affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

02 novembre, 2019

Alla Scala è in arrivo una novità assoluta


C’è sempre una prima volta... mai dire mai, insomma. Ecco, dal 6 novembre la Scala ospiterà - a soli 90 anni di distanza dalla sua apparizione sulle scene! - Die ägyptische Helena, la nona opera (decima, contando le due Ariadne) di Richard Strauss, completata a Garmisch sabato 8 ottobre 1927.

Ma prima che di Strauss si deve parlare di Hugo von Hofmannsthal, il geniale letterato viennese che fornì - sesta di sette volte, sempre contando entrambe le Ariadne - al birraio (per parte di madre) bavarese la materia prima poetica da rivestire di sontuose e mirabili note. E da dove il grande Hugo prese a sua volta lo spunto per il suo libretto? Intanto va confermato che sì, questa Helena è precisamente la mitica Elena di Troia. Meno immediato è però spiegare l’attributo che Hofmannsthal le appiccica nel titolo dell’opera: egizia? Egizia poichè il soggetto tratta dell’arrivo forzato e della permanenza di Elena e Menelao sull’isola egiziana di Etra (poi molto più a ovest, alle pendici dell’Atlante, come minimo nell’attuale Tunisia) ospiti dell’omonima principessa, che è accasata con Poseidon(-Nettuno) ed ha doti soprannaturali, oltre a possedere una gigantesca vongola che ha qualità di veggente. Invenzioni di Hofmannsthal? Non proprio. E allora la prendo alla lontanissima...

A scuola abbiamo imparato (oh, parlo di tempi remoti, oggi non saprei dire cosa si insegni nelle aule...) a conoscere Elena dall’Iliade di Omero (che le più precise ricerche ci informano essere vissuto in un breve periodo che va dal 1100 al 700 avanti Cristo!) In realtà l’Iliade tratta solo degli ultimi giorni della guerra di Troia (in particolare dell’ira di Achille contro Agamennone...) e Omero relega il ricordo del motivo scatenante di tale guerra in pochi versi dell’ultimo libro del suo poema. Dove riferisce del rifiuto di Giunone (, Nettuno) e Minerva a restituire ai troiani il corpo del caduto Ettore, rifiuto motivato dal persistente odio verso Troia delle due dee, a suo tempo offese da quel Paride - giudice monocratico al concorso di miss-Olimpo - che a loro aveva preferito Venere, in cambio dell’accesso alla proprietà della donna più bella del creato (oltre che già accasata...)

L’Egitto? Per Omero nell’Iliade non esiste, ma lo si trova nell’Odissea (Libro IV) dove Menelao, tornato a Sparta e riconciliatosi con Elena, racconta a Telemaco (colà in cerca del padre Ulisse) di esser stato costretto - di ritorno da Troia - a far sosta in Egitto e precisamente sull’isola  di Faro, dove regnava Proteo (un dio del mare tirapiedi di Nettuno, capace di trasformarsi in qualunque cosa e dalle qualità divinatorie) e dove una figlia di costui, Eidothea, lo soccorse, aiutandolo poi a carpire al padre il segreto per riprendere il mare e tornare a casa. Questi particolari cominciano a farci capire da dove Hofmannsthal abbia potuto trarre l’idea per il suo soggetto: l’isola di Etra dell’opera sarebbe quindi Faro; l’Etra personaggio può incarnare Eidothea, mentre sullo sfondo appare anche Poseidon. Sono comunque tutti particolari che riguardano il viaggio di ritorno di Elena e Menelao da Troia.

Ma dal libretto dell’opera scopriamo qualcosa che in Omero è del tutto assente: l’esistenza di due Elene, perbacco! Etra rivela a Menelao che la Elena fuggita a Troia con Paride era in realtà un fantasma (eidôlon) creato dagli dei per salvare Menelao dagli effetti del patto scellerato proposto da Venere a Paride: la vera Elena è sempre rimasta lì, addormentata in un palazzo ai piedi dell’Atlante, in attesa di essere risvegliata da Menelao! Di nuovo: invenzioni di Hofmannsthal? Nossignori. Esiodo (700-600 a.c.) poi Stesicoro (600-500 a.c.) e ancora Euripide ed Erodoto (400 a.c.) - per citare solo qualche nome di aedi della mitologia greca - ci hanno raccontato la storia (anzi più storie) delle due Elene. Per farla breve: dopo aver rapito la donna col favore di Venere, Paride si mette in viaggio (quello di andata, per Elena) verso Troia. Finiscono però a Faro, dove Proteo produce l’incantesimo, consegnando a Paride la fake-Elena (l’eidôlon) e trattenendo presso di sè l’Elena genuina.

Ora va detto però che Hofmannsthal non crede una parola di Esiodo, Stesicoro, Euripide ed Erodoto: nel suo libretto c’è una sola Elena, quella reale, quella rapita da Paride e portata a Troia, e poi recuperata da Menelao dopo 10 anni di assedio. La Elena che Menelao, credendola consenziente e offertasi non solo a Paride, ma anche a fratelli ed amici (l’epiteto che oggi affibbiamo alle prostitute non viene forse da lì?) non riesce a perdonare ed è tentato continuamente di uccidere - nella realtà, sulla nave, ma anche nel delirio provocatogli dagli Elfi di Etra - per punirne il tradimento. L’Autore trasforma genialmente la stravagante storia delle due Elene in un’invenzione della maga, che la usa per convincere Menelao che Elena sia rimasta pura e casta come quando gli fu rapita. E per completare l’opera fa bere ad entrambi i coniugi un filtro dell’oblio, prima di metterli comodamente a letto, sul quale li farà volare ai piedi dell’Atlante (fine dell’atto primo) perchè vi trovino l’ambiente adatto per riconciliarsi pienamente. 

A proposito di incantesimi, Hofmannsthal introduce appunto i due filtri magici di Etra (oblio e ricordo) che paiono a prima vista mutuati da Götterdämmerung. In realtà è ancora Omero, sempre nel Libro IV dell’Odissea, a narrare di filtri dell’oblio e del buonumore versati proprio da Elena nel vino offerto ai suoi visitatori; e poi (Libro IX) a raccontare degli analoghi effetti del loto. Il trattamento che Hofmannsthal fa dei filtri sembra peraltro richiamare in parte anche il Tristan: Menelao (atto secondo) è convinto di bere un filtro di morte, che lo riunirà alla vera Elena, che crede di aver ucciso (atto primo) in preda al delirio; invece - grazie alla coraggiosa decisione della donna di affrontare a viso aperto la realtà - è il filtro del ricordo che ottiene il ritorno e il trionfo dell’amore, suggellato dal ricongiungimento della piccola Ermione con i riappacificati genitori. Un chiaro segno - già esplicitamente emerso dalla FroSch - dell’attenzione degli Autori ai problemi della condizione femminile e del loro riconoscimento del Weibes Wert.

