2012) ad opera di Robert Lepage (qui ripresa da Gregory A. Fortner).

Di quella produzione restano presenti qui (oltre all’Autore/Direttore) quattro degli 11 interpreti, e precisamente: Audrey Luna (Ariel); Isabel Leonard (Miranda); Toby Spence (che però qui fa il Re di Napoli e non il golpista Antonio, mentre nel 2004 a Londra era l’innamorato Ferdinand!) e Kevin Burdette (Stefano, l’ubriacone).

Della regìa si conosceva praticamente tutto, essendo disponibile in rete una registrazione del MET. Certo, per avere in teatro lo stesso livello di qualità dello spettacolo garantito da una buona regia cinematografica (o televisiva) è necessario armarsi di binocolo per poter apprezzare almeno i primi piani dei cantanti o importanti dettagli della messinscena; ciò detto, la resa complessiva mi è parsa di grande impatto ed efficacia.

Sul fronte sonoro è da apprezzare la duttilità che l’Orchestra scaligera ha messo in mostra, rispondendo da par suo alle sollecitazioni del Direttore/Autore (che aveva avuto modo – per puro caso – di prenderci confidenza dirigendo un concerto sinfonico ai primi di ottobre). L’orchestrazione di Adès è assai raffinata e ricca di sottili dettagli che sono emersi nitidamente lungo l’intero arco della rappresentazione.     

In opere come questa le voci vanno (secondo me) giudicate più per l’efficacia nel presentare i personaggi che non nella stretta aderenza ai tradizionali canoni tecnici del melodramma. Il che non significa che si sia autorizzati a cantar male, ci mancherebbe. Tuttavia qui il parlato, il declamato, lo Sprechgesang e i falsettati sono all’ordine del giorno, alternandosi a momenti di canto spiegato come lo si intende comunemente.

La parte sicuramente più eterodossa (se così si può dire) è quella affidata al soprano di coloratura che interpreta lo spiritello di Ariel: una parte tanto improba da far impallidire quella di Astrifiammante (arriva a toccare opzionalmente il SOL iperacuto!) che comporta – già dalla prima comparsa in scena - intervalli vertiginosi, quindi di problematica intonazione, e virtuosismi davvero impervi. Stesso dicasi per i suoi interventi a seminare zizzania fra i naufraghi e poi a spaventarli con la sua apparizione da arpia. Ma non mancano al personaggio momenti di autentico lirismo: il mesto racconto a Ferdinand per risvegliarlo e portarlo da Prospero; il breve intermezzo masque; la compassionevole descrizione delle condizioni del Re e di Antonio, prima del perdono finale. La specialista nel ruolo Audrey Luna ha confermato quanto di buono si può ascoltare – ma anche vedere! - nel video del MET. Per lei un autentico trionfo.  

Il protagonista Prospero (baritono che ha una tessitura ampia, dal FA grave al LA acuto) è interpretato da Leigh Melrose (già passato con profitto qui alla Scala in Fin de partie). A differenza del personaggio di Shakespeare, questo Prospero è un uomo ancora relativamente giovane, e ciò spiega il muoversi del suo canto prevalentemente nella zona alta della tessitura. Il suo stato d’animo è caratterizzato da rancore e desiderio di vendetta: solo alla fine si scioglierà nel perdono e nella riconciliazione con chi lo aveva tradito. Melrose ne dà un’interpretazione convincente: la sua corposa voce quasi da baritenore è assolutamente calzante sul personaggio.

Sua figlia Miranda è impersonata dalla pregevole Isabel Leonard (altra superstite delle recite del MET). Capace di esprimere apprensione, stupore e anche rimprovero verso il padre, ma poi soprattutto donna innamorata, coraggiosa nelle sue scelte e disposta a sfidare il padre troppo possessivo, convincendolo alla fine a riconoscere il suo diritto alla libertà. Mertita un voto più che buono.

Al suo innamorato Ferdinand dà voce Josh Lovell, tenore leggero che sa bene rendere la personalità piuttosto timida e ingenua di questo figlio-di-papà cresciuto nella bambagia, sognatore e idealista.

A proposito di tenori, ce ne sono altri tre nel cast: il primo di costoro è addirittura il padre di Ferdinand (cosa apparentemente bizzarra) cioè il Re di Napoli, qui interpretato da Toby Spence. Il quale - come detto - ha già in passato sostenuto i ruoli (assai diversi) di Ferdinand e di Antonio (gli manca ora solo di fare anche il 4° tenore, Caliban). In realtà il Re ha una personalità piuttosto debole (talis filius, talis pater…) e così Spence non deve faticare troppo ad entrare nel ruolo.  

Il secondo è il golpista Antonio, un Robert Murray sufficientemente villain, nel suo viscido tramare contro il Re, servendosi della dabbenaggine del di lui fratello Sebastian. Apprezzabile in particolare il suo accorato e fatalistico mea-culpa finale. 

L’ultimo tenore è il selvaggio Caliban, cui dà voce Frédéric Antoun. La parte è fra le più difficili, dovendo far convivere diversi sentimenti: l’orgoglio derivantegli dall’essere figlio della defunta Regina dell’isola; la frustrazione e l’invidia legate al suo essere diventato schiavo di Prospero; l’attrazione che prova per Miranda; ed infine l’omicida desiderio di prendersi la rivincita sull’invasore/usurpatore. Tutto ciò implica per l’interprete la necessità di sciorinare una variegata palette di sfumature e accenti. Bene, Antoun si è dimostrato davvero all’altezza del compito.

I personaggi baritonali di Gonzalo e Sebastian sono probabilmente quelli che più si avvicinano al canto tradizionale. Il primo è interpretato da Sorin Colban, che ha una voce in realtà di basso-baritono, assai appropriata per il ruolo, ed è stato barvo a mettere in luce la magnanimità e la nobiltà d’animo del Consigliere del Re (ma ben disposto verso Prospero). Il secondo è un personaggio debole di carattere, fatalista e pusillanime: Paul Grantne ha dato un’interpretazione onorevole e onesta.

I due ubriaconi hanno voci complementari: Kevin Burdette (Stefano, anche 10 anni fa al MET) da baritono acuto e Owen Villetts (Trinculo) da controtenore. Entrambi meritevoli di elogi ed applausi.

Il coro (di Alberto Malazzi) ha degnamente completato il quadro delle voci. Non ha un ruolo quantitativamente esteso, ma deve esprimere una varietà di accenti: terrore, ansia, rassegnazione, depressione fisica e infine sollievo e tripudio per il lieto-fine.   

Pubblico abbastanza numeroso (stante il titolo non proprio popolare e il finale di stagione davvero autunnale) ma assai prodigo di applausi per tutti quanti. In definitiva: la stagione scaligera si chiude in bellezza, ed ora ci si prepara all’ormai vicino SantAmbrogio, con un redivivo (dopo 20 anni) Musorgski.