affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

14 novembre, 2019

Lo strampalato Fidelio svizzero a Bologna


Nella bomboniera del Bibbiena è andata ieri in scena - in pomeridiana - la terza delle sei rappresentazioni della nuova produzione di Fidelio, co-realizzata con l’Opera di Stato di Amburgo, dove è passata all’inizio dello scorso anno non senza contestazioni quasi unanimi (pubblico e critica) soprattutto al regista, ma un poco anche al direttore. E pensare che erano (e sono) la coppia-più-bella-di-Amburgo (Delnon-Nagano): sovrintendente e direttore musicale del Teatro! Come se alla Scala venisse censurata una messinscena di Otello con regìa di Pereira e direzione di Chailly (nulla di più probabile, direbbe qualcuno, haha...)

Domenica scorsa Radio3 aveva irradiato la prima che - ad essere sincero - non mi aveva particolarmente entusiasmato: direzione di Asher Fisch piuttosto incolore e impacciata, e cast mediamente poco sopra il minimo sindacale. Ma si sa che l’ascolto tecnologico è ingannatore: infatti quello dal vivo è stato... quasi peggio (!)

Al Direttore israeliano riconosco un sicuro merito: la scelta dell’Ouverture giusta (ad Amburgo Nagano optò narcisisticamente per la Leonore3) e la rinuncia all’usanza mahleriana di infilare la citata Leonore3 prima del finale. Per il resto, siamo più alla magmatica prosopopea di Wagner (del quale Fisch è obiettivamente un grande esperto) che alla trasparente asciuttezza del Ludovico, ecco. Non sono comunque mancati momenti emozionanti, come il coro del primo atto (Leb wohl, du warmes Sonnenlicht) e lo scioglimento delle catene di Florestan da parte di Leonore (O Gott, welch ein augenblick!Meritevole di elogio anche il finale del coro di Alberto Malazzi.

Note miste (e per me in parte sorprendenti) per le voci. Su tutti il Pizarro di Lucio Gallo, veterano del ruolo che interpreta con il giusto grado di sbifidezza, ma senza esagerare: la voce è sempre potente, anche se non priva di qualche forzatura, però, avercene! Sorpresa negativa la Simone Schneider: voce spesso chioccia in acuto e carente nell’ottava grave; una Leonore francamente sotto le mie aspettative. Al contrario, dopo l’ascolto radiofonico che mi aveva quasi orripilato, il Florestan di Erin Caves mi è parso un altro cantante. Tanto per cominciare: niente stonature; e poi buona proiezione della voce e discreta tenuta fino in fondo. Degli altri, sufficiente la Marzelline di Christina Gansch, che se non altro si fa sentire senza problemi (poi se gli acuti fossero meglio controllati meriterebbe quasi un voto discreto...) Di male in peggio gli altri tre interpreti maschili: inudibile (vocina opaca e anonima) il Jaquino di Sascha Emanuel Kramer; vocione artificialmente gonfiato, cavernoso e sgradevole quello di Petri Lindroos (Rocco) e del tutto privo della necessaria autorevolezza (leggasi: una voce di basso corposa ma morbida) il Ministro di Nicolò Donini. Meglio di loro han fatto i due coristi del Comunale, Andrea Toboga e Tommaso Novelli, voci soliste del gruppo di prigionieri.

Pubblico per nulla oceanico e assai freddo durante lo spettacolo: applausetti a scena aperta solo dopo Ouverture, le arie di Pizarro e Leonore nel prim’atto, l’aria di Pizarro e il duetto Leonore-Florestan nel secondo. Applausi un po’ più convinti per tutti - ma di breve durata - alla fine.
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In compenso (?!) tutto quanto di male era stato scritto in Germania a proposito della regìa si è puntualmente quanto inevitabilmente ripetuto nella ripresa bolognese, giustamente (a mio parere) stroncata in questa autorevole recensione della prima.

Io sarò un po’ meno severo, derubricando l’accusa da quella di lesa maestà a Beethoven nell’altra di semplice velleitarismo e banalizzazione del soggetto, da parte di un regista in cerca di Konzept discutibili (la caduta della DDR, le citazioni da opere di Müller e Büchner più fuorvianti che altro) e di trovate da avanspettacolo (vedasi la Marzelline isterica insidiata da Jaquino e Pizarro mentre si suona la mirabile introduzione all’atto secondo).

Insomma: uno spettacolo francamente modesto, di cui temo nessuno si ricorderà... In ogni caso, chi proprio volesse prenderne visione (con il secondo cast) lo può fare stasera stessa collegandosi con lo streaming del Teatro.

08 novembre, 2019

laVerdi-19-20 - Concerto n°6


Tocca ad un giovane direttore spagnolo, Josep Vicent, alla sua prima apparizione sul podio dell’Auditorium, dirigere questo concerto che incastona un brano moderno britannico fra due brani otto-novecenteschi russi.

Si comincia con Musorgski e la sua Notte sul Monte Calvo. È sempre la notissima versione orchestrata da Rimski-Korsakov sulla base dell’Intermezzo dell’opera La Fiera di Sorochyntsi, e non sull’originale La notte di SanGiovanni sul Monte Calvo. Anche se derivate dalle stesse fonti, le due composizioni hanno solo qualcosa in comune, cosa di cui ci si può render conto... ascoltandole (oltre che confrontando le due partiture): qui Rimski con Bernstein e la NYPO; e qui Musorsgki con Abbado e i Berliner.