Un’ultima osservazione sul libretto riguarda la presenza sulla scena dei guerrieri di Altair e del giovane Da-ud e la scena di caccia che ne segue. Lo spunto può essere vagamente venuto ad Hofmannsthal dalla lettura di Euripide ed Erodoto, che narrano due (peraltro diverse) storie di scontri di Menelao&C con il popolo di Proteo in Egitto, prima di poter salpare finalmente verso casa. Ma il drammaturgo viennese va assai al di là di questi prosaici dettagli: da un lato la scena gli serve per far rivivere quasi in sogno a Menelao il momento della perdita di Elena (rapitagli mentre lui era fuori a caccia) e i giorni di Troia (Da-ud = Paride); ma anche per proporci una riflessione sulla guerra (...tutti quanti gli altri che per me sono morti senza premio!): non dimentichiamo che Helena nasce proprio a pochi anni dalla fine dell'orrendo massacro della WWI, dalla quale anche i due Autori erano usciti sconfitti...
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Insomma, un libretto mirabile uscito dalla penna (e ovviamente, prima ancora, dalla mente) di un grandissimo letterato; ma un testo difficile da afferrare d’acchito (prova ne sia che i due Autori sentirono il bisogno di produrre sinossi e spiegazioni da distribuire agli spettatori delle prime rappresentazioni) e che può apparire bizzarro, astruso, contorto ed eccessivamente simbolista o... freudiano. Si spiegano forse così le alterne fortune dell’opera, compresa l’indifferenza della quale fu gratificata in Italia, dove arrivò (a Cagliari) solo nel 2001, e ben tagliata!

Un testo che sembra ricalcare - nel consolante finale che riafferma il predominio dell’amore coniugale e dei legami famigliari - le precedenti (e magari più fortunate) esperienze del Rosenkavalier, di Ariadne e della FroSch e in qualche modo anche la successiva Arabella. Concetti che - magari praticati assai più prosaicamente - furono sempre condivisi anche dal compositore.

Ed ecco perciò arrivato il momento di dire due parole sulla musica. Quando l’Helena vide la luce (Dresda, mercoledi 6 giugno 1928) erano passati due anni e mezzo da quel lunedi 14 dicembre 1925 che aveva visto nascere, a Berlino, il Wozzeck di Berg! Per dire quanto duro a morire fu il tardo-romanticismo straussiano, pur minato da ogni parte: dalla tragedia della WWI sul piano dell’attualità dei soggetti da portare in scena, e dalla rivolta espressionista-seriale su quello musicale, che avevano originato, appunto, il Wozzeck. (E Strauss ebbe la forza e la cocciutaggine di mantenersi sempre fedele al modello della sua vita, producendo immortali capolavori anche dopo la nuova tragedia della WWII e il crollo del nazismo, che poco dopo avrebbero aperto la strada alla più masochistica stagione della musica occidentale...)

Nella Helena ritroviamo, si potrebbe dire, il solito Strauss: melodie entusiasmanti costruite col più piatto diatonismo; effetti timbrici straordinari e di grande raffinatezza; orchestrazione lussureggiante senza mai essere opprimente. Insomma, un piacere per l’orecchio, che resta appagato senza dover fare sforzi di comprensione o decifrazione, precisamente il contrario di ciò che si rende necessario riguardo al testo! 

In compenso - e anche questa è di certo una concausa delle non brillanti fortune dell’opera, insieme alle difficoltà di comprensione del soggetto - la partitura richiede la presenza di tre-quattro voci davvero importanti: in particolare poi quelle dei due protagonisti, impegnate allo stremo.

Dell’opera esistono due versioni ufficiali (a parte tutte quelle spurie ottenute tramite tagli dai vari Direttori...): a quella del 1928 Strauss apportò alcune varianti (1933) accogliendo suggerimenti di Clemens Krauss e del regista austro-americano Lothar Wallerstein, che principalmente riguardano il second’atto (cifre 150-162 della partitura). Fra pochi giorni alla Scala i responsabili dello spettacolo saranno Franz Welser-Möst e Sven-Eric Bechtolf, con un cast che si annuncia assai promettente. Stay tuned (...se vi pare).

01 novembre, 2019

laVerdi-19-20 - Concerto n°5


Per la prima volta sotto la bacchetta del Direttore Musicale, ecco uno dei pilastri ormai più che consolidati delle stagioni de laVerdi: il Requiem!

A proposito dell’eterna diatriba che divide i critici, fra chi accusa Verdi di aver scritto un Requiem melodrammatico (quindi addirittura insincero...) e chi invece difende l’opera quasi come fosse Brahms (che infatti spese parole di elogio per il Verdi sacro) ho riletto la fulminante monografia del sommo Massimo Mila (suggerimento tecnico per la lettura: prima scaricare il file, per poterlo poi ruotare di 90°) un’acutissima analisi socio-filosofico-estetica dell’intera problematica della musica religiosa e in particolare di quella che tratta i misteri di vita e morte. Mila individua due macro-approcci sviluppatisi storicamente, che battezza come tedesco e latino: il primo tende a trattare la morte con laica consapevolezza e con serena rassegnazione ad un evento purtroppo inevitabile; il secondo dove invece la morte è subita come choc (il Dies Irae!) dal quale l’Uomo è colpito all’improvviso, e che gli fa opporre resistenza alla stessa volontà divina. Va da sè che Verdi venga inserito di diritto nella seconda scuola di pensiero e di produzione artistica.

Claus Peter Flor, che pure ha un background sinfonico e tedesco, non ha però cercato di trasferire questa opera di Verdi nell’austero mondo teutonico, anzi: ha messo in risalto quanto di più latino si trova in questa partitura, a cominciare dalle esagerazioni del Dies Irae e del Tuba mirum...

Il coro si cimentava per la prima volta nel Requiem con uno dei nuovi Maestri che han preso il posto di Erina Gambarini, Alfonso Caiani: direi proprio che l’eredità sia stata ben salvaguardata!

Il quartetto di solisti (dislocati a metà palco, fra Orchestra e Coro). Di Erika Grimaldi avevo un buon ricordo, ma devo dire che ieri non mi ha del tutto convinto, per una certa approssimazione forse giustificabile dall’aver dovuto sostituire all’ultimo momento la titolare Svetlana Kasyan, che personalmente avevo scoperto (come molti, peraltro) nell’aprile 2013 al Regio di Torino in un discreto DonCarlo e che ero curioso di risentire (ma ci sarà una prossima occasione).  

Al mezzosoprano Roxana Constantinescu e al tenore Matteo Desole darò un’abbondante sufficienza, anche se non mi hanno particolarmente... eccitato, ecco.

La palma del migliore del quartetto la assegno al basso Carlo Cigni, che avevo avuto modo di apprezzare lo scorso agosto al ROF come Oroe nella Semiramide di Mariotti (purtroppo anche di Vick...) e che ha confermato alle mie orecchie quanto di buono era emerso in quell’occasione.

Auditorium piacevolmente affollato e prodigo di applausi, anche ritmati, ai protagonisti. Beh, il solo fatto di mettere in cantiere ogni stagione un mostro come questo e di saperlo domare come si deve è un merito non da poco!

26 ottobre, 2019

laVerdi-19-20 - Concerto n°4


TTutta Russia (ma anche... Ukraina) per il settimanale concerto de laVerdi: si va a ritroso nel tempo, dal Prokofiev in procinto di rientrare in URSS al Ciajkovski entrato... nella piena maturità. Sul podio il redivivo e sempre convincente Stanislav Kochanovsky.

Con lui si presenta la bella Carolin Widmann per offrirci il Secondo Concerto per violino del russo (nato nell’est dell’Ukraina) Prokofiev.

Si tratta in pratica dell'ultima composizione portata a termine da Prokofiev in prossimità del suo ritorno in URSS e - per compiacere l’establishment, oltre e forse più ancora del pubblico - presenta una struttura assai tradizionale. Un Allegro moderato rigorosamente in forma-sonata, con i due temi contrastanti (SOL minore il primo, scuro e pensoso, e SIb maggiore il secondo, più contemplativo); un Andante assai, dove il violino espone una lunghissima e appassionata melodia in MIb, cui segue un Allegretto in RE; infine un Allegro ben marcato, un Rondo in SOL minore dalla struttura assai semplice (A-B-A-C-A-B-A-Coda).   

A dispetto della normalità formale, il pezzo presenta difficoltà non trascurabili e ciò non ha fatto che esaltare i meriti della 43enne monacense, ben supportata da Kochanovsky e dall’Orchestra. Ne è uscita un’esecuzione da incorniciare, e come cornice lei ci ha regalato un prezioso bis bachiano, un pezzo che non si smetterebbe mai di gustare: la Sarabanda dalla Seconda partita, in RE minore.
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Un russo che in Ukraina (ma all’ovest) ci faceva lunghe vacanze (e pure ci componeva capolavori) era Ciajkovski, che a Kamenka, ospite nei possedimenti del cognato Davidov, sfornò nel 1884 la sua Terza Suite per orchestra.

Le quattro composizioni di questo genere seguono assai da lontano la struttura barocca: l’uso del nome è poco più che un trucco escogitato dall’Autore per liberarsi dai rigidi canoni della forma sinfonica - che resta tuttavia sullo sfondo - e dare più spazio alla sua libera ispirazione. Anche nel caso di questa Terza, come ad esempio in quello della Serenata op.48, si potrebbe infatti parlare di una sinfonia anomala: suddivisa in quattro tempi, ma con l’ultimo che prende l’ipertrofica forma di Tema con Variazioni. Seguiamone l’interpretazione islandese del compianto Gennadi Roždestvenski.
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Il primo dei quattro movimenti è sottotitolato Elegia, tanto per chiarire da subito che non si tratta di musica a contenuto filosofico, ma sentimentale... Ci troviamo qua e là accenni, anche sfumati a precedenti composizioni, o anticipi di qualcosa che arriverà in seguito nella produzione dell’Autore. É un Andantino molto cantabile in SOL maggiore, 6/8 (2/4) dove troviamo due temi che in effetti si contrastano poco, essendo entrambi di natura contemplativa.

Il primo, che si ode subito negli archi (43”) è seguito da un controsoggetto in minore (1’24”). La breve transizione che segue (2’08”) ricorda da vicino un passaggio della Serenata composta 4 anni prima e un frammento che ricorda l’Andantino della Quarta. Dopo che il primo tema è stato riesposto anche dai fiati, ecco il secondo tema (3’29”) - qui un primo strappo alle severe regole sinfoniche - che è in tonalità di MIb maggiore. Par di sentirvi (3’40”) un presagio di Bella addormentata (Fata lillà) ma soprattutto (4’07”) la Francesca da Rimini, di 8 anni più longeva. Il tema si sviluppa assai introducendo anche un nuovo motivo, poi viene ripreso fino a chiudere l’esposizione.

Curioso poi lo sviluppo-ripresa: a 6’02” riecco il primo tema esposto bizzarramente nella tonalità del... secondo (MIb) e poi (7’45”) il secondo tema in quella del primo (SOL, qui nel rispetto delle regole). Dopo un ritorno della transizione, a 9’34” è ancora il primo tema a chiudere sommessamente sul SOL.

Segue ora la Valse mélancolique, tempo Allegro moderato, 3/4. Come anticipa il titolo, si tratta di una sommessa e a tratti cantilenante danza che richiama musica da balletto, terreno assai congeniale al compositore. È un brano strutturato in tre sezioni ABA, la prima permanendo in ambito SOL (MI minore e SOL maggiore) la seconda sconfinando nella sottodominante DO.

Aprono gli archi (12’21”) seguiti poi dai flauti che espongono il primo dolente tema in MI minore, subito ripreso con un’escursione (13’06”) a SOL maggiore. A 13’17” ecco un breve, veloce passaggio discendente-ascendente dei tre flauti che ancora richiama la Valse dell’op.48. A 13’24” flauti e clarinetti si librano in svolazzi di crome, sempre in SOL maggiore; poi a 13’43” ecco due ampie e solenni scalate che sfociano nel ritorno a MI minore, per la ripresa (14’09”) del primo tema esposto da corno inglese e viole e successivamente sviluppato.