Purtroppo (per me, almeno) anche stavolta non sono stato accontentato: sì, perchè mi piacerebbe tanto ascoltare le due versioni una appresso all’altra! E vi assicuro che non ci si annoierebbe: pazienza, continuo a sperare... 

Vicent dà veramente la carica del sabba all’orchestra, staccando tempi frenetici che mettono a dura prova la compattezza delle sezioni: ma il risultato è di tutto rispetto e il pubblico (anche qui: pochi-ma-buoni) risponde con convinti applausi.  
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Ecco poi l’intermezzo contemporaneo, con il Concerto per trombone di Michael Nyman, opera del 1995 commissionata dalla BBC in omaggio al grande Henry Purcell (qui e in video successivi la registrazione della prima). Musica tonale (base RE) ispirata ad un’antica usanza medievale (la chiarivari) consistente nel mettere ferocemente alla berlina persone accusate di comportamenti eterodossi: circondandole per la strada e facendole oggetto di un gran frastuono (musica volgare) ottenuto con improvvisate percussioni. Ecco, il concerto evoca questa situazione di totale conflitto fra il solista (= il peccatore) e la massa orchestrale (= la folla sfottente).

Ma in omaggio a Purcell Nyman cita espressamente - in un’oasi di quiete della sua composizione - un motivo della Marcia del Funerale della Regina Mary, prima di proporre anche una manifestazione di musica volgare presa dal calcio: il ritmo di Come on you Rangers, scandito su scatoloni di latta dai tifosi dei Queens Park Rangers alle partite della Premier League!

È la prima parte dell’Orchestra, Giuliano Rizzotto, ad interpretare questo brillante e spiritato pezzo di bravura. Lui fa il suo ingresso quando il Direttore è già sul podio e suona peripateticamente le 18 battute del suo sognante recitativo, interrotto dalle intemperanze della... folla. Poi supera tutte le impervie difficoltà del brano, guadagnandosi scroscianti applausi dal suo pubblico. 

Così, insieme ai colleghi dell’Orchestra ci offre un bis che ci riporta agli anni ’60, Elizabeth Taylor e Richard Burton...
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laVerdi si è cimentata più volte con lo Stravinski dell’Uccello di fuoco, ma credo sia la prima volta che ne presenta la terza Suite del 1945. Dal balletto del 1910 il compositore russo estrasse appunto tre diverse Suites (1911, 1919 e 1945) e poi rimaneggiò la terza ulteriormente nel 1947. A puro titolo di curiosità rimando ad un mio vecchio post che contiene una tabella di riferimenti sui contenuti di balletto e Suites (peccato che parecchi link ivi riportati siano obsoleti: colpa di Internet, ovviamente). Si deduce come la Suite del 1945 sia la più corposa delle tre, più di 30’ contro i 15’ della prima e i 22’ della seconda (il balletto complessivamente dura più di 45’). 

Non è detto però che questa maggior corposità si traduca in efficacia: poichè diverse parti si apprezzano assai in un’esecuzione coreografica, assai meno come musica pura, di cui si fatica a cogliere un fondo di narrativa.

In ogni caso i ragazzi sono stati eccellenti, in ogni reparto, e alla fine a tutti sono andati meritatissimi consensi, consensi estesi al Direttore, che ha diretto il brano à-la-Gergiev, cioè senza bacchetta e mediante sfarfallio della mano destra... Chissà se sia un buon segno!

07 novembre, 2019

Elena scalizia


Ecco quindi arrivata al Piermarini anche questa Die ägyptische Helena snobbata per quasi un secolo... Ma purtroppo ier sera l’ha snobbata anche il vasto pubblico, almeno a giudicare dagli abissali vuoti che presentava il Piermarini. Va detto però che i rari nantes presenti si son fatti in quattro per decretare comunque un franco successo allo spettacolo. Successo il cui merito va equamente distribuito fra tutti: direttore, orchestra, cantanti, coro e team di regìa. Oltre ovviamente a quelli del compreso musico e dell’incomprensibile (?!) poeta.

Parto dal Kapellmeister: Welser-Möst ha mostrato di padroneggiare alla grande questa partitura che sembrerebbe facile all’apparenza, ma che alle divine leggerezze da Rosenkavalier affianca asprezze degne di Salome o Elektra. Un unico personale appunto mi sento di fare al Maestro di Linz: qualche eccesso di decibel che più di una volta ha (quasi) coperto due voci di per sè potenti come quelle dei due protagonisti. Ma in complesso la sua è stata una direzione encomiabile, cui ha fatto riscontro una prestazione lodevole dell’ipertrofica Orchestra, che ha saputo valorizzare le raffinatezze della mirabile strumentazione straussiana.

Trionfatore assoluto della serata il Menelas di Andreas Schager, ormai approdato al traguardo come Heldentenor di razza, che ha saputo domare da par suo un ruolo a dir poco massacrante. Inizio un po’ difficile, con eccessivo vibrato, poi un continuo crescendo fino all’ultimo SI naturale (heilige Sterne) davvero imperioso. 