A 15’10” una transizione caratterizzata da salti di ottava delle viole porta (15’23”) alla sezione B, in tonalità DO maggiore, ma sempre di sapore piuttosto mesto e strascicato (sequenza di semiminima-minima): è un’insistente serie di ottave che lentamente va crescendo di spessore, fino a culminare (17’32”) nella riproposizione della sezione A, tornata al MI minore, che va poi lentamente a spegnersi, sulla triade in pppp MI-SOL-SI degli archi.

Come nella forma sinfonica, segue uno Scherzo, tempo bipartito, ma a due facce (6/8 e 2/4) cioè caratterizzato ora da terzine, ora da duine. Quanto alla tonalità, siamo ancora in MI minore, ma sempre a cavallo con la relativa SOL maggiore. Assai vagamente vi possiamo riconoscere le tre classiche sezioni: Scherzo-Trio-Scherzo, ma anche qui non c’è grande contrasto fra i temi. L’attacco dei legni (19’54”) è effettivamente in SOL maggiore, con una frase di tre battute spiritate chiusa dall’accordo sulla triade. Subito gli archi rispondono con una frase più accomodante, in ritmo puntato. Lo scherzo si anima continuamente di nuovi colori finchè (20’56”) sfocia in una seconda parte più enfatica, dominata dagli ottoni, che porta (21’25”) alla riproposizione stringata del tema dello Scherzo, ridotto all’essenziale.

A 21’49” attacca quello che si può definire il Trio: la tonalità svaria tra SOL e RE maggiore, l’andamento ha un che di ripetitivo e ostinato, con frequenti svolazzi dei flauti a intercalare il motivo di carattere marziale. Una pesante progressione ascendente ci riporta (23’47”) al MI minore dello Scherzo, costellato da interventi di piccole percussioni, che va poi a chiudersi con uno schianto generale.

Colossale davvero, sia per struttura che per durata (pari al 48% dell’intera Suite!) ecco il conclusivo Tema con variazioni, Andante con moto, 4/8, SOL maggiore. Il Tema (24 battute, più una croma di attacco, precisamente come parecchie delle 12 Variazioni) viene esposto dai violini primi, con accompagnamento scandito dal resto degli archi. È un motivo scanzonato, quasi ad evocare un incedere a saltelli delicato o un ballo popolare. Si può suddividere in tre sezioni, ciascuna di 8 battute: soggetto (25’42”) - controsoggetto, con inversione di alcuni intervalli (26’00”) - soggetto (26’17”).

26’33” Variazione 1: Mentre tutti gli archi ripetono il tema in unisono, ma in pizzicato, come a trasformarlo in accompagnamento, flauti e clarinetti lo contrappuntano gaiamente con brillanti figurazioni.  

27’23” Variazione 2 (Molto più mosso): Il tema viene qui scomposto e destrutturato, con i suoi frammenti affidati a strumenti diversi, mentre i violini primi si sbizzarriscono in indiavolate biscrome, dalla prima all’ultima battuta.    

28’08” Variazione 3 (Tempo del tema): É affidata ai soli legni. Il primo flauto espone il soggetto del tema, accompagnato dagli altri legni. Poi ne accompagna (28’30”) il controsoggetto esposto dal secondo clarinetto; infine (28’54”) riprende il soggetto portandolo a conclusione.   

29’19” Variazione 4 (Tempo del tema): É in tonalità SI minore e presenta uno sdoppiamento del controsoggetto, ammontando quindi a 32 battute. Il soggetto viene esposto in minore da corno inglese e clarinetti, seguiti dal resto dei legni. Il controsoggetto, nella sua prima apparizione (29’46”) in SOL maggiore è affidato a violini e viole, ma poi ha una stupefacente ripetizione (Poco più animato, 30’10”) in MI minore, con i tromboni che trascinano l’intera orchestra in un colossale Dies Irae, che poi precipita negli archi fino alla ripresa, in SI minore (30’33”) del soggetto del tema.

30’59” Variazione 5 (Allegro risoluto): É in 3/4 e consta di ben 54 battute. Si presenta quasi come una fuga, con un fitto contrappunto che rende sfumata la suddivisione fra soggetto e controsoggetto del tema.

32’25” Variazione 6 (Allegro vivace): É in 6/8 e la struttura torna quella tripartita (8-8-8 battute). Il soggetto è presentato con pesanti accordi e ritmo marziale tali da renderlo quasi irriconoscibile. Più sciolto e scorrevole il controsoggetto (32’38”) che poi fa spazio al ritorno del soggetto (32’50”) sempre brutalmente scandito.

33’03” Variazione 7 (Moderato): É di appena 18 battute in 2/4 ed è affidata ai soli legni, e ricorda da vicino i corali bachiani. È il soggetto del tema ad esservi esposto e variato, fino a chiudere sulla sopratonica LA e quindi preparare il terreno alla successiva variazione.

33’44” Variazione 8 (Largo): É ancora più breve della precedente: sole 11 battute in 3/4 in tonalità LA minore. É il corno inglese ad intonare il tema con una triste e dolente melopea.

35’00” Variazione 9 (Allegro molto vivace): Sono 40 battute sempre in LA, ma maggiore (più la cadenza finale del primo violino). É uno spezzone del soggetto del tema a farla da padrone, con tutta l’orchestra che ribolle in un crescendo (Più presto, 35’22”) sfociante sul FA# dell’accordo che introduce (35’40”) la cadenza del violino solista. La quale a sua volta fa da apripista per la successiva variazione.

36’19” Variazione 10 (Allegro vivo e un poco rubato): Sono ben 90 battute di 3/8 in tonalità SI minore. È sempre il violino solista a guidare la danza, con sporadici interventi dei legni (che richiamano il soggetto del tema). A 37’40” il fagotto apre la strada all’intervento di clarinetto e oboe, poi corno inglese, che modulano a LA maggiore per esporre una lunga melodia ispirata solo vagamente al tema principale e che sfocia (38’15”) nel ritorno del SI minore intonato dal violino solista, che riprende il suo recitativo e chiude la variazione con una nuova, breve cadenza.