Ricarda Merbeth ha un gran vocione che esplode negli acuti, peraltro un filino... sfacciati, come dire. Nell’ottava bassa mi pare migliorata rispetto a prestazioni passate (vedi lo scaligero Fidelio). Piuttosto impacciata sul piano attoriale, dove ha forse enfatizzato troppo il suo status di sovrana un po’ pigra.

Molto bene anche Eva Mei, già a suo agio nella lunga ed accorata esternazione che apre l’opera e poi sempre efficace nel suo femminista indaffararsi pro-Helena. Mi pare anche corretto il suo tedesco, grazie alla decennale esperienza iniziata 30 anni fa con Mozart. Pregevole poi la sua prestazione da attrice consumata. La sua vongola (!) Claudia Huckle si è ben portata, pur mostrando una voce non proprio potentissima.

I due buzzurri dell’Atlante su dignitosi livelli: Thomas Hampson è stato un solido Altair, che ha saputo esprimere protervia e libidine senza per questo sconfinare in sguaiatezze. Attilio Glaser ha messo in bella mostra la sua voce di tenore lirico, in una parte per la verità non proibitiva, ma non per questo meno importante.

Su standard più che dignitosi le due ancelle Tajda Jovanovič e l’accademica Valeria Girardello, misuratasi anche come quarto Elfo. Efficaci le presenze impertinenti anche degli altri tre Elfi solisti: Alessandra Visentin e le accademiche Noemi Muschetti e Arianna Giuffrida. La loro collega Caterina Maria Sala ha scolasticamente compitato l’unico verso che canta come Hermione.

Il resto degli Elfi (atto I), i giovinetti e gli schiavi di Altair e le teste di cuoio di Poseidon (atto II) erano impersonati da un gruppo piuttosto sparuto di coristi di Mario Casoni. Gli Elfi e i ragazzi di Altair erano sistemati in quattro palchi di proscenio (dovendo essere quasi sempre invisibili). Pur essendo un impegno non sovrumano, hanno tutti ben meritato.
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Ora, lo spettacolo. Bechtolf e il suo team ambientano questa specie di fiaba ai tempi della composizione dell’opera. La scena è sempre occupata dal gigantesco involucro di una radio a valvole (che appariranno, enormi, nel second’atto) dalla quale arrivano all’inizio le notizie portate dalla vongolona e il cui frontale si apre poi di volta in volta per creare gli spazi della camera nuziale nel primo atto o dell’Atlante nel secondo. Brevi filmati vi corrono sullo sfondo a rappresentare vuoi il naufragio oppure scene di guerra (delirio di Menelao e caccia nel second’atto).

Anche i costumi sono da teatro anni’30. Scarse suppellettili sparse qua e là, ma sempre in modo appropriato e rispettoso delle didascalie del libretto. Assai efficace (l’impacciata Merbeth a parte...) la recitazione dei personaggi, in specie Aithra e Menelas. Moderato l’impiego di figuranti e movimenti coreografici.
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Alla fine tutti applauditi per parecchi minuti (con ovazioni per Schager) da un pubblico di pochi-ma-buoni. E a proposito di pubblico, mi sentirei di suggerire ai melomani di non perdersi questa grande musica; a chi pensasse invece di vedere la guerra di troia... beh: fate almeno un minimo di compitini a casa, ma poi andate e godetevi lo spettacolo! 

02 novembre, 2019

Alla Scala è in arrivo una novità assoluta


C’è sempre una prima volta... mai dire mai, insomma. Ecco, dal 6 novembre la Scala ospiterà - a soli 90 anni di distanza dalla sua apparizione sulle scene! - Die ägyptische Helena, la nona opera (decima, contando le due Ariadne) di Richard Strauss, completata a Garmisch sabato 8 ottobre 1927.

Ma prima che di Strauss si deve parlare di Hugo von Hofmannsthal, il geniale letterato viennese che fornì - sesta di sette volte, sempre contando entrambe le Ariadne - al birraio (per parte di madre) bavarese la materia prima poetica da rivestire di sontuose e mirabili note. E da dove il grande Hugo prese a sua volta lo spunto per il suo libretto? Intanto va confermato che sì, questa Helena è precisamente la mitica Elena di Troia. Meno immediato è però spiegare l’attributo che Hofmannsthal le appiccica nel titolo dell’opera: egizia? Egizia poichè il soggetto tratta dell’arrivo forzato e della permanenza di Elena e Menelao sull’isola egiziana di Etra (poi molto più a ovest, alle pendici dell’Atlante, come minimo nell’attuale Tunisia) ospiti dell’omonima principessa, che è accasata con Poseidon(-Nettuno) ed ha doti soprannaturali, oltre a possedere una gigantesca vongola che ha qualità di veggente. Invenzioni di Hofmannsthal? Non proprio. E allora la prendo alla lontanissima...