39’55” Variazione 11 (Moderato mosso): Sono 41 battute di 4/4 in SI maggiore. Il soggetto del tema vene qui ampiamente sviluppato, da archi e legni con grande enfasi. A 41’25” si rientra sul SOL maggiore per la chiusura della variazione e la preparazione al gran finale.

41’49” Variazione 12 - Finale - Polacca (Moderato assai): Siamo all’apoteosi, ben 213 battute di 3/4 in SOL maggiore. Dapprima ascoltiamo un’introduzione con fanfare che passano gradatamente dal SI minore al SOL maggiore di impianto. A 42’28” (Allegro moderato) ecco il tema principale farsi largo protervamente nei tromboni e poi nelle trombe; tutta l’orchestra comincia a ribollire e sembra prendere la rincorsa per arrivare (43’00”) al Tempo di polacca, molto brillante.

Difficile individuare un legame chiaro tale da poter considerare il motivo della Polacca come una variazione del tema principale del movimento: Ciajkovski però è un maestro nel farli convivere e ci costruisce un finale dei suoi, enfatico e retorico ma altrettanto trascinante, che non può non esaltare l’ascoltatore.  
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Beh, non c’è da stupirsi se questa Suite superi in popolarità anche più d’una delle sei sinfonie del compositore russo!

Come l’ha interpretata Kochanovsky? E come l’ha eseguita l’Orchestra? Il giovane maestro russo deve conoscere anche particolari poco pubblicizzati della composizione della Suite, se è vero che ha fatto - specie nel finale polacco - alcune scelte agogiche (brevi ritardando e poi tempi forsennati) che si tramanda essere state pensate da Ciajkovski anche se non riportate nelle edizioni a stampa. L’orchestra lo ha assecondato alla grande: da ricordare le splendide cavate dei celli (ieri guidati da Scarpolini) in specie nel secondo tema dell’Andantino iniziale, ma non solo; o lo sbudellante canto del corno inglese della Scotti; o i virtuosismi di Santaniello, per non parlare degli ottoni nel finale, davvero al calor bianco, tanto da far esplodere la sala (non proprio esaurita, va detto) in applausi entusiastici.

19 ottobre, 2019

Händel felicemente orfano della Cecilia


Ieri alla Scala è arrivato in Egitto Kuwait il Giulio Cesare di Händel, come sappiamo ormai da tempo orfano della sua tanto attesa Cleopatra, rimasta sdegnosamente a casa in compagnia di Semele (che si è fatta poi sostituire da... Agrippina) e Ariodante. Ciò non ha però fatto mancare il numero legale (di spettatori, nella fattispecie...): Piermarini con visibili vuoti in platea, ma al confronto con la prima di Quartett c’era un pienone... In ogni caso chi voglia apprezzare (o denigrare) la Cecilia-Cleopatra può sempre connettersi con youtube e vederle all’opera a Salzburg (con una regìa demenziale) compresi Antonini sul podio e Jaroussky come Sesto...
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Una prima osservazione riguarda i... tagli. L’opera (edizione originale del 1724) dura al netto circa 3 ore e 3/4. Con i due normali intervalli ci si avvicinerebbe a... Wagner. Ebbene, come già indicava la locandina online del Teatro, qui lo spettacolo ha quella durata, ma incluso intervallo: il che, conti alla mano, significa che dell’originale è stata tagliata circa mezz’ora. Magari con la lodevole intenzione di non far fare troppo tardi agli stoici spettatori accorsi nonostante tutto a teatro (oppure per esigenze registiche, o per entrambe le ragioni...) Ma ahinoi, a parte alcune parti in recitativo secco (e ci può stare) si tratta di tagli invero barbari, che ci privano di grande musica. I personaggi più penalizzati quantitativamente sono Achilla (che si perde due arie e l’intera scena della confessione dei suoi misfatti e del conseguente pentimento) e Cornelia (due arie in meno).

Nel dettaglio, scompaiono:

Atto I
- Aria n°9 di Cesare Non è sì vago e bello
- Aria n°10 di Cleopatra Tutto può donna vezzosa
- Seconda strofa (Qual sia di questo core) dell’aria n°13 di Cleopatra e ripresa della prima strofa (Tu la mia stella sei)
- Prima parte della scena XI con l’aria n°15 di Achilla Tu sei il cor di questo core

Atto II
- Seconda strofa (Se così Lidia vezzosa) dell’aria n°20 di Cesare e ripresa della prima strofa (Se in un fiorito ameno prato)
- Aria n°22 di Achilla Se a me non sei crudele
- Aria n°24 di Cornelia Cessa ormai di sospirare
- Seconda strofa (Mi sveglia all’ira) dell’aria n°31 di Sesto e ripresa della prima strofa (L’aura che spira)

Atto III
- Tutta la scena I di Achilla (aria n°32 Dal fulgor di questa spada spostata però nell’atto II, a fine della scena X)
- Confessione e morte di Achilla nella scena IV
- Aria n°38 di Sesto La giustizia ha già sull’arco
- Aria n°41 di Cornelia Non ha più che temere
- Seconda strofa (In me/te non splenderà) del duetto Cesare-Cleopatra n°43 (Caro/Bella Più amabile beltà)

Come si vede, ben sette arie cassate totalmente e altre tre in parte: una bella sforbiciata! Di conseguenza si opera un solo intervallo e, per non squilibrare troppo i tempi delle due parti, la pausa è posta all’interno del second’atto, ma non - come cita il libretto di sala - dopo il ricongiungimento Cornelia-Sesto (scena VI) ma assai prima, al termine della scena II, dopo l’aria n°20 (parzialmente tagliata) di Cesare.
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Un’altra considerazione riguarda gli interpreti: si sa che le parti di Cesare, Tolomeo e Nireno furono affidate in origine a (e quindi scritte per) contralti castrati, specie oggi lodevolmente estinta (almeno in ambito teatrale...) Ebbene, l’uso da qualche tempo invalso di impiegare dei controtenori (qui Mehta, Dumaux e Schifano) personalmente non mi convince del tutto: poichè la loro vocalità poco ha a che fare con quella potentissima (di cui esistono testimonianze concrete) dei castrati, che meglio è surrogabile - come si è quasi sempre fatto e spesso ancora si fa - con voci femminili, tipicamente di contralto. Qui - altra scelta discutibile - anche il ruolo di Sesto (in origine soprano en-travesti) è affidato ad un controtenore (Jaroussky). Insomma, si toglie l’en-travesti al personaggio per dirottarlo sulla voce!

Ma a parte queste considerazioni di principio, devo dire che tutti gli interpreti hanno mostrato grande padronanza dei rispettivi ruoli, a partire dalla Danielle de Niese, voce robustissima anche se spesso non tenuta adeguatamente a freno (mi riferisco alla tendenza a sbracare gli acuti a piena voce) e soprattutto alla Sara Mingardo, una Cornelia davvero perfetta, che non meritava lo scippo di due arie. Scippo subito anche dall’Achilla di Christian Senn, al quale però rimprovero (e non è la prima volta) un eccesso di forzature dei toni che finisce per compromettere una prestazione che sarebbe più che discreta. Oneste le figure di contorno e bene il coro di Casoni, impegnato poco (inizio e fine) ma sempre all’altezza. Giovanni Antonini si conferma solido interprete di questo repertorio e l’Orchestra barocca della Scala prosegue con successo il percorso di approfondimento di questo repertorio: impressionante in particolare lo schieramento di corni naturali.  
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Torno ora alla Mingardo per dire come già l’avessi apprezzata in Cornelia anni fa a Torino e per introdurre qualche considerazione sulla regìa di Robert Carsen. Non ripeto qui le premesse esposte proprio in occasione di quella produzione torinese, dove mettevo in evidenza le difficoltà che un regista creativo incontra con questo repertorio. Devo dire che Carsen, forte della sua esperienza, ha saputo metter su uno spettacolo godibilissimo senza minare la struttura e nemmeno i dettagli del soggetto originale.

L’ambientazione da subito pare spostata dall’Egitto al Golfo Persico, poichè si capirà alla fine che c’è di mezzo il petrolio (quasi introvabile nella terra dei Faraoni). Cesare potrebbe essere il generale Norman Schwarzkopf della guerra contro Saddam in Kuwait e Tolomeo uno sceicco troppo ambizioso che farà una brutta fine, lasciando spazio a colleghi di lui più accomodanti con gli yankee. Fin qui niente di nuovo sotto il sole, se è vero che il petrolio ha già sostituito persino l’oro in un Ring a Bayreuth!

Non manca qualche tocco di Kitsch, ma sempre contenuto entro i limiti del buon gusto. Un paio di cadute di tono e di stile (giudizio mio personale) nelle scene degli approcci di Tolomeo a Cornelia e poi dello stesso a Cleopatra, che sfiorano, pur senza valicarne i confini, la volgarità.

Carsen risolve, o cerca di risolvere, il problema capitale di come presentare le interminabili (quanto musicalmente divine!) arie col da-capo con invenzioni a volte geniali, altre un po’ meno. Ad esempio è strepitosa l’interpretazione dell’aria n°14 di Cesare (Va tacito e nascosto) nella scena IX del primo atto: trattandosi di un incontro diplomatico fra romani ed arabi, ecco che assistiamo ad un esilarante scambio di doni fra le due delegazioni, quella di Roma che porta preziosi oggetti targati FENDI e un pallone da calcio (Qatar-2022) e quella araba che reca capi d’abbigliamento locali e un’anguria!

Magistrale anche la resa della scena del Parnaso (aria n°19 di Cleopatra/Lidia V‘adoro, pupille) introdotta da immagini tratte da famosi film su Cleopatra. Un poco fredda l’ambientazione delle scene III e IV del second’atto (quelle del giardino): qui siamo in una palestra dove Cornelia lava il pavimento e dove Tolomeo canta l’aria n°23 (Sì, spietata, il tuo rigore) in cui Carsen rischia di cadere un po’ in basso, ecco... Come fa poi con l’aria n°34 (Domerò la tua fierezza) sempre di Tolomeo (scontro con Cleopatra, scena II del terz’atto).

Simpatica e intelligente la resa dell’aria di Cleopatra n°40 (Da tempeste il legno infranto) che comporta la presenza di una vasca da bagno in cui la principessa si immerge (come da leggenda) e ne esce, sempre schermata da un provvidenziale (o molesto, a seconda dei punti di vista...) lenzuolo retto dalle ancelle.

Anche Carsen però non sempre può tutto, e così spesso e volentieri si rifugia in... corner, o meglio in proscenio, dove relega il/la cantante per la conclusione di parecchie arie, calandogli/le alle spalle uno schermo, che serve anche a mascherare il cambio-scena. Sempre curata nei dettagli - ma qui il regista canadese è davvero un maestro - la recitazione di singoli e masse.

Alla fine ecco la sorpresa: i romani sono proprio... italiani! Barili di petrolio rossi e divise rosse di addetti alle trivellazioni recano un marchio inconfondibile: il cane cammello a sei zampe! Il coro finale vede un enorme oleodotto la cui saracinesca viene aperta da un romano e da un arabo e le due delegazioni (ENI e... Q8?) scambiarsi in pompa magna protocolli di accordo (e perchè non pensare, ehm, anche a qualche corposa mazzetta?)
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Grandissimo successo finale (dopo gli applausi seguiti sempre alle arie) con minuti e minuti di ovazioni per tutti indistintamente: complessi musicali e team di regìa.

Da non perdere! 

16 ottobre, 2019

laVerdi-19-20 - Concerto n°3 (anteprima)


Il terzo appuntamento stagionale de laVerdi (in programma venerdi e domenica) ha avuto nel pomeriggio una speciale anteprima (una specie di seconda prova generale) nel bellissimo Auditorium della IULM, la giovane quanto già affermata Università milanese (operante anche a Roma) che ha la sua modernissima sede a 2-3 tiri di schioppo dall’Auditorium di Largo Mahler. E anche (soltanto un tiro in più...) dall’Università Luigi Bocconi, nella quale Facoltà di lingue straniere (inopinatamente chiusa nel 1968) operavano i due fondatori della IULM: Silvio Baridon e Carlo Bo, i quali risposero alla chiusura della Facoltà bocconiana con la creazione di un’Università specializzata in lingue moderne, poi allargatasi al più vasto mondo delle arti e della cultura.