A scuola abbiamo imparato (oh, parlo di tempi remoti, oggi non saprei dire cosa si insegni nelle aule...) a conoscere Elena dall’Iliade di Omero (che le più precise ricerche ci informano essere vissuto in un breve periodo che va dal 1100 al 700 avanti Cristo!) In realtà l’Iliade tratta solo degli ultimi giorni della guerra di Troia (in particolare dell’ira di Achille contro Agamennone...) e Omero relega il ricordo del motivo scatenante di tale guerra in pochi versi dell’ultimo libro del suo poema. Dove riferisce del rifiuto di Giunone (, Nettuno) e Minerva a restituire ai troiani il corpo del caduto Ettore, rifiuto motivato dal persistente odio verso Troia delle due dee, a suo tempo offese da quel Paride - giudice monocratico al concorso di miss-Olimpo - che a loro aveva preferito Venere, in cambio dell’accesso alla proprietà della donna più bella del creato (oltre che già accasata...)

L’Egitto? Per Omero nell’Iliade non esiste, ma lo si trova nell’Odissea (Libro IV) dove Menelao, tornato a Sparta e riconciliatosi con Elena, racconta a Telemaco (colà in cerca del padre Ulisse) di esser stato costretto - di ritorno da Troia - a far sosta in Egitto e precisamente sull’isola  di Faro, dove regnava Proteo (un dio del mare tirapiedi di Nettuno, capace di trasformarsi in qualunque cosa e dalle qualità divinatorie) e dove una figlia di costui, Eidothea, lo soccorse, aiutandolo poi a carpire al padre il segreto per riprendere il mare e tornare a casa. Questi particolari cominciano a farci capire da dove Hofmannsthal abbia potuto trarre l’idea per il suo soggetto: l’isola di Etra dell’opera sarebbe quindi Faro; l’Etra personaggio può incarnare Eidothea, mentre sullo sfondo appare anche Poseidon. Sono comunque tutti particolari che riguardano il viaggio di ritorno di Elena e Menelao da Troia.

Ma dal libretto dell’opera scopriamo qualcosa che in Omero è del tutto assente: l’esistenza di due Elene, perbacco! Etra rivela a Menelao che la Elena fuggita a Troia con Paride era in realtà un fantasma (eidôlon) creato dagli dei per salvare Menelao dagli effetti del patto scellerato proposto da Venere a Paride: la vera Elena è sempre rimasta lì, addormentata in un palazzo ai piedi dell’Atlante, in attesa di essere risvegliata da Menelao! Di nuovo: invenzioni di Hofmannsthal? Nossignori. Esiodo (700-600 a.c.) poi Stesicoro (600-500 a.c.) e ancora Euripide ed Erodoto (400 a.c.) - per citare solo qualche nome di aedi della mitologia greca - ci hanno raccontato la storia (anzi più storie) delle due Elene. Per farla breve: dopo aver rapito la donna col favore di Venere, Paride si mette in viaggio (quello di andata, per Elena) verso Troia. Finiscono però a Faro, dove Proteo produce l’incantesimo, consegnando a Paride la fake-Elena (l’eidôlon) e trattenendo presso di sè l’Elena genuina.

Ora va detto però che Hofmannsthal non crede una parola di Esiodo, Stesicoro, Euripide ed Erodoto: nel suo libretto c’è una sola Elena, quella reale, quella rapita da Paride e portata a Troia, e poi recuperata da Menelao dopo 10 anni di assedio. La Elena che Menelao, credendola consenziente e offertasi non solo a Paride, ma anche a fratelli ed amici (l’epiteto che oggi affibbiamo alle prostitute non viene forse da lì?) non riesce a perdonare ed è tentato continuamente di uccidere - nella realtà, sulla nave, ma anche nel delirio provocatogli dagli Elfi di Etra - per punirne il tradimento. L’Autore trasforma genialmente la stravagante storia delle due Elene in un’invenzione della maga, che la usa per convincere Menelao che Elena sia rimasta pura e casta come quando gli fu rapita. E per completare l’opera fa bere ad entrambi i coniugi un filtro dell’oblio, prima di metterli comodamente a letto, sul quale li farà volare ai piedi dell’Atlante (fine dell’atto primo) perchè vi trovino l’ambiente adatto per riconciliarsi pienamente. 

A proposito di incantesimi, Hofmannsthal introduce appunto i due filtri magici di Etra (oblio e ricordo) che paiono a prima vista mutuati da Götterdämmerung. In realtà è ancora Omero, sempre nel Libro IV dell’Odissea, a narrare di filtri dell’oblio e del buonumore versati proprio da Elena nel vino offerto ai suoi visitatori; e poi (Libro IX) a raccontare degli analoghi effetti del loto. Il trattamento che Hofmannsthal fa dei filtri sembra peraltro richiamare in parte anche il Tristan: Menelao (atto secondo) è convinto di bere un filtro di morte, che lo riunirà alla vera Elena, che crede di aver ucciso (atto primo) in preda al delirio; invece - grazie alla coraggiosa decisione della donna di affrontare a viso aperto la realtà - è il filtro del ricordo che ottiene il ritorno e il trionfo dell’amore, suggellato dal ricongiungimento della piccola Ermione con i riappacificati genitori. Un chiaro segno - già esplicitamente emerso dalla FroSch - dell’attenzione degli Autori ai problemi della condizione femminile e del loro riconoscimento del Weibes Wert.