E proprio in nome di questi nuovi orizzonti, e per festeggiare la conclusione di un importante progetto di ricerca sulla produzione artistica degli ultimi 50 anni, è nata la commissione che l’Università ha fatto a Nicola Campogrande (vecchia voce - e pure sexy - di Radio3) per la composizione di una nuova opera musicale, intitolata Le sette mogli di Barbablù. Il coinvolgimento de laVerdi è legato agli stretti rapporti culturali esistenti con l’Università e all’ormai consolidata consuetudine del compositore con l’Orchestra, che ebbe il suo culmine in occasione della stagione dell’EXPO, prima che Campogrande approdasse al prestigioso incarico di Direttore Musicale del MITO.

Adesso però arrivano le cattive notizie... Presumibilmente a causa di carenze nella pubblicizzazione dell’iniziativa, è accaduto che nella sala dell’Auditorium principale dello IULM-6 di via Carlo Bo (600+ posti) fossero sedute meno persone di quante gremivano il palchetto sul quale era sistemata l’Orchestra! Ahi ahi... spettacolo assai desolante, devo dire, soprattutto perchè nei paraggi era tutto un pullulare di giovani studenti che avevano appena terminato le attività della loro giornata in ateneo e ai quali avrebbe fatto un gran bene assistere all’evento. Così l’inossidabile Ottavia Piccolo (voce narrante nell’opera), il Direttore Principale Ospite Patrick Fournillier, tutti i ragazzi dell’Orchestra e naturalmente il compositore hanno potuto ricevere l’applauso di soli pochi intimi (sono certo che le cose andranno diversamente venerdi e domenica in Largo Mahler).
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Il soggetto è tratto da Les sept femmes de la Barbe-Bleue di Anatole France (1886), una simpatica, fantasiosa e (dall’apparenza) scientifica ricostruzione della leggenda del famoso personaggio creato attorno al 1660 da Charles Perrault, volta a smentire tutte le dicerie (incluse altre opere letterarie e teatrali) sorte su di lui come serial-killer di giovani mogli. Innanzitutto Barbablù viene identificato in tale Bernard de Montragoux, signorotto proprietario di un castello (les Guillettes) ubicato nella foresta fra Compiègne e Pierrefonds (un centinaio di Km a nord di Parigi).

In sostanza, il tanto vituperato Barbablù era - secondo France, e a dispetto della sua figura imponente e dello sguardo spiritato - una persona mite e sensibile, che non ebbe alcuna responsabilità per la scomparsa delle sei mogli ed anzi fu vittima della macchinazione della settima e della di lei famiglia, amante compreso. In questa fiction - un vero scoop ante-litteram, con tanto di citazioni di fonti, testimonianze e documenti - France ricostruisce le identità di tutte le mogli di Barbablù e le vicende che portarono alla morte (o alla scomparsa) delle prime sei e poi all’assassinio di Barbablù da parte della settima. Spiega anche ciò che si trovava nella famosa stanza proibita (la stanzetta delle principesse sfortunate) del castello delle Guillettes: affreschi e dipinti fiorentini raffiguranti appunto donne sfortunate della mitologia, vittime di vicende cruente, e il pavimento di porfido che dava all’ambiente un colore rossiccio, facendolo sembrare imbrattato di sangue. 
   
Prima moglie: Colette Passage, ammaestratrice di orsi, si stancò presto del ménage familiare e si dedicò sempre più spesso alla sua bestia preferita. Scomparve misteriosamente dopo aver visitato la stanza segreta, e non fu mai più ritrovata.

Seconda moglie: Jeanne de la Cloche, una donna alcolizzata che Barbablù cercò invano di riportare ad una vita più sobria. Un giorno, dopo aver accoltellato il marito credendolo intenzionato ad avvelenarla, lei entrò ubriaca nella stanza segreta, scambiò i dipinti per donne in carne e ossa, assassinate, fuggì invano rincorsa dal marito ferito che cercava di salvarla e si gettò in uno stagno, affogando.  

Terza moglie: Gigonne Traignel, figlia di un fattore di Barbablù, guardiana d’oche, sempre calzante zoccoli e puzzolente di cipolla. Diventata con il matrimonio donna ricca e nobile, le sue pretese di lusso divennero smodate, così come il desiderio insoddisfatto di essere ricevuta a Corte per diventare la favorita del Re. Delusa, si prese un’itterizia che la portò alla tomba. E Barbablù ne fece costruire per lei una davvero sontuosa.

Quarta moglie: Blanche de Gibeaumex, figlia di un militare ferito-di-guerra (ad un orecchio!) che convinse un riluttante Barbablù a sposarla. Poi lei si mise a tradirlo con diversi amanti, finchè un giorno un amante abbandonato non la trovò nella stanza segreta in intimità con un nuovo amante, e la infilzò con la sua spada. La scoperta del cadavere non fece che peggiorare la reputazione di quella stanza segreta.

Quinta moglie: furono i medici a consigliare a Barbablù, distrutto dal dolore e in preda a una grave crisi che l’aveva ridotto in pericolo di vita, un nuovo matrimonio. Angèle de la Garandine era una sua cugina nullatenente e così Barbablù era certo che gli sarebbe rimasta fedele e riconoscente. Lei era però talmente ingenua e credulona che un giorno - mentre Barbablù era a caccia di beccacce - si fece convincere da un frate questuante a salire sul suo asino per andare nel bosco dove l’attendeva l’Arcangelo Gabriele per farle indossare delle giarrettiere di perle... Forse se la mangiò un lupo (!) dato che non fu più ritrovata.

Sesta moglie: Alix de Pontalcin, una povera orfanella, spogliata di tutti i suoi averi da uno sbifido tutore, era sul punto di entrare in convento, ma fu convinta da amici a sposare Barbablù. Purtroppo però lei rifiutò pervicacemente di consumare il matrimonio, tanto che il marito chiese al Santo Padre l’annullamento del legame secondo il diritto canonico, ottenendo il divorzio anche grazie a sostanziose donazioni alla Chiesa. Barbablù giurò a se stesso che mai più una femmina avrebbe messo piede in casa sua!

E veniamo al clou della storia, la settima moglie: dopo alcuni anni, durante i quali erano cresciute in paese le più fantasiose ed anche orripilanti supposizioni sulla fine che avevano fatto le mogli di Barbablù, prese dimora nel maniero di Motte-Giron, a poca distanza dal castello del sei-volte-vedovo (o divorziato...) una certa signora Sidonie de Lespoisse, vedova con quattro figli, due femmine e due maschi. Il suo passato e l’identità del defunto marito restarono sempre un mistero: chi diceva che lui avesse trafficato in Spagna e Savoia, chi sosteneva fosse morto in India; alcuni giuravano che la vedova avesse immensi possedimenti, altri ne dubitavano assai.

Sta di fatto che lei faceva gran sfoggio di opulenza, invitando tutta la nobiltà del circondario alle feste nel suo maniero. La sua figlia maggiore, Anne, era diventata una donna assai abile (dopo aver pettinato Santa Caterina!); quella minore, Jeanne, era in età da marito, ma nascondeva dietro un’apparente ingenuità una precoce esperienza del mondo. I due maschi erano militari: Cosme, arruolato nei Dragoni, era un poco di buono, gran briccone e abile cornificatore. Il fratello Pierre, Moschettiere, al confronto era una brava persona, anche se era a sua volta un donnaiolo e si manteneva con le vincite al gioco delle carte. La signora Lespoisse era in realtà povera in canna e tutto ciò che possedeva erano prestiti ricevuti da usurai parigini, che pretendevano che lei sposasse una delle sue figlie a qualche facoltoso signorotto, minacciando in caso contrario di toglierle tutto: ormai si vedeva nuda in una casa vuota...

Fu allora che mise gli occhi su Barbablù e gli fece visita con la prole in pompa magna e per ben 15 giorni, insieme ad un certo cavaliere de la Merlus, che organizzava battute di caccia e scherzi notturni, vinceva regolarmente al gioco e soprattutto non toglieva mai gli occhi dalla bella Jeanne (senza che Barbablù sospettasse di nulla... lui si era bevuto che i due fossero fratelli di latte) con la quale si appartava nottetempo, finite le feste e i giochi.

Finalmente Barbablù si decise e chiese la mano proprio della più giovane delle due sorelle. Il matrimonio fu celebrato con gran sfarzo a Motte-Giron, anche se gran parte delle preziose suppellettili e dei lussuosi abiti della padrona di casa e dei suoi congiunti erano stati affittati da ebrei parigini, che se li riportarono via subito dopo il termine della cerimonia.

Fu così che, sotto la sapiente regìa della madre - la più gran filibustiera di Francia - l’intera famiglia di Jeanne si installò presso Barbablù, incluso l’intraprendente de la Merlus, che non si staccava un attimo dalla sposa. Un bel giorno Barbablù dovette fare un viaggio di sei settimane per gestire l’eredità di un cugino, morto in battaglia come un eroe, ehm... colpito da una palla vagante di colubrina mentre giocava a dadi su un tamburo! Prima di partire invitò la moglie a trascorrere i giorni in sua assenza invitando amici e avendo un buon tempo; le diede anche tutte le chiavi del castello (appartamenti, dispense, casseforti) compresa quella della stanza segreta.

Ma mentre Perrault narra che le proibì severamente di accedere a quel luogo, in realtà Barbablù si limitò a metterla in guardia dal visitarlo, a causa della sua cattiva fama (dalla quale le precedenti mogli avevano tratto parecchio nocumento). Invece la disinvolta Jeanne non esitava ad abbandonare la compagnia degli amici che le rendevano visita per correre proprio nella stanza segreta. Ma non - come scrive sempre Perrault - per morbosa curiosità, bensì per... interesse sessuale: laggiù l’attendeva regolarmente il brillante (e ben dotato, evidentemente) de la Merlus! 

Ma se si fosse trattato solo di corna, la cosa avrebbe fatto in fin dei conti poco scandalo: anche il più severo dei moralisti avrebbe trovato qualche vaga ragione per giustificare quei comportamenti, abbastanza usuali. No no, la cosa grave è che Jeanne progettò a mente fredda l’assassinio del marito! In combutta con la sorella Marie (artefice del complotto); con i fratelli (dietro la promessa di una brillante carriera miliare); con la madre e - ça va sans dire - con il suo amante de la Merlus.

Barbablù ritornò a casa un po’ prima del previsto, ma non per cogliere la moglie in flagrante, bensì convinto di farle una bella sorpresa. Lei gli restituì le chiavi, ma Barbablù si accorse che quella della stanza segreta doveva essere stata usata: così si disse dispiaciuto, augurandosi che quella visita non dovesse portare qualche disgrazia a tutti. In quel momento Jeanne gridò che la stavano ammazzando, richiamando l’amante e i fratelli. De la Merlus balzò fuori da un armadio ma, da solo, fu presto immobilizzato dal corpulento Barbablù. Allora Anne, accorsa sul posto, chiamò finalmente i fratelli che fecero irruzione nella stanza e trafissero alle spalle il padrone di casa.

Jeanne rimase unica ereditiera di tutte le sostanze del marito: diede una dote alla sorella, acquistò i gradi di capitano per i fratelli e sposò felicemente de la Merlus, che divenne istantaneamente un uomo di specchiata onestà!
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Il melologo di Campogrande (tre quarti d’ora o poco più) prevede una voce narrante, la splendida 70enne (più una settimana!) Ottavia Piccolo, che espone il racconto, una libera riduzione del testo di Anatole France tradotto da Paola Verdecchia, mentre l’Orchestra ne sottolinea i passi salienti, un po’ come accade alle musiche di scena di buona memoria. Sono in tutto 20 numeri musicali con agogica prevalentemente di Andante e Largo (una sola punta di Allegro) che normalmente si intercalano con le parti del racconto, raramente sovrapponendosi alla voce.

Campogrande non ha mancato, introducendo la recita, di lanciare pesanti frecciate ai movimenti che caratterizzarono la musica del ‘900 come fenomeno di totale rottura con ogni tradizione (la musica andò da una parte, il pubblico dall’altra...) e ha rivendicato il ritorno a quella tradizione, di cui lui è interprete convinto. La sua è musica assolutamente diatonica, apparentabile a quella delle grandi colonne sonore dei film (l’attacco pare proprio Korngold!) Devo dire che i vari brani evocano con una certa efficacia le diverse atmosfere e anche le diverse personalità che si incontrano nel soggetto di France: sono di ascolto piacevole e tutto il melologo scorre via con buon ritmo e senza cadute di tensione, godibile e scevro da astruse cerebralità. Il che non è poco; e avrebbe meritato più... audience!