Un’ultima osservazione sul libretto riguarda la presenza sulla scena dei guerrieri di Altair e del giovane Da-ud e la scena di caccia che ne segue. Lo spunto può essere vagamente venuto ad Hofmannsthal dalla lettura di Euripide ed Erodoto, che narrano due (peraltro diverse) storie di scontri di Menelao&C con il popolo di Proteo in Egitto, prima di poter salpare finalmente verso casa. Ma il drammaturgo viennese va assai al di là di questi prosaici dettagli: da un lato la scena gli serve per far rivivere quasi in sogno a Menelao il momento della perdita di Elena (rapitagli mentre lui era fuori a caccia) e i giorni di Troia (Da-ud = Paride); ma anche per proporci una riflessione sulla guerra (...tutti quanti gli altri che per me sono morti senza premio!): non dimentichiamo che Helena nasce proprio a pochi anni dalla fine dell'orrendo massacro della WWI, dalla quale anche i due Autori erano usciti sconfitti...
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Insomma, un libretto mirabile uscito dalla penna (e ovviamente, prima ancora, dalla mente) di un grandissimo letterato; ma un testo difficile da afferrare d’acchito (prova ne sia che i due Autori sentirono il bisogno di produrre sinossi e spiegazioni da distribuire agli spettatori delle prime rappresentazioni) e che può apparire bizzarro, astruso, contorto ed eccessivamente simbolista o... freudiano. Si spiegano forse così le alterne fortune dell’opera, compresa l’indifferenza della quale fu gratificata in Italia, dove arrivò (a Cagliari) solo nel 2001, e ben tagliata!

Un testo che sembra ricalcare - nel consolante finale che riafferma il predominio dell’amore coniugale e dei legami famigliari - le precedenti (e magari più fortunate) esperienze del Rosenkavalier, di Ariadne e della FroSch e in qualche modo anche la successiva Arabella. Concetti che - magari praticati assai più prosaicamente - furono sempre condivisi anche dal compositore.

Ed ecco perciò arrivato il momento di dire due parole sulla musica. Quando l’Helena vide la luce (Dresda, mercoledi 6 giugno 1928) erano passati due anni e mezzo da quel lunedi 14 dicembre 1925 che aveva visto nascere, a Berlino, il Wozzeck di Berg! Per dire quanto duro a morire fu il tardo-romanticismo straussiano, pur minato da ogni parte: dalla tragedia della WWI sul piano dell’attualità dei soggetti da portare in scena, e dalla rivolta espressionista-seriale su quello musicale, che avevano originato, appunto, il Wozzeck. (E Strauss ebbe la forza e la cocciutaggine di mantenersi sempre fedele al modello della sua vita, producendo immortali capolavori anche dopo la nuova tragedia della WWII e il crollo del nazismo, che poco dopo avrebbero aperto la strada alla più masochistica stagione della musica occidentale...)

Nella Helena ritroviamo, si potrebbe dire, il solito Strauss: melodie entusiasmanti costruite col più piatto diatonismo; effetti timbrici straordinari e di grande raffinatezza; orchestrazione lussureggiante senza mai essere opprimente. Insomma, un piacere per l’orecchio, che resta appagato senza dover fare sforzi di comprensione o decifrazione, precisamente il contrario di ciò che si rende necessario riguardo al testo! 

In compenso - e anche questa è di certo una concausa delle non brillanti fortune dell’opera, insieme alle difficoltà di comprensione del soggetto - la partitura richiede la presenza di tre-quattro voci davvero importanti: in particolare poi quelle dei due protagonisti, impegnate allo stremo.

Dell’opera esistono due versioni ufficiali (a parte tutte quelle spurie ottenute tramite tagli dai vari Direttori...): a quella del 1928 Strauss apportò alcune varianti (1933) accogliendo suggerimenti di Clemens Krauss e del regista austro-americano Lothar Wallerstein, che principalmente riguardano il second’atto (cifre 150-162 della partitura). Fra pochi giorni alla Scala i responsabili dello spettacolo saranno Franz Welser-Möst e Sven-Eric Bechtolf, con un cast che si annuncia assai promettente. Stay tuned (...se vi pare).

01 novembre, 2019

laVerdi-19-20 - Concerto n°5


Per la prima volta sotto la bacchetta del Direttore Musicale, ecco uno dei pilastri ormai più che consolidati delle stagioni de laVerdi: il Requiem!

A proposito dell’eterna diatriba che divide i critici, fra chi accusa Verdi di aver scritto un Requiem melodrammatico (quindi addirittura insincero...) e chi invece difende l’opera quasi come fosse Brahms (che infatti spese parole di elogio per il Verdi sacro) ho riletto la fulminante monografia del sommo Massimo Mila (suggerimento tecnico per la lettura: prima scaricare il file, per poterlo poi ruotare di 90°) un’acutissima analisi socio-filosofico-estetica dell’intera problematica della musica religiosa e in particolare di quella che tratta i misteri di vita e morte. Mila individua due macro-approcci sviluppatisi storicamente, che battezza come tedesco e latino: il primo tende a trattare la morte con laica consapevolezza e con serena rassegnazione ad un evento purtroppo inevitabile; il secondo dove invece la morte è subita come choc (il Dies Irae!) dal quale l’Uomo è colpito all’improvviso, e che gli fa opporre resistenza alla stessa volontà divina. Va da sè che Verdi venga inserito di diritto nella seconda scuola di pensiero e di produzione artistica.

Claus Peter Flor, che pure ha un background sinfonico e tedesco, non ha però cercato di trasferire questa opera di Verdi nell’austero mondo teutonico, anzi: ha messo in risalto quanto di più latino si trova in questa partitura, a cominciare dalle esagerazioni del Dies Irae e del Tuba mirum...

Il coro si cimentava per la prima volta nel Requiem con uno dei nuovi Maestri che han preso il posto di Erina Gambarini, Alfonso Caiani: direi proprio che l’eredità sia stata ben salvaguardata!

Il quartetto di solisti (dislocati a metà palco, fra Orchestra e Coro). Di Erika Grimaldi avevo un buon ricordo, ma devo dire che ieri non mi ha del tutto convinto, per una certa approssimazione forse giustificabile dall’aver dovuto sostituire all’ultimo momento la titolare Svetlana Kasyan, che personalmente avevo scoperto (come molti, peraltro) nell’aprile 2013 al Regio di Torino in un discreto DonCarlo e che ero curioso di risentire (ma ci sarà una prossima occasione).  

Al mezzosoprano Roxana Constantinescu e al tenore Matteo Desole darò un’abbondante sufficienza, anche se non mi hanno particolarmente... eccitato, ecco.

La palma del migliore del quartetto la assegno al basso Carlo Cigni, che avevo avuto modo di apprezzare lo scorso agosto al ROF come Oroe nella Semiramide di Mariotti (purtroppo anche di Vick...) e che ha confermato alle mie orecchie quanto di buono era emerso in quell’occasione.

Auditorium piacevolmente affollato e prodigo di applausi, anche ritmati, ai protagonisti. Beh, il solo fatto di mettere in cantiere ogni stagione un mostro come questo e di saperlo domare come si deve è un merito non da poco!

26 ottobre, 2019

laVerdi-19-20 - Concerto n°4


TTutta Russia (ma anche... Ukraina) per il settimanale concerto de laVerdi: si va a ritroso nel tempo, dal Prokofiev in procinto di rientrare in URSS al Ciajkovski entrato... nella piena maturità. Sul podio il redivivo e sempre convincente Stanislav Kochanovsky.

Con lui si presenta la bella Carolin Widmann per offrirci il Secondo Concerto per violino del russo (nato nell’est dell’Ukraina) Prokofiev.

Si tratta in pratica dell'ultima composizione portata a termine da Prokofiev in prossimità del suo ritorno in URSS e - per compiacere l’establishment, oltre e forse più ancora del pubblico - presenta una struttura assai tradizionale. Un Allegro moderato rigorosamente in forma-sonata, con i due temi contrastanti (SOL minore il primo, scuro e pensoso, e SIb maggiore il secondo, più contemplativo); un Andante assai, dove il violino espone una lunghissima e appassionata melodia in MIb, cui segue un Allegretto in RE; infine un Allegro ben marcato, un Rondo in SOL minore dalla struttura assai semplice (A-B-A-C-A-B-A-Coda).   

A dispetto della normalità formale, il pezzo presenta difficoltà non trascurabili e ciò non ha fatto che esaltare i meriti della 43enne monacense, ben supportata da Kochanovsky e dall’Orchestra. Ne è uscita un’esecuzione da incorniciare, e come cornice lei ci ha regalato un prezioso bis bachiano, un pezzo che non si smetterebbe mai di gustare: la Sarabanda dalla Seconda partita, in RE minore.
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Un russo che in Ukraina (ma all’ovest) ci faceva lunghe vacanze (e pure ci componeva capolavori) era Ciajkovski, che a Kamenka, ospite nei possedimenti del cognato Davidov, sfornò nel 1884 la sua Terza Suite per orchestra.

Le quattro composizioni di questo genere seguono assai da lontano la struttura barocca: l’uso del nome è poco più che un trucco escogitato dall’Autore per liberarsi dai rigidi canoni della forma sinfonica - che resta tuttavia sullo sfondo - e dare più spazio alla sua libera ispirazione. Anche nel caso di questa Terza, come ad esempio in quello della Serenata op.48, si potrebbe infatti parlare di una sinfonia anomala: suddivisa in quattro tempi, ma con l’ultimo che prende l’ipertrofica forma di Tema con Variazioni. Seguiamone l’interpretazione islandese del compianto Gennadi Roždestvenski.
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Il primo dei quattro movimenti è sottotitolato Elegia, tanto per chiarire da subito che non si tratta di musica a contenuto filosofico, ma sentimentale... Ci troviamo qua e là accenni, anche sfumati a precedenti composizioni, o anticipi di qualcosa che arriverà in seguito nella produzione dell’Autore. É un Andantino molto cantabile in SOL maggiore, 6/8 (2/4) dove troviamo due temi che in effetti si contrastano poco, essendo entrambi di natura contemplativa.

Il primo, che si ode subito negli archi (43”) è seguito da un controsoggetto in minore (1’24”). La breve transizione che segue (2’08”) ricorda da vicino un passaggio della Serenata composta 4 anni prima e un frammento che ricorda l’Andantino della Quarta. Dopo che il primo tema è stato riesposto anche dai fiati, ecco il secondo tema (3’29”) - qui un primo strappo alle severe regole sinfoniche - che è in tonalità di MIb maggiore. Par di sentirvi (3’40”) un presagio di Bella addormentata (Fata lillà) ma soprattutto (4’07”) la Francesca da Rimini, di 8 anni più longeva. Il tema si sviluppa assai introducendo anche un nuovo motivo, poi viene ripreso fino a chiudere l’esposizione.

Curioso poi lo sviluppo-ripresa: a 6’02” riecco il primo tema esposto bizzarramente nella tonalità del... secondo (MIb) e poi (7’45”) il secondo tema in quella del primo (SOL, qui nel rispetto delle regole). Dopo un ritorno della transizione, a 9’34” è ancora il primo tema a chiudere sommessamente sul SOL.

Segue ora la Valse mélancolique, tempo Allegro moderato, 3/4. Come anticipa il titolo, si tratta di una sommessa e a tratti cantilenante danza che richiama musica da balletto, terreno assai congeniale al compositore. È un brano strutturato in tre sezioni ABA, la prima permanendo in ambito SOL (MI minore e SOL maggiore) la seconda sconfinando nella sottodominante DO.

Aprono gli archi (12’21”) seguiti poi dai flauti che espongono il primo dolente tema in MI minore, subito ripreso con un’escursione (13’06”) a SOL maggiore. A 13’17” ecco un breve, veloce passaggio discendente-ascendente dei tre flauti che ancora richiama la Valse dell’op.48. A 13’24” flauti e clarinetti si librano in svolazzi di crome, sempre in SOL maggiore; poi a 13’43” ecco due ampie e solenni scalate che sfociano nel ritorno a MI minore, per la ripresa (14’09”) del primo tema esposto da corno inglese e viole e successivamente sviluppato.

A 15’10” una transizione caratterizzata da salti di ottava delle viole porta (15’23”) alla sezione B, in tonalità DO maggiore, ma sempre di sapore piuttosto mesto e strascicato (sequenza di semiminima-minima): è un’insistente serie di ottave che lentamente va crescendo di spessore, fino a culminare (17’32”) nella riproposizione della sezione A, tornata al MI minore, che va poi lentamente a spegnersi, sulla triade in pppp MI-SOL-SI degli archi.

Come nella forma sinfonica, segue uno Scherzo, tempo bipartito, ma a due facce (6/8 e 2/4) cioè caratterizzato ora da terzine, ora da duine. Quanto alla tonalità, siamo ancora in MI minore, ma sempre a cavallo con la relativa SOL maggiore. Assai vagamente vi possiamo riconoscere le tre classiche sezioni: Scherzo-Trio-Scherzo, ma anche qui non c’è grande contrasto fra i temi. L’attacco dei legni (19’54”) è effettivamente in SOL maggiore, con una frase di tre battute spiritate chiusa dall’accordo sulla triade. Subito gli archi rispondono con una frase più accomodante, in ritmo puntato. Lo scherzo si anima continuamente di nuovi colori finchè (20’56”) sfocia in una seconda parte più enfatica, dominata dagli ottoni, che porta (21’25”) alla riproposizione stringata del tema dello Scherzo, ridotto all’essenziale.

A 21’49” attacca quello che si può definire il Trio: la tonalità svaria tra SOL e RE maggiore, l’andamento ha un che di ripetitivo e ostinato, con frequenti svolazzi dei flauti a intercalare il motivo di carattere marziale. Una pesante progressione ascendente ci riporta (23’47”) al MI minore dello Scherzo, costellato da interventi di piccole percussioni, che va poi a chiudersi con uno schianto generale.

Colossale davvero, sia per struttura che per durata (pari al 48% dell’intera Suite!) ecco il conclusivo Tema con variazioni, Andante con moto, 4/8, SOL maggiore. Il Tema (24 battute, più una croma di attacco, precisamente come parecchie delle 12 Variazioni) viene esposto dai violini primi, con accompagnamento scandito dal resto degli archi. È un motivo scanzonato, quasi ad evocare un incedere a saltelli delicato o un ballo popolare. Si può suddividere in tre sezioni, ciascuna di 8 battute: soggetto (25’42”) - controsoggetto, con inversione di alcuni intervalli (26’00”) - soggetto (26’17”).

26’33” Variazione 1: Mentre tutti gli archi ripetono il tema in unisono, ma in pizzicato, come a trasformarlo in accompagnamento, flauti e clarinetti lo contrappuntano gaiamente con brillanti figurazioni.  

27’23” Variazione 2 (Molto più mosso): Il tema viene qui scomposto e destrutturato, con i suoi frammenti affidati a strumenti diversi, mentre i violini primi si sbizzarriscono in indiavolate biscrome, dalla prima all’ultima battuta.    

28’08” Variazione 3 (Tempo del tema): É affidata ai soli legni. Il primo flauto espone il soggetto del tema, accompagnato dagli altri legni. Poi ne accompagna (28’30”) il controsoggetto esposto dal secondo clarinetto; infine (28’54”) riprende il soggetto portandolo a conclusione.   

29’19” Variazione 4 (Tempo del tema): É in tonalità SI minore e presenta uno sdoppiamento del controsoggetto, ammontando quindi a 32 battute. Il soggetto viene esposto in minore da corno inglese e clarinetti, seguiti dal resto dei legni. Il controsoggetto, nella sua prima apparizione (29’46”) in SOL maggiore è affidato a violini e viole, ma poi ha una stupefacente ripetizione (Poco più animato, 30’10”) in MI minore, con i tromboni che trascinano l’intera orchestra in un colossale Dies Irae, che poi precipita negli archi fino alla ripresa, in SI minore (30’33”) del soggetto del tema.

30’59” Variazione 5 (Allegro risoluto): É in 3/4 e consta di ben 54 battute. Si presenta quasi come una fuga, con un fitto contrappunto che rende sfumata la suddivisione fra soggetto e controsoggetto del tema.

32’25” Variazione 6 (Allegro vivace): É in 6/8 e la struttura torna quella tripartita (8-8-8 battute). Il soggetto è presentato con pesanti accordi e ritmo marziale tali da renderlo quasi irriconoscibile. Più sciolto e scorrevole il controsoggetto (32’38”) che poi fa spazio al ritorno del soggetto (32’50”) sempre brutalmente scandito.

33’03” Variazione 7 (Moderato): É di appena 18 battute in 2/4 ed è affidata ai soli legni, e ricorda da vicino i corali bachiani. È il soggetto del tema ad esservi esposto e variato, fino a chiudere sulla sopratonica LA e quindi preparare il terreno alla successiva variazione.

33’44” Variazione 8 (Largo): É ancora più breve della precedente: sole 11 battute in 3/4 in tonalità LA minore. É il corno inglese ad intonare il tema con una triste e dolente melopea.

35’00” Variazione 9 (Allegro molto vivace): Sono 40 battute sempre in LA, ma maggiore (più la cadenza finale del primo violino). É uno spezzone del soggetto del tema a farla da padrone, con tutta l’orchestra che ribolle in un crescendo (Più presto, 35’22”) sfociante sul FA# dell’accordo che introduce (35’40”) la cadenza del violino solista. La quale a sua volta fa da apripista per la successiva variazione.

36’19” Variazione 10 (Allegro vivo e un poco rubato): Sono ben 90 battute di 3/8 in tonalità SI minore. È sempre il violino solista a guidare la danza, con sporadici interventi dei legni (che richiamano il soggetto del tema). A 37’40” il fagotto apre la strada all’intervento di clarinetto e oboe, poi corno inglese, che modulano a LA maggiore per esporre una lunga melodia ispirata solo vagamente al tema principale e che sfocia (38’15”) nel ritorno del SI minore intonato dal violino solista, che riprende il suo recitativo e chiude la variazione con una nuova, breve cadenza.

39’55” Variazione 11 (Moderato mosso): Sono 41 battute di 4/4 in SI maggiore. Il soggetto del tema vene qui ampiamente sviluppato, da archi e legni con grande enfasi. A 41’25” si rientra sul SOL maggiore per la chiusura della variazione e la preparazione al gran finale.

41’49” Variazione 12 - Finale - Polacca (Moderato assai): Siamo all’apoteosi, ben 213 battute di 3/4 in SOL maggiore. Dapprima ascoltiamo un’introduzione con fanfare che passano gradatamente dal SI minore al SOL maggiore di impianto. A 42’28” (Allegro moderato) ecco il tema principale farsi largo protervamente nei tromboni e poi nelle trombe; tutta l’orchestra comincia a ribollire e sembra prendere la rincorsa per arrivare (43’00”) al Tempo di polacca, molto brillante.

Difficile individuare un legame chiaro tale da poter considerare il motivo della Polacca come una variazione del tema principale del movimento: Ciajkovski però è un maestro nel farli convivere e ci costruisce un finale dei suoi, enfatico e retorico ma altrettanto trascinante, che non può non esaltare l’ascoltatore.  
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Beh, non c’è da stupirsi se questa Suite superi in popolarità anche più d’una delle sei sinfonie del compositore russo!

Come l’ha interpretata Kochanovsky? E come l’ha eseguita l’Orchestra? Il giovane maestro russo deve conoscere anche particolari poco pubblicizzati della composizione della Suite, se è vero che ha fatto - specie nel finale polacco - alcune scelte agogiche (brevi ritardando e poi tempi forsennati) che si tramanda essere state pensate da Ciajkovski anche se non riportate nelle edizioni a stampa. L’orchestra lo ha assecondato alla grande: da ricordare le splendide cavate dei celli (ieri guidati da Scarpolini) in specie nel secondo tema dell’Andantino iniziale, ma non solo; o lo sbudellante canto del corno inglese della Scotti; o i virtuosismi di Santaniello, per non parlare degli ottoni nel finale, davvero al calor bianco, tanto da far esplodere la sala (non proprio esaurita, va detto) in applausi entusiastici